T
U R
I S T
A V A G A B O N
D O
ESPERIENZA DIRETTA DI
VAGABONDAGGIO
ROMA 1968
NUCCIO GUARNERA
MARZO 2009
PREFAZIONE
IL SENSO DEL VIAGGIO
Caro Nuccio
non so quante persone percepiscano realmente e fino in fondo il meraviglioso “Mistero” del Viaggio.
Mi permetto di definire il Viaggio un “Mistero” e di accostarlo per quanto si possa, all'Amore.
Perchè il viaggio nasce e cresce in noi, ha bisogno di essere manifestato, vissuto appieno, condiviso ed è per questo che , dopo aver letto in queste sere il tuo “ Turista vagabondo 1968” mi viene da dirti semplicemente : è bellissimo!
Grazie!
Non è stato “strano” leggere questo tuo modo di vagabondare, affatto !
Il saperti girovagare per le strade e sotto i ponti, assetato di Vita, alla continua ricerca di Te attraverso gli altri, il nuovo, il sofferente, il diverso, mi ha fatto sorridere e conoscerti un pochino di piu.
L'aspetto che più mi è piaciuto è stata la tua voglia di andare oltre l'ipocrisia , la conoscenza, i continui incoscienti limiti che spesso la società ci appiccica addosso !
Questo scritto inizia con un tuo gesto di grande coraggio...e si conclude con un altro grande gesto ... d'Amore.
Dal giorno della tua partenza via Messina fino al momento del rientro a Catania, c'è solo il gusto della Tua Libertà, il gusto di Te !
Questa esperienza breve e sicuramente intensa ti ha aperto non solo gli occhi ma sopratutto la mente e il cuore !
E una volta tornato a casa, carico di fermento , di desiderio , vivo, di tutti quei cambiamenti interiori che il Tuo Cuore Forte ha vissuto, il nuovo Nuccio è andato a sbattere ..in un altro Meraviglioso misterioso Viaggio.
Quello con la Tua Pina che poi è diventata anche la nostra Marghe....
Alla fine della lettura sai che senza saperlo , mi son ri-posta la solita domanda...
ma noi Perché viaggiamo?
Ci sono mille motivi, mille ispirazioni e tante risposte sempre sospese...
A me la prima che viene in mente è per Passione.
Tutto qui!
Una passione che mi vive dentro e da sempre mi travolge, mi fortifica, mi completa.
Ogni volta che parto godo nel confondermi con i sapori dei posti nuovi, con il colore della pelle diversa dalla mia, mischiarmi e unirmi alla gente nell'estasi della Natura...
Il viaggio mi fa accettare in primis I miei errori, corregge i limiti, mi fa ricordare le responsabilità, le tante fortune , mi arricchisce e nel contempo mi alleggerisce,facendomi dono dell'Accettazione di me stessa e degli Altri.Mi regala Legami e Amicizie forti.
Come dice un caro Amico, il Viaggio è come dipingere un quadro in cui ritroviamo tutto.
Abbiamo i colori, i pennelli, la tela, magnifici scenari, le intensità delle emozioni, le sfumature dei sentimenti , le sensazioni positive o negative che siano.... ma non dimentichiamoci mai che a dover dipingere il nostro Paradiso...siamo sempre e solo Noi!
Credo che ogni VIAGGIO contenga sempre la ricerca dei sogni che vogliamo realizzare !
Non prendermi per matta quando dico che voglio continuare, fermamente, a credere che ogni Viaggio è una forma d'Amore esplosa in tutte le sue direzioni.
Per questo ... in ogni terra, in ogni stagione, a ogni distanza continuerò a ricercare nel Viaggio tutto ciò che mi incoraggia nella Vita!!
Vi salutiamo con infinito sincero Affetto, congiungendo le mie mani pensandoTi !
NAMASTE!!
Un bacione alla Marghe!!
Vi vogliamo Bene,
i vostri Saby e Ivo - “ un pochino vagabondi”
Inzago 10/04/2009
INTRODUZIONE
Anni gloriosi………….quegli anni sessanta.
Scoppiavo di vitalità e di sogni.
Non riuscivo a non immaginarmi senza lo zaino sulle spalle
mentre vagabondavo per il mondo.
Non vorrei ritornare indietro per rivivere quegli
anni…..anche perché è impossibile.
Vorrei solamente continuare ad “esistere” con lo stesso
Spirito di allora.
L’opuscolo narra di una mia avventura di vagabondaggio
tra i barboni e i beatnik nella Roma dell’estate del 1968.
Ho ripreso un mio vecchio libro, “Turista vagabondo”,
scritto nel giugno del 1981 dove trattavo già di quest’avventura. L’ho
rielaborato, ovviamente ampliando gli stessi argomenti di allora alla luce delle
mie nuove esperienze, seguendo passo passo gli eventi e le sensazioni raccontate
sul libro stesso.
Le varie poesie, evidenziate in nero, in parte sono rimaste
integrali così come le avevo scritte nell’81, altre invece, mi sono esplose
dentro durante la rivisitazione del libro.
Lo propongo con gioia e con la consapevolezza di
condividere con le persone che lo leggeranno l’Amore per la vita e per la
Libertà.
Nuccio guarnera
29 marzo 2009
T U R I S T A
V A G A B O N D O
Appunti su una esperienza di vagabondaggio vissuta nella
Roma del ‘68.
Nel ricordo di tutti i miei anni trascorsi
sulle strade di mezzo mondo una esperienza, forse la più intensa e la
meno razionale che abbia vissuto da quel luglio agosto del ’68 ad oggi, non si
è mai persa tra i passaggi veloci del tempo. Dopo tanti anni, ancora oggi, la
ricordo con grande emozione e nessuna immagine mi si è cancellata dalla mente e
tanto meno dal cuore.
Quell’avventura è ancora presente dentro di me. Mi ha
segnato profondamente.
Ricordo che avevo appena finito di dare gli esami di
riparazione per una classe del superiore nel fantastico collegio di Santa Agata
di Militello, ed avevo tanta voglia in corpo di viaggiare che avrei spezzato
qualunque catena in quel momento mi avesse trattenuto.
Dipendeva tutto da me.
I miei genitori, e tutti i legami paesani erano lontani.
Potevo finalmente decidere da solo se imboccare la strada della libertà o
rimanere avvinghiato alle sicurezze di un piccolo comune del profondo sud.
Anche se ero fisicamente lontano dal paese, le sue catene
sociali esercitavano una grande pressione sul mio desiderio di libertà. Era
impensabile in quegli anni, specialmente in Sicilia, esprimere liberamente i
propri sogni.
Quella volta fu una grande vittoria.
Un vero distacco.
Quel giorno un profondo desiderio represso stava prendendo
consistenza iniziando a camminare da solo verso la libertà.
Salii sul primo treno che correva verso Messina dilapidando
quei pochi spiccioli che ancora avevo in tasca. Allora preferivo dormire da
amici e mangiare pochissimo pur di non spendere le diecimila lire che mio padre
mi aveva dato. In futuro sicuramente mi sarebbero serviti.
Mi consideravo fortunato. Stavo volando verso il mio sogno.
Il vento rinfrescante di luglio mentre mi sporgevo dal
finestrino, sul treno in corsa, mi proiettava nel meraviglioso mondo di Kerouac.
Le estenuanti corse sulle strade americane diventavano lunghi spostamenti dentro sé stessi, dove la
meta si allontanava continuamente. Volevo andare via, arrivare, conquistare
subito il traguardo e poi……… ringraziarmi, ammirarmi per quello che avevo
fatto.
Non riuscivo a pensare ad altro.
La spinta interiore che mi scuoteva il corpo e la mente era
incontenibile. Dovevo per forza andare a Roma, vivere tra i beatnik sotto i
ponti lungo il Tevere e bivaccare sulla scalinata di Piazza di Spagna.
Già nel 1965 avevo avuto i primi rapporti con questi
personaggi.
Mi trovavo a piazza Duomo a Catania dentro un bar e proprio
accanto a me vi erano due individui coloratissimi ed estrosissimi. Li guardavo
ammirato e incuriosito. Mi avvicinai e chiesi chi fossero. Perché vestivano in
quel modo e come mai si trovavano a Catania. Ebbi delle risposte
“affascinanti”. Mi dissero che viaggiavano in autostop e si sarebbero
fermati qualche giorno in città. Colsi l’occasione al volo e li invitai nel
nostro club, “the beat young”, che proprio in quei giorni si era imposto
alla bigotta e conservatrice mentalità del nostro piccolo paese.
Spiegai come fare per arrivare in paese e il giorno dopo,
regolarmente in autostop, ce li siamo visti spuntare nella piazza centrale con
gli zaini sulle spalle e l’immancabile sacco a pelo legato. Mi trovavo assieme
agli altri al club e mentre parlavo dell’incontro, ce li siamo visti spuntare
davanti la porta.
Il club era addobbato con poster dei grandi cantanti rock
del momento e soprattutto, per manifestare apertamente il nostro desiderio di
essere diversi, al tetto avevamo attaccato una pelle bianca di pecora.
Meraviglia!!
La loro presenza in paese suscitò le ire dei benpensanti e
dei conservatori più accesi, ma principalmente furono le
prediche violente dei nostri genitori a scandire il forte dissenso che si era
levato in paese.
“Li dovete assolutamente mandare via, sono sporchi, hanno
i capelli lunghi, sono vagabondi, accattoni e non sono degni di rimanere in
paese”. La reazione ufficiale del paese fu quella di mantenere un certo decoro
e quindi di mandare via chi sporca la falsa morale imperante in quegli anni.
Malgrado tutto li ospitammo per una notte nel club.
Quel giorno la mia sofferenza fu incolmabile.
Nel silenzio della mia stanza piansi moltissimo, non
concepivo l’odio e la violenza scagliateci addosso. Ricordo l’infamia con la quale la moralità conservatrice
criticò quell’evento. Avevamo tutta la piazza contro, specialmente la
“buona” gente che contava ci si era sinuosamente scagliata addosso.
Purtroppo, in prima linea, vi erano i nostri genitori che, pur di non
contrastare l’ufficialità borghese e bigotta, conducevano una serrata
battaglia contro di noi.
La “bella” società esige asservimento completo alle
loro regole e, quando qualcuno tenta di sporgersi oltre determinati precetti,
usa qualunque mezzo per incutere paura e rispetto. I nostri genitori,
inconsapevolmente, erano armi sciocche e sincere da usare per simili scopi.
Nel mio intimo, mi ricordo, giurai eterno Amore per questa
vita e per questo modo di viaggiare. Ancora oggi, 43 anni dopo, continuo a
spostarmi per il mondo usando essenzialmente i piedi e i mezzi locali con i
quali si muove la gente del luogo.
Negli anni la loro immagine si è diluita, però ricordo
che per tanto tempo li ho ringraziati. Grazie a loro due il “vagabondo” che
mi vive dentro non si è mai fatto rinchiudere dai paletti sociali.
Ci siamo attratti a vicenda. Avevo bisogno di quello
stimolo per risvegliare la mia vera natura. E’ stato un vero miracolo.
Partirono la mattina dopo in autostop scomparendo lungo le
strade del mondo.
Mentre il treno scivolava sulle rotaie pensavo alle
sicurezze che prometteva la nostra società. Non prevedeva ne estremismi
ne, quantomeno, atti di contestazione fuorvianti. Era tutto così
programmato, storicamente consolidato, che il solo manifestare il proprio
dissenso verso le regole del momento, o eccellere in diversità, comportava
biasimi castranti.
Quel giorno la frenesia interiore che avevo nell’andare
via, lontano e da solo, verso la libertà, era arrivata al suo culmine. Esplose
appena mi trovai solo, in un paese lontano, con qualche soldo in tasca e libero
da tutti gli impegni scolastici.
Fu così che imboccai la strada della libertà……..salendo
su quel treno che mi svuotò di colpo delle tante ansie accumulate.
Messina era la città più a nord del sud. Per noi ragazzi
era una metropoli dalla quale partivano tutte le nostre speranze. La sua
esistenza per noi giovani allora rappresentava l’incontro di due mondi dove le
speranze represse prendevano il volo verso la sua realizzazione.
Messina mi sembrò accogliente come non mai.
Ebbi l’accortezza di disperdere in un sontuoso pasto e in
una stanza da letto le ultime risorse rimaste…………………E VIA….via
verso la libertà.
Mi sentivo come un iniziato ad una nuova vita, proiettato
verso un nuovo mondo, verso il nord, verso la speranza di un domani migliore, più
libero.
Ero slegato.
Mentre il vagabondo prendeva il sopravvento, la paura
scompariva. Quella paura dovuta al mio balbettare, alla mia fragilità, alla
mancanza di denaro, alla mia poca esperienza, avrebbe preso il volo perché
cacciata via dalle fantastiche esperienze future che avrei vissuto lungo “la
Strada”.
La Conoscenza mi sarebbe entrata lentamente dentro a
sublimare anche il minimo imprevisto.
La locanda nella quale quella prima notte dormii stava
proprio a ridosso della stazione dei treni. I rumori prodotti dai camion che si
spostavano verso il nord mi davano tanta speranza…..sicuramente domani,
pensavo, qualcuno di essi mi avrebbe preso su e portato verso
nord………………..in effetti fu proprio così.
Quella notte non presi sonno. Lo stridere dei treni sulle
rotaie e il rombare possente dei motori dei grossi TIR mi rumoreggiò nella
mente. Non era l’unico rumore che mi urlava dentro, vi era anche l’attesa
del domani ad inquietarmi.
Cosa sarebbe successo!
La prima volta
sulla strada da solo!
La notte prima di una partenza non riesco a dormire. Dopo
40 anni, 2008, dopo innumerevoli viaggi,
la notte che precede il viaggio entro puntualmente in paranoia. L’ansia di
volare via, l’angoscia di affrontare il primo impatto con la nuova meta, il
pensiero di abbandonare il “conosciuto confortante” per un ignoto insicuro,
la frenesia di emozionarmi nuovamente di fronte alle visioni offerte dalla
Natura………non mi fanno chiudere gli occhi.
Dopo l’ultima colazione normale, consumata fugacemente in
un bar, mi avviai verso il traghetto. Ero certo che avrei trovato qualche
passaggio su di un mezzo che saliva verso nord. Chiesi con timidezza, forzando
la mia innata ritrosia, chiesi con insistenza, presentandomi come un bravo
ragazzo, ancora vestito bene, lindo, olezzante dei recenti esami che avevo
sostenuto pochi giorni prima…..ma nulla da fare. Anche dopo,
sulla strada, per ore…..non vi è stato nulla fare. Le vetture mi
sfrecciavano davanti incuranti della mia presenza.
Sembravo uno studente pendolare che per risparmiare
qualcosa sceglie di fare l’autostop. Non avevo né borsa né tanto meno
portavo lo zaino “incriminato”……..eppure nessuno si fermava. A
quell’epoca non portavo ancora la barba, o per lo meno, mi alternavo tra pizzo
alla Trotskiy, baffi alla Antonie e barba alla Bakunin, quel giorno però, mi
ricordo, ero senza peli in viso perché provenivo da un periodo di esami quindi
non sembravo un vagabondo squinternato o sporco da sembrare poco rassicurante.
Sembravo uno di loro, talmente normale da……….non
accettarmi nemmeno io.
Evidentemente, pensavo, l’essenza del vagabondo che era
in me mi zampillava da tutti i pori e nessuno voleva prendermi in macchina.
Erano le mie movenze, il modo disinvolto con il quale chiedevo passaggi, non so
proprio cosa dire, però , mi ricordo che per diverse ore stetti col pollice
rivolto verso il nord…..e non vi fu nulla da fare.
Sapevo delle difficoltà che avevano incontrato tanti
autostoppisti in quel tratto di strada, ero già pronto, però la speranza di
non appartenere alla schiera di quegli sfortunati teneva alto il mio morale.
Non esitai nemmeno un momento, anzi mi deliziavo nel
guardare i visi della gente stipati sulle macchine ed ingaggiavo sommesse
scommesse con me stesso cercando di indovinare chi si sarebbe fermato per primo.
Negli anni identificai quali tipo
di macchine si fermavano con maggior facilità e quali mi sfrecciavano accanto
lasciandomi col dito alzato ad inghiottire la loro scia di fumo.
La strada stava iniziando ad istruirmi sul giusto modo di
vivere la vita.
Si circoscriveva o si schiudeva in relazione al mio stato
d’animo.
Quando chiedevo con autorità un passaggio, ostentando la
mia Dignità, le macchine, come se si sentissero attratte,
si fermavano e mi prendevano su, mentre invece quando mi mostravo più
sottomesso, più indeciso, mi saettavano davanti con freddezza come se volessero
punirmi della mia timidezza nell’alzare il pollice.
La strada sembrava un arena dove viene premiato sempre il
più furbo e il più forte.
La fortuna non si fece attendere a lungo, difatti si fermò
un camion di colore rosso, di piccole dimensioni, che mi prese su per
depositarmi nel primo pomeriggio al bivio per Sapri. Un lungo spostamento in
posizione privilegiata.
Dal finestrino ammiravo le immagini dei monti calabresi in
lontananza, la fitta vegetazione ne contornava le altezze e le riconduceva ad un
semplice ammasso di vegetazione impenetrabile. Risalimmo lungo la costa, allora
l’autostrada era inesistente quindi l’unica via percorribile era il lungo
mare.
La frenesia del viaggiatore incantato non tardò ad
arrivare.
Guardavo sempre avanti, immaginandomi già proiettato nel
dopo. Indietro non riuscivo a guardare, eppure i motivi per farlo erano tanti.
Vi erano i miei genitori inconsapevoli di questa mia avventura, vi erano i vari
affetti, tra i quali vi era una ragazzina meravigliosa che non riuscivo
assolutamente ad allontanarla dalla
mente e dal cuore, vi era una certa sicurezza che mi dondolava in un afflato
rilassante……..con tutto ciò ho deciso di andare via. Ho preferito esaudire
l’ansia del partire anziché abbrutirmi tra quei soliti concetti del vivere
sicuro e da borghese.
Allora l’autostrada iniziava ad Eboli. La civiltà del
Cristo di Levi sembrava finire veramente lì, il resto……..tutto vuoto.
Strade che si inerpicavano, in soli pochi metri, ad altezze da brivido, che
costeggiavano strapiombi orribili dal fondo buio dove mi vedevo sfracellato in
uno di questi precipizi.
Ebbi tanta paura, cercai di pregare con insistenza
imprimendo un movimento istintivo alle mie labbra. L’autista, incurante di
questa mia tensione, suonava all’impazzata per avvertire del suo arrivo le
tante donne che aveva sparse lungo
la strada. MI annunciava in tempo da quale finestra si sarebbe mostrata la
prossima femmina…..ed era vero.
Negli anni aveva intrecciato rapporti con l’ambiente e
l’ambiente stesso lo ripagava con sorrisi e riconoscenze appena riappariva con
il suo camion sulla strada.
Era molto spericolato, la paura la allontanava squillando
assieme al clacson il suo amore per la vita.
Mentre Lui, mi ricordo, inconsciamente abbordava le curve
cantando e suonando, io mi annegavo nella mia adrenalina. Fumava tantissimo ed
ogni tanto mi regalava un po’ di fumo per farmi stare all’erta.
Mi scaricò nel primo pomeriggio al bivio per Sapri.
In poco tempo trovai il passaggio definitivo che mi
condusse fino a Roma.
Era un controllore della BP, difatti si fermava in ogni
rifornimento di benzina per controllarne l’efficienza. Un passaggio veramente
da privilegiato. Mangiai a sbafo per tutto il tragitto e in più venivo
rispettato come fossi un aiutante dell’ispettore.
Spesse volte capita durante l’autostop di avere colpi di
fortuna inaspettati. Si viene rifocillati con grande rispetto, a volte si
raggranella persino un po’ di denaro e qualche dormita in letti comodi. Per i
più fortunati a volte può capitare anche la bellezza di coccolarsi accanto ad
un bel corpo di donna e trascorrere ore meravigliose………ma il vagabondo, dopo un po’, non vede l’ora di ripartire per
rimettersi sulla strada, da solo, con sulle spalle l’immancabile zaino
corredato di sacco a pelo……………….
Quel senso di libertà
che risveglia il camminare sulla Strada, nessun altra sensazione è capace di
accenderlo.
Quel lungo passaggio mi diede una grande speranza.
Scesi fin davanti la stazione Termini.
Era già notte e la città si popolava di corpi disfatti e
arrugginiti per il lungo vagabondare. Era circondata da mendicanti di mestiere e
da accattoni occasionali. Ognuno cercava di trovare il proprio angolo dove
depositarsi per quelle poche ore di buio che ancora rimanevano.
Una realtà a me sconosciuta mi si schiantava di fronte
catapultandomi improvvisamente nel mondo della povertà più indegna, dove si
perde quel minimo senso di pudore pur di sopravvivere, e di una povertà
“rivoluzionaria”, dove per scelta si decide di vivere povero tra i più
poveri.
Non era il mio caso. Io stavo vivendo per un periodo la mia
avventura, e, per mancanza di denaro, ho deciso di viverla comunque, anche
in questo modo.
Scesi dall’auto preso dal sonno e infreddolito.
Barcollando, cercai di orientarmi e di capirci qualcosa tra tutto
quell’apatico fermento che riempiva l’aria circostante.
File di fagotti umani erano distesi per terra mentre altri
arrivavano ciondolando perché
cacciati fuori dalla stazione che proprio in quei minuti stava per chiudere.
Camminavano come zombi, portando sotto braccio pezzi di cartone da stendere sul
marciapiede prima di abbandonarsi su. Cercavano un po’ di spazio libero,
specialmente coperto da un tetto per evitare l’umidità e il freddo della
notte.
In silenzio si rannicchiavano sperando nel silenzio della
notte per ricavarsi un po’ di pace. Una schiera di senza tetto, di barboni, di
vagabondi, di malfattori, a quell’ora della notte si rintanava dentro di sé
sperando in una intimità mistica capace di trasportarli in luoghi paradisiaci.
Difficile.
Avevano fame, erano stanchi, abbrutiti, indolenziti, pigri,
insensibili al dolore, denutriti, sporchi……………difficilmente avrebbero
potuto sfruttare quella capacità mentale che ogni uomo ha di costruirsi il
proprio sogno.
Il corpo crollava, la mente lo assecondava e la coscienza
dormiva.
In tanti sceglievano di dormire direttamente sul posto di
lavoro. Domani mattina, senza spostarsi, avrebbero iniziato a mendicare dallo
stesso luogo in cui avevano trascorso la notte.
Una triste realtà.
Era quello che mi aspettavo di trovare o speravo in qualche
altra realtà?
Chi lo sa……..l’unica cosa che mi ricordo è il freddo
raggelante di quel marciapiede sul quale mi distesi vinto dal sonno e dalla
stanchezza. Non avevo nulla con me, tanto meno disponevo di pezzi di cartone per
attutire la durezza e per staccarmi dal gelido pavimento.
Non sentivo alcuna paura. Nessuno avrebbe mai rapinato un
nullatenente come me, quindi mi sentivo sicuro. Non chiusi gli occhi facilmente.
La prima notte da vagabondo a Roma non potevo farla passare in sordina.
Mi misi ad osservare dalla mia posizione gli altri fagotti
umani che cercavano di rannicchiarsi sempre di più stringendo le gambe ed
avvicinando le ginocchia al viso. Più si rimpicciolivano, più protetti si
sentivano. Cercavano di ricavarsi un attimo di solitudine,
ma………………..mancando l’intimità, difficilmente si riesce a sentirsi
liberi.
Tutti i tuoi movimenti sono controllati, passa sempre
qualche curioso che si ferma a guardare….come dormi, se parli nel sonno, se
russi, se dormi con la bocca aperta….e poi, nella povertà vi è sempre
qualcosa da proteggere, forse la vita, fatto sta che anche in quelle condizioni
si ha paura di essere derubati di qualcosa…..forse della vita o forse dei
sogni, non lo so, ma so che in certe condizioni, l’attaccamento alle piccole
cose diventa un ossessione.
Alla fine ci si addormenta, la stanchezza prende sempre il
sopravvento e poi….la mattina ecco che si riprende, un nuovo itinerario, una
nuova speranza, un’altra notte…altro freddo, altra paura.
Questa è la vita del vagabondo per mestiere.
L’altro, quello occasionale, quello “rivoluzionario”,
è sempre in fermento. Vuole per forza stravolgere l’esistente, anche questo
mondo vuole innovarlo, rivoluzionarlo, sindacalizzarlo……….ma è talmente
antico, radicato nella società che difficilmente si può intervenire. Viene da
lontano, dalla miseria, dalla distribuzione sperequata delle risorse sul quale
è fondata questa società.
I poveri del nuovo secolo sono figli dell’emarginazione,
delle crisi esistenziali, del pauperismo galoppante, delle crisi da panico, di
forme depressive e schizofreniche dovute alle vari forme di
impotenza…………………
Osservavo tutto questo mondo e mi vedevo qualche anno prima
già a Roma mentre con Pino andavamo alla ricerca di via Margutta, al Piper,
per comprare qualche pantalone alla moda da indossare in Sicilia per
attrarre qualche ragazza.
Stavo sfidando la società.
Era la mia prima vera lotta….e mi sentivo un eroe.
Un ragazzino di appena 19 anni, balbuziente, timido,
politicamente spostato più in la della sinistra, intellettualmente indefinito,
stava iniziando la sua avventura nel mondo e, fortunatamente, oggi lo posso
benissimo dire, quella mia prima notte tra i barboni della stazione Termini
condizionò benevolmente tutta la mia vita futura.
Mi entrò dentro il “vagabondo” e non smisi mai di
farlo.
Mi svegliai tremando dal freddo. Non avevo niente con il quale
coprirmi. Tutti avevano qualcosa io…..niente. Possedevo solo poche lire che
presto avrei utilizzato per fare una sontuosa colazione.
Valutai la situazione e decisi di spostarmi per iniziare da
subito e a stomaco pieno questa nuova avventura. Pensai di premunirmi per la
prossima notte cercando pezzi di cartone, però mi resi subito conto che dovevo
trascinarlo per l’intero giorno con me, tenendomelo stretto fino a notte.
Decisi di rinviare tutto alla sera, per adesso mi volevo immergere in questa
grande città calpestandola con orgoglio e con gioia.
La mia avventura.
Il mio andare oltre il consolidato mi ha sempre portato
fortuna.
In tante altre situazioni ho patito il freddo, forse più
intenso e più pericoloso, però come quella prima volta, da solo, spaesato e
senza alcun indumento per coprirmi, mai. Posso dire, però, che mi sentivo
colpito da un freddo amico, non lo sentivo ostile, avvertivo un certo calore nel
suo pungermi. Era così preponderante la mia voglia di evasione che quella notte
avrei accettato qualunque tortura.
In futuro, in una infinità di situazioni, vissi il freddo
con paura ritmando compulsivamente i denti e battendomi i pugni sul corpo per
riscaldarmi. In uno dei tanti viaggi in Cina addirittura, mi ricordo, usammo
delle borse per acqua calda per
riscaldarci tenendole strette al petto. Più di una volta ho rischiato
l’assideramento in Tibet e in Ladhak e grazie al calore profuso dalla mia
Pina, sono uscito sempre indenne. Dormendo sotto i ponti dell’autostrada,
vicino Brema, 1970, con Pino rischiammo veramente di congelare, e dentro
cimiteri austriaci, sulla neve, dentro sacchi a pelo molto leggeri……..anche
quella volta in Mali, di notte, su una jeep scoperta provammo i brividi del
freddo….ci siamo abbracciati, riscaldati, ma l’aria fredda era tagliente
come il fuoco e bruciava al contatto con la nostra pelle……..
L’ambiente dei barboni difficilmente si apre. E’ chiuso
come chiusi sono i motivi che li hanno spinti a fare questa scelta. A volte non
scelgono, ma sono pressati da situazioni familiari disastrose e si ritrovano a
vivere da reietti in qualche angolo di strada. Non hanno fiducia in nessuno.
Fuggono da soli e soli rimangono sommersi dalla loro sfiducia verso il mondo.
Questo ambiente era molto diverso dall’ambiente beatnik
che conobbi appena un giorno dopo. Alla loro chiusura mentale e fisica si
opponeva quello dei vagabondi per scelta rivoluzionaria. Erano quasi tutti
vecchi, disfatti, sfiduciati, con problemi assurdi dietro le spalle, di mancanza
di lavoro, di divorzi disastrosi, mentre
gli altri, i miei idoli, si muovevano per scelta occasionale, momentanea,
portavano in sé la rivoluzione della società, il cambiamento verso un nuovo
mondo, erano quasi tutti giovani, stravaganti, accattoni dignitosi, amanti della
vita, sconoscevano l’odio e la rabbia, contestavano già con la loro
presenza……ed erano liberi, non cercavano la felicità, erano già felici così
come erano.
Non erano attaccati al denaro, al loro piccolo spazio, al
pezzo di cartone, mentre quelli, i barboni coatti, si legavano a quel poco che
avevano con violenza, tenevano dentro tutta la rabbia del mondo perché
continuavano ad odiare colui o colei che li aveva spinti tra le braccia di
quella infelice esistenza.
I Beatnik di Piazza di Spagna li trovai aperti, disposti al
gioco e alla gioia. Accattonavano ma sprizzavano Dignità. Il loro era di tutti,
erano grandi sognatori e spaziavano con la mente senza alcun pregiudizio.
Sicuramente avevano dentro un po’ di rabbia verso questa società, ma
difficilmente la indirizzavano verso singoli individui.
Contestavano lo stato delle cose, rifiutavano i regimi,
negavano le autorità, ripudiavano le formalità…………………..erano
libertari, Anarchici, qualunquisti per scelta, individualisti positivi, fuori
dagli schemi, aldilà di tutto e sensibili alla sofferenza altrui. In poche
parole era il mio mondo.
Da anni li seguivo con il cuore e con tutto me stesso,
leggendoli sui libri, seguendoli sulle strade americane mentre colonizzavano i
piccoli spazi ignorati. Davano un senso, con la loro presenza, a tutto ciò che
l’ufficialità borghese considerava inutile, improduttivo. Si radunavano in
villaggi abbandonati immaginandosi la vita, occupavano pacificamente angoli di
mondo trascurati e li rendevano vivi, vitali, fucine di libertà.
Era il mio mondo e, nel mio piccolo, allora, tentai di
rendermi simile a loro. Non feci alcun sforzo per essere accettato……….mi
abbandonai semplicemente mostrandomi così come ero.
Quella mattina di inzio luglio mi scuotevo dall’angolo
dove avevo trascorso la mia prima notte da vagabondo e mi recai con passi fermi
verso la mia meta: Piazza di Spagna.
Passi liberi, senza alcun senso, ma indirizzati,
risvegliati da un nuovo senso della vita che stavo per imprimere alla mia
coscienza.
Verso la libertà……a visitare i miei idoli che sapevo
bivaccati su quella mitica scalinata.
Persi un po’ di tempo per guardarmi intorno, chiedere
informazioni e sorbire un bel bicchiere di latte con dentro un bel pezzo di
pane.
Una buona colazione sostiene lo Spirito. Apre la finestra
sul mondo con un sorriso interiore pieno di sicurezza.
Quella mattina non mi dileguai in discorsi di risparmio,
spesi tutto quello che avevo in piena consapevolezza. Tutto per presentarmi
vuoto nella mia piazza. Non avevo nulla da tenermi stretto per considerarmi più
“ricco” degli altri. Non volevo possedere nulla per
scelta…………….volevo essere come loro.
Un piccolo vagabondo fuggito via dalle proprie sicurezze
per contestare “il conosciuto”.
Mentre percorrevo le vie per arrivare a Piazza di Spagna,
incrociai un corteo di giovani che contestavano scientificamente la società. Mi
accodai istintivamente per solo pochi metri, tentai di gridare il mio odio
seguendo qualche slogan……………ma non riuscii a tenere a lungo il passo.
Mi discostai in silenzio, lentamente, per guadagnare nuovamente la mia strada.
In quegli anni la contestazione libertaria, dei Beatnik,
esplosa anni addietro da una richiesta di libertà interiore, esistenziale,
stava transitando nella rivoluzione scientifica, politica, asservita al partito,
legata a sistemi autoritari i quali, si credeva, in tempi passati, sotto la
bandiera della rivoluzione socialista, avevano celebrato la via della lotta
rivoluzionaria.
Subito dopo scaturì l’autunno caldo. Operai e studenti
insieme per lottare contro il declino della Democrazia, per la lotta di classe e
per l’immaginazione al potere. In tanti abbandonammo il sogno di un esistenza
libera per dedicarci anima e corpo al Partito e all’impegno politico.
Militai per qualche anno in un partito della sinistra
spinto dall’emozione rivoluzionaria e dalle grandi opportunità che mi offriva
la vita da “intellettuale”.
Dentro un partito se non si è un leader, si rischia di
diventare semplici numeri rimovibili e condizionabili
in qualunque momento. La coscienza politica, la tanto inneggiata
coscienza di classe, fa presto a trasvolare dalla realtà oggettiva ad una
visione personale della realtà………da questo sociale scivolamento sono
emersi i nuovi leader politici, quelli che ancora oggi, giugno2008, detengono il
potere e determinano le sorti dell’intera società.
Tutti sessantottini, tutti rivoluzionari…….tutti di
sinistra.
Quella volta a Roma non mi sentii coinvolto da quel genere
di rivoluzione. Mi interessava
marginalmente, mentre ero più affascinato dal mondo dei vagabondi. Ero più per
un tumulto interiore, psichico, scuotermi dalle fondamenta anziché pensare a
certe forme di apparenza. Non volevo sentirmi un automa che lotta per la Libertà
quando ancora dentro non mi
sentivo libero.
Volevo conquistare la mia Libertà, e a quel tempo La
idealizzavo solo nel comportamento dei Beatnik che bivaccavano in tutte le
piazze del Mondo.
Era lì che volevo andare, lì che volevo dirigermi quella
mattina e istintivamente mi staccai dal quel corteo e mi avviai verso Trinità
dei Monti.
La mia timidezza contrastava con il forte clamore esterno
che a quei tempi caratterizzava tutte le grandi città. Un rumore tumultuoso,
scientifico, programmato dai partiti e galoppato da qualche leader acculturato e
parolaio.
In futuro vissi la mia ristretta esperienza universitaria
con tutti i crismi del contestatore aprioristico.
Sempre contro, tutto sbagliato, mai accondiscendente.
Il mio era un NO grande quanto il mondo…..solo dopo,
tantissimi anni dopo, con l’avvento del mio Maestro nella mia vita iniziai a
balbettare un SI. Prima piccolo, ristretto, di parte….lentamente un SI più
grande, in espansione, un SI che avvolgeva sempre più realtà….e poi un SI
universale, cosmico, amorevole.
SI….SI…..SI….SI…..SI negli anni lo giaculai come un
mantra…….forse sbagliando!!!!
Avevo sempre sognato di entrare in quella piazza e sedermi
in quella scalinata con lo zaino sulle spalle sporco e fatto di mondo. Vi
arrivai invece nudo, senza nulla in spalla e senza alcuna arroganza. Portavo
qualche preconcetto, questo si…..vi entravo confuso e spaesato, senza
l’arroganza del giovane rivoluzionario. Mi mantenei in disparte, a piccoli
sorsi, come se stessi sorbendo un the caldo.
La Conoscenza è un procedimento, avviene gradatamente man
mano che si acquista consapevolezza della realtà in cui ci si trova. Entra
dentro respiro dopo respiro, si fa assimilare al momento che si è pronti….non
prima non dopo.
Così speravo di conoscere quella Piazza.
Così desideravo avvicinarmi ai miei “vagabondi”.
Non attirai l’attenzione di nessuno. Ero talmente
piccolo, normale, senza barba perché l’avevo tagliata qualche giorno prima di
sostenere gli esami, maglietta rossa, scarpe da sostenitore di esami, e
pantaloni a zampa di colore avana.
Mi ricordo perfettamente. Non avevo altro e nulla poteva
farmi risaltare agli occhi attenti della scalinata.
Mi confusi tra il normale turista e mi accovacciai in un
angolo.
Stavo vivendo il mio sogno sublimandolo nella realtà.
In paese avevo idealizzato questo mondo e ancora non me ne
rendevo conto.
Era vera la mia avventura quella che stavo vivendo o era
sempre il solito sogno, quello stesso che da tanti anni, puntualmente, mi si
presentava quando sentivo addosso la sofferenza che mi causava il rapporto con
il paese?
Spuntavano barbe di ogni tipo, sacchi a pelo sdruciti e
coloratissimi, qualche chitarra e tante ragazze…..quasi tutte romane, belle,
giovani e prorompenti.
Con passo leggero presi a salire la scalinata.
Sembravo un intruso quando prende possesso del nuovo ed usa
tutti gli accorgimenti. Intanto, per via degli indumenti che indossavo, non mi
sentivo a mio agio. Volevo strapparmi quella camicia nuova e linda che portavo
addosso…..fortunatamente fu solo per qualche giorno…….volevo infangare le
scarpe che calzavo e sui pantaloni, almeno, volevo scrivere qualche frase che
inneggiava alla libertà.
Qualche anno prima camminai per diversi mesi con un paio di
jeans con su scritto: “Fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguire
virtude e conoscenza”.
Un intruso silenzioso, che osservava senza emettere alcun
giudizio.
Sentivo di appartenere a quel mondo, ma l’apparenza mi
rendeva distante. Volevo avere già la barba lunga, come la tenevo qualche
settimana prima, i capelli almeno sotto il collo e arruffati per sembrare anche
esteriormente uno di loro.
Volevo essere e sembrare un semplice giovane vagabondo
siciliano che viveva sotto i ponti romani il proprio sogno o in qualche angolo
della stazione Termini.
Non avevo portato con me nemmeno la chitarra. Ne possedevo
una che per un certo periodo vi strimpellai su mentre accompagnavo di
sghimbescio un piccolo complessino di paese…..ma nulla di trascendentale. Non
ero per niente bravo.
Stetti l’intero giorno seduto sulla scalinata ad
osservare e senza pensare a mangiare.
Mi sentivo talmente appagato che non sentii il peso della
stanchezza e i morsi della fame.
In futuro mi inserii talmente bene nella mentalità e nel
costume del beatnik che diventai un esperto “mendicante” che pur di non
interrompere la meravigliosa avventura, faceva di tutto per racimolare qualche
somma di denaro.
Chiedevo sigarette, soldi per comprare da mangiare e
qualche coperta, chiedevo continuamente l’ora, anche per non perdere il vizio.
Il mio balbettare mi spingeva a trasformare il semplice chiedere in un
cantilenante mantra per non inceppare in qualche sillaba.
Mi consideravo veramente bravo.
Dal momento che capii che l’unica risorsa per continuare
il mio vagabondaggio era il denaro…..chiesi e chiesi a più non posso.
In futuro sfruttai questa pratica in tanti altri viaggi con
grande perizia, specialmente ad Amsterdam, nel ’70, quando affiancai
all’accattonaggio la raccolta di bottiglie in vetro da rivendere al primo
centro alimentare.
Da piazza di Spagna fino ad arrivare all’osteria dove
andavo ogni giorno a mangiare, vi erano solo poche centinaia di metri…ebbene,
con disinvoltura, durante il tragitto, riuscivo a racimolare la giusta somma per
un pranzo decente. Il resto della giornata rimanevo seduto sulla scalinata a
pensare, a guardare e soprattutto a scherzare con le schiere di turisti
americani che in quegli anni, assieme a tanti giapponesi, popolavano le strade
di Roma.
Li smorfiavo con libertà e con gioia. Erano attirati dai
mitici barboni di Trinità dei Monti e accettavano qualsiasi scherzo.
A volte allungavamo le mani per tastare qualche florido
sedere che, ondeggiando senza alcun ritegno, spigolava dalle nostre parti
rendendosi appetitosamente accessibile.
I “Diversi” in quegli anni eravamo noi. Il nuovo e lo
stravagante, a parte le opere d’arte, era dettato dal nostro bivaccare in
quella Piazza. Eravamo su tutti i giornali del mondo ed eravamo consapevoli che
questa popolarità ci avrebbe protetti dalle continue retate della polizia.
Tra di noi giravano tristi storie di scorribande della
“forza” che, periodicamente, con l’odio che le sprizzava dagli occhi e dal
cervello, cercava di ripulire la città dalla nostra presenza. In effetti le
veniva difficile riuscire in questa impresa e si limitava ad intimorire e a
rimarcare la propria autorità sul territorio.
Le schiere dei vagabondi aumentavano ogni giorno e poi si
aggiungevano anche tutti coloro che per esplicita mancanza di denaro
abbandonavano la sacralità della società ufficiale e si aggiungevano a noi.
La nostra presenza attirava un variegato mondo di
vagabondi, tutti regolarmente non censiti e liberi da legami con il regime
pseudo-democratico che dominava in quegli anni. Vi era persino il rischio di
qualche infiltrato della politica “rivoluzionaria” che cercava di
strumentalizzare la nostra Libertà per il proprio tornaconto. Appena veniva
smascherato, subito lo popolarizzavamo nella pubblica piazza……e per lui
diventava un dramma rimanere.
Trascorsi così il mio primo giorno in quella Piazza,
racchiuso in un mutismo timido, osservante e invidioso dei miei tanti
coloratissimi amati eroi che in quel momento punteggiavano, di gioia e di libertà,
la mia scalinata.
Primo giorno….seconda notte.
Il freddo della notte precedente mi canticchiava già la
sua serenata. Tra poco avrebbe fatto buio e l’ora tarda mi avrebbe spinto alla
ricerca di un luogo dove dormire. Non trovai di meglio che rientrare alla
stazione a piedi sperando di raccattare lungo la strada qualche lira per
riempirmi lo stomaco, dato che quel giorno non mi ero spostato dalla piazza, e
recuperare qualche pezzo di cartone per coprirmi ed isolarmi durante la notte.
Un vagabondo che
cammina!!!
Il suo non è un
camminare normale, scrutatore, agile, saltellante….il suo è il camminare
della vita tra i meandri di una coscienza implosa dentro sé stessa.
Cammina…ma non
vede. Vede solamente quando cerca qualcosa.
Guarda…ma non
sente. Sente solamente quando qualcuno tenta di togliergli la Libertà.
E’ così abituato
al silenzio che tutto gli sembra attutito.
Quando deve fuggire
da qualcosa….non corre. Ciondola ed è già distante.
Quando
accattona….non chiede. Usa la Dignità per ottenere qualcosa.
Quando dorme…non
chiude gli occhi. Si distende e…non sogna.
Guarda col
corpo…sogna col cuore…vola con tutto sé stesso.
Un vagabondo non è
umano….è un essere Divino.
Quel giorno le sensazioni che provai stando seduto sul
luogo dei miei sogni mi tennero lontano i morsi della fame.
Entrai alla stazione portando diversi pezzi di cartone, mi
consigliarono di comprare un biglietto Roma-Settebagni per non venire buttato
fuori, e mi avviai verso la sala d’attesa di seconda classe.
E’ l’unico punto di ristoro per un vagabondo.
La stazione Termini chiudeva all’una di notte, e non vi
era altra alternativa che uscire fuori. Quelle poche ore trascorse al caldo le
custodii sul mio corpo quanto più a lungo possibile. Ero certo che fuori avrei
trovato freddo e solitudine, quindi quel calore lo coccolai dentro di me con
grande gioia………tentavo di circuirlo con le mie moine per non farmi
abbandonare. Ne avevo di bisogno per sentirmi protetto e caldo.
Puntuali vennero le guardie e ci cacciarono fuori. Con in
mano i pezzi squadrati di cartone uscii e lentamente, con il sonno in gola, mi
depositai con tutto me stesso in un angolo illusoriamente più caldo e meno
esposto.
Scricchiolio di ossa, spostamenti continui per trovare la
posizione migliore, sbadigli condizionati, lampi di luce agli occhi lanciati da
qualche curioso occasionale, lievi colpetti di piedi per sentire la vicinanza
dell’altro.
La paura di rimanere solo, abbandonato da tutti i barboni
che dormivano in quel luogo, non mi lasciava riposare in pace. Ero certo che
nessun di quei barboni sarebbe intervenuto in un momento di pericolo, proprio
perché la vita gli aveva riservato tanta sofferenza da renderli indifferenti
alla presenza degli altri, però il solo sentire la vicinanza di altri accanto a
me, mi rassicurava.
Mi creavo amici immaginari che avrebbero preso le mie
difese……..solo così riuscivo a chiudere gli occhi. Mi raggomitolavo
sfruttando il calore del mio stesso corpo e mi lasciavo andare.
Quella seconda notte da vagabondo tra i barboni della
Stazione Termini di Roma mi trasportò con la mente agli hobos americani e
all’epopea peregrinante che, con la loro vita, imposero nelle menti e nei
sogni di tutti i viandanti del mondo. Un intera generazione di vagabondi a
cantare la Libertà, chi sotto i ponti chi lungo una linea ferrata, chi attorno
ad un bivacco su spiagge bianchissime chi a strimpellare su una chitarra in
qualche piazza storica del vecchio Continente.
Una lunga sosta, chiusi nel nostro piccolo mondo, questo
era il senso del vagabondo.
Un mondo che stava per sparire dietro l’avanzare
scientifico della rivoluzione.
Rivoluzioni giovanili in America e in Europa stavano
fagocitando qualunque forma di indifferenza politica. Tutti per forza dovevamo
interessarci della loro politica se volevamo essere accettati.
Spontaneisti controrivoluzionari, così ci definivano i
realisti della rivoluzione.
Il viso trasognante del beatnik, quella notte, sulle
banchine attorno alla stazione, preavvertiva già l’avvento di un potere
oltremodo enorme che avrebbe trasformato quelle banchine anarchiche, fucine di
aneliti individuali verso la Libertà, in focolai scientifici dove analizzare
strategie di lotta per abbattere “questo tipo” di Potere statale e, subito
dopo…………….rimpiazzarlo con l’altro Potere, quello “gentilmente
imposto” dalla classe operaia finalmente illuminata.
I canti mansueti
e trasognanti della contestazione libertaria, stavano per transitare
nell’Internazionale Comunista…….il sogno del vagabondo di un Mondo Libero
e senza schemi stava decadendo nel freddo delirio di uno “Stato comunista
diretto e programmato dal Partito”. L’ideale delle piccole comuni
autogestite dove l’Individuo poteva partecipare direttamente alla costruzione
del proprio “sogno”, stava regredendo nel freddo massificante ideale della
costruzione del Partito.
Tutto perso.
Tutti i sogni confusi……..miscelati tra cervellotici
tesi e antitesi, fusi con l’irreale “immaginazione al potere”, diluiti tra
proletari e borghesi, tra imperialisti e internazionalisti……………..un
guazzabuglio di teorie e prassi annichilirono quel grande sogno di Libertà che
in quegli anni rappresentava l’epigono del giovane.
Quella notte, la seconda notte di vagabondaggio vissuta in
prima persona, questi discorsi ancora non occupavano la mia mente.
Tra poco sarei stato cacciato via da quel luogo, dovevo
quindi rintanarmi dentro di me per non farmi sfuggire l’ultimo calore
accumulato. Quei pezzi di cartone che tenevo stretti sarebbero serviti a poco,
il freddo ne avrebbe oltrepassato la fittizia compattezza………..però
ugualmente lo tenevo stretto, almeno, pensavo,
mi rimaneva la sparuta illusione di coprirmi con qualcosa.
Ritrovai lo spazio della notte precedente ancora vuoto. Era
riscaldato dalla figura di due vecchietti dalla barba lunga e proprio da loro
seppi dell’esistenza dell’Esercito della Salvezza e di un convento nei
pressi di Trinità dei Monti dove servivano in beneficenza a
colazione e a cena un pasto sontuoso e rinfrescante.
In futuro, per diverse notti, con Pino fummo ospiti
dell’Esercito della Salvezza, addirittura una notte creammo un po’ di casino
perché involontariamente occupammo un letto già assegnato ad un barbone che
mendicava nei dintorni della stazione. Il capitano della missione si inalberò
talmente da indossare la divisa dell’Esercito per manifestarci la propria
autorità e decidere di buttarci fuori dalla “missione”………….e così
fece.
Capii di non fare alcuna domanda e di aspettare che quel
mondo mi si aprisse spontaneamente.
Vecchietti saggi, dignitosi, dal viso rilassante e
promettente……….per qualche altra notte mi tennero accanto a loro
consigliandomi come muovermi in quel mondo.
I barboni di Roma mi instillarono furbizia e una certa
malizia, armi essenziali per muoversi in quella Roma del ’68.
L’apertura del “terzo occhio” avviene sempre quando
meno ce lo aspettiamo.
Chi poteva immaginare che sotto quegli indumenti sudici e
sporchi si celavano due “piccoli” saggi capaci di illuminarmi con perizia
sui pericoli della realtà in cui mi trovavo? Bastava ascoltare con leggera
presenza mentale per prendere l’essenza di quegli insegnamenti e poi
ricondurli nella realtà.
Basta poco per proteggersi.
A volte perdiamo troppo tempo ad analizzare un
messaggio…..intanto l’attimo fugge e
quel messaggio non è più attuale. Fugge via come fuggono via tutte le paure
quando apriamo gli occhi agli avvertimenti della Coscienza.
Basta così poco per illuminare il Paradiso che ci vive
intorno……….una sparuta Luce risvegliata da un attimo di consapevolezza.
La consapevolezza di essere fortunati in un mondo di
individui soli.
La stazione apriva alle prime luci dell’alba. Lentamente i soliti corpi
infreddoliti si scrollavano dagli strati di cartone e cercavano di scuotersi da
quei sogni tristi che la notte gli aveva imposto. Ci stiracchiavamo per
sciogliere i grumi fastidiosi che infierivano sulle nostre ossa e con grande
lentezza cercavamo di metterci su.
Per me era il secondo giorno, per gli altri chissà quanti
giorni si erano accumulati sotto quelle croste di cartone.
In quegli anni Roma rappresentava la Luce per tutti noi.
Era tanto luminosa che i nostri sogni venivano abbagliati da così tanto
bagliore. Noi stessi venivamo oscurati dalle scintille della città.
Il sogno di un ragazzo del sud non riusciva a decollare per
la troppa luce. Facilmente si confondeva e non definiva più i
contorni…..tutto era così bello, così grande da sembrare un sogno.
ROMA……caput mundi.
Per me era il centro del mondo.
Quella seconda mattina mi spinsi per inerzia verso Trinità
dei Monti. Ne sentivo il richiamo già appena sveglio e, ancor prima di fare
colazione, mi incamminai verso quel luogo.
Negli anni futuri ogni volta che partivo per uno dei miei
viaggi, mi fermavo un giorno a Roma per visitare la piazza, quasi come fosse un
feticcio da onorare prima di intraprendere le avventure lungo le vie del mondo.
Quella mattina mi sentivo spinto, impaziente, fiutavo
nell’aria un inquietudine interiore, bramavo al pensiero che tra poco mi sarei
disteso su quella scalinata….mi sentivo come un detrito della società che tra
poco sarebbe rinato a nuova vita………..
Oh se potessi essere
diverso, unico…….
sarei me stesso.
Oh se potessi dare più
di quanto non ho……..
sarei me stesso.
Oh se potessi avere
Amore da dare agli altri………
sarei me stesso.
Oh se potessi sentire
i suoni repressi nel corpo umano…e tirarli fuori…..
sarei me stesso.
Oh se
potessi………
(1981)
Erano arrivati nuovi vagabondi. Quelli di ieri non erano più
gli stessi, altri, con altri zaini e con nuove chitarre, erano appena arrivati.
Non sembravano spaesati….erano di casa. Sentivano il calore delle vibrazioni
emanate da tutti quei vagabondi che ormai da anni bivaccavano nella piazza.
Anche se al momento sembrava vuota, permaneva un concentrato di energia che
attirava il simile.
Un vagabondo è
ovunque a casa propria.
Nel silenzio percorre
le passerelle delle piazze come una prima donna.
Non recita alcuna
parte.
E’ così……perché
è bello essere un vagabondo.
Non sentivo affatto il bisogno di girare per Roma. Per me
il mondo iniziava e finiva in quella piazza. Era tutto lì, concentrato nelle
speranze di tutti noi e nelle chitarre che, a qualunque ora del giorno,
istintivamente ritmavano una dolce armonia.
Non eravamo noi a fuggire dalla società, ma era la società
ad essere emarginata. Si era posta aldilà dello steccato che lei stessa aveva
innalzato per distinguersi da noi. Noi eravamo felici di questo e glielo
dimostravamo continuamente intonando i nostri canti e le nostre nenie che
parlavano di Libertà.
L’armonia unisce ed avverte quando è il momento della
grande festa dell’Amore.
Chi si trovava a transitare da quel luogo si sentiva
attratto da quel caos trascendentale. Le schiere di turisti erano avvinti da
quel suono a più voci che si perdeva nell’Unità.
Sembravamo sirene mentre accalappiano i loro Ulisse.
L’indifferenza vigile del potere statale sembrava non
sentire, ma noi sapevamo che registrava il pulsare della piazza dalle telecamere
poste sui tetti dei palazzi, sapevamo che assieme a noi qualche infiltrato
annotava i nostri movimenti, sapevamo che prima o poi qualche retata avrebbe
invaso di un rumore sconcertante la nostra piazza, sapevamo tutto
questo…..eppure eravamo felici di essere li.
Nessuno può fermare
l’armonia che proviene dal cuore.
E’ musica Divina,
avvincente, entusiasmante, limpida……….musica che crea, che sprizza gioia,
contatto, che emana profumo…..che vola.
Non mi venne difficile inserirmi nel mio mondo. Ormai stavo
assumendo l’aspetto desiderato. Gli indumenti che indossavo perdevano
gradatamente la limpidezza del loro colore naturale, la piazza li stava tingendo
di sè e il mio spirito li stava “appestando” di quell’anelito atavico che
gridava LIBERTA’.
Ero nuovamente li, seduto a bocca aperta ad ammirare la
diversità della gente che mi passava davanti. Anche quel secondo giorno rimasi
seduto nel solito gradino spaziando con gli occhi e spostandomi solo di qualche
metro per osservare qualche frivolezza messa in campo da qualche giovane stanco
di non fare nulla.
Quella sera scelsi di spostarmi assieme al gruppo mentre
transumava con tutti i propri averi verso un altra piazza.
La solita storia veniva accordata con più chitarre e
gridata con una nuova linfa…..non cercavamo spettatori, desideravamo silenzio,
tranquillità e forse un luogo dove poter dormire al sicuro dalle forze
dell’ordine che non ci lasciavano in pace.
Le vie luminose della Roma turistica affascinavano la curiosità del
viaggiatore. Astrarsi dalla realtà per effettuare voli pindarici non era
impossibile. Erano così tante le attrazioni e le novità che difficilmente si
resisteva alle loro sviolinate.
Un vagabondo in
genere passa senza osservare….guarda con distacco, ma non si lascia attrarre.
La Sua vita è molto
più importante.
I Suoi sogni sono
pervasi da un realismo dovuto al momento.
Sa cosa fare e dove
andare in ogni momento.
Anche se a volte
l’inconsapevolezza lo proietta in un vuoto sconfinato…….ma è sempre
vigile, attento.
Sa di essere un
vagabondo in un mondo di cose “consolidate”, abbellite per apparire sempre
interessanti e attuali…..
………sa di essere
leggero e trasparente…
………sa di non
fare la rivoluzione perché già la vive dentro di sé.
Un vagabondo cammina
con svogliatezza, sembra distante…..ma non lo è.
Tutte le volte che mi avventuravo in quelle strade
assistevo da fuori all’agitazione degli altri. Erano presi dallo shopping a
buon prezzo e da quel tipo di frenesia endemica che la città sa spacciare con
maestria.
Cosa gli passava per la testa!!! Pensavo.
Quale desiderio volevano realizzare per primo di fronte a
quelle invitanti vetrine!!!
Erano singoli individui che si muovevano o era una massa
indistinta di “cose vive” che si spostava per esaudire “il sogno”
collettivo del momento?
Mi chiedevo quale potere ammaliante esercitavano sulle
menti della gente l’acquisto di un
vestito, di un oggetto qualsiasi o di un anello.
Ero un ragazzo, forse un po’ troppo sognatore, ma non me
ne rendevo conto.
Cosa facevo tra quelle strade. Quella non era la mia Roma.
Le strade del commercio, dell’esibizionismo, della moda,
dell’apparenza….non erano il mio mondo.
Io ero lì per vagabondare, per vivere il mio sogno, per
raggiungere l’etereo….che non raggiunsi mai.
L’irraggiungibile
pressava.
Stringevo il
mondo…..e subito dopo sentivo che mi sfuggiva.
Momenti di
onnipotenza…..momenti di esiguità.
Vagavo tra uno stato
e l’altro.
L’indecisione
svuotava l’essenza delle cose.
Mi rincorrevo per darmi l’illusione che avevo tra le mani
ciò che cercavo, ma era un semplice gioco mentale.
Per arrivare a Fontana di Trevi seguivo sempre il medesimo
percorso, sapevo che anche gli altri si spostavano per quelle viuzze. Ci
trasmettevamo sicurezza e informazioni. Erano tempi difficili per i barboni, al
primo errore si veniva messi dentro e poi spediti a casa con un biglietto sulle
tradotte militari….quello che mi capitò dopo qualche mese preso per fame e
con le mani “a vagabondare” a Ceprano, in Ciociaria, nei dintorni di
Frosinone.
Durante la mia vita, sostenuto e amato dalla mia Pina, ho
sempre cercato di riempire i miei sogni con belle immagini di mondo. Da spiagge
limpidissime a monoliti di roccia immensi, da visi di bambini affascinanti a
bellezze femminili trasognanti, da villaggi colorati ad ecosistemi
paradisiaci……in quei giorni a Roma le tentazioni di via Nazionale o di via
Condotti ammaliavano il turista. Ricordo, di non essermi soffermato mai nemmeno
per un attimo a guardare. Le mie visioni mi proiettavano lontano e mi
trattenevano dentro me stesso. Forse era l’incompletezza oggettiva che
contrastava con la mia finitezza interiore, fatto sta che nulla mi tratteneva
all’infuori della bellezza dei miei sogni.
Mi risvegliavo solamente appena entravo in piazza. Li si
che ero vigile, attento ai nuovi arrivi. Non mi sfuggiva nulla.
Quando sogno di
essere altrove….il risveglio è sempre una delusione, un ricadere nel buio
della stabilità…………..
…….e la noia mi
assale e mi rende un anima in pena.
Un sogno mi trasporta
lontano……dal conosciuto.
Quella notte fu la mia prima notte sotto il mio
primo ponte.
Una nuova conquista. Per me lo era….eccome! Ragazzino
come ero, sognatore come mi sentivo, quella nuova esperienza mi stava per
coinvolgere interamente.
Sotto un ponte sul fiume Tevere, dietro piazza del Popolo a
dormire. Mi sembrava un miracolo, il titolo di un film…….eppure era la cruda
realtà.
Quella notte, e per le diverse notti che seguirono, fino a
quando la “forza del potere” non ci schiacciò da quel luogo, l’odore
acre di un fumo inebriante, riempì di sé le menti e i sogni dei vagabondi.
L’intera visione, soffusa dall’esilarante nuvola di
fumo che scaturiva dal nostro fermento interiore, divenne la scena per
antonomasia. Quell’immagine idealizzata nei nostri sogni scese nella realtà e
fu veramente un esplosione di colori e di gioia.
Il fiume che scorreva lentamente verso la sua meta e noi
che, trasognanti, spaziavamo con i pensieri verso le nostre rispettive mete,
sublimavamo l’interezza della scena. Niente sembrava essere fuori posto. Tutto
si incastonava con armonia e tutto scintillava di luce propria.
La scena era sovrastata dalla figura impenetrabile e gentile di una ragazza americana
che tutte le notti, prima di abbandonarci tra le braccia di Morfeo, si
avvicinava, ci lisciava con una dolce carezza e poi ci gratificava con un fresco
bacio in fronte.
Tutte le notti che dormii sotto il ponte Lei,
impenetrabile, si accostava ad ogni vagabondo e lo baciava…………dolce
notte….
Non vidi mai il suo viso alla luce del sole. Era come il
vento….impalpabile ma punzecchiante. Grazie al suo bacio vi ritornai per
diverse notti, anche se ero consapevole del forte freddo e dei rischi di retate
che avrei corso continuando a dormire sotto quel ponte.
Mi inserii spontaneamente in un cerchio di fumatori mentre
attendevano il proprio turno per inspirare l’ebbrezza che donava la canapa
indiana.
Più in là vi era qualcuno che preferiva bucarsi con aghi
incestuosi sperando di “eliminare” in questo modo i propri simili e le paure
e le angosce che gli creavano dentro…………..riuscendo ad annullare,
purtroppo, solo sé stessi.
Un tedesco con un rotolo di baffi sotto il naso e una lunga criniera di
peli in testa si bucava atrocemente sotto quel ponte. Tutte le sere lo faceva e
tutte le sere tentava di convincerci che solo in quel modo la fredda società
avrebbe ricevuto un vero schiaffo.
Uno dei suoi figli, nell’indifferenza assoluta, si
lasciava morire per suscitare scalpore. Era come se volesse creare dei sensi di
colpa alla società.
Poveretto…..sconosceva l’insensibilità di questa
nostra “civile società”.
Mentre Lui si lasciava morire per punire il suo carnefice,
essa celebrava l’avvento di una nuova multinazionale sul campo mondiale e
glorificava l’elevazione, tra gli alti ranghi delle forze oscure, di una nuova
fratellanza di potenti per dominare e controllare l’intero pianeta.
Figuriamoci se la Sua fine avrebbe creato scalpore o
qualche crisi interiore tra i componenti di simili organizzazioni………..ne
doveva passare tanta di acqua sotto quel ponte.
Si perforava con attenzione e prima di farlo coccolava
l’ago con la lingua per non disperdere nemmeno un goccia di quel nettare
divino. Lo seguiva con gli occhi sbarrati, se lo spingeva con tutto se stesso
dentro la pelle ancor prima che quell’ago consolatore la traforasse.
Consolazione celeste.
Sensazioni di pace, di abbandono, di
accettazione………….il tedesco non contemplava alcun rischio, l’ultima
cosa alla quale pensava.
Era l’atto in sè, trasformato in rito, a
tranquillizzarlo. Era geloso del suo buco, lo ammirava mentre lo praticava. Da lì
a pochi secondi l’eroina sarebbe corsa dentro le sue vene e avrebbe interrotto
quel fiume di adrenalina che lo stava prosciugando.
Un altro di quei “coatti” miracoli che la società
spinge a fare.
Un buco per la libertà.
Sentivamo l’attimo in cui l’ago attraversava la pelle.
Pur essendo qualche metro distanti percepivamo il gorgoglio di quel liquido
mentre si comprimeva per scorrere meglio dentro quelle vene.
Malgrado tutto………ci lasciammo cullare dal silenzio e
dalle placide acque del Tevere.
Notti incantevoli.
Io avevo trovato da qualche parte un ritaglio di coperta
con la quale tentavo di riscaldarmi. L’umidità che saliva dalle acque del
fiume era impietosa, non riusciva ad innalzarsi verso il cielo perchè
all’impatto con il sotto ponte ci ripiombava addosso martoriando
le nostre fragili ossa.
Il vagabondo non
chiede, non è curioso, vuole solamente vivere in pace e trasfondere per
conduzione questa sua pace all’ambiente circostante.
Quando sente puzza,
non la scosta………si allontana più in là.
Osserva in silenzio
ed in silenzio, dentro di sé……..cerca di capire.
Conosce già la Verità…………sa
che è Una e sa che gli vive dentro.
Nessuno sotto quel ponte mi chiese mai chi fossi, da dove
venissi. Parlavamo con gli occhi e ascoltavamo con l’intero corpo. Dai sottili
sorrisi ci scambiavamo le essenziali comunicazioni. Dalle movenze, dalla
tensione che ci riposava sul viso, dal modo come dormivamo si intuiva chi
eravamo. Qualcuno non riusciva a rilassarsi per via di pregiudizi non superati,
qualcun altro si scuoteva nel sonno pensando alle proprie situazioni
familiari…………..la società non l’avevamo abbandonata, la stavamo
ancora portando con noi e, purtroppo, le conferivamo ancora un peso enorme.
Tra la scalinata e il sotto ponte iniziai a trascorre i
miei giorni da beatnik.
Di giorno seduto sulla scalinata, di sera a piazza Navona e
di notte sotto il nostro ponte. Per una settimana fu questo l’itinerario
giornaliero.
Di tanto in tanto durante questi spostamenti sentivo
qualche “Vietnam libero” lanciato al cielo con rabbia. L’altra parte di me
poneva le orecchie e il cuore verso questa altra realtà. Ancora non ero entrato
direttamente nel movimento studentesco, però mi sentivo attratto anche da
questo altro mondo.
Stava nascendo la rivoluzione. Stava già camminando in noi
e tra poco sarebbe sfociata tra le paludi compromettenti della politica.
Un errore di non lungimiranza.
Stavo già iniziando a conoscere qualcuno e stavo
lentamente istruendomi specialmente sull’arte del chiedere con dignità quel
“minimo” di denaro per continuare la mia avventura romana. Imparai anche le
vie di fuga da usare durante le retate che la “forza” ogni tanto decideva di
fare. Ci dileguavamo in forma scomposta per evitare concentramenti. In questo
modo le loro reti non riuscivano ad imbrigliare tutti, qualcuno sgattaiolava
sempre………….per tenere alta
l’insegna della Libertà.
Tutti, a turno, abbiamo trascorso qualche ora sulle panche
di legno duro di qualche caserma della polizia. Volevano sapere chi eravamo e
come mai ci trovavamo a Roma. Io tenevo sempre in tasca una banconota da cinque
mila lire per dimostrare che almeno per un giorno sarei stato capace di
nutrirmi…..e poi, il giorno dopo, dicevamo, sarebbe arrivato il fatidico
vaglia da casa per permetterci di comprare l’atteso biglietto del ritorno.
Una infelice storia che periodicamente si ripeteva
rendendoci l’esistenza impossibile.
Imparavo anche a riconoscere la gente sincera da quella
furba, chi avrebbe donato qualcosa e chi nemmeno si sarebbe soffermato a
guardarci.
Stavo diventando un esperto dignitoso dell’accattonaggio.
L’arte del sapersi proteggere è una pratica da imparare
il più presto possibile. Anche se ufficialmente non abbiamo delegato nessuno al
rango di nostro Maestro, vi sono però le nostre esperienze che parlano. Esse
dovrebbero servire a proteggerci da
noi stessi, dovrebbero darci la forza del discernimento basata sul “già
vissuto”, eppure, come si dice……………cadiamo sempre nelle stesse
trappole. Sono gli stessi errori a martellarci in testa con la mazza dei sensi
di colpa, che poi, puntualmente si presentano tutte le volte che scopriamo che
potevamo benissimo, questa volta, non sbagliare.
Nel nostro ambiente girava la voce che dalla “forza”
bisogna sempre stare lontani. Fidarsi sarebbe stato un disastro, però, quando
si decideva di ritornare a casa e non si aveva voglia, né la forza di
affrontare il lungo spostamento per il rientro, accettare qualche lieve
compromesso con la polizia, non sarebbe stato un male. In tanti, mi ricordo, si
fecero “guidare verso casa” dagli aiuti che lo Stato elargiva gratuitamente
a chi decidesse il ricongiungimento con la famiglia.
Per molti era diventato addirittura un semplice
divertimento.
Ci si consegnava spontaneamente nelle loro mani, si veniva
rifocillati, messi a contatto con la famiglia e caricati con un foglio di via
tra le mani, su vecchie tradotte militari per rientrare a casa.
Dopo pochi giorni si ripresentavano alla scalinata da eroi,
non arrivavano nemmeno a casa. Scendevano prima in qualche stazione e in
autostop ripercorrevano la strada verso Roma, o………..come ricordo, anni
dopo, mentre vagabondavo ad Amsterdam, qualcuno riuscì a farsi pagare il
biglietto di ritorno per poi rivenderlo a metà prezzo e riprendere alla grande
l’avventura itinerante della propria coscienza.
Era come un sfida obbligatoria da sostenere per essere
accettati nel mondo del vagabondo romano.
Più loro ci “perseguitavano”, più aumentava
l’unione tra di noi.
Loro ci trattavano con odio e ci consideravano
sporchi……noi ci amavamo sempre di più. Sapevamo che in fondo al loro cuore
ci invidiavano perché volevano essere come noi……liberi, belli, felici, con
tante ragazze intorno.
Godevamo dei nostri odori ed ognuno colorava di sé
l’intera comunità.
Sotto il ponte, protetti dal sole e da occhi indiscreti, vi
trascorrevamo diverse ore anche di giorno. Ormai si era sparsa la voce che sotto
quel ponte si viveva bene senza essere disturbati……………..arrivò,
purtroppo anche il momento di abbandonare quella pacchia. Troppa gente vi girava
intorno e troppa droga fluiva nelle vene di diversi ragazzi.
La “forza”, dopo appena una settimana, si manifestò in
tutta la sua potenza. Arrivarono con camionette e con i manganelli in mano per
sloggiarci…….il sogno, quel sogno finì e lo trasferimmo momentaneamente in
piazza di Spagna per trovare un'altra soluzione.
Ormai il ponte era il luogo di ritrovo per antonomasia.
All’imbrunire ognuno si ritirava in quell’oasi di pace e ci raccontavamo le
esperienze del giorno: dove eravamo stati, in quali luoghi la questua era più
facile e dove gli sbirri esercitavano con maggiore forza la propria autorità….si
parlava di rimpatri e di come farsi gratis un lungo viaggio sfruttando i veicoli
dello Stato. Qualcuno ci raccontò di essere stato rimpatriato dall’India
proprio da Bombay imbarcato su una nave merci fino in Italia, passando per
Gibuti, Mombasa, Capo di Buona Speranza in sud Africa, Lagos, Dakar Canarie e
poi Genova in due mesi di stupenda crociera.
Per un vagabondo era come fare un viaggio mistico alla
ricerca della propria Mecca come lo è per i musulmani.
Si parlava di queste cose…..e si sognava.
Un viaggio
nell’eternità
Un pensiero nel nulla
Una vita passata
Un mondo immenso
Tutto nasce per
rinascere nuovamente dopo la morte
Ma quando ci
fermeremo…..!
Quando potremo
ricominciare a correre per non fermarci più.
Dipende da noi o
dagli altri!!!
Dal potere, dai
ricchi…..
L’esistenza che
stiamo assaporando dipende dal volere dello Stato.
Autonomia vuol dire
libertà
libertà vuol dire
vivere
vivere vuol dire
sentire sé stessi
sentire sé stessi
vuol dire amare il mondo, la gente….
Amare vuol dire
essere riusciti a scoprire anche la vita degli altri.
Non si può vivere
sempre allo stesso modo
Bisogna che si cambi
Che si inizi una
nuova vita
Diversa
Più viva.
E’ difficile
cambiare
Ormai siamo scivolati
nell’abitudine
E’ difficile
dobbiamo riuscire
Sarebbe la morte
precoce
Un viaggio!
Dove……………
(1981)
Intanto la “legge”, nel buio della propria infida
mente, tramava contro di noi.
Una mattina fummo svegliati a calci da una masnada di
sbirri che godevano nel vederci impauriti e indolenziti. Le loro “gentili
maniere” segnavano ulteriormente la differenza che vi era tra noi e loro.
Dalle potenti zampate che ci scaricavano sulle ossa e dagli strattoni
irriverenti con i quali tentavano di farci spostare, emergevano tutte le loro
frustrazioni interiori. La loro rabbia repressa la svuotavano su di noi perché per loro, noi, rappresentavamo
l’espressione viva dei loro sogni frenati. Non solo volevano spostarci da quel
luogo, ma anche volevano punirci per come eravamo.
Diversi si, ma……come mai felici??!!.....questo non
potevano sopportarlo.
Guai a gioire della situazione in cui ci
trovavamo…..dovevamo soffrire, stare male, essere per forza tristi
ma, soprattutto, dovevamo nutrire invidia per la vita che conducevano
loro. Solo così si sarebbero sentiti appagati e forse avrebbero inveito con
meno rabbia sui nostri corpi……la nostra invidia li avrebbe rigenerati.
A volte per stare bene o per gratificare la propria persona
ed essere certi che ciò che si sta per fare è sinonimo di bellezza, certi
uomini hanno bisogno dell’invidia dell’altro.
……………ma noi non li invidiavamo…..forse li
commiseravamo, e questo loro non potevano sopportarlo.
Di questi contatti così tristi ne ho avuto con le polizie
di mezzo mondo.
Da Amsterdam quando i nazionalisti in combutta con la legge
ci bruciavano sin dentro i sacchi a pelo a Kopenaghen dentro i parchi durante le
retate violente della legge, da Monaco quando venivamo sfrattati con violenza
dalle case in costruzione a Montecarlo mentre dormivamo sulla nostra R5 ci siamo
visti accecati da fari potenti, svegliati e cacciati via come dei ladri, da
Sofia accompagnati fino al confine a Mosca controllati a vista come
terroristi……………un intera società coalizzata ad opprimere le persone
libere.
Frontiere come bunker, ostili al vagabondo e servili nei
confronti del potente. Doganieri corrotti, sadici che ci tastavano con palese
soddisfazione mentre cercavano qualcosa che noi non potevamo
avere……..volevano semplicemente far sentire la loro “autorità” su di
noi e costringerci a sentire il loro “controllo” anche dentro di noi,
obbligarci a chinare le teste e la dignità.
Ignoravano che la nostra Libertà è qualcosa che ci vive
dentro, e nessun potere sarebbe mai riuscito ad annichilire il senso di
Bellezza e di Sovranità interiore che immanentemente ci rende OVUNQUE E
COMUNQUE UOMINI LIBERI.
Fummo costretti quindi a sloggiare. Cacciati via come animali rabbiosi,
pericolosi per la gente. L’insensibilità della polizia non capiva le nostre
esigenze, per loro eravamo solamente dei vagabondi drogati senza una fissa
dimora, sporchi, che lordavano la loro città.
Transumammo in massa in Piazza di Spagna. Era l’unica
zona che rimaneva ancora libera da retate, quindi sembrava essere più sicura.
Sotto quel ponte la vita era diventata difficile, persino
l’acqua sembrava stagnare più a lungo del solito emettendo odori nauseabondi.
Noi non ce ne eravamo accorti perché stavamo bene tra di noi, si cantava, si
suonava e si sognava. Qualcuno raccontava le proprie avventure, a volte qualcuno
al suo rientro portava una borsa di dolci e di bottiglie di vino. Si faceva
subito festa e con poco eravamo felici.
Una bella vita.
Ormai il ponte era vecchio, decaduto tra le grinfie dell’abitudinarietà………….e
si doveva sloggiare.
Grazie sbirri….le
vostre retate ci fanno gustare l’ebbrezza della libertà.
Ci spingono al
rinnovamento…..e noi ci rinnoviamo.
Ci costringono ad
unirci, a stare vicini….e noi ci amiamo.
Ci impongono
cambiamenti esistenziali….e noi cambiamo perché siamo liberi.
(1981)
In quei giorni a tenerci uniti ci pensò l’Amore.
L’Amore per la vita libera, con zaino in spalla e con i
nostri sogni sempre vivi e prossimi, ci tenne compagnia.
Ne avevamo veramente di bisogno.
Nei momenti di sbandamento, in cui si sente l’alito al
collo del persecutore, rifugiarsi nell’Amore e ad Esso dedicare tutti gli
attimi della giornata, è l’unica salvezza.
Dovevamo trovare un nuovo posto dove dormire sereni durante
la notte, e non era facile. In quel periodo l’occidente rigurgitava dalle
fogne un nuovo nazional-fascismo intriso di violenza e di odio per i
“Diversi”. Gruppi di giovani armati di spranghe di ferro giravano di notte
alla ricerca di vagabondi per pestarli e mandarli via dalla loro città
Amsterdam senz’altro ne era la capitale.
In una delle mie tante notti trascorsi in quella città,
mentre in centinaia dormivamo sotto una galleria nei pressi di piazza Dam, un
vagabondo venne bruciato sin dentro il proprio sacco a pelo. Facemmo appena in
tempo a tirarlo fuori e trasportarlo in ospedale.
Estate del 1970.
L’odio stava ritornando. Era il frutto represso della
ricerca ossessiva di un bello spacciato per buono che non soddisfaceva più..
L’ unica realtà indifesa, pacifista per indole, sulla quale scaricare questo
odio…..eravamo noi: i beatnik di piazza Dam.
Noi, secondo loro, sporcavamo il salotto della loro città,
noi eravamo gli intrusi, i libertari da bruciare, da prendere a
calci…..eravamo noi, non loro, a lanciare immagini negative nel mondo sulla
loro città.
Il motto patriottico “Europa pulita” camminava in
combutta con la “rivoluzione totale”. A volte entrambi si confondevano negli
atti di violenza che sputavano contro chi era dall’altra parte……….e
vergognosamente diventavano la stessa cosa caratterizzati dall’odio per il
“diverso” e dalla bramosia di prendere il potere per divenire loro stessi
persecutori……… di chi
non la pensava come loro.
Il potere non smentisce mai la propria natura. Chi lo
detiene viene come posseduto da un entità malefica che non vuole altro che
“altro” potere……sempre più potere per mantenersi radicati al potere
stesso.
Sfrattati ma felici ci depositammo sulla nostra scalinata
come quei principi che hanno perduto il proprio regno.
Solo qualche ora per raccattare qualche soldo per poter
mangiare e poi nuovamente ad immaginarci la vita distesi su quelle scale. Il
problema consisteva adesso nel trovare un buon luogo dove dormire…..e non era
facile. Eravamo in tanti e tutti controllati e schedati dalla “forza”.
Non sapevo dove andare. La stazione ormai era lontana dalla
mia mente, l’unica cosa che rimaneva da fare era sdraiarsi su un gradino di
quelle scale e aspettare l’arrivo……della fortuna.
In quel periodo la fortuna, almeno da parte mia, non veniva
per niente scomodata. Già quel poco che stringevo con il mio corpo era il
massimo. Mi sentivo felice sopra ogni cosa. Bastava un angolo ritenuto sicuro
dove deporre le mie ossa, ed ero l’Uomo più ricco del mondo.
Per mia propria natura non sono stato mai incline al
lamento, ho sempre traghettato la mia esistenza nelle altre sponde sempre con il
sorriso sulle labbra e la fiducia nel cuore. Nessuna tempesta ha assunto dentro
di me aspetti turbolenti e disastrosi, è stata sempre vissuta con dignità
cercando di rispettarla fino in fondo senza trascendere nell’odio o nella
violenza per proteggermi.
Quei giorni, anche se gravidi di instabilità, li vissi con
gioia. Sapevo che ogni momento era un momento di “vagabondaggio” lontano da
casa e dalle sicurezze che essa proponeva, quindi ero felice e mi sentivo sempre
in viaggio.
Per due notti ci assiepammo a Trinità dei Monti, anche se
fino a notte fonda difficilmente si riusciva a prendere sonno. Il caldo estivo
richiamava schiere di turisti per buona parte della notte, altri vagabondi
confusi si affiancavano a noi sperando di trovare un po’ di calore e poi vi
era sempre la “legge” che non smetteva mai di “proteggerci” con i loro
sguardi. Addirittura in quel periodo avevano installato sugli alti palazzi di
fronte la scalinata delle video camere, collegate con le sedi centrali 24 ore al
giorno, per controllare i movimenti di tutti coloro che vi bivaccavano.
Erano così cari i nostri poliziotti che non ci lasciavano
mai da soli, nemmeno di notte. La nostra incolumità li assillava. Volevano
essere loro per primi a prenderci con le mani nel sacco….non so con quale
refurtiva….che quasi quasi avrebbero essi stessi messo in un angolino un po’
di droga per poi usarla come grimaldello per scardinare la nostra “onorabilità”.
Eravamo a conoscenza dell’Amore sadico che sentivano per
noi, e noi, in un certo senso, cercavamo di dilettarli a tutte le ore inscenando
davanti i loro obbiettivi pantomime esilaranti.
Scene di lussuriosi rapporti sessuali per stimolare la loro
fantasia, scene di lotte furibonde per eccitare i loro istinti, gesticolavamo
senza senso pur di tenere i loro sguardi impegnati su di noi. Non scordavamo mai
di dargli la buonanotte, prima di abbandonarci tra le braccia di un sonno
liberatore.
Stranamente quelle due notti non successe niente di strano,
anche se ci arrivavano continue voci di attacchi fascisti a gruppi di barboni o
di beatnik durante le ore notturne. Agivano al buio ed usavano il fuoco come
arma………….infami.
Non mi sono stancato mai di ripeterlo nella mia mente.
L’alba tra i palazzi romani non si vede.
Si sente nell’aria solo un leggero bagliore rossastro che
sembra tingere di rosso rosa le facce della gente.
La lunga notte ha
sublimato le visioni scontate del giorno.
I colori vivaci, dal
tepore caldo dei giochi d’ombra che crea il sole, s’incupiscono divenendo
blandi e piatti.
Le corse frettolose
della gente si assiepano tragicamente in un letto.
I canti degli uccelli
diventano lugubri e silenziosi.
La gente aperta si
chiude, diffida e fugge il rapporto diretto col prossimo.
Ciò che di giorno è
normale, di notte diventa irreale, misterioso……
Una donna sola di
giorno rientra nella normalità……
…..di notte diventa
civettuola, prostituta, facile preda.
Un cane di giorno non
fa paura….ma di notte insospettisce la nostra sicurezza.
I locali aperti
diventano centri di incontri fugaci e……..
……la strada
illuminata e sicura di giorno, la notte la rende diffidente e triste….
…….e noi, milioni
di vagabondi, diventiamo guardinghi, rinserriamo le schiene per farci
coraggio……..e chiudiamo gli occhi al mondo per osservarci dentro.
(1981)
Per un Vagabondo affrontare la notte è un’incognita.
Anche se vive l’intero giorno chiuso nel proprio buio, la
notte è qualcosa che arriva da lontano e non sa come gestirla. Porta poca luce
e non riesce ad illuminare il buio dell’anima, anche se a volte la Luna tenta
di squarciare questa coltre di oscurità e le Stelle tentano, in armonia,
di affievolirne le tenebre……..difficilmente il Vagabondo si presta a
questa fonte di luce esterna.
Lui vive di luce propria, riflessa dentro di Sé, che
illumina, a sprazzi, ciò che gli interessa rischiarare in quel momento.
Quelle due notti sulla scalinata sognai ad occhi
aperti……………vedevo luoghi lontani, deserti e montagne cariche di neve,
sognavo rumorose città orientali e prodigiosi spostamenti su fatiscenti
autobus. Osservavo con distacco la mia vita sulla Strada mentre si affiancava al
camminare del Mondo, in punta di piedi…….pensavo ai miei fratelli Vagabondi
d’America, sprangati dalla polizia in qualche stato puritano dell’est, al
freddo che sentivano e al calore che si trasmettevano rinserrati su qualche
vagone ferroviario………..
Quella notte ero l’unico essere esistente sulla Terra.
Dove era finito l’Uomo!!!
In quella scalinata mi aggrappavo a me stesso per fugare la
paura, volevo salvarmi dalla distruzione…………..e mi abbracciavo.
Non ero io a fuggire dal Mondo, erano gli altri che
fuggivano da me.
La mia Sicilia, le mie certezze, in quelle notti mi
turbinavano dentro. Pensavo agli amici, all’Amore che ci scambiavamo…..se
era sincero o se era un semplice rito da recitare per mantenere alto il
gradimento di una morale borghese.
Intanto mi trovavo a Roma a vivere la mia avventura e a
toccare con tutto il mio corpo il mio sogno. Scivolavo nella notte senza
aspettare il giorno. Sapevo che sarebbe arrivata la luce da fuori e che si
sarebbe aggiunta alla mia luminosità, sapevo anche che la mia luce sarebbe
servita solo a me, difficilmente avrebbe scardinato la patina di buio che
avvolge la società.
Desiderando di
correre…
…non sento altro
che la corsa.
La libertà
raggiunta….si ferma e si annulla.
Desiderando di
contino…
…mi sento vivere.
Non si può essere se
non si desidera.
Desiderando
qualcosa…
…diventa inutile
quando la si possiede.
E’ bello
conoscere…e mai poter sapere.
(1981)
La pace della notte dà sempre buoni consigli. La mattina
seguente, infatti, in tanti si trovavano già lontani da quel luogo. Non si sa
come e perché, ma, appena il sole inizia ad alzarsi, si è già con lo zaino in
spalla a ciondolare verso altre mete.
Questo ricambio avveniva continuamente, e regolarmente la
nostra piazza si colorava sempre di nuovi elementi.
La caratteristica di un luogo non viene segnata solo dalle
opere artistiche che vi risiedono stabilmente, ma è questo continuo ricambio di
gente e di energie che dipinge sempre di nuovo la sua Bellezza. Un negozio di
fiori inebria di olezzi delicati l’intera piazza, un ragazzo in un angolo,
mentre esegue la propria musica, colma di delicata armonia l’atmosfera del
luogo.
Tutto ciò che scorre
alla fine lascia sempre qualcosa di sé.
Colora di infinite
sensazioni l’attimo e da quell’attimo esplode l’Assoluto.
Senza di Esso nulla
esiste……grazie ad Esso il divenire rimane Assoluto.
Non fugge via come
sembra……………
Gli zaini accatastati in un angolo coloravano di mondo la
scalinata. Ognuno conteneva una vita. Portavano speranze, sogni, sofferenze,
felicità, amori……rabbia, tristezza, delusioni, amarezze……zaini
intrepidi, muti testimoni di avventure estreme, folgoranti, pesanti e
nostalgici………zaini pieni di cianfrusaglie, di storie personali, di
impavide avventure lungo le strade…………..
Ancora non possedevo un mio zaino. Avevo acquistato solo
qualche indumento intimo in una bancarella e nient’altro. La leggera coperta,
raccattata sotto il ponte, la tenevo al sicuro dentro una busta di plastica che
accuratamente durante il giorno nascondevo aldilà di un muretto. Ancora usavo
strati di cartone per isolarmi dal freddo e non pensavo affatto di cambiare la
mia condizione.
L’igiene intima trascendeva le normali regole sociali.
Usavo l’acqua di giorno per rinfrescarmi il viso e di notte ci immergevamo
nelle sontuose vasche romane per sciacquarci le parti nascoste.
Non pensavo ancora al rientro a casa, tenevo già Firenze
stampata nel mio cuore come la prossima meta da dove arrivavano notizie di
piazze brulicanti di Beatnik e di Vagabondi.
L’alluvione del ’66 aveva creato un clima così caldo
di solidarietà che sembrava vivere in una Comune allargata. Mi raccontavano che
il vagabondo veniva accolto con grande apertura mentale e racimolare qualcosa
per mangiare era molto facile e poi la polizia era molto
tollerante……….bastava solo rimettermi sulla Strada per dare piedi a
quest’altro sogno.
La Strada era sempre lì, mi aspettava e non rischiava di
annoiarsi durante l’attesa. Dovevo prendere solamente la decisione………
……..la
Strada!!........cambia continuamente.
Il colore emergente
è il grigio scuro, a volte si colora di grigio chiaro, altre volte assume il
colore della sabbia…..diventa persino bianca, una lunga striscia di ghiaccio,
poi diventa color fango….ma è sempre la Strada.
Viene usata da tutti
per spostarsi………….
………………per
noi vagabondi è UN MIRACOLO.
L’amiamo come
nessun altra cosa e combattiamo contro quel potere che cerca di limitarne su di
Essa il libero movimento.
Le barriere non
bloccano il Vagabondo, Lo rendono triste..….limitato.
Le frontiere non
sanciscono nulla.
Lui è
Libero…..ovunque.
Anche se viene
bloccato…..riprende la Strada di prima, ed è sempre in cammino.
L’alba tra i palazzi romani tinge di rosso solo i tetti
delle più alte costruzioni. Le piazze e dopo le viuzze vivono questo rossore
solo di riflesso. Non riescono a colorarsi pienamente, aspettano più luce per
brillare di luce propria.
Un Vagabondo non
chiude mai gli occhi.
Assiste inebetito al
travaso della luce nel buio e del buio nella luce…distaccato.
Un distacco
contemplativo…….mistico.
Un Vagabondo non
aspetta la luce….e nemmeno il buio.
………….vive
semplicemente.
Quelle due notti mi servirono da base di lancio.
Conobbi due “grandi anime” che mi custodirono, mi
nutrirono e mi istruirono per l’intero mio soggiorno a Roma.
Quando, tempo dopo, scomparirono perché risucchiati dalla
“legge”, soffrii moltissimo. Non rimasi nemmeno un giorno in più in quella
città e ripresi a vagabondare partendo per Firenze.
Furono agguantati mentre facevano le loro abluzioni
mattutine in una delle antiche fontane romane, messi dentro e puniti per aver
infranto la legge.
Quei due miei primi Maestri erano entrati nella mia vita
come un fulmine, stravolgendomi dentro e sollevandomi fisicamente a rango di
“vero Vagabondo”.
Franco era di Milano e Mario di Genova, due vagabondi
prodigiosi nel vagabondare e affascinanti per il modo come affrontavano la
giornata.
Per intere settimane rifocillarono tutti
i vagabondi di Piazza di Spagna.
Il sole era già alto quando, da sotto diversi strati di
cartone, sprizzarono allo scoperto le mani e i piedi di un corpo raggomitolato
su se stesso. Cercava di liberarsi dal
freddo della notte stirando le membra e lanciando nell’etere sonore
imprecazioni, tipiche manifestazioni di un polentone milanese disturbato nel
meglio del sonno.
Nella bestemmia Franco esprimeva tutto sé stesso. A parte
le tante qualità che possedeva, nel nostro mondo divenne famoso per
l’intensità e la potenza con la quale riempiva l’etere con le sue
bestemmie. Le recitava come fossero un mantra, e dagli alti e bassi dei toni, di
volta in volta, trascinava sulla terra le divinità corrispondenti verso le
quali le indirizzava.
Un grande bestemmiatore, forse per abitudine o forse perché
sentiva il bisogno di avere un interlocutore continuo disposto ad ascoltarlo in
ogni momento della giornata……fatto sta che, nella nostra piazza, non passava
un minuto senza sentire risuonare l’eco di qualche sua imprecazione.
Era un relitto della contestazione studentesca milanese
ancora in stato nascente. Da subito si era posto in posizione critica perché
aveva intuito l’interesse morboso che nutrivano su di esso i vari partiti
della sinistra………abbandonando tutto e scendendo giù a Roma a vivere la
Sua lunga esperienza di Vagabondaggio.
Da qualche mese si muoveva in questo mondo ed era
diventato, suo malgrado, uno dei più famosi vagabondi di Piazza di Spagna.
Decideva ed agiva da leader. Personaggio di grande cultura,
incline all’ironia e con un cuore immenso. Sempre pronto a difendere il più
debole e a mettersi in prima linea quando ci si doveva confrontare con la
polizia. Questo Suo carattere gli costò diversi giorni di gattabuia fino a
quando, improvvisamente, non si seppe più nulla di Lui.
Non soffriva gli sguardi pietosi della gente. E’ stata
una sua scelta vivere quest’avventura e nessuno doveva commiserarlo per come
al momento viveva.
Per la grande Dignità con la quale chiedeva denaro
incuteva timore e la gente si sentiva obbligata a darGli qualcosa. I suoi
atteggiamenti così sicuri e liberi mettevano in imbarazzo. Non sembrava un
“vagabondo”, sembrava più un intellettuale con i suoi occhialini rotondi
pronto a fare una lezione sulla “vita da vagabondo”.
Per diversi giorni dipesi da Lui. Non voleva che andassi a
chiedere denaro, pensava a tutto
Lui.
Vi era anche Mario, genovese dalla statura immensa, che
insieme formavano una coppia insostenibile. Quando si spostavano insieme la
questua era assicurata e abbondante. Divenni il loro pupillo. Avevano qualche
anno più di me, ma dimostravano esperienze innumerevoli e capacità
eccezionali.
Spesse notte uscivano da soli per poi rientrare alle prime
luci dell’alba. Nessuno sapeva cosa facessero e dove fossero
stati……..ritornavano sempre carichi di soldi e con scatole piene di dolci.
Seppi anche di concitate corse con la polizia e di lunghe
ore distesi sotto le macchine per non farsi notare. Verso la fine della mia
avventura romana, prima che scomparissero del tutto, mi parlarono di piccoli
furti in tabaccherie dove entrare furtivamente in piena notte era un gioco da
ragazzi.
Alla fine tentai di aggregarmi a loro perchè mi sentivo di
peso, però non vollero mai. Vollero tenermi sempre in disparte da quelle
acrobazie notturne.
Mentre si strofinava gli occhi con una mano, con l’altra cercava di
prendere da dentro le scarpe gli occhiali. Non vedeva ad un palmo dal naso,
senza di essi non riusciva a spostarsi nemmeno di un metro.
-
Di dove sei!!! mi chiese,
-
Siciliano
Simultaneamente la mia timidezza mi coprì il viso di quel
solito rossore che già conoscevo.
-
E tu!!
-
Milano…..andiamo a prendere un latte!
Scosse gli ultimi strati di cartone che lo coprivano e
prese nuovamente possesso di quella scalinata.
-
Aspetta un momento quando vedo se posso recuperare qualche lira, risposi.
-
Non ci pensare…..ho piene le tasche di spiccioli e possiamo benissimo
usarli.
Qualche gradino e subito ci trovammo al bar a consumare una
sontuosa colazione.
-
Da molto che stai a Roma!
-
Lo sai……….come ti chiami!
-
Nuccio.
-
Lo sai Nuccio, chiedimi qualunque cosa, ma non chiedermi mai da quanto
tempo mi trovo in un posto. Non riesco a rispondere liberamente sul tempo
trascorso, e poi…..è meglio non ricordarsi da quanto tempo si è liberi. Quel
poco spazio di libertà che abbiamo non ci è stato regalato da nessuno, abbiamo
sicuramente, ognuno, sofferto e lottato per ottenerlo.
Chiedimi
chi sono, se sono vivo, se amo, se mi sento me stesso…..
-
Come mai ancora non hai trovato un luogo migliore in cui dormire?
-
Vedrai stasera di quanta estrosità sono fatti i vagabondi. Per noi non
esiste ostacolo. Al momento, se lo vogliamo, siamo capaci di andare oltre
qualunque ostacolo. Riempiamo completamente il momento presente e da esso
traiamo quel bello che altri non vedono. Altri momenti invece ci abbandoniamo
rovinosamente in una apatia imbelle priva di alcuna reazione…..un vagabondo è
anche questo.
-
Ti credo………..come ti chiami!
-
Francesco………..ma chiamami Franco.
-
Hai ragione Franco, lamentarci di ciò che abbiamo al momento è come
rinnegare le scelte che noi stessi abbiamo fatto………
-
Ma che cazzo dici……perché non dovrei lamentarmi della mia situazione
quando al momento mi trovo con tutte le ossa rotte! Io mi lamento, protesto…le
mie ossa gridano dolore, la mia rabbia strilla, però, tu giustamente dici….ma
se l’abbiamo voluta noi questa situazione!! Si…si, però è una situazione
coatta, indotta da uno stato di fatto infelice che viviamo in questa società liberticida…….
L’energica personalità di Franco da quelle poche parole
iniziava già a scandirsi con netta definizione emergendo su tutti gli altri.
Prometteva notti comode su caldi materassi in gommapiuma. Speravamo in Lui per
spostarci da quel luogo pieno di insidie e di tristi presagi, in uno spazio più
protetto e più caldo.
Gli altri stavano per svegliarsi proprio in quei momenti.
Dai loro stiracchiamenti e dal gonfiore del loro visi, si intuiva come avevano
trascorso la notte. Qualcuno ritardava più degli altri prima di rimettersi in
piedi, era stanco o non aveva ancora alcuna prospettiva definita nella mente
sulla giornata che stava per iniziare. Non volevano assolutamente scostarsi,
intanto gli spazzini comunali, come tutte le mattine, non solo spazzavano dal
lerciume quella scalinata, ma la inondavano con un getto d’acqua violento in
modo da togliere il grasso che vi si era depositato il giorno prima. Dovevamo
per forza spostarci da quel luogo, almeno per qualche ora.
-
Cosa fai oggi!?
-
Preferisco rintanarmi in questa scalinata perché non ho voglia di girare
tra i palazzi romani. Non riescono a stimolarmi nulla. Sono solo fredde sculture
in cemento dove vi si rifugia l’Uomo illudendosi che tra quelle quattro mura
un giorno, forse, ritroverà sé stesso e parte della Libertà
perduta…………….ma tu sai che è solo un sogno. Sai che la Libertà non
è qualcosa da cercare o da ritrovare, sai che nel continuo cercare
difficilmente trovi ciò che veramente desideri…sono le solite frasi ad
effetto che abbiamo imparato a memoria e che non portano a nulla. La Libertà,
caro Nuccio, non la si deve cercare perché in questo modo legittimi il Suo
diretto contrario, la Libertà si vive…….si gusta e ci si perde dentro il
momento presente, perché è li che Essa risiede.
-
……….allora non senti proprio il bisogno di conoscer qualcosa di
Roma? Vi dormiamo da diversi giorni ma ancora non conosciamo nulla….nemmeno il
Vaticano….
-
Quel luogo è meglio non conoscerlo, anzi più lontani vi stiamo e meglio
è. Vi risiede il Papa e tutte le Sue ricchezze. Vi si muovono intorno suadenti
arpie che con i loro canti cercano di imbrigliare le libere Coscienze della
gente……..è meglio sognare altri siti in cui soffermarsi per fare il
turista.
-
…………e quella felicità celeste che offre indistintamente a
tutti………basta essere moralmente bigotti e socialmente altolocati?!
-
………non ne ho proprio bisogno. Sto bene così.
Il decadere
dei discorsi ci spingeva istintivamente ad alzarci. Volevamo interromperli
subito perché sapevamo a priori verso quale malessere interiore ci avrebbero
spinti.
Eravamo andati tutti via da casa con rabbia, con un forte
sdegno verso questa società……..nel tempo però, questa collera rabbiosa, a
contatto con la nostra nuova condizione, lentamente stava divenendo amarezza,
senso di apatia cosciente che tende più al rifiuto che all’accettazione.
Sentivo qualcosa avanzarmi dentro, spingermi all’emarginazione, ad escludermi
coscientemente da quella società così farisea e fortemente razzista. Già sin
d’allora ero consapevole che un mio allontanamento da questo mondo avrebbe
contribuito, seppure indirettamente, al mantenimento delle sue sozzure. Li avrei
sostenute pur non condividendole e allevate dentro di me fino ad esplodermi
dentro………………era quello il mondo in cui vivevo, ed era lì che dovevo
apportare il cambiamento, la rinascita, e non potevo allontanarmi per
contestarlo da fuori.
-
Lo sai Franco che hai ragione!! Smettiamo di parlare di queste
stupidaggini e diamo conto al nostro stomaco che inizia a borbottare……
-
….dividiamoci per mezz’ora lungo le strade per racimolare qualcosa
per mangiare e mandiamo a quel paese questi nostalgici pensieri.
Chiedere qualcosa mi era diventata, in quel periodo, un
azione congeniale. Mi sentivo felice di farlo perchè sapevo che grazie a
quell’azione si sarebbe prolungata la mia permanenza in quella piazza.
Osservando gli altri e ammirando la mia intraprendenza
nell’accattonaggio, affinai nel tempo delle tecniche particolari da impiegare,
sempre in modo diverso, ogni qual volta si presentava un soggetto nuovo.
L’esperienza in quest’arte, nella storia dell’Uomo,
ha permesso a milioni di beatnik o di viandanti di “vivere il Mondo” senza
fermarsi di fronte a nessun ostacolo. La diversità dei vagabondi, la loro
Conoscenza, la loro sensibilità e l’Amore che hanno per se stessi ha dato più
o meno lustro a quest’arte.
Viverla con Dignità ne gratifica l’essenza e
la rende decorosa di fronte alla propria coscienza.
L’arte si ingentilisce quando la si vive intensamente,
non come un semplice gesto dal quale si vuole ricavare qualcosa, ma come un
esigenza dell’anima che coinvolge l’intero corpo.
Cercai di personalizzarmi un mio metodo, ed in effetti i
risultati furono più che soddisfacenti. Non mi fermavo di fronte a nessuno. Li
consideravo miei potenziali clienti dai quali trarre il mio sostentamento.
Ancora prima di avvicinarmi, dentro di me, li ringraziavo e li abbracciavo a
prescindere. Sapevo che quell’atteggiamento interiore mi avrebbe facilitato
l’operazione. Vedevo il mio cliente non come un pollo da spennare ma una cara
persona da ringraziare, oltretutto, per essersi messo sulla mia strada.
Credere al “caso” fortuito, capitato lì per miracolo,
già fin d’allora sentivo una certa avversione. Non mi abbandonavo liberamente
a quel concetto superficiale che raggruppava molti degli eventi della vita sotto
l’emblema della casualità. Pensavo ad un programma, ad un cammino costruito
da tempo dove i partecipanti principali ed esclusivi saremmo stati noi. Noi che
inter agiamo con l’intero Mondo………Noi che già abbiamo implicito il
percorso sul quale camminare per
ritornare nel luogo dal quale siamo partiti……….Noi che non ci siamo mai
impediti di camminare ed illusoriamente crediamo che forse un giorno arriveremo,
senza sapere che già la meta ci vive accanto da tempo.
Prima di partire alla carica osservavo il viso dei miei
potenziali sostenitori………se era meravigliato, infastidito, annoiato,
pietoso, sprezzante, gioioso, amorevole…….quante più sensazioni gli leggevo
nel suo corpo e meglio era per me. Sarei andato a colpo sicuro adottando la
strategia giusta.
Ad Amsterdam, solo due anni dopo, stavamo seduti in tre in
piazza Dam dietro ad un cartello trilingue, italiano, francese e inglese, dove
vi era scritto che eravamo semplici studenti in giro per l’Europa. Con noi vi
era un tedesco con il suo flauto a deliziare la curiosità del passante e,
miracolosamente, una pioggia di denaro scendeva ai nostri piedi. Tempi gloriosi.
Col tempo su quella scalinata l’arte del chiedere subiva
continui ritocchi. Ognuno apportava miglioramenti funzionali alle proprie esperienze.
Si scrutava “l’oggetto” animato che si doveva
abbordare e si cercava di rubargli una fugace occhiata. Quel breve incrocio di
sguardi smorzava le ritrosie interiori e come per incanto, allungando la mano,
ottenevi sempre qualcosa. Con quelli invece che non si riusciva ad intercettare
lo sguardo, difficilmente si otteneva qualcosa, a quel punto era meglio
rinunciare.
Tutto questo travaso di sguardi e di sensazioni avveniva in
pochi secondi.
Ognuno di noi si era preparato nella propria mente, in
relazione al personaggio da abbordare, dei piani d’attacco…………..ed era
veramente una pacchia.
Se era giovane e un po’ beat bastava avvicinarlo con un
semplice “ciao”, dargli il “tu” per trasmettergli la nostra
“vicinanza”, e quasi sempre si riusciva nell’intento.
Se era giovane e un po’ borghese….avvicinarlo sempre
con il solito “ciao” dandogli il solito “tu” seguito dalla fatidica
parolina “per piacere” in modo che permane la vicinanza però rimane anche
un po’ di distacco per fargli sentire la nostra inferiorità…..risultato
quasi sempre assicurato. Costoro si sentono gli unici preordinati capaci di
stimolare il cambiamento della società, a noi bastava allora farglielo credere
e tutto era fatto.
Se era una giovane signora di belle avvenenze…..mi scusi
potrebbe darmi qualcosa!! Il risultato dipendeva dall’intensità e dal modo
come si guardava negli occhi. Avevano bisogno di “riconoscimenti”, e noi con
i nostri sguardi di apprezzamento stimolavamo queste sensazioni.
Se era una vecchietta un po’ trascurata…….signora mi
scusi, può darmi qualcosa…è da tanto che non mangio ed ho tanta fame.
Risultato assicurato.
Se era un uomo di mezza età bisognava avvicinarlo invece
quando era con la famiglia…….mi scusi, potrebbe aiutarmi in questa mia
avventura!!?
Tecniche approntate sul momento ma efficacissime. Bastava
renderle elastiche e praticamente l’effetto desiderato era
assicurato………..e poi vi era sempre l’attrazione personale ad attrarre
l’attenzione del passante. Bastava strimpellare qualcosa su uno strumento
musicale, bastava leggere a voce alta la Divina Commedia, bastava mimare qualche
scenetta senza senso, bastava raccogliere bottiglie di vetro abbandonate e
portarle in salumeria………ad Amsterdam vivemmo diverse settimane
raccogliendo e rubando da dentro i bar qualunque contenitore di
vetro……….allora chiedere sussidi alle ambasciate italiane all’estero era
molto di moda e nessuno dei vagabondi incontrati aveva rinunciato a questa fonte
di sopravvivenza sicura. Lo feci a Rawalpindi, a Kabul, a Bombay e a New Delhi,
a Malta, a Tunisi e in Polonia……
Qualcuno andava anche a chiedere sussidi nelle ambasciate
straniere e quasi sempre vi riusciva, si cercavano cantieri di lavoro italiani
all’estero per avvicinarli e chiedere un aiuto. A Tunisi mi avvicinai in un
circo equestre italiano e ottenni qualche aiuto……era sempre il desiderio di
andare avanti, di calpestare questa nostra Terra a farci immaginare una vita
serena, libera e piena di cose belle.
Un mio grande amico e Maestro di vagabondaggio, Attilio
Angelo Aleotti, mi istruì a Monaco, nel 1971, sull’arte del mangiare
deambulando.
Entri in un super mercato, con dignità prendi un
quadratino di cioccolato e lo sciogli in bocca…….una banana, la sbucci, e la
gusti con il sorriso sulle labbra…….un formaggino della “vacca che
ride”, lo scarti e con delicatezza lo ingerisci……un panino e lo mastichi
con distacco…..alla fine apri una bottiglia di acqua frizzante, o un birra, e
la fai scendere con gioia lungo il palato. Una degustazione “itinerante” non
può essere punita, al massimo possono gentilmente consigliarci di uscire
fuori……..e noi lo facevamo con passi sicuri e dignitosi.
In un Suo libro, discusso come tesi durante la laurea,
Attilio asseriva che anche i medici consigliano di mangiare in movimento. E’
l’unica terapia che stimola la digestione e
permette, se lo si vuole, di risparmiare un mare di soldi.
Nel ’70 a Mons, con Pino Pesce, dopo aver attraversato più
di mezza Europa in autostop, ci trovammo in uno di quei capannoni che usano i
Testimoni di Geova per rinverdire il loro credo. Siamo stati accolti come quel
“figlio prodigo“ che si è smarrito sulla strada del risveglio da sfamare e
da aiutare. Erano tutti emigrati italiani quindi ci hanno coccolati con grande
gioia e per diversi giorni siamo stati loro ospiti.
In quegli anni gloriosi la questua per sopravvivere era
veramente un itinerario sul quale camminare a testa alta. L’unica possibilità
che avevamo per viaggiare e per conoscere il nostro Pianeta era l’incedere su
questa strada ovunque ci trovavamo.
La mia famiglia non poteva sostenermi economicamente in
queste avventure, bisognava inventarsi qualcosa, essere intraprendenti e
“faccia tosta”, come si dice da noi. Io, per natura e per via della mia
balbuzie, difficilmente mi abbandonavo a comportamenti da “faccia tosta”,
eppure pur di vagabondare
strattonavo la mia Coscienza assoggettandola alle esigenze del momento.
Non perdevo occasione per “appropriarmi giustamente” di
qualcosa di solido che sarebbe servito al mio sostentamento. Qualche volta
dormimmo in ostelli senza pagare, dando generalità fasulle, salendo su autobus
o su treni senza biglietto, sfruttando qualunque mezzo di comunicazione
aleatorio pur di non pagare….in Perù, e in buona parte del Sud America, ci siamo spacciati per studenti mostrando attestati
universitari scaduti da anni, anche in oriente, specialmente in India, abbiamo
avuto accesso in musei o su aerei esibendo tessere per studenti fuori
corso…….insomma una vita continua alla ricerca di risparmiare qualche somma
di denaro pur di continuare la nostra avventura.
Orgogliosi lo siamo sicuramente.
Mi sento felice di aver viaggiato in questo modo, e se
posso ancora oggi continuo a farlo, soprattutto quando si tratta di sfruttare
l’assurda presenza del potere. La sua prepotenza è irrispettosa, non guarda
in faccia nessuno, specialmente quando sa di aver da fare con individui deboli,
indifesi, affina le proprie armi e la sua forza diventa veramente opprimente e
devastante. Solo col potente
di turno, il prepotente occasionale si ridimensiona un po’, ma solamente perché
ha capito che grazie a quel potente l’essenza stessa del “potere” trova
legittimazione e continuità.
Ci rivediamo dopo un ora sulla scalinata e pervasi da una
gioia interiore ci avviamo a tramutare quel “vile denaro” in cibo per il
Corpo e per lo Spirito.
Intanto il trascorrere del tempo cadenzava la mia permanenza a
Roma.
Non avevo notizie dei miei genitori
da giorni, e loro, sicuramente, soffrivano per questo mio silenzio. A
volte mi ritmava nella mente lo scandire dei passi nella piazza del mio paese.
Sentivo quelli di mio padre, possenti e autoritari mentre aspettava l’arrivo
del prossimo autobus sperando di vedermi scendere.
Ero cresciuto nella piazza, in essa avevo vissuto momenti
di gloria e momenti di tristezza. Essa rullava tutto ciò che le si metteva
contro, emetteva un proprio suono fatto di falsi moralismi e di poteri
consolidati nel tempo. Vi erano tutte le sedi dei partiti politici, le varie
associazioni rionali, lì si fermava il fercolo con la Santa da festeggiare con
accanto il prete e i potenti del paese……..la piazza non lasciava spazio al
“diverso”, lo rimbrottava con urli grondanti di un gretto conservatorismo o
lo confondeva con un silenzio tonante.
Il vociare del paese è molto assordante, specialmente
rimbomba con più rumore nelle orecchie e nella psiche
di chi a queste voci da un importanza vitale. Mio padre era uno di
questi. Non riusciva a liberarsi da questa cappa opprimente.
“La piazza è il polso del paese, diceva, essa crea
mostri o santi con grande superficialità…….dobbiamo vivere in silenzio
senza andare oltre quel “già consolidato” e accettare le regole senza
protestare in modo da rimanere a distanza dai giudizi della piazza”.
Quella sera Franco mantenne la promessa. Ci condusse tutti
nel luogo vagheggiato dove poter dormire in comodi letti sicuri e caldi. Si
doveva solamente percorrere qualche chilometro di strada, ma era tutto così
bello, ovattato, odorava addirittura di casa, che rinunciarvi era da
incoscienti, difatti vi dormimmo per più di una settimana, fino a quando la
solita polizia non venne a cacciarci via.
Era il luogo dove venivano depositati i treni in disuso o
in via di manutenzione. Le carrozze erano veramente tante ed in parte erano già
occupate da altri vagabondi, noi eravamo gli ultimi arrivati, ma non ci
scoraggiammo perché ci siamo subito sentiti a casa. Mancava solo la luce e
l’acqua corrente, il resto sembrava disposto tutto per noi. Ci stavano
aspettando comodi letti viaggianti, due per stanza, pronti ad accoglierci e
dondolarci con quel senso di movimento connaturato in un vagone ferroviario.
Mi ricordo che sognai quasi tutte le notti.
Ad occhi aperti ammiravo l’andirivieni di paesaggi
affascinanti, cullato dallo sferragliare di un treno che sapevo mi stava
portando lontano.
Chilometri e chilometri di spazi vuoti venivano bucati dal
mio treno e man mano che li attraversava li riempiva e li colorava dei luoghi
verso i quali sognavo di andare. Un viaggio da sballo tra interi branchi di
Hobos assetati di Libertà, avvinghiati agli assali dei treni che rischiavano la
vita pur di vivere all’aria pulita.
Un sogno itinerante, che trascinava e disintegrava interi
agglomerati di emozioni accatastate dentro di me che non mi
lasciavano respirare.
Ci guardammo intorno, emozionati e felici del bel regalo
che ci aveva fatto Franco.
Entravamo da una fessura praticata nel muro di recinzione.
Qualcuno prima di noi aveva provveduto ad allargarla e a mimetizzarla con pezzi
di mattoni amovibili. Guardinghi scivolavamo dentro e con passi felpati da
pantera rosa, tutte le sere, sceglievamo ognuno il proprio vagone per prendere
possesso delle proprie stanze.
-
Franco…come hai scovato questo posto!
-
Fregatene, dormi, sballati e non pensare a nulla. Ringrazia la fortuna e
vivi intensamente il momento presente.
Aveva come sempre ragione e nelle sue parole trovavamo
tanta saggezza.
A differenza dei mitici Hobos americani tanto decantati nel
libro di Jack London “La strada” che vivevano pericolosamente sui treni la
loro vita, noi, grazie alla nostra buona stella, usavamo quegli stessi treni per
riposarci e per vivere favolosi viaggi virtuali.
Non cercavano comodità, per Essi l’importante era
“muoversi” e sentire l’ebbrezza del vento sul proprio corpo.
Ubriacarsi di
piacere, di sottigliezze incantate………
inebriarsi di esili
passioni represse, di impalpabili certezze…….
stregati dal sorriso
di un cuore rinato, di sicurezze espugnate……………
volevano
semplicemente essere lasciati in pace di vivere la loro vita, anche nelle
situazioni estreme, di grande instabilità……….
volevano Pace.
Correre col vento
raggelante della notte
Correre col caldo
asfissiante del deserto
Col pericolo che
incombe sulle spalle
Una morte violenta da
mazza di sbirro
Una morte sospinta
sotto una ruota
(1981)
Intanto il gruppo di vagabondi con il quale mi ritrovavo
durante la giornata cercava di costruirsi momenti di amicizia in cui condividere
esperienze di vagabondaggio e storie di vita personali. Il mondo dal quale
provenivo, quello di un piccolo comune siciliano, mi aveva abituato a vivere i
rapporti umani, specialmente tra amicizie giovanili, in modo completo.
Sconoscevamo la malizia, e la condivisione, anche delle piccole storie sessuali
vissute in comune, era veramente la nostra forza.
Mi ricordo quando per giorni interi Franco scompariva.
Nessuno si meravigliava e nessuno chiedeva in giro sue notizie. Al suo ritorno
sembrava tutto normale, rientrava nel gruppo a riprendere la sua immagine da
leader e nessuno gli chiedeva dove fosse stato.
L’Amicizia non impone obblighi come non è soggetta a
regole da rispettare. E’ nella Libertà che Essa trova la massima espressione.
Deve esploderci dentro come un filo d’erba
in un piazzale di cemento quando con Gioia sfrutta la minima crepa per
svettarsi verso la Luce.
Quante volte sotto quel ponte un semplice sorriso è
servito a riaccendere la speranza…….e quante volte siamo stati felici quando
qualcuno decideva di ritornare a casa. Non mi sono mai sentito solo. Nel
silenzio intorno ho sempre avvertito un calore rinfrescante.
I vagoni che ci ospitavano rimasero fermi per tutto il
periodo del nostro soggiorno. Tutte le notti, durante il tragitto, ci fermavamo
a comprare delle fette di anguria rosse molto rinfrescanti. A volte ci fermavamo
a Piazza della Repubblica per assistere, da lontano, a piccoli concerti
organizzati dai gestori dei bar per i propri clienti.
Un momento di quiete in quella Roma così rumorosa.
Prendevamo qualcosa da mangiare di fronte la stazione
Termini e spesse volte mi ritrovai da solo ad aspettare l’arrivo di un treno
proveniente da Catania, più per nostalgia che per curiosità.
Sentivo la mancanza del mio dialetto. La presenza di un
siciliano a Roma a quei tempi era sempre una nota di novità. Ci siamo sempre
spostati più per lavoro che per viaggi di piacere. Il continuo bisogno di
lavoro ha segnato l’essenza del meridionale, lo ha ricoperto di una patina di
nostalgia che difficilmente potrà liberarsene.
Invogliavamo gli altri a visitare i nostri alloggi, a
sentirsi a casa loro e a ringraziare, una volta tanto, il nostro Stato
benefattore.
In poco tempo quel luogo si riempì di vagabondi. La
pacchia non durò molto.
Il clamore di felicità che pervase l’intera comunità
beatnik fu talmente rumoroso che incuriosì le forze della legge.
Presero informazioni e al momento opportuno ci fecero
sloggiare riproponendoci la loro forza e la loro autorità. Stavolta però non
fuggimmo, sapevamo che al massimo ci avrebbero preso i connotati sul luogo e poi
lasciati andare.
Sfruttammo gli ultimi residui di gioia dato che presto si
sarebbe ripresentata la solita fastidiosa ricerca di un nuovo luogo dove
dormire.
Intanto la vita continuava alla grande.
Ci spostavamo in piccoli gruppi per evitare i pericoli
dovuti alle orde dei nazionalisti nostrani che in quel periodo impazzavano per
le strade di Roma. Da via Condotti a Piazza Navona o gironzolando verso Fontana
Di Trevi, via del Corso verso Montecitorio…..in queste zone spaziava il nostro raggio d’azione.
Una delle esperienze più curiose e per certi versi tristi
che mi ricordo ci capitò mentre giravamo per Roma in una delle solite vie
invase da turisti, fu l’aver avuto un rapporto ravvicinato con una famiglia di
messicani, in particolar modo con la moglie la quale, anziché ammirare le
bellezze artistiche della città osservava allibita le fattezze fisiche del
nostro Mario. Si spinse con insistenza con i propri occhi verso la cerniera dei
suoi pantaloni immaginandosi chissà quale furioso rapporto. Improvvisamente si
mise a gridare indicando col dito il basso ventre di Mario, colpita da un grosso
rigonfiamento proprio nelle zone dove risiede il pene.
Mario evidentemente in quel preciso istante lo stava
stimolando con il pensiero facendolo rigonfiare in misura anormale. Quanto di più
naturale possibile.
Il clamore divampò quando l’ingrossamento del membro,
grazie ad un paio di pantaloni molto succinti, si manifestò in tutta la sua
irruenza anche all’esterno.
Quel rigonfiamento non sfuggì agli occhi assatanati di
quella messicana.
Gridava così forte da richiamare l’attenzione della
gente e specialmente del marito che, sbigottito anche lui, fece un salto
indietro ed indicò anche lui lo spropositato ispessimento del pene di Mario. Un
vigile si fece largo tra di noi ed anche lui, incuriosito, ammirò sbigottito
l’oggetto del contendere. Non riuscì a trattenersi dal ridere e nello stesso
tempo mostrare la faccia seria della legge.
Mario tentò di spiegare che la dilatazione spropositata
del pene era dovuta ai pantaloni attillati e alla pressione che esercitavano sul
membro………la messicana, nel frattempo, aveva smesso di gridare però
rimaneva scossa dal furente giavellotto che ancora sprizzava con prepotenza la
propria forza.
Ci allontanammo sconsolati dalla scena e mogi mogi,
cercando di nascondere la tristezza che ci era caduta addosso, guadagnammo
quanta più distanza possibile da quel luogo.
Continuammo a scendere per via Condotti verso piazza Navona
in silenzio come se volessimo lavare l’onta subita. Mi ricordo che ci siamo
bagnati nella fontana centrale denudandoci completamente. A quell’ora tarda
non vi era la legge a controllare e ne libidinosi occhi di messicane assatanate
a gridare per la visione dei numerosi membri italiani che a quell’ora di notte si trastullavano
nelle acque della fontana del Nettuno. Scaricammo la nostra amarezza dentro
l’acqua, vi sguazzammo in piena consapevolezza inneggiando un inno alla Libertà.
Era come mondarsi di una sensazione di sporco che ricopriva la nostra anima.
Oggi mi viene semplicemente da ridere, ma allora mi sentii
molto triste. Qualcuno di noi pianse per la rabbia, altri si racchiusero nel
loro mondo suggellando l’incontrovertibile distanza che momento dopo momento
ci separava dalla società dei benpensanti.
Sui treni intanto aumentavano i clienti e la contestazione
si tinteggiava di nuove energie. Ognuna emanava una propria vibrazione e
colorava di diversità l’intero convoglio. Passeggeri sprovvisti di biglietti,
non paganti, ogni notte abbandonavano il proprio corpo su quelle comode
poltrone…..e viaggiavano per il resto della notte.
Qualcuno usciva all’alba per evitare di essere scoperto,
altri ci trastullavamo ancora per qualche ora gustandoci l’ebbrezza
rinfrescante di quel luogo.
Le notizie sul mondo e sulle ultime contestazioni giovanili
circolavano di bocca in bocca. Ognuno portava le proprie novità…..chi ci
parlava di grandi colorati raduni beatnik ad Amsterdam a piazza Dam, chi
cominciava a sognare l’India e ce la raccontava traendo ispirazione dal
sentito dire e dalle aspettative vagheggiate dai suoi sogni, chi ci mostrava
Istanbul come porta dell’oriente e come luogo di incontri per scambiarsi
sensazioni e visioni vissute lungo le strade dell’oriente, chi, dal viso
trasognante, si incantava al pensiero di tirarsi qualche spinello alla
marijuana, chi suonava e cantava Joan Baez sognando di cavalcare una
contestazione globale, chi ci parlava di luoghi sicuri in cui dormire nei pressi
di Villa Borghese………ognuno aveva qualcosa da dire. Anche rimanendo in
silenzio la loquacità del messaggio fluiva ininterrottamente…..e tutti
crescevamo in bellezza e fortezza.
Intanto i giorni trascorrevano serenamente. Avevamo
scoperto la questua come mezzo di sussistenza proficuo e sopratutto privo di
rischi. Anziché prendere qualche dolce o qualche mela senza pagare, rischiando
le ire dl proprietario, preferivamo trascorrere qualche ora lungo via Nazionale,
o nei dintorni di Piazza di Spagna, a chiedere qualcosa alla gente. Trovavamo
sempre qualcuno disposto a sostenere la nostra avventura e poi, a volte,
l’opportunità di incontrare qualcuno con il quale scambiare qualche parola
non mancava mai.
L’unica abitudine che rimase in tutti noi era l’idea e
il desiderio di fregare, ovunque se ne presentasse l’occasione, il
ricco……..colui che con disprezzo e freddezza sfrutta l’ingenuità e i
bisogni della povera gente. Ovunque ve ne stesse uno, tentammo quasi sempre di
fregarlo, anche se sapevamo che non era facile.
Fottere un ricco o un potente non è cosa di tutti i
giorni. Sono talmente legati a ciò che possiedono che controllano con mille
occhi. Anche se a volte sembrano gentili o condiscendenti, nella loro mente
rimane sempre l’intento di rubare all’altro per arricchirsi sempre di più.
Triste constatazione, ma purtroppo l’elemento caratterizzante, per costoro,
rimane il potere ed esso, sappiamo, può ottenersi esclusivamente possedendo
grandi somme di denaro così può comprarsi tutto, anche la Libertà della
gente.
Questuando qua e là sorvolavo dall’alto la città
eterna. Scoprivo l’animo della gente e il respiro di una metropoli. Ogni
giorno orde di turisti affamati di conoscenza venivano scaricati dai treni alla
stazione Termini. Io trascorrevo, a giorni alterni, ore intere ad assistere a
tutto questo frenetico andirivieni.
I treni fischiavano, si arrestavano e improvvisamente le
banchine adiacenti si riempivano di moltitudini di corpi felici, stanchi e
confusi.
La grande città stava alle porte, il vuoto generato dalla
“grandiosità” rimpiccioliva le menti e i sogni dei nuovi arrivati.
Io ammiravo tutto questo e mi sentivo “grande”, ormai
padrone della realtà romana. Singoli individui si mischiavano tra il fiume di
gente che si riversava in via Nazionale e si sentivano protetti……uno confuso
con gli altri.
Li individuavo con facilità. Mi ricordavo i miei primi
giorni e la confusa paura che mi strappava il cuore dal petto. Ragazzi indifesi,
traboccanti di sogni, con poche risorse in tasca, si lasciavano spingere dal
flusso di gente……ciondolando a bocca aperta.
Una mattina sentimmo l’odore infestante di due poliziotti
mentre defloravano la nostra oasi. Qualcuno aveva parlato tanto e la voce di
questo paradiso nel centro di Roma era arrivata alle loro orecchie. Stavano
controllando vagone per vagone. Tra poco sarebbero arrivati in quello
nostro…..quindi bisognava sloggiare.
L’ennesima fuga ci costrinse a rimetterci nuovamente
sulla strada alla ricerca di un nuovo spazio in cui dormire in serenità.
Stavolta trovammo un villa abbandonata proprio nei pressi
di villa Borghese, sommersa da alberi secolari e da una fitta vegetazione da
dove poteva ammirarsi dall’alto, senza essere visti, la Roma delle chiese e
dei tetti fino ad arrivare al cupolone. Stava proprio inserita nel parco del
Pincio, proprio sopra piazza del Popolo confusa tra la folta vegetazione che
negli anni l’aveva completamente coperta.
Salendo per la scalinata di Piazza di Spagna, proprio sotto
la chiesa SS. Trinità dei Monti, girando alla sua sinistra subito dopo qualche
decina di metri, bastava saltare il muretto per trovarsi in aperta campagna,
fuori dalla confusione e lontano dai rumori assordanti della città.
Un lieve salto e ci si trovava sulla cima di un albero che
ci permetteva l’accesso in un
luogo sommerso dal verde dentro il quale si snocciolavano viottoli dall’erba
pestata che conducevano alla nostra mitica villa. Vi erano diversi letti in
mattoni sui quali avevamo disteso i nostri sacchi a pelo. La grande porta
rimaneva sempre aperta, qualcuno l’aveva divelta per venderla in qualche
mercatino delle pulci.
Il luogo divenne il centro stanziale per tanti di noi,
difatti potevamo tranquillamente rimanere anche di giorno senza il rischio di
essere disturbati. Si fumava, si discuteva e si progettavano futuri viaggi in
altre piazze d’Europa per incontrare altri vagabondi come noi che vivevano la
vita in completa libertà.
Quell’estate romana, tra spinelli sotto i ponti, tra
fughe precipitose in concorrenza con la polizia, tra comodi viaggianti letti,
tra questue milionarie, sembrava ripagarci per i fastidi continui che avevamo subito.
Nel fitto della vegetazione rimaneva ancora qualche residuo
di furore borghese. Qualche siepe ingentilita da mani esperte, ormai decaduta
nell’antico caos vegetale, sembrava svettare sopra tutte le altre forme
intricate della natura dove l’identità di una singola pianta si era confusa,
o venne soprafatta, con l’irruenza naturale di quel luogo.
Sembrava tutto così intricato, eppure, quell’antico
ordine “anarchico” insito nella bellezza della Natura, prendeva sempre più
spazio. Nessun intervento dell’Uomo, da anni, in quel luogo, è più entrato a
sconvolgerne la Sua armonia. Proprio nel centro di Roma, a cento metri di Piazza
di Spagna, di fronte Villa Borghese e a pochi centinaia di metri da via Condotti
la Natura si inorgogliva liberamente sprizzando odori e colori senza alcun
ritegno. Serviva a deliziare i nostri incontri e ad allietare i nostri lunghi
momenti di silenzio.
Una musica Divina si alzava in cielo, e i nostri passi
stanchi, attenti, consapevoli di calpestare un suolo misterioso, pieno di
storia, spingevano il passo successivo con gentilezza per risvegliarlo alla
presenza mentale e all’Armonia di quel luogo.
Il luogo si riempiva un giorno dopo l’altro. Non potevamo
nasconderlo. La gioia per aver trovato quella lussuosa dimora era incontenibile
e non poteva contenersi. Quella nostra improvvisa serenità, risaltava subito
agli occhi esperti di un vagabondo.
Non eravamo stanchi e morti di sonno. Tutte le mattine
sembravamo essere usciti da una stanza di hotel dove, seppure striminzite, non
mancavano le comodità.
Già sin davanti l’uscio una brezza d’aria romana ci
accarezzava l’intero corpo. Qualcuno, mi ricordo, usciva completamente nudo e
si stiracchiava alla luce prodotta dal sole che, solamente in tarda mattinata,
poteva riscaldarci con i suoi raggi. Uscivamo alla chetichella, specialmente
quando dovevamo salire sull’albero per saltare sul muretto adiacente la
strada. La legge era sempre in agguato e noi in quegli anni, eravamo le loro
prede predilette.
Scendevamo dalla scalinata per andarci a lavare alla
“barcaccia” e poi subito al bar per consumare il primo cappuccino della
giornata. Una buona colazione seguita da una liberatoria pulizia degli intestini
e poi……piano piano, senza dare nell’occhio, rientravamo nelle nostre
stanze.
Roma non è diversa da tutte le altri grandi città del mondo. Sa come
accogliere il vagabondo, ma sa anche come sfrattarlo.
In quei pochi luoghi dove ci incontravamo Roma era ormai
abituata alla nostra presenza, cercava di non interferire nella nostra vita.
Solo quando Roma, in un attimo di orgoglio nazionale, si sentiva “capitale”
era costretta ad intervenire. Non erano le sue borgate ad intromettersi
nella nostra esistenza, esse lasciavano vivere in pace, ma erano i suoi palazzi
ministeriali, i suoi imbellettati borghesi e le sue bigotte e timorate bizzoche
a lucrare sulla nostra presenza.
Ogni tanto speculavano su di noi per mettersi in vista
loro.
Improvvisamente, come se Roma per un momento fosse
attraversata da un ondata di disprezzo verso il “Diverso”, si inorgogliva
della propria romanità e ci vomitava addosso tutto quel marciume che tratteneva
dentro di sé.
Evidentemente la nostra solare “diversità” ogni tanto
li scuoteva dalla loro becera normalità……e ci davano addosso senza pietà.
Non ho mai capito perché la polizia o la legge in genere,
ci lasciava vivere in pace e poi ogni tanto infieriva con odio e violenza su di
noi caricandoci come fossimo degli squadristi attrezzati di elmo e frustino.
Mi riconoscevo diverso, fuori da certe regole, pronto a
difendermi, ove richiesto, anche con i denti, però fondamentalmente mi
consideravo, e mi considero oggi più che mai, una persona “pacifica”, che
non cerca appigli per impiantare plateali proteste.
Vivevo e lasciavo vivere, questo era, allora, il mio motto.
Malgrado tutto la vita sembrava scorrere felicemente,
l’unica controversia l’ebbi con me stesso e con l’altro sesso che,
volutamente, per mia stupidità, dovuta a falsi intellettualismi da piccoli
borghesi, non riuscii ad avere grandi rapporti.
La strada che percorrevo mi poneva fuori da qualunque lotta
sociale o politica. Stavo giorni interi sdraiato su quella scalinata a sognare
il mio futuro e a vivere con distacco il presente. A volte mi rintanavo dietro
un cancelletto che stava proprio in alto, alla fine della scalinata, sul lato
destro salendo, per consumare una pressante sega. Non riuscivo ad avere rapporti
completi con le ragazze. Pur avendone l’opportunità, ed anche il desiderio,
non conclusi nulla. Si era scioccamente inserita tra di noi l’idea di essere
superiori alle brame erotiche, di vivere il sesso con distacco per non decadere,
tra di noi, nelle solite manfrine da spacconi dove chi più “fotte” più
conta.
Pur smaniando per un rapporto sessuale, sceglievo di
masturbarmi anziché declassarmi in semplice borghese che vive solo per il
sesso. Strana teoria, ma allora, mi ricordo, mi obbligai con la volontà a non
cadere in questa trappola. Ebbi diversi rapporti con belle ragazze che
frequentavano il nostro gruppo. Con Claudia, una ragazza di colore romana,
passavamo ore a baciarci e a toccarci, alla fine di concreto non capitava nulla,
l’unica cosa che, ero costretto poi a fare, consisteva nel farmi una sega.
Non volevo perdere, soprattutto agli occhi degli altri
vagabondi, quel mio aspetto di beatnik, figlio di una contestazione globale che
condannava, a priori, qualunque espressione di quella società.
Il sesso senza Amore era da condannare, pensavo, mentre,
plagiato da un orgoglio rinunciatario, dentro di me soffrivo tremendamente.
Disimpegnandomi dal vivere come viveva la società che
condannavo o privandomi delle stesse emozioni che turbavano gli altri, pensavo,
avrei mantenuto integra la mia dignità di vagabondo.
L’infantilismo intellettuale e di appartenenza ha creato
sempre grossi problemi.
Allora credevo di non riconoscermi in nessuno schema,
eppure oggi, a distanza di 40 anni riscontro una mia completa dipendenza dal
ruolo di vagabondo che ostinatamente e convintamene in quegli anni mi ero
appioppato.
Non è stato un errore dal quale pentirmi, ero troppo
giovane e troppo sognatore per non considerarmi in quel mio personaggio migliore
degli altri. Era il mio sogno.
Dal ‘63 la mia strada era già definita. Non so dove, ma
avevo letto di Jack London e del suo “La strada”, sapevo degli hobos e dei
loro spostamenti avventurosi sui treni e del loro odio per un lavoro imposto,
dopo arrivò Kerouac con il suo “Sulla Strada”, e poi venne Woody Guthrie
con “Questa terra è la mia terra” e poi arriva Dylan con il Suo folk
graffiante e contestatario….arrivano tutti gli altri, e così via di seguito
arrivai anche io con i miei sogni e con le mie corse sulle strade.
Da li nacque il mio Amore per questo mondo.
Venivo da lontano e mi tenevo stretto tutti i miei idoli
perché grazie ad essi, ero sicuro, che un giorno mi sarei sentito veramente
libero. La loro forza mi era entrata dentro, non sapevo vivere senza di loro e
senza le loro storie.
Prima di rincasare nei nostri appartamenti, la sera, di
tanto in tanto, ci fermavamo in un convento di monaci benedettini, proprio a
Trinità dei Monti, a cenare. Offrivano gratuitamente del cibo a tutti coloro
che si presentavano ad una determinata ora. Non chiedevano nulla, l’unica
richiesta era quella di farci il segno della croce e di sorbire, prima di
iniziare la cena, qualche minuto di lettura di brani della Bibbia.
Pochissime volte sfruttai questa loro cordialità. Mi
sentivo soffusamente in disagio. Forse non ero pronto ad una contemplazione
consapevole accanto all’essenziale, mi sembrava tutto innaturale, in pieno
contrasto con ciò che viveva oltre quelle mura. Eppure quella pace doveva
coinvolgermi, ammantarmi, dato che qualche anno dopo anche io percorsi la via
verso l’oriente per cercare la Pace e la Libertà interiore…….eppure
quella volta, almeno esternamente, non produsse nulla di trascendentale.
Mi sembrava tutto così scontato, come se fosse una scena
da recitare per offuscare crimini orrendi……..eppure il cibo era buono,
nessuno ci chiedeva chi fossimo, da dove venissimo, il semplice sorriso dei
monaci già appagava la nostra sete di Pace….vi era qualcosa però dentro di
me che non riusciva ad abbandonarsi. Forse era la presenza costante di un prete
che tentava di convincerci della bontà della chiesa o della magnificenza del
vaticano che ci elargiva gratuitamente quel cibo, forse perchè sentivo quel
loro dare come un mezzo per attrarre gente alla loro causa….fatto sta che
pochissime volte entrai in quel santo luogo, a differenza degli altri che ne
approfittavano appena possibile.
Nelle piazze del mondo già si vagheggiava un oriente
mistico e liberatorio dove la pace che cercavamo non era un luogo o un ideale
per cui lottare, ma era presente ovunque, bastava solamente abbandonarsi per
viverla intensamente.
Tre anni dopo, estate 1971, feci il pellegrinaggio in
oriente come da buon vagabondo. Non potevo mancare a quest’avventura. Quel
viaggio mi permise di trasvolare oltre la Coscienza, di ricondurmi al mio punto
di partenza per “farmi ritrovare” in una stradina indiana, accanto ad uno di
quei templi dove si recitava l’Amore per il Dio che ci vive dentro.
Allora non Lo riconobbi…non mi riconobbi tale. Mi
considerai ancora in cammino, però verso la retta via che al momento giusto mi
avrebbe risvegliato alle ombre che ottundevano la mia mente.
Guru e Sadhu itineranti invasero i miei sogni.
Il Buddha, il Risvegliato, per lunghi anni mi scandì il
Suo grande OM nel cuore e nello Spirito fino a condurmi mano nella mano nel
monastero di Pomaia “Lama Tzong Khapa” dove in diversi anni trascorsi lunghi
mesi a meditare.
L’anacronismo immoto di quel luogo eccitava i nostri
sensi. La sua tranquillità, la mancanza di luci stridenti e di rumori
assordanti, generava sensazioni di pace innaturali. Tanti riuscirono persino a
strappare qualche notte di sonno nelle loro celle vivendo per qualche giorno
cadenzati alle loro ore, ai loro ritmi colmi di preghiere, di contemplazioni e
di vibranti Amen che tanto avevano da fare con l’Om orientale.
Alla fine sono le vibrazioni a riunificare con l’Universo
la spiritualità di un luogo. Lo Spirito risponde al mantra vibrante perché si
sente a casa propria. Riconosce la vibrazione emessa simultaneamente dallo
stomaco e dalla passione……..si risveglia, risponde, apre la porta della
Coscienza per permettere un facile rientro…….dove si scioglie, si annulla e
si confonde nell’Assoluto.
Il potere temporale in quel luogo, dove preghiera e lavoro
scandivano il proprio tempo in sincronico silenzio, sembrava inesistente. Solo
qualche immagine purpurea di papa o di vescovi risaltava alle pareti, ma non era
motivo per suscitare dinieghi mentali…….eravamo li per cenare, il resto
calpestava altre vie che in quegli anni proprio non mi interessavano.
Altri giorni, preferibilmente di domenica quando il mercato
era brulicante di merce e di vita, invece ci recavamo tutti insieme a Porta
Portese per sguazzare con gli occhi e con i sogni in quel mondo di zaini, di
borracce in alluminio e di sacchi a pelo regolarmente usati da altri vagabondi
che in un momento di assoluta indigenza hanno scelto di vendere parte della loro
vita.
Capisco cosa vuol dire vendere uno zaino. E’ come
svendere una parte dei propri sogni a quella stessa società borghese dalla
quale si cerca di fuggire……per avvenuta sconfitta.
Zaini appesi ad un chiodo dai colori sbiaditi, consunti,
logorati dalle intemperie del clima e dall’adrenalina di chi li portava in
spalla, stavano lì ad attendere un nuovo proprietario. Contrattavamo non solo
sul prezzo, principalmente volevamo sapere dal venditore se ne conosceva il
proprietario. Era molto importante sapere qualcosa della sua vita, conoscere la
vita dello zaino, quali luoghi ha conosciuto, quali esperienze ha vissuto e come
è stato trattato……..l’energia contenuta in uno zaino contiene
l’immagine di chi l’ha usato per ultimo. In una sorta di continuità
implicita lo zaino preferisce continuare a camminare sulla medesima strada sulla
quale camminava prima.
Vi erano borracce in alluminio usate dai militari, e vi
erano tanti sacco a pelo accatastati l’uno sull’altro, di colori diversi,
smunti e rattoppati da mani affrettate.
Chissà, pensavo, quale corpo aveva riscaldato quello
verde….e quello rosso, era forse appartenuto a un grande vagabondo!!? Vendere
un sacco a pelo è come liquidare il proprio rifugio.
Perché vendere un sacco a pelo?? Posso capire uno zaino
perché è logorato dalle intemperie della strada, distrutto, ma vendere un
sacco a pelo ancora “funzionante”, mi sembra una cosa da pazzi.
Una sconfitta!!!
Forse.
Un
ripensamento….speriamo di no.
Lasciarsi dietro la
propria casa sicura per cosa!!!
Per qualcosa di
meglio….ma cosa!!
(1981)
Quella volta non comprai nulla. Possedevo qualche coperta
militare raccattata chissà dove, quindi potevo proteggermi dal freddo e
nascondermi il viso quando volevo stare lontano dal mondo…….ed ogni tanto mi
capitava, specialmente quando mi sentivo solo, disperato, triste, quando mi
chiedevo cosa stessi facendo in quel luogo….e non so quante volte mi capitò
in quel periodo.
Quando avvertivo il bisogno di stare da solo, di rifugiarmi
in un luogo tranquillo…in quel momento la mia coperta rappresentava la mia
ancora di salvezza….la stendevo per lungo, mi ci rannicchiavo sotto, ovunque
mi trovassi….e subito mi sentivo “solo”, libero, disposto a rivedermi, ad osservarmi. Mi
nascondevo alla realtà e mi trasferivo in quella dei miei sogni, lì mi
ritrovavo a fantasticare mentre vivevo momenti di Gioia e di assoluta
condivisione con l’intera Umanità. Trasvolavo con facilità nel mondo in cui
desideravo trovarmi in quel momento……e mi sentivo libero.
Spesse volte mi trovavo a pensare la mia Pina che già in
quegli anni conoscevo e ne ero profondamente innamorato. La sfioravo con un
dolce pensiero mentre l’attiravo a me per toccarla con un bacio sulla guancia.
Allora il nostro rapporto era veramente impossibile.
Potevamo solamente guardarci da lontano, quando era possibile, ed aspettare il
carnevale per poterci stringere. La Sua ritrosia nel cedere alle mie pressanti
richieste e la Sua timidezza mi costringevano a vivere continuamente con Lei
nella mente. Ne ero già innamorato, ma il desiderio di stringerLa e di toccarLa
era molto pressante. Un Amore così irraggiungibile mi deprimeva, la mentalità
bigotta e paesana di allora ostruiva le strade che portavano ad un libero e
gioioso rapporto con la persona che si amava. Regole, ostacoli, formalismi,
pregiudizi, imposizioni, chiacchiere indecenti, forme di ipocrisie sociali e
ecclesiali………………un mondo di intralci lastricava la vita di noi
ragazzi.
Ecco le insoddisfazioni, le drammatiche “fuitine” per
spezzare le catene sociali…..i precoci matrimoni senza Amore, per colmare un
vuoto o per calmare le sottovoci di un paese che pretendeva “il giusto
rimedio”. Genitori “non liberi”, sottomessi alle voci del paese, ai mormorii di una società bigotta,
meschina e discriminatoria.
………………..ecco le fughe di tanti giovani, questo
bisogno di Libertà, di autonomia, di Amare liberamente e senza falsi
impedimenti…….avevamo bisogno di aria pulita, volevamo sentire l’ebbrezza
di un Amore vissuto pubblicamente, non di nascosto o sottecchi dietro qualche
colonna di una chiesa o nel buio di una stradella non illuminata.
Libertà….Libertà….Libertà……seguendo questo
istinto naturale mi incanalai sulla via dei miei vagabondi e, mi ricordo, in
quegli anni vissi sulle strade lunghi momenti di gioia e sulle piazze di un
intera Europa attimi di indicibile Libertà.
Solo qualche giorno prima di lasciare in autostop Roma per
Firenze, mi ricordo comprai una coperta militare.
L’anno prossimo invece, nel mese di giugno, prima di
partire per un lungo viaggio in autostop in Europa (Grecia, Turchia, Bulgaria,
Jugoslavia, Ungheria, Austria, Italia del nord) acquistai il mio primo sacco a
pelo di colore verde da un lato e azzurro dall’altro lato. In piume d’oca,
leggerissimo, con una lunga cerniera in mezzo che ne permetteva l’estensione
completa trasformandolo in una comoda coperta per due persone…..difatti con
Pina negli anni a venire lo usammo tantissimo per i nostri viaggi, ed Alice,
ancora oggi, dopo 40 anni, rimpinguandolo continuamente di piume e ricucendone
gli strappi, continua ad usarlo come coperta sul proprio letto.
Un sacco a pelo avventuroso, coraggioso, caloroso e
indistruttibile.
Fui felice, mi ricordo benissimo, e fu felice anche Lui. Mi
si offrì subito appena intuì quale corpo avrebbe accolto e quali avventure
avrebbe vissuto.
L’ho disteso sulla neve del Tarvisio mentre attraversavo
a piedi il confine austriaco, dentro cimiteri jugoslavi per proteggermi da
pericolosi delinquenti, sulle sabbia del Sahara nel Sahel mentre mi spostavo con
una guida Tuareg, sui tetti delle macchina per proteggermi dal freddo marmo, a
piazza Dam mentre cantavo la rivoluzione…..mi ci sono infilato nudo, vestito,
con le scarpe per tenermi pronto alla fuga, in corridoi di treni affollati
incurante della gente che mi transitava addosso…..mi è servito da
accappatoio, vi ho fatto all’Amore, l’ho usato da cuscino sui treni indiani,
sui marciapiedi di mezza Europa, sotto le gallerie di Amsterdam e di Milano,
l’ho usato per proteggermi dalle pulci………….l’ultima avventura glielo
fatta vivere nell’81 in Egitto, dopo è andato in pensione. Ancora oggi ci
gironzola intorno ed è stato rivestito a nuovo.
Ci sono persone che non riescono a dormire lontano dal
proprio giaciglio, un vagabondo non saprebbe vivere sempre sullo stesso letto.
Si sente ovunque a casa propria, la provvisorietà lo mantiene sempre in
fibrillazione. La rassegnazione lo inquieta.
L’acquisto dello zaino invece procedeva su altre vie.
Guardavamo la solidità, il cosmopolitismo, specialmente se vi erano degli
adesivi che raffiguravano altre nazioni o scritte contestatarie quali “…non
faccio la guerra ma faccio l’Amore…….”, oppure cercavamo la scritta
“….libertà…..” che sapeva di contestazione, di rivoluzione e di
vagabondaggio. Guardavamo se vi erano nomi di città, borchie militari per
ridicolarizzare l’arma, se vi erano catene legate tipo quelle per tirare lo
sciacquone in bagno, cimeli qualsiasi per fantasticare un po’......davamo allo
zaino un aspetto umano con il quale discutevamo senza alcuna inibizione.
Mi ricordo in tutti quegli anni sessanta in cui lo usai per
vagabondare per la vecchia Europa, mentre attendevo sulla strada lo stop di una
macchina disposta a “portarmi oltre”, quante ore passavo ad osservarlo. Era
il mio compagno inseparabile durante le lunghe ore di attesa ad attendere un
passaggio, conteneva poche cose, ma essenziali per sopravvivere “alla
grande” i lunghi momenti di pausa forzata sulla strada. Conteneva penna e
rubrica, qualche pezzo di pane duro, borraccia in alluminio, coltello, cartina
stradale sempre spalancata sulla parte di mondo in cui mi trovavo al momento,
sbrindellata e spiegazzata proprio perché, spesse volte, capitava che mentre la
ammiravo nella sua massima estensione, qualche macchina si fermava ed allora la
avvoltolavo in un pugno per inserirla nello zaino,………e via, non potevo
fare aspettare la macchina, poteva andarsene lasciandomi a bocca aperta.
In quel mercato vi erano in vendita un infinità di altre
cose tutte collegate col mondo dei viaggiatori con zaino in spalla. Anelli che
raffiguravano un viso scheletrito con un berretto militare in testa con la
stella a cinque punti cucita di fronte, scarponi militari rimessi in vendita con
pochi soldi, spilli e stemma inneggianti le ultime battaglie coloniali,
calzettoni verde cacchina di spessa lana e vecchi eskimo nostalgicamente
rivoluzionari…………..i nuovi arrivi attiravano l’attenzione di tutti,
specialmente quei pellicciotti turchi bianchi o avana contornati da lana caprina
erano le attrazioni principali. Non costavano molto e tenevano caldi, però, per
i miei gusti, che amo viaggiare con poco peso sulle spalle, erano da scartare.
Troppo voluminosi e troppo appariscenti. Amavo vivere in silenzio
e in disparte e indossare quell’indumento voleva dire espormi troppo,
non passare inosservato ovunque andassi, e questo era contro la mia natura.
Gli altri si contornavano di cimeli e simboli molto
vistosi.
Anche questo è un modo per cantare la propria rivoluzione.
Contestare con le parole può essere maggiormente incisivo se ad esse le si
affiancano anche atteggiamenti esteriori pertinenti. La rivoluzione sa di
camminare in un mondo di persone differenti, anche se la forza intellettuale
spinge al risveglio e alla presa di Coscienza con i loro discorsi, ci vuole
anche, e soprattutto, la parte pratica. Ci vogliono i poveri, i disoccupati
veri, che soffrono la fame, che subiscono lo sfruttamento un giorno dopo
l’altro, che la rivoluzione parta da loro e non si costruisca a tavolino
possibilmente da rifuggiati politici che vivono in un'altra nazione
Non si costruisce un nuovo mondo basandosi solamente su
parole pompose, ma questi concetti devono camminare con i propri piedi nella
realtà………….e questa realtà, questo popolo di “affamati”, proprio
perché indigenti cronici, non
rispondeva ai richiami della rivoluzione, era molto flessibile, nel senso che si
vendeva a chiunque per un pezzo di pane……………e il “governante e il
padrone” l’hanno sempre saputo.
La rivoluzione era totale, non solo ideologica, ma
principalmente di costume, di stravolgimento delle false buone creanze,
dell’ipocrisia e dei finti saluti sostenuti da “amichevoli” pacche sulle
spalle.
Sbeffeggiare l’ultimo grido di moda con i nostri
“incoerenti” tipi di indumenti….disarmonici, sconclusionati e senza il
minimo accostamento di tinte. Sgrammaticare il consolidato, il falso
bello…….sezionare i fasulli cristi innalzati a modelli irreprensibili di
vita.
Cultura sociale asservita al potere, religioni noleggiate
dalla storia e ammodernate ad uopo per accomodare apparenti
incomprensioni……………….questo mondo così strano, fittizio, non vero,
che affossava gli spiriti liberi cercando di assumerli alle proprie idee.
Scappavamo da tutto questo………..anche al mercato ci
tenevamo lontani dalle bancherelle che esponevano le ultime frenesie della moda.
Vi era più ordine, più decoro, più linearità…….vestiti ben piegati con
la riga sottolineata ben bene, cinture con fibbie dorate o di osso di foca,
maglioncini di ottimo cotone a giro di collo o quadrettati in perfetta armonia
cromatica, scarpe a punta felpate di ottima pelle traforate per mantenere sicuro
e al fresco il bel piedino, camicie dal colletto inamidato, unica tinta,
cravatte coloratissime dai disegni floreali, fermacravatta, slip o “mutande da
sbarco” in seta per mantenere profumato il sesso, profumi misteriosi, rossetti
cancerogeni testati sulla pelle di animali, gonne lunghe a campane e mini gonne
ridotte allo stremo, cappelli dalle tese rigide e larghe….mutande in pizzo,
foulard floreali, bracciali,
pellicce di cadaveri, volpi bianche della Groenlandia……….sceglievano più
per classi sociali che per bellezza o per comodità. Basta pagare un po’ più
cara la merce e subito ci si sentiva……migliori.
Dopo un po’ ci rintanavamo nella nostra scalinata. Ci
sentivamo protetti e il semplice stare sdraiati senza fare nulla, ad osservare
la massa di gente che in tutti i momenti transitava da quel luogo, colmava di
meraviglie la nostra mente.
Riuscivo a stare in quel luogo senza muovermi anche per
interi giorni.
Il nuovo che navigava in quegli anni mi transitava sotto
gli occhi, non avevo bisogno di spostarmi. I racconti di luoghi lontani gremiti
di vagabondi, sublimavano la mia permanenza su quella scalinata.
Pur rimanendo fermo………………mi sentivo permeato da
un movimento inarrestabile. Il movimento impresso dalle idee che in quegli anni
circolavano liberamente di bocca in bocca e le avventure che ascoltavo mi
facevano volare molto in alto.
Troppi attimi di vita vissuta all’insegna della
contestazione e troppi momenti di gioia ritrovata lungo le strade di un mondo in
fermento mi rintronavano continuamente nella mente. Allora sconoscevo la noia.
Quell’impegno nel sociale al quale ho dato tanta importanza e per il quale mi
sono ritrovato a vagabondare sperando di vivere la contestazione in qualche
università insieme a tanti altri ragazzi, in quel luogo, mi sembrava superato.
Sotto l’emblema di quel partito dietro il quale sfogavo la mia rabbia,
scopersi che fermentava lo stesso potere dal quale ero fuggito.
La scalinata era diventata un Maestro sottile, un saggio,
che mi suggeriva nuovi modi per contestare la società.
La coscienza di quella gradinata mi lucidava la mente un
giorno dopo l’altro. Le copiose scorie emesse da una società in declino,
depositate sul mio cervello, annebbiavano
il risveglio della mia coscienza. Grazie ai lunghi giorni trascorsi a bivaccare
in quel centro del mondo, mi rendevo conto che la contestazione doveva avanzarmi
prima dentro, mi doveva scuotere sin dalle fondamenta, ridonarmi al Divino che
mi viveva dentro il quale avevo trascurato per lungo tempo per dedicarmi a lotte
sociali manovrate, con molta finitezza, dal sistema vigente.
I partiti, anche quelli apparentemente rivoluzionari,
vivevano in un ammucchiata sfacciata. Sembravano contestarsi l’un l’altro,
con posizioni inavvicinabili, ma alla fine, quando si trattava di fare il grande
salto aldilà del “certo”, rimanevano tutti uniti. Si confondevano
rispettivamente l’uno dentro l’altro in un formalismo bigotto e di maniera,
pur di non scuotere la falsa morale, dettata dalla chiesa e dalle varie
confraternite borghesi.
Io contestavo rimanendo seduto su quei gradini da dove mi
sfilava sotto gli occhi l’intero pianeta. Non aspettavo nulla di definito.
Stavo li ad osservare, ad ascoltare musica e a gioire di quella forma di apatia
in fermento che mi stava trasportando in una nuova forma di contestazione non
catalogabile dalle forze dominanti e quindi dagli sbocchi imprevedibili.
Contestavo in silenzio, forte del mio esistere fuori dagli schemi. Eravamo dei
mistici che ondeggiavano intorno a sé stessi.
Non ci interessava nulla che venisse da fuori.
L’attenzione non era rivolta alle cose che potessero arrivarci da fuori.
Eravamo pieni di noi stessi e…………quella Libertà per la quale ognuno di
noi aveva affrontato strade pericolose………su quella scalinata la sentivamo
fluirci dentro, colorando di sè il mondo circostante.
Momenti di gioia
trasognante
Momenti di fuga dalla
realtà
Vivevamo ognuno nel
nostro mondo.
Ogni beatnik, nel
proprio silenzio, trascendeva la realtà. Non le dava retta. Lasciava che lo
avvolgesse, che lo triturasse……….ma non si sentiva oppresso da essa.
Un vagabondo è un
mondo a sè…..non si lascia coinvolgere.
Spazia sempre dentro
se stesso perché sa che la verità risiede dentro di Lui.
Acquattati dentro di
noi, affrontavamo la vita con dignità.
Sopravvivevamo ai
mali della società proteggendoci con le nostre chitarre, cantando le nostre
poesie dove si vagheggiavano mondi migliori, più liberi e meno freddi.
Mentre imperversava
la contestazione globale……………….noi cantavamo.
Orgogliosi di essere
diversi………….eravamo felici.
-
Ehi Franco! Non ti sei stancato ancora di vivere questo tipo di vita?!
Mi sembra che quel nuovo si stia
trasformando in abitudine.
- Nuccio!!! Non rendere problematico il fantastico
momento che stiamo vivendo.
Crei
inutili problemi e distogli la tua attenzione dalla bellezza del momento
presente.
Vivi
come sai vivere……………non analizzare con la mente l’essenza del
momento. Quando arriva l’ora del cambiamento, stai certo, il corpo stesso ti
avvertirà…………e allora sarà il momento di cambiare.
Cambiare
luogo………spostarsi in un'altra piazza per seguire quell’anelito interiore
che ci consiglia di andare via.
L’ora
di riprendere lo zaino arriva quanto meno ce l’aspettiamo.
-
Si, si…bisogna che si cambi.
Ma
domani il frutto di questo cambiamento ritornerà ad essere avariato….
-
………e allora!!! Sarai sempre in tempo a riprendere lo zaino e andare
via.
L’importante
che il movimento non diventi prassi, non si consolidi e non cada tra le grinfie
della società cosiddetta civile.
Chi
lo ha detto che il “nuovo” deve per forza tramutarsi in “vecchio”! Non
dipende forse da noi mantenere sempre fresco l’aroma di un fiore
trasportandolo dentro di noi??
E’ la mente che dobbiamo rivedere, caro Nuccio. Gioire delle cose del
mondo,
senza pensare alla rinuncia. Questo è il percorso sul quale camminare.
A volte stavamo intere ore a discutere.
Franco integrava perfettamente l’aspetto filosofico ed
esistenzialista all’immagine di un uomo radicato completamente nella realtà.
Un uomo fatto di carne ed ossa, debole e presuntuoso, apatico e impegnato,
materialista e mistico…………..l’unico aspetto che non gli riscontravo
era quello dell’intellettuale. Non riusciva ad esserlo, anche se la sua
cultura sembrava essere immensa.
Un vagabondo non
riesce a distaccarsi dalla realtà.
Sa che essa è
l’unica sua fonte di sostentamento, anche se poi è il primo a tirarsi fuori
appena avverte il peso dell’assuefazione.
La usa, vi si muove
con una certa destrezza…………..ma non si sente una sua preda.
La Libertà rimane
l’unica via maestra, da perseguire ovunque e comunque.
Mentre i giorni trascorrevano felicemente, il mio aspetto
fisico si rinnovava. Non sembrava più quello di un normale studente
occasionalmente vagabondo, ma si integrava con l’essenza stessa di quel
vagabondo che volevo a tutti i costi sembrare.
Acquistavo più coraggio. Anche se il mio balbettare mi
limitava nell’esprimere compiutamente le mie idee sul movimento beatnik, il
mio atteggiamento ne stava incarnando assolutamente l’essenza stessa del
vagabondo senza fissa dimora.
Ero fiero di me stesso.
Sentivo fluire il mio futuro dentro di me.
Mi osservavo mentre percorrevo le strade del mondo spinto
dal desiderio di conoscere e sostenuto dal bisogno di scoprirmi.
Ormai la villetta abbandonata, nascosta tra gli alberi del Pincio, era
diventata il nostro rifugio. Non solo di notte, ma anche di giorno la usavamo per ritirarci in silenzio e schiacciare un
pisolino. Nessuno ne reclamava la proprietà. Era abbandonata ormai da qualche
anno e per noi vagabondi rappresentava un isola che galleggiava tra i marosi
oscuri della città.
Spesse volte di sera mi toccava percorrere la strada da
solo perché i miei amici erano a girovagare per le vie di Roma. Salivo la
scalinata, svoltavo a sinistra e dopo poche decine di metri saltavo il muretto
e, servendomi del solito albero sottostante, mi lasciavo scivolare tra il
groviglio di piante fino all’androne che mi permetteva di accedere alla villa.
Loro, i miei amici, preferivano scorazzare per la città.
Avevano intrecciato una strana rete di impegni che non gli permettevano di
rientrare mai prima che si facesse l’alba. Io non venivo coinvolto in queste
loro scorribande. Mi dicevano che era meglio non andare con loro, presto mi
avrebbero raccontato delle loro avventure notturne e, forse, solo allora
potevano portarmi con loro.
-
Per adesso, mi diceva Mario, è meglio che tu rimanga al
sicuro………desideriamo
proteggerti
dall’azzardata vita che stiamo conducendo in questo periodo.
Solo dopo venni a sapere, in parte, quali avventurose
storie vivevano in quelle notti sfrenate. Rivaleggiavano con la legge. Si
spostavano in luoghi conosciuti per racimolare qualcosa per tutti noi vagabondi.
Sapevano di posti dove con molta facilità si riusciva a raggranellare qualche
lira………….e non si lasciavano sfuggire l’occasione.
Prelevavano del denaro di nascosto a chi ne possedeva
tanto.
Erano fieri di queste operazioni notturne.
Mario e Franco, da prodigiosi vagabondi, sapevano come
regalarsi momenti frizzanti per non sentirsi inutili. Riempivano l’avventura
romana con azioni alla Robin Nood.
Anche io correvo durante la notte con i miei pensieri.
Aspettavo il bacio della bella sconosciuta americana……………ma non
eravamo più sotto il ponte. Erano trascorse diverse settimane da quando si
stava sotto quel ponte romano, adesso eravamo passati ad una classe superiore.
Avevamo più stelle e ci sentivamo più ricchi.
Franco, ricordo che in quel periodo era dimagrito di molto.
Le corse che ogni notte ingaggiava con la polizia, lo rendevano ansioso,
pensieroso. Non riusciva più a mangiare con serenità come prima. Il tempo gli
veniva misurato dalla risoluzione dei tanti problemi che aveva. Chissà se era
ricercato dalla legge, pensavo. Lui non lasciava trapelare nulla, l’unica
richiesta d’aiuto la lanciava il suo corpo, mostrandosi smagrito. Era la sua
campana della consapevolezza che cercava di rintuzzare la nostra attenzione.
Impossibile fermarlo.
-
Un vagabondo, diceva, non può accettare limitazioni. Qualunque sua
azione non è mossa da obblighi sociali o da doveri verso gli altri vagabondi.
Sa che è la cosa più sana da fare in quel momento………………..e agisce.
Non
bisogna dimenticare che il soggiorno romano, per noi vagabondi, era un esigenza
del Corpo e dello Spirito. Bisognava renderla spregiudicatamente comoda e
serena…………….e se non vi era da mangiare per tutti e un caldo rifugio
dove ritrovarsi la notte, non sarebbe stata un’esperienza da ricordare con
gioia.
Per questo motivo, tutte le notti, assieme a Mario,
sublimava il rito del procacciatore di cibo ad ogni costo. Saltavano muri,
prendevano sigarette per tutti, trafugavano dolci da pasticcerie mattutine,
pisciavano dietro le porte dei borghesi…………………e si bagnavano senza
alcun ritegno nelle vasche romane per festeggiare la loro libertà.
Le primi luci dell’alba li trovavano sfiancati e
ansimanti. Tutte quelle corse li consumavano fisicamente.
Io aspettavo in silenzio. Cercavo di serrare gli occhi, ma
i pensieri mi conducevano sempre verso di loro. Li vedevo mentre con passi
delicati si introducevano in ambienti “decorosi” per prendere del cibo o un
pugno di monete da condividere con noi. Erano veramente dei “grandi”.
Rappresentavano tutti noi e il movimento beatnik romano gli era molto
riconoscente.
Due piccoli eroi in un mondo confuso.
Loro si che avevano le idee chiare, sapevano cosa fare
anche in situazioni vacillanti. Sapevano che i soldi servivano per continuare a
vivere senza limiti…………e non ce li facevano mancare mai.
Non riuscivo a chiudere occhio con serenità. Li aspettavo
fino ad una certa ora e poi mi lasciavo prendere dal sonno. Spesse volte non
rientravano affatto, ed era un tormento. Rivoltavo tutti i sacchi a pelo ma
niente da fare. Rimuovevo le montagne di coperte e spostavo i mucchi di cartone
ammonticchiati in un angolo del salone, ma nessuno dei due era ancora rientrato.
Nessuno sapeva dove fossero andati a finire.
Mi alzavo ciondolando e mi recavo nella scalinata sperando
di vederli spuntare da dietro un angolo.
L’attesa a volte si prolungava fino a tarda mattinata, se
non addirittura per giorni interi. Di solito non mancavano mai
all’appuntamento. Pur morti di sonno e stanchi da morire, barcollando, con le
labbra screpolate e con il viso smunto non si lasciavano attendere a lungo.
Salivano l’intera scalinata dal lato destro e alla terza rampa, dove di solito
ci riunivamo, si lasciavano cadere per terra morti di sonno e drammaticamente
stanchi.
Io vegliavo sul loro sonno.
La notte brava aveva appena abbandonato sul campo due loro
prodi guerrieri.
Un vagabondo non
abbandona mai l’altro vagabondo.
Guarda oltre
l’amicizia formale e gli sta accanto con devozione.
Pur avendo un buco allo stomaco che reclamava, gli rimanevo
accanto fino a quando non si rimettevano in movimento. Al loro risveglio ci
saremmo spostati in qualche locanda per consumare un pasto “lautamente”
meritato.
Quella mattina non chiedevamo denaro alla gente.
Non era tanto facile, almeno per me, chiedere aiuto a
persone sconosciute, purtroppo se volevo sostenere la mia avventura ero
costretto a farlo.
Se avessi chiesto del denaro ai miei genitori sicuramente
mi avrebbero inviato qualcosa, ma preferivo non farmi sentire. Per tutto il mio
soggiorno romano non ebbero alcuna mia notizia. Capivo la loro sofferenza, ma,
ero un ragazzo ammaliato dell’esperienza che stavo vivendo e non riuscivo a
calarmi nella realtà di due genitori che non hanno notizie del figlio per
lunghi mesi.
Stavo vivendo la mia avventura ed essa non contemplava,
almeno in quel periodo, alcuna debolezza da parte mia.
Spesse volte volevo spaccare la faccia a qualcuno per il
modo come mi trattava.
Non sono mai stato un violento, però la rabbia accumulata,
dovuta all’impotenza che si vive nel non riuscire a cambiare la realtà, mi
spingeva a rispondere in modo furioso. In diversi momenti, sfiduciato dai
rapporti con la gente, ero tentato di smetterla con quel tipo di vita e di
rientrare a casa, però………………rinviavo sempre tutto a dopo. Mi dicevo
che ancora non era il momento e che l’avventura che stavo vivendo non
bisognava interromperla.
Il mio Corpo ancora non si era stancato. Sarebbe stato Lui
a decidere quando e come rientrare in Sicilia. La Sua saggezza mi avrebbe spinto
al cambiamento, per adesso era più giusto continuare a vagabondare.
L’ansia di vedere
dietro quella curva
L’incertezza di
trovare chi si cerca
L’instabilità
delle cose certe
La noia che matura
dalle visioni ripetitive
La convinzione di
volere, di riuscire a sapere cosa c’è aldilà
La corsa per superare
l’ultima frontiera
Sono attimi di
vita……….
………indimenticabili
(1981)
L’anno dopo, estate 1969, con Pino varcai la mia prima
frontiera.
Da Brindisi ad Atene in nave attraversando il mitico
stretto di Corinto. Anche allora mi spostavo in autostop e sfruttavo ogni buona
occasione per chiedere qualcosa.
Per viaggiare più spediti con Pino ci spostavamo da soli
dandoci appuntamento alla prossima città. Spesse volte ci incontravamo lungo la
strada mentre aspettavamo un
passaggio o dentro qualche stazione mentre ci riparavamo dal freddo.
L’unica cosa di quegli anni, che non dimenticherò mai,
sarà l’amicizia, oltre ogni limite, che ci ha dimostrato la “Strada”.
Mai ci ha lasciato in brutte acque. E’ sempre stata
allegramente presente, con i suoi colori e con la sua vitalità, durante i
nostri spostamenti. Ci ha protetti ovunque ci trovassimo e in qualunque
situazione. Per questo Le sarò eternamente grato per come mi ha custodito e per
l’insegnamento che mi ha donato.
In quegli anni il chiedere era un modo per mantenere un
contatto continuo con la realtà. Ci guardavamo negli occhi scambiandoci
informazioni sottili. L’etere era pieno di messaggi e di insegnamenti, per
captarli bisognava entrare in contatto diretto con l’altro. La questua era un
buon veicolo per diversi motivi…innanzitutto ci permetteva di continuare il
viaggio, e poi, ci metteva nelle condizioni di conoscere meglio l’uomo anche
sotto questo aspetto.
Negli anni a venire, almeno fino a quando non iniziai a
viaggiare con Pina, questa forma di sostentamento la usai quasi sempre.
Fortunatamente la Terra è un vero paradiso. E’ tutto così
ben congegnato e predisposto per essere utilizzato al momento opportuno, che
tutte le volte che abbiamo bisogno di qualcosa, non si fa attendere. La fortuna
ci cammina sempre accanto, non ci lascia mai scoperti e soli.
Il nostro Corpo e la Terra sulla quale viviamo e dalla
quale proveniamo, si muovono entrambi in perfetta Unità. L’uno vive
nell’altro, anche se ognuno rispettivamente “sembra” avere una vita
propria………………..ma non è così. Entrambi vivono l’uno dentro
altro, anche se apparentemente sembrano due realtà differenti.
L’apparente serenità che regnava in quella scalinata
ritmava il battito dei nostri cuori. Da un momento all’altro ci aspettavamo la
solita retata della polizia e i soliti interrogatori.
Aumentavamo ogni giorno, e dai tipi strani che andavano ad
aggiungersi al gruppo capivamo quanta eterogeneità esiste tra di noi.
Un vagabondo non ha
rivali…..nella similitudine
E’ talmente unico
da creare un proprio stile anche quando si muove
………………..difatti ogni beatnik che bivaccava in
quella scalinata si riconosceva per una propria caratteristica. Fuggivamo dalla
società proprio per non perderci nell’uniformità della vita………….e
delle scelte.
-
Franco! Ti ricordi quel giorno quando sfuggimmo alla polizia e per
salvarci ci rifugiammo in quel negozio?
Per
un attimo mi è sembrato di trovarmi in un mondo più umano, ed ho sentito un
grande calore intorno. Nessuno ci tradì. Nessuno avvertì la polizia.
Mi
sentii felice e volevo abbracciare tutti……..
-
Nuccio!! Anche
io ho avvertito dentro qualcosa di simile, però dobbiamo stare
attenti
a non lasciarci abbindolare dai sentimenti. Essi a volte vengono soggiogati
dalla mente, la quale, sfruttando l’ebbrezza della vittoria, cerca di
riportarci tra le grinfie dei “governanti”.
Siamo
divisi da immensi blocchi fisici e psichici. I rapporti a perdere che abbiamo
avuto con la società ci hanno spinti a crearci un nostro mondo, dove vivere
sembra essere più facile e più felice……..malgrado tutto la società non
pensa di trascurarci. Ha bisogno di noi per rivalutare la loro “normalità”.
Sanno che grazie a noi, grazie alle nostre continue ribellioni verso la loro
falsa morale, essi si rigenerano e si fortificano nell’odio che nutrono verso
il “diverso”.
Ma
non possono fare a meno di noi, ricordalo.
Serviamo
da deposito alle scorie negative che essi producono con la loro stupidità ed
arroganza.
……………però
è bello illudersi.
Quel
giorno anche io mi illusi. Ebbi fiducia in quel silenzio protettivo che si era
creato intorno a noi. Vidi per un attimo le barriere crollare e un grande
sorriso dentro di me mi visualizzò un nuovo mondo possibile……pieno di
abbracci e di sorrisi.
Quel posto lo conosco.
Quanti luoghi debbo scoprire ancora sulla Terra!!!!
Un Uomo che muore nel Sahara non distoglie nessuno….
Un Uomo che muore alle Laccadive non distoglie per niente.
Un Uomo presidente…..distoglie.
La morte di un papa….crea spettacolo.
La fine in silenzio di un indio sulle Ande rimane nel silenzio.
Solo chi gli vive accanto………….viene distolto.
Il mondo Gli crolla addosso…..….la vita stessa sembra finire.
………..ma continua.
Continua tra le mura di casa,
continua tra la gente infastidita dal suo dolore.
………continua tra il trambusto colorato di un papa….
mentre cantano le sue glorie, parlano di lui e della sua chiesa.
………..mentre gli altri muoiono di fame.
Fuggiamo via da questi idoli
Lasciamoli stare nei loro scranni……….
……e non lasciamoci distogliere.
La vita continua………………
(1981)
- Hai visto Mario in questi
giorni?!
E’
da un po’ che non lo vedo gironzolare con te.
E’
partito!! Sta male!
Credo
che sarebbe meglio andare a cercarlo.
Da qualche giorno una voce insistente martellava i cuori di
tutti noi. Sembrava che Mario fosse scivolato nel giro della dipendenza della
droga.
Un periodo molto difficile per tanti vagabondi.
Con molta facilità si lasciavano tentare dalle promesse
liberatorie degli acidi. I voli della coscienza che promettevano
erano coloratissimi e assicuravano intere giornate di sballo. Tristemente
però, appena finito l’effetto, ricapitombolavano nella realtà più confusi
di prima. Ritrovavano le stesse cause che li avevano spinti ad andare via,
e…………..la confusione aumentava.
Liberi dalla realtà……..o preda di un sogno
drammaticamente reale?
Purtroppo erano in tanti. Gli acidi sintetici da tempo
ormai sciamavano nel nostro mondo. In tanti vi si erano avvicinati e la
scalinata, con grande tristezza, ne rappresentava uno dei luoghi principali di
consumo. Ancora la siringa non era ufficialmente accettata, però stava
trionfalmente accostandosi nelle scoraggiate coscienze dei giovani.
Assistevo a queste scene con tristezza. Preavvertivo una
devastazione sociale senza limiti e non potevo farci nulla. In quel periodo mi
interessava di Mario e della sua salute. Un vagabondo come Lui, dignitoso,
forte, solidale con gli altri, non può soccombere dietro questo schizzo di
veleno costruito artatamente da quella società che tanto odiavamo.
Quell’acido prometteva una ascesa degradante verso
qualcosa di indefinito, che, illusoriamente, in tanti si ostinavano a definirla
“libertà”…………….ma da cosa!?
Quante volte me lo chiesi in quei giorni.
Cosa può attrarre le meravigliose menti dei nostri
giovani, amanti del bello e della libertà, verso quel miscuglio di acidi
sintetici che promettevano solo attimi di libertà coatta e fantasmagorica?
Il potere aveva escogitato quest’altra trappola. Metteva
nelle mani del giovane un mezzo per contestare la società, nel frattempo innescava
la miccia per segnare la fine del giovane stesso per dipendenza psichica o per
morte.
-
Non vorrei sembrare quel tipico rompiballe moralista che cerca di
convincere a tutti i costi il
malcapitato a smetterla di usare droga. Io ho solo nel cuore la sorte di Mario.
Bisogna intervenire per bloccare questa ascesa degradante verso la fine. Non può
continuare ancora a lungo.
-
Non ti rendi conto che l’unica forma di protesta rimane questa? Non
vedi come la società ti agevola in questo tipo di scelte perché sa che è
l’unico mezzo che ha per neutralizzarti o addirittura per toglierti di mezzo?
Bisognerebbe
fare qualcosa?
Certo
che bisogna farla questa maledetta cosa………..lasciamolo in pace facendogli
vivere questi suoi giorni di gloria.
Per intrinseca natura il potere sa come proteggersi e come
annullare qualsiasi bacillo di ribellione. Appena scorge del pericolo per la
propria sussistenza, non fa altro che agevolare l’uso di elementi distruttivi
velandoli con l’etichetta di “prodotti condivisi dai contestatari”.
Difatti gli acidi che giravano allora erano costruiti in
laboratori strutturati dal potere per offuscare le menti del giovane e nel
frattempo servivano al potere stesso per crearsi un alone di “buonismo”
perché, coglievano l’occasione, per proporsi come paladini contro il dilagare
di queste droghe. Del resto la nostra società occidentale ed opulenta,
cosiddetta civile, non è nuova a queste operazioni di pulizia della Coscienza
costruite ad arte.
Sfrutta il terzo mondo, lo affamano e lo derubano di tutte
le sue risorse e poi, in un momento di meschino buonismo, si mette in evidenza
ergendosi a eroina della salvezza dell’umanità.
-
Si..si! hai ragione Franco, però se un giorno Mario venisse a mancare,
sicuramente il potere ne gioirebbe, ma noi, i suoi amici, che abbiamo condiviso
con Lui storie di vagabondaggio intense…………soffriremmo molto.
Un vagabondo in meno non scuote l’equilibrio mondiale, ma deturpa la
bellezza della Libertà.
Un vagabondo non muore per droga……vive per andare aldilà degli
allucinanti effetti che essa crea.
Saremmo profondamente coinvolti in questa sua fine…..e non sapremmo
più come continuare.
Un vagabondo non prevede mai la morte di un altro vagabondo……perché
l’essenza stessa del vagabondo è la vita……..vivere, sognare e Amare.
Mario non avrebbe mai cercato aiuto. Sapeva come uscire
fuori da qualsiasi situazione. Era un grande vagabondo e conosceva i limiti del
proprio corpo. Sapeva ribellarsi senza trascendere dal concetto stesso di
ribellione per non ridurlo in un semplice atto estremo, capace solamente di
produrre male a se stesso.
-
Noi, andavo dicendo, dobbiamo stargli vicino, non dobbiamo farlo sentire
solo in questa sua ”autolesionista” protesta.
La nostra e la sua forza saranno
contrassegnate dalla nostra unità.
La sua sorte ci stava molto a cuore.
Non potevamo imporci alle sue scelte, anche perché
riguardavano esclusivamente la sua vita. Volevamo semplicemente fargli sentire
il nostro Amore e la nostra condivisione per la protesta che stava portando
avanti. Anche noi volevamo protestare con determinazione, mettendo avanti il
nostro corpo, come faceva lui, però non ne avevamo il coraggio.
Mi mancava l’ardire di chi si sente forte e di chi si
sente nel giusto.
Ero abituato a lottare, ma mai avrei messo in pericolo la
mia vita. Anche nell’illegalità cercavo di muovermi con discrezione, come se
qualcosa mi trattenesse a non andare oltre. Troppi retaggi psichici e sociali mi
trattenevano in quella normalità che tentavo di contestare. A
volte incideva anche la paura……..e non volevo estraniarmi da un controllo
razionale sul mio corpo.
Paura……….sempre questa angoscia che non mi permette
di gustare le delizie che stanno oltre le regole, che sguazzano oltre il
conosciuto con tutte le sue leggi limitanti.
…………………eppure, tanti anni dopo, sull’isola
di Ko Samui - era il 1983 e provenivo assieme a Pina da un lungo viaggio
attraverso la Thailandia, Malesia, Sumatra, Giava Bali, Singapore e ancora
Malesia……….. – vissi la mia prima esperienza sotto le allucinanti
visioni dei funghi tailandesi, e confesso di aver trascorso quasi un intera
giornata permeato da una gioia talmente estrema da farmi vivere attimi di paura
intensa alternata a momenti prolungati di profonda tristezza.
Quel giorno, era il 1 dicembre, compivo 35 anni ed eravamo
sfiancati da 45 giorni di un faticoso correre in un sud est asiatico ancora
libero dalle invasioni di quei gruppi di turisti alla ricerca di sensazioni
artificiali…………..e sessuali.
Allora non ebbi paura di andare oltre il conosciuto, mi
sentivo un leone pronto a mordere le barriere che ostruivano il mio conscio. Una
volta tanto seguire l’inconscio, e i suoi consigli trasformati in istinti da
un conscio assoggettato alla mente, fa sicuramente bene. Ci ridona al nostro
vero sé ed apre enormi visioni su Realtà dimenticate.
Mario stava intere giornate senza aprire bocca. Elaborava
le non-scelte che lo stavano distruggendo. Era imponente, di mole prepotente,
eppure era scivolato nel turbinio della droga. L’impotenza nel cambiare la
realtà, lo aveva costretto in un angolo. Usava l’unica arma che possedeva per
contestare la società: Il proprio corpo. Non aveva speranze, eppure qualcosa in
Lui lo spingeva a tentare, a sporgersi fin dentro il potere dimostrando
l’illusione della forza……………ma non otteneva nulla, non poteva
ottenere alcun riconoscimento da chi vive nell’insensibilità più fredda.
Il potere si nutre di quest’odio. Lo volge a proprio
favore e ne fa un arma tagliente, reversibile, che ritorna da dove è venuto e
miete vittime a piene mani. E’ quello che cerca, è il suo ambiente naturale
perché sa che alla fine vincerà sempre l’odio e la violenza.
Mario conosceva questa triste verità, eppure, come tanti
poveri eroi, ha voluto provare…………….
-
Franco!! Nessuno mai ci ha vinti. Se abbandoniamo Mario in questo suo
scivolamento, senza intervenire, stavolta il potere vincerà……….allora si
che sarà l’inizio della nostra fine. Se rimaniamo insensibili a questo suo
grido d’aiuto, verremo accomunati all’essenza stessa dello Stato. Dobbiamo
differenziarci dal potere, essere un’altra cosa di questa “civile” società
che si nutre di odio.
Dobbiamo scindere il nostro mondo da quello loro.
Noi siamo diversi e
dobbiamo dimostrarlo, innanzitutto a noi stessi,
ma dobbiamo farci vedere forti,
uniti. Non possiamo disinteressarci assistendo in
silenzio alla sua fine.
Grazie all’insistenza di tanti di noi, Mario sembrava
rimettersi un giorno dopo l’altro.
Più di una volta andammo al cinema a stravaccarci in
comode poltrone e qualche volta, dopo aver effettuato sontuose collette, andammo
a mangiare in ristoranti borghesi, prendemmo un casino di gelati e una volta
andammo in discoteca, in uno di quei fumosi locali che in quegli anni
accoglievano i giovani che marinavano la scuola.
Facemmo i turisti passeggiando sul lungo Tevere,
addirittura da Castel Sant’Angelo, era di domenica, ci confondemmo tra la
folla che ascoltava il saluto di Paolo VI.
Visitammo i tesori vaticani e poi alla fine, per dare un
senso completo alla meravigliosa giornata, prendemmo un taxi facendoci
depositare proprio in piazza di Spagna, ai piedi di Trinità dei Monti.
Mario riprendeva a sorridere e il suo viso si colorava di
raggi solari splendenti.
Una mattina visitammo lo zoo immaginandoci la sofferenza di
quegli animali dietro le gabbie privati dalla libertà.
L’assillante andirivieni della tigre limitata da quattro
sbarre di ferro, ci rese tristi. Anche noi, pensavamo, siamo trattenuti in una
gabbia dai pali dorati. Ce ne rendiamo conto solamente quando tentiamo di andare
oltre quelle sbarre e ci viene vietato.
Mancanza d’aria e deficit di libertà. Vigilati speciali
in un inferno spacciato per paradiso.
L’aspetto triste dell’orango ci costrinse ad ammainare
la bandiera della gioia. Troppa tristezza sprizzava dal suo sguardo. Troppa
ingratitudine nei confronti di un primate che rappresenta l’anello principale
e finale della specie della nostra evoluzione.
L’orso bianco, ormai dal grasso disciolto, tra le tristi
colate di cemento dipinte di bianco che andava sull’azzurro, ci impose la
ritirata senza alcuna possibilità di scampo.
Erano scene che non ci appartenevano. La mancanza di libertà
ci faceva soffrire, e noi eravamo li per ridere, per incoraggiare Mario a
riprendersi la vita, e quelle immagini non gli giovavano affatto……..lo
costringevano sempre più in un angolo dove il semplice calore del suo corpo lo
faceva sentire sicuro e protetto.
Impossibile rimanervi un minuto in più.
-
Belin ragazzi! Mi sento più in carne di ieri. Come mi avete rimpinguato
in questo
periodo?
Mi sento i pantaloni nuovamente appiccicati addosso……..speriamo di non
incontrare qualche altra messicana. Stavolta non mi lascerò prendere di
sorpresa. Le salterò addosso ancor prima che gridi la sua meraviglia.
-
E’ meglio che ne compri qualche paio di misura più larga, non si sa
mai……….
La scalinata di Piazza di Spagna riprendeva a sorridere.
Pericolo scampato, umore risvegliato e sorrisi assicurati.
Appena buio rientravamo nella nostra villa.
Non eravamo ancora stanchi, ma qualche volta rischiavamo di
annoiarci, e in quel momento percepivamo i rintocchi del “rientro” nel mondo
dal quale provenivamo. La casa, la famiglia, le certezze, ci
richiamavano……….era il momento di andare, di riprendere lo zaino e di
partire. Ormai erano in tanti a non voler più rimanere a Roma. Si risvegliava
la voglia di rimetterci sulla Strada ed andare in giro per l’Italia per vivere
con i vagabondi di altre piazze.
Era trascorso più di un mese e quell’odore inebriante
che ci accolse, affascinandoci, stava cominciando a puzzare.
La scalinata non si svegliava mai di buon ora. Dai nostri
appartamenti uscivamo ad ora tarda ancora con gli occhi abbottonati dal sonno.
Arrivavamo alla chetichella per bagnarci nella barcaccia e per consumare il
solito sontuoso cappuccino che ci permetteva di accedere ai bagni del bar.
L’ora del bagno, così l’avevamo definita. Tra una visita alla toilette del
bar e tra un dolce fugace sciacquio nella vasca della barcaccia, trascorrevamo
le prime ore della mattinata.
Di solito i nuovi arrivati con zaino militare in spalla,
sporco e sdrucito, approdavano in piazza alle prime ore del giorno. Sicuramente
avevano trascorso la notte precedente in qualche sottoponte o alla stazione
Termini, ed erano morti di freddo e affamati. Qualcuno era ancora un novizio,
quindi toccava a noi redimerlo dalla timidezza ed insegnargli la strada della
questua. Altri provenivano da altre piazze o da altre città europee. I
vagabondi più numerosi arrivavano da Amsterdam, ed erano pieni di notizie per
le nostre menti avide di conoscenze.
Il triste rapporto con la legge e con i suoi gendarmi
emergeva già da subito. Anche lì, l’ordine costituito tentava di imporre con
la violenza le proprie regole. Anche lì, le solite corse notturne per schivare
qualche lancio di mazza o per non essere arsi fin dentro i sacchi a pelo dai
nazionalisti che stavano prendendo piede in tutta l’Europa civile, non
mancavano……………………come, qualche anno dopo, nell’estate del
’70, proprio in piazza Dam anche noi rischiammo di finire bruciati.
Una vigilanza serrata da parte nostra, tentava di
proteggere la piazza dall’attacco vile di questi loschi figuri.
Amsterdam in quegli anni era il bivacco preferito dai
vagabondi di tutto il mondo.
Chi con le chitarre intonava le note della contestazione
giovanile, chi con i cembali in mano giaculava il sacro mantra dedicato a
Krihsna, chi con qualche fiore in mano e qualcun altro dipinto sul corpo si
spingeva verso un misticismo liberatorio……………..un prodigioso mondo
fatto di fantasia e di colori non smetteva di affascinarci.
Ormai la stessa musica cadenzava tutti i giorni una nenia
sconsolante. Sentivo il bisogno di partire, di spostarmi da quella piazza in
un'altra piazza. Volevo cibarmi di nuove sensazioni, ascoltare dal corpo di
qualche altro vagabondo nuove avventure. Anche se in apparenza sembrava tutto
tranquillo…………..un sicuro giaciglio, una calorosa tavola, amici fedeli,
un buon clima e una polizia in parte addolcita, da quel luogo………..volevo
spostarmi.
Il mese trascorso da sotto un ponte ad un vagone
ferroviario, da una scalinata a una piazza, mi stava venendo a noia. Il
nostalgico ricordo dei miei genitori e dei miei amici stavano prendendo il
sopravvento, era il momento di inebriarmi di “cose nuove”, solo così la
malinconia delle sicurezze di casa, sarebbe stata momentaneamente ignorata.
Trascorse ancora qualche altra settimana in questo stato di
vacuità…………..e poi via.
Non si erano dimostrati stretti solamente i pantaloni di
Mario, stretti erano i visi dei soliti baristi, dei tassinari e dei carrozzinari,
anche il fluire continuo del turista sembrava essersi arrestato dentro di
me…………….la mia mente non accettava più quel nuovo così ripetitivo.
Ogni tanto incuriosiva l’arrivo di qualche ritrattista
con i suoi pennarelli pronto a tratteggiare con destrezza qualsiasi viso fosse
disposto a sborsare qualche lira.
Qualche anno dopo, gennaio febbraio 1970, vissi a Parigi
per due lunghi mesi ospitato dal mio amico Turi. Durante il mio girovagare,
proprio a Montmaitre, fui impresso con un pennarello su un foglio bianco da un
artista di strada che bivaccava in quella mitica piazzetta dietro il Sacro
Cuore. Allora mi nascondevo dietro un bosco di capelli lunghi e barba nera, era
la mia divisa e, con essa in evidenza, mi sentivo forte e contestatario. Non
riuscii ad avere il dipinto per mancanza di soldi. Il giorno dopo vi ritornai
con Turi, ma……………….era stato venduto ad un turista di passaggio
attratto da quell’ammasso di peli neri.
Qualcuno terrà appeso alla parete il mio viso da
vagabondo…..
Parigi, “la rivoluzionaria” per antonomasia,
concentrava il proprio dissenso all’università la Sorbonne. Spesso mi ci
recavo sperando di rivivere i fasti di qualche anno prima, ma ormai la decadenza
era nell’aria. Si contestava la staticità del potere, il tipo di potere, e
non si capiva che il male si annidava nell’essenza stessa del “potere”. Un
potere che, erroneamente, anche noi, mentre sfilavamo nei cortei studenteschi,
richiedevamo a voce alta……………….noi al potere, il comunismo al
potere………….così gridavamo.
Sconoscevamo l’assurdo potere sovietico e come lo
esercitava sul popolo, eravamo ammaliati dalla rivoluzione a tutti i costi e non
si capiva da quale parte stava la Verità.
A Roma in quei mesi estivi si vedevano i primi vagabondi
anarchici che si autogestivano la propria vita senza delegare nessuno. Nascevano
piccoli artigiani errabondi che immaginavano e realizzavano direttamente in
piazza, sotto gli occhi di tutti, la merce da vendere. Portavano con se piccoli
zainetti militari dove tenevano tutto l’occorrente: dalle pinze al filo di
ferro, dal cuoio a rasoi affilatissimi, dalle perline colorate ai pennelli
multiuso………. L’idea della questua stava tramontando.
Qualcuno vendeva la propria arte………..chi strimpellava
su una chitarra, chi cantava e chi recitava Baudelaire, chi fischiava su un
flauto e chi spaziava con le labbra su piccole
armoniche…………………tutti davano qualcosa pur di non dipendere
dall’altro.
Io rimasi a chiedere. Non ero capace di dare praticamente
nulla, mi affidavo alla mia timidezza e al mio sorriso.
Arte misera, molto intima, era il massimo che riuscivo a
proporre alla gente romana.
Questo fu uno dei motivi principali che mi spinsero ad
andare via da quel luogo.
In quei giorni sentivo quella sicurezza insita nella scalinata cedermi
sotto i piedi. Quasi ogni giorno arrivavano notizie di qualche vagabondo
risucchiato dalle patrie galere per via di piccoli furti o di sparizioni
misteriose dovute senz’altro all’orrida esistenza di leggi liberticide che
imponevano al libertario la presenza di qualche lira in tasca pena il foglio di
via direttamente per casa.
Vi era chi si ingegnava in un artigianato accomodante pur
di dimostrare di lavorare, e vi era anche chi si era fatto prendere dalla
tristezza o dalla noia………..ed era andato via.
Forse quel senso di libertà che ci accolse qualche mese
prima stava decadendo nella monotonia e ci sentivamo chiusi, conosciuti,
catalogati…………….
Un grande vagabondo americano, Riggle, sul vagabondare
degli hobos senza sosta scrisse una meravigliosa frase:
“Una profonda
necessità di fuggire una condizione nota per un'altra non
nota, di farla finita con tutto il vecchio e andare alla scoperta del
nuovo, di spezzare i vincoli che frenano e trovare la libertà, di rinunciare al
reale troppo ovvio per un più scintillante irreale.
La stabilità nella
vita ha sempre voluto dire sacrificio”.
Oggi, dopo più di 40 anni, quei ricordi mi camminano nella
mente e non posso fare a meno di riviverli con gioia. Non provo tristezza, anzi,
dentro di me, vivo un profondo rispetto per quei momenti, so che sono stati i
miei Maestri che mi hanno preso per mano e mi hanno accompagnato alla pienezza
dell’oggi.
A differenza di allora, oggi, le mie avventure, sono in
parte studiate e preordinate ancor prima di partire. L’imprevisto di allora in
parte si è addolcito. La comodità della poltrona di casa tramite internet mi
permette di programmare il viaggio in massima parte “prevedibile”. Rimane
l’ebbrezza del momento, la frenesia di trovarsi a calpestare un altro mondo
che a volte non ci fa essere razionali e attenti.
Il previsto rimane l’itinerario e forse la meta del
ritorno, ma “il durante” rimarrà sempre un incognita. L’attimo in cui
ci si trova su un bus sgangherato, senza freni, condotto da un
forsennato……………quella è l’avventura.
L’affanno di immaginarsi scaraventati in un burrone, la
paura di essere derubati, schiacciati sotto una catasta di legna che stanno con
te sul camion sul quale viaggi, l’angoscia di non arrivare in tempo, di
sbarcare in piena notte in una città enorme, popolata da ombre che
camminano…………..quello sì.
Da questo genere di avventura ancora oggi non ci siamo
allontanati.
Allora l’unica cosa prevista era il ritorno, ma quando e
come non lo immaginavamo assolutamente. Sapevo di partire, di andare via in
autostop per vivere il mondo………….ma non prevedevo il giorno del rientro,
tutto era lasciato nel vacuo perché dipendeva dalla nostra resistenza fisica e
dall’intensità della passione che ci bruciava dentro……….e questi due
elementi allora non ci mancavano.
Forti, belli, giovani e innamorati della vita, ingredienti
essenziali per un vagabondo.
Nel ’69, mentre mi spostavo con Pino in autostop e a
piedi da Istanbul verso la Bulgaria, mi trovai su una macchina che volava verso
l’Olanda con accanto un altro autostoppista inglese. Gli chiesi se voleva
unirsi con noi per conoscere Sofia e
poi continuare il viaggio. Mi rispose che preferiva volare sempre verso
l’ignoto anziché fermarsi a fare il semplice turista.
“……………ho trovato spazio su questa macchina,
ebbene, mi sposto con essa fino a quando non mi scarica. Non sono scemo da fare
il visitatore incantato e perdere l’opportunità che mi offre il momento
presente……………….”.
“………..Un
vagabondo non impallidisce di fronte a nulla………….va sempre avanti.
Ama gironzolare a
zonzo senza perdersi in questa nuova moda di fare il villeggiante”.
Così mi rispose, e così da quel momento immaginai il mio
vagabondare.
Da Istanbul in Olanda………….un’unica corsa.
Immaginare semplicemente un simile viaggio è……..da sballo.
Nel ’71 vissi la mia grande avventura………….Monaco
Delhi in presa diretta.
Lo sballo più grande della mia vita.
La figura di quell’inglese con tutto ciò che portava
dentro di sé, ancora oggi la tengo viva dentro di me.
Volare via!
Dove non si sa.
L’importante è
volare.
Un fiume che scorre,
si sposta………….e si perde nel mare.
Un uccello che
vola……….tutti gli attimi cambia zona.
Noi perché non
cambiamo?!
Perché ci dobbiamo
legare?!
Il legame slega
l’affetto………..esso incatena l’Uomo.
Sleghiamoci.
Qualcosa di immenso
ci attende………
Aldilà dei mari,
aldilà ella Strada………
…………vi è la
Libertà.
(1981)
Cercavo
di stimolare Franco al discorso. Le sue annotazioni esperte e vissute mi
mettevano sempre in crisi.
L’ultimo proficuo scontro dialettico lo ebbi quando mi
permisi di richiamare la sua attenzione sull’esistenza di questo tipo di
società opprimente e ipocritamente democratica.
-
Nuccio, ancora ti poni di questi problemi, mi disse??
Non
capisci che proprio nell’attimo in cui te li poni, fai trionfare la stessa
società, con i suoi ossequiosi postulati, che tu condanni?
L’attimo
caro Nuccio. L’attimo ti riempie la giornata, e la qualità della tua vita
dipende proprio dall’intensità e dall’attenzione che poni ad ogni attimo.
Più ti poni queste domande, più l’ebbrezza dell’attimo fugge via.
Sublimava l’inutile solamente con la sua presenza. Non si
lasciava coinvolgere dai fatti, ma era la situazione stessa a dipendere dal suo
stato d’animo.
-
Tra qualche anno ti renderai conto come queste esperienze di oggi ti
aiuteranno a maturare in un certo modo. Noterai come la differenza tra l’oggi
e il domani è funzione dell’intensità e della passione con la quale stai
vivendo questo momento. Notare ovunque ostacoli, o ingerenze dell’odiata
società, non aiuta il risveglio della Libertà che ci vive dentro.
Non
siamo in corsa con gli eventi, caro Nuccio. Abbandonarci ad essi è l’unica
scelta che abbiamo.
Vedrai
quanta forza ci esploderà dentro appena la smetteremo di competere con la vita.
Intanto l’esperienza di vagabondaggio continuava alla
grande, anche se ormai sembrava tutto volgere alla fine.
Quella notte a piazza Navona, mentre ci dondolavamo sotto
il suono ritmato della chitarra, una precipitosa retata della polizia ci
distolse dal nostro dolce sognare. Fummo circondati da diverse camionette che
rigurgitavano forze di polizia bardati con divise d’assalto, con manganelli e
con caschi anti-sfondamento. Chiesero i documenti, ci tastarono il corpo
sperando di trovare l’arma incriminata, volevano vedere quanti soldi avevamo e
come mai a quell’ora eravamo lontani da casa.
L’interrogatorio continuò in centrale.
Seduti su tavolacci di duro legno, uno per volta fummo
chiamati e sottoposti ad un nuovo interrogatorio.
Provavo umiliazione per loro. Erano giovani, forse qualche
anno più di noi, ma già mostravano la loro vera natura. Si sentivano
disturbati da noi perchè eravamo in tanti ed eravamo liberi. Da dietro le
spalle ticchettava una voluminosa “olivetti” annerendo su un foglio bianco i
nostri nomi e cognomi, gli anni e la provenienza, e poi questi fogli venivano
catalogati sotto il nome della “V”, che stava per “Vagabondi senza fissa
dimora”.
Continuarono tutta la notte, alla fine trattennero qualcuno
di noi, mentre gli altri, tra i quali io, furono rimandati via.
La Strada ci attendeva a braccia aperte.
Si era sparsa la voce del nostro arresto e nel frattempo
gruppi di vagabondi si erano radunati davanti l’androne della polizia per
accoglierci con battute di mani e “evviva”, man mano che uscivamo. Qualcuno
con il foglio di via affisso al petto lo strappò appena uscì, riprendendo con
più passione il suo peregrinare per le strade del mondo.
Non avevano capito che il movimento beatnik ci partiva sin
da dentro lo stomaco. Eravamo presi da quella realtà che ci stimolava a vivere
itinerando, e nessuno poteva fermarci.
Loro speravano in una forma di paura da parte nostra o ad
un richiamo dei nostri genitori……..poveretti!!! Ignoravano il fermento che
ci bruciava dentro, la voglia ruggente di Libertà, di conoscenza di spazi
infiniti.
Stava esplodendo l’occidente e loro, rappresentanti
ottusi e schiavi della legge, non se ne rendevano conto. Bastava frequentarci un
po’, sentire le nostre ballate, discutere con noi, dormire qualche notte sotto
i ponti assieme a noi, per rendersi conto della nostra semplicità.
Forse qualcuno tra di noi trasbordava aldilà delle nostre
regole non scritte, ma: potevano, questi striminziti elementi, criminalizzare
l’intero movimento?
Chi era stato diffidato dal rimanere a Roma, si spostava
per qualche giorno in qualche altra città, si cambiava d’abito e appena
possibile rientrava alla base. La nostra scalinata sapeva come accogliere il
vagabondo.
Un giramondo lascia
la preda solo quando lo decide lui. Pur di non farsela sfuggire aguzza
l’astuzia, affina l’intuito e si ispessisce nel corpo per resistere meglio
alle intemperie. Decide sempre Lui quando andare via.
Nel ’69 a Sofia fummo scortati fuori città dalla polizia
in borghese. Ci raccattarono in un self service della città mentre mangiavamo
qualcosa e nel frattempo facevamo incetta di zollette di zucchero. Eravamo
vagabondi, per giunta senza soldi, quindi in quel luogo non potevamo stare. Ci
avevano scortati sin dall’entrata in Bulgaria senza farsi vedere. Sapevano che
dormivamo fuori ed avevano paura che questo nostro modo di vivere e di viaggiare
avrebbe potuto scuotere le menti di qualche giovane. Addirittura fermarono una
macchina e la obbligarono ad accompagnarci diversi chilometri fuori città. Per
noi è stata una fortuna perché non sapevamo come fare.
Si stavano restringendo gli sprazzi di libertà che la Roma
imperiale ci aveva regalato solo qualche mese fa. La nostra residenza al Pincio
stava per essere espugnata dalle forze dell’ordine, ormai l’aria si era
infettata e dovevamo per forza andare via.
Vennero al buio come dei lanzichenecchi, saltarono il muro
intrufolandosi nella fitta vegetazione, si strapparono qualche lembo di pelle e
alla fine raggiunsero l’obbiettivo.
Erano soddisfatti, orgogliosi che finalmente avevano
conquistato la roccaforte dei vagabondi, delinquenti incalliti pronti a
perpetrare qualunque crimine pur di ricavarne del denaro.
Tristezza, amarezza, rabbia………..un intreccio di
sensazioni sconfortanti.
Dovevamo sloggiare a tutti i costi.
Qualcuno venne portato dentro e trattenuto per un paio di
giorni, altri fuggirono per non farsi riconoscere, altri ancora, tra i quali vi
ero io, prendemmo con calma le nostre ridottissime cose, fornimmo le generalità
e andammo via.
Solo la scalinata a quell’ora poteva accoglierci, difatti
ci incontrammo tutti la per prendere delle decisioni.
Stranamente l’innata solitudine del vagabondo, in quel caso particolare
si trasfigurò in un evidente bisogno di comunicare. Dovevamo per forza parlare,
sapere degli altri, decidere cosa fare e se era il momento di abbandonare la
nostra scalinata per rifugiarci lungo le Strade del mondo.
Sulla Strada sicuramente avremmo ritrovato il nostro
paradiso e la nostra Libertà.
Non passarono molti giorni. Ognuno si rintanò dove meglio
credeva, sparpagliandoci in silenzio sotto i nostri ponti o sotto qualche albero
di villa Borghese.
Roma non ci conteneva più. Troppi controlli e troppi
infiltrati.
Presi la
decisione di organizzarmi, andare al mercato, comprare lo zaino, raccogliere
quanti più soldi possibili e mettermi al più presto all’entrata
dell’autostrada per Firenze.
Franco e Mario improvvisamente scomparirono. Mi dissero che
la polizia li prelevò direttamente da dentro una vasca romana mentre si
bagnavano in mutande.
Non li rividi più, anche se per diversi anni, prima di
iniziare le mie avventurose traversate in autostop per l’antico continente,
passavo da Roma, chiedevo di loro………..ma niente.
Nel ’74, mentre ero a Roma con Pina, corsi verso un
vagabondo a braccia aperte convinto che fosse Franco…..non era Lui.
Buio completo.
La fine di una storia era al culmine.
Inghiottiti dalla Strada o tracannati dalla legge!?
Mi rimarrà sempre questo dubbio.
L’alba di una mattina d’agosto mi svegliai
infreddolito, mi raccolsi in silenzio, ammirai il silenzio degli altri
vagabondi, ne sentii la forza e lentamente mi avviai a prendere il bus che mi
avrebbe condotto all’imbocco dell’autostrada. Avevo qualche lira, poco cibo,
niente acqua e la grande determinazione di andare a Firenze. Sapevo di altri
vagabondi che mi stavano aspettando per invadere con i nostri zaini l’intera
Europa.
L’ultimo giorno trascorso su quella scalinata lo vissi
inserito nella mia immagine preferita: IL VAGABONDO.
Stetti l’intero giorno con lo zaino accanto, sdraiato
sulla scalinata con la coperta militare per cuscino e fumando. Mi sentivo pieno
della mia esperienza. La mente era occupata dagli ultimi avvenimenti.
L’incalzante presenza della polizia ha sfigurato quel bel
sogno. Se fossi rimasto solo qualche altro giorno, lo splendore di
quell’avventura si sarebbe annuvolato per lasciare spazio dentro di me alle
ultime intemperie. Ho proprio fatto bene a decidere di andare via.
Presi l’autobus carico di me stesso e via, sgusciando in
un anonimato silenzioso, senza creare scalpore, come solo un vero vagabondo sa
fare, mi protesi verso un’altra storia.
Abbandonai la scena sommerso dallo stesso silenzio con il
quale ero arrivato qualche mese prima. La Strada mi stava
riassorbendo………..e ne ero confusamente felice. Partivo per
Firenze………..ma ero poco convinto.
Ai piedi portavo un paio di scarpe nuove fiammanti che
Franco mi aveva prestato. Sicuramente erano frutto delle tante razzie notturne
che andavano facendo per le borgate romane. Stavo per riprendermi la mia Strada,
lunga, piena di insidie e di insicurezze………però era la mia Strada dove vi
camminavo a testa alta convinto che Essa non avrebbe tradito mai chi La voleva
bene.
Scrissi FIRENZE su un foglio di carta, lo attaccai al petto
e via………pollice destro rivolto verso il nord, con il vento in poppa e
pieno di speranza mi piazzai all’imbocco dell’autostrada, l’ultimo di una
lunga fila di autostoppisti che si dirigevano verso settentrione.
Mi sentivo orgoglioso di me stesso e nulla poteva
trattenermi.
Volare era nulla paragonata al desiderio che avevo di
“andare via”, viaggiare libero, solo con il mondo e abbandonato nelle mie
mani.
Mi sentivo un esperto, ma la mia timidezza mi restringeva
in un angolo.
L’irruenza che mi sentivo in corpo era contratta dal mio
balbettare.
Non sono mai riuscito a fregarmene ed accettarmi così come
sono. Ho sempre pensato, stupidamente, di creare fastidio in chi mi ascoltava o
di suscitargli fugaci sentimenti di pena, che erano le uniche due sensazioni che
non volevo stimolare negli altri. Facevo di tutto per mostrarmi senza
“difetti”, addirittura preferivo rimanere in silenzio pur di non essere
guardato con compassione.
………………ma chiedere un passaggio non richiedeva
speditezza nel parlare. Una volta salito in macchina avrei risolto tutto come
sempre ho fatto. L’importante in quel momento era partire, slacciarmi dalle
catene che mi avevano trattenuto a Roma.
Ci eravamo dati appuntamento a Ponte Vecchio di Firenze e
da li poi spostarci in blocco verso le “Cascine”, il grande parco attorno
Firenze che in quegli anni serviva da raduni mondiali all’insegna della Libertà
e della contestazione.
La vita per me ricominciava in quel momento, come se la
lunga avventura estiva romana non fosse esistita. Non ero stanco e non
desideravo tornare a casa. La frenesia del viaggiatore incantato mi era esplosa
nuovamente dentro, e con essa era arrivata anche la certezza di andare avanti
perché sicuramente avrei trovato ciò che cercavo.
L’intera Europa, con le sue piazze e i suoi ponti, mi
stava aspettando. Non volevo perdere tempo………………forse avevo un
inconscia paura di girare l’angolo e di rimettermi sulla via del ritorno.
Via………via, aspettavo un passaggio, ma nessuna
macchina si fermava. Passavano le ore, vedevo sparire davanti a me tutti gli
altri vagabondi…..ma la mia ora non arrivava. In mezza giornata da quel luogo
si erano spostati solo pochi autostoppisti, prima di me ancora ve ne erano
diversi, quindi l’attesa si trasformava in ansia, in fame, in sete.
Verso l’imbrunire, minacciose nuvole si alzarono in cielo
e non davano segnali di sereno. Improvvisamente si misero a scaricare acqua
colpendo in pieno la nostra determinazione. La smussarono, la lavarono e la
denudarono………..alla fine, in un attacco istintivo di bisogno di certezze,
attraversai l’autostrada, saltai lo spartitraffico e in pochi secondi mi
trovavo, sempre con il pollice in alto, ma stavolta rivolto verso
sud………….verso casa.
Ero dall’altra parte. Non me ne resi nemmeno conto, e con
lo stesso ardore di prima continuai a chiedere passaggi alle macchine che
sfrecciavano verso sud.
In un baleno avvenne il crollo.
La paura….l’indecisione…..gli affetti……la
mancanza di denaro……l’incertezza di trovare amici……la
solitudine……le retate della polizia…….la nostalgia di casa…….dei
miei genitori……………attimi apparentemente vuoti, vissuti con istintività
senza alcuna motivazione.
Mi sono sempre chiesto, tra tutti questi attimi, quale
fosse stato il vero motivo che mi spinse a cambiare direzione e a dirigermi
verso casa, verso quel mondo contestato dove la ribellione del singolo non viene
assolutamente considerata.
Attimi che segnarono la fine di quell’avventura per
ricacciarmi nuovamente nell’avventura di quella quotidianità che allora, e
forse anche oggi, si viveva in un piccolo centro della Sicilia.
Per non rischiare di pentirmi di quel comportamento
frenante, perpetrato verso la mia vera natura, giro il foglio di carta
dall’altra lato e lo annerisco scrivendovi su: NAPOLI.
……e vai, senza alcuna tristezza verso quel “già
noto” che mi stava aspettando.
Pensai a come raccontare agli amici quest’avventura. Se
dovevo impreziosirla aggiungendo qualche rapporto con una bella francese o
limitarmi a raccontare con freddezza il verificarsi dei fatti senza trascendere
nel ribollimento interiore che l’esperienza mi aveva generato dentro.
Ormai ero sulla via del ritorno, e quei pensieri di fuga
verso la Libertà simultaneamente si ridimensionarono e divennero immagini di
normalità, si trasformarono in visi conosciuti, in azioni già ripetute negli
anni……………la piazza del mio paese era riapparsa nella mia mente.
L’avevo dimenticata, si era allontanata dai miei pensieri proprio
nell’istante in cui salii su quel treno che mi trasportava verso la Libertà
facendomi sentire subito a casa, nel mio ambiente naturale, proiettandomi
istintivamente verso il mondo……..adesso stava riapparendo con tutto ciò che
essa contiene in sè: Angoscia, senso di solitudine, incomprensione,
esibizionismo, maschere, apparenze, omofobia, pettegolezzi, politicanti
lecchini, religiosi bigotti, chiusure mentali……….
In pochi attimi la gioia di spaziare nel vecchio continente
con zaino in spalla e pollice rivolto sempre verso il dopo, si ridimensionò.
Verso il nulla, questo pensavo. Verso il niente, verso le
inezie della società bigotta………..è il momento di riempire tutti quegli
interstizi vuoti con la pienezza di questa mia fantastica avventura. Dovevo
farlo, definirmi “pieno” in quel vuoto che avrei trovato in paese e
lentamente cercare di “colonizzarmi” gustando quel senso di assoluta Libertà
che ho vissuto durante questi mesi di vagabondaggio.
Intanto quei nuvoloni che salivano erano diventati neri e
stavano scaricando un mare di acqua su quegli ultimi autostoppisti rimasti. Non
sapendo come proteggermi, mi ricordo, staccai un insegna stradale dai pali che
la reggevano e la misi in testa. Ricominciai a sperare. Sfoderai un sorriso
accattivante e iniziai l’avventura del rientro. Sapevo che stavolta sarebbe
stato più facile perché ero rimasto da solo a chiedere passaggi, e poi,
l’instabilità del clima avrebbe sicuramente suscitato una certa compassione e
qualcuno mi avrebbe preso su.
Non stetti molto ad aspettare.
Una utilitaria mi prese scaricandomi al casello per
Frosinone. Mi rimisi in strada e in poco tempo un'altra macchina mi caricò su
portandomi fino a Ceprano, a soli 15 chilometri. Intanto era quasi buio e
l’attesa per un altro passaggio mi stava sfiancando.
Continuava a piovere e le macchine mi sfrecciavano davanti
senza nemmeno vedermi. Non esistevo, ero un puntino indefinito dal quale non
sprizzava alcuna luce capace di accendere la curiosità di qualche guidatore.
L’unica macchina che si fermò fu una gazzella della polizia per invitarmi ad
uscire dall’autostrada. Feci solo alcuni passi e poi, appena possibile
ritornai al solito posto.
Preferivo stare lì perché vi era un ponte sotto il quale
potevo ripararmi dall’acqua.
Un buon autostoppista deve sapere che accettare passaggi di
breve tragitto è conveniente solamente quando ci si sposta su strade
provinciali o nazionali, mentre quando ci si muove in autostrada bisogna farsi
lasciare all’imbocco del casello e principalmente in caselli affollati da
macchine che fanno lunghi tragitti. L’inesperienza, in questi casi, determina
scelte errate, senz’altro condizionate dall’ansia che si è accumulata sulla
strada in attesa del primo mezzo di locomozione che ci carichi su.
Un errore imperdonabile che quella volta pagai amaramente.
Le macchine e i camion mi trascinavano sulla loro scia,
tanta era la velocità. L’unico contatto che ebbi con essi mi fu offerto dal
grande spostamento d’aria che ogni volta mi causava un sussulto. Ormai il buio
era cupo e l’acqua scrosciava sempre con più ardore, non riuscivo a
identificare quale tipo di macchina mi sfrecciasse davanti, tanta era la velocità.
I fari mi stringevano in un angolo facendomi tremare di paura.
Decisi di stendermi sotto il ponte per attendere l’alba e
potermi rimettere di nuovo a chiedere passaggi. Mi distesi su un terrapieno per
evitare lo scorrere dell’acqua, non dopo aver disteso la coperta militare che
tenevo nello zaino. Cercai di dormire, di guardare oltre la paura che ne sentivo
l’incalzare man mano che il buio avanzava. I fari mi saettavano sugli occhi
facendomi strizzare le palpebre come se li volessi proteggere. Avevo occluso il
pollice destro tra il calore del palmo della mano sperando in un suo miracoloso
intervento il giorno dopo. Lo coccolai per pochi minuti, dopo un po’, non
riuscendo a prendere sonno per via dei morsi della fame e del bisogno di acqua
da bere, mi scrollai di dosso la stanchezza, raccolsi la coperta dentro la
zaino, mi alzai e mi avviai sconfortato verso l’uscita dell’autostrada.
Presi la direzione per Ceprano sperando di trovare la
stazione dei carabinieri ancora aperta. In quelle poche ore avevo preso la
decisione di consegnarmi alla “forza” a mani aperte per farmi
“recapitare” a casa.
Sapevo di altri vagabondi che avevano preso questa
decisione in un momento di sconforto. Bastava togliersi di dosso qualche formula
borghese al quale non volevo sottomettermi, e l’essenza stessa del
“vagabondo” si sarebbe trasferita e rinnovata in un altro Nuccio……amante
sempre della Libertà ma con un piccolo passo falso sul groppone.
Preso per fame e per desiderio di trovarmi subito a casa,
entrai in paese a piedi con lo zaino sulle spalle, barba lunga, zoccoli ai piedi
e stanchezza stampata sul volto.
Ancora il paese era vivo e la strada principale era piena
di giovani, quindi trovare la caserma non mi fu difficile. Pressai sul
campanello e dalla guardiola qualcuno mi gridò cosa cercassi a quell’ora.
-
Ho bisogno di parlare con qualche carabiniere.
-
Come mai lo cercate! Cos’è successo?
-
Ho bisogno di acqua e di pane e poi vorrei essere “spedito” a casa
perché non ho i soldi per ritornare.
Scosse il capo e aprì la porta solamente per dirmi che
loro, come caserma di un piccolo comune, non potevano fare nulla. L’unica cosa
che potevano fare era quella di offrirmi un panino e accompagnarmi alla stazione
dei treni per andare a Frosinone o a Cassino, in un caserma più grande. Decisi
per Frosinone e in pochi minuti mi trovai seduto in un angolo della stazione per
salire sul primo treno che andava verso la città.
Cercai di vendere l’orologio per ricavare almeno i soldi
per pagarmi il biglietto. Niente da fare. L’unica risorsa consisteva nel darmi
una spinta e salire sul primo treno che passava senza biglietto in mano. Fu
proprio così che feci.
Era l’una di notte e mi veniva impossibile questuare
qualche lira.
La stazione non era in centro. Chiesi 50 lire per prendere
un tram e via, ad affrontare l’ultimo ostacolo.
Non fu difficile, difatti in meno di un ora mi trovavo su
un macchina della polizia che a sirene spiegate mi stava conducendo alla
stazione per salire sulla tradotta militare che tra poco sarebbe passata da
Ceprano diretta verso Napoli.
Tutto così in fretta senza avere il tempo di realizzare
cosa stesse per capitarmi.
Un Nuccio stanco, con un pesante zaino sulle spalle che mi
costringeva a camminare con passo pesante.
Nuccio il vagabondo vinto dalle intemperie e dalla fame che
si avviava verso le sicurezze che prometteva la casa.
Nuccio solo, mentre al buio, sollecitato dal latrare dei
cani, percorreva gli ultimi chilometri che lo separavano dal paese.
Nuccio ritornato ad essere un ragazzo impaurito, timido,
scrollatesi di quella sicumera acquistata durante l’ultima avventura vissuta
da vagabondo sulla strada, mentre si rivolgeva all’odiata “forza”
per essere aiutato.
Tutto in meno di un ‘ora.
Mi trovavo su una tradotta militare assieme a militari di
leva che rientravano a casa, cercavo di riandare con la mente ai fasti di
qualche giorno fa, ma non riuscivo a non pensare a casa. Volevo subito trovarmi
tra le mie mura di certezze, anche se sapevo che in soli pochi giorni le avrei
“sconfezionate” da quell’alone di false verità sotto le quali si
camuffavano………………..ed avrei ripreso con i miei viaggi, con le mie
avventure e con i miei sogni.
In jeans sbrindellati, tra tutti quei militari, mi
differenziavo anche senza volerlo. In quel momento preferivo l’anonimato, non
ero nelle condizioni di sostenere un interrogatorio. Ero colmo del “malo”
modo come era finita quell’avventura, e non sarei riuscito ad essere sincero
con me stesso semmai qualcuno mi
avesse chiesto qualcosa. Sembrava che un altro Nuccio avesse vissuto
quell’esperienza, il Nuccio del momento era un'altra cosa da quello.
Quello era un
eroe………….l’attuale era un “assuefatto”.
Quello riusciva a
volare………..l’odierno era tarpato sotto le proprie ali.
Quello rideva a cuore
aperto……..questo Nuccio sorrideva a denti stretti.
Tenevo stretto il biglietto per Catania, ormai, pensavo,
l’unica cosa che avrebbe potuto farmi soffrire sarebbero state le strette
della fame, qualsiasi altra cosa mi avrebbe semplicemente sfiorato.
Cercai di rimanere in silenzio per oscurarmi dietro i miei
pensieri, a Napoli avrei risolto anche questo problema. Era quasi l’alba
quando arrivai nella città partenopea, il treno per Catania sarebbe arrivato
tra meno di un ora, quindi potevo benissimo procacciarmi qualche tazza di latte
e caffè per sostenermi almeno fino all’arrivo.
L’ebbrezza del sentirsi libero stava transumando verso la
freddezza di una libertà coatta, concessa a pezzettini da un ambiente
fortemente bigotto e conservatore.
Stai attento a non esporre pubblicamente le tue idee, mi
diceva sempre mio padre, potresti precluderti la possibilità di un buon lavoro.
Rispetta le autorità, osserva le prescrizioni della società………..NON
parlare male del prete, NON vestire in modo “scorretto”, NON portare mai
schiaffi in casa, NON fumare, NON giocare al bigliardo, NON portare i capelli
lunghi……………una pletora di divieti e di cose da fare in un certo modo
se vuoi considerarti addentellato con la società, se no sei fuori e la tua vita
sarà un calvario.
Pensavo queste cose e non mi sentivo di rientrare a casa.
Dovevo fare qualcosa, dovevo almeno togliermi questi pensieri dalla mente. Mi
avrebbero torturato e risospinto ad andare via dopo solo alcuni giorni.
In quegli anni la vita in un piccolo paesino del sud era
veramente accecante. Non ti permetteva di transitare oltre quel frenante
conosciuto. Pochi spazi e poca possibilità di sognare. Reclusi in una realtà
apparentemente disponibile, mentre invece sotto sotto ardeva il fuoco del
conservatorismo, bruciava la vampa del bigottismo e infiammavano i roghi delle
false indulgenze.
Non si era capiti, o meglio……….non si volevano
volontariamente capire le richieste di libertà avanzate dai giovani e dalle
poche menti libere. Doveva procedere tutto allo stesso modo di prima. Il solito
circolo universitario e professionisti, la solita “fraternita” religiosa, i
soliti partiti politici, i soliti primi della classe, il solito rispetto alle
persone influenti, il solito sorriso ipocrita per nascondere la sofferenza che
si porta dentro, il solito passeggiare in piazza con i soliti discorsi
preconfezionati, la solita borghesia a sentenziare l’unica verità…………………..il
solito prete e il solito maestro a strimpellare sempre la solita musica per i
soliti uditori che esprimevano sempre il solito parere: “bene………va tutto
bene”.
Sul treno per Catania, mi ricordo, rimasi in silenzio
assoluto.
Cercavo di rintracciare motivi validi che mi trattenessero
nel mio paese. Deformavo la realtà per assuefarla alle mie esigenze, me la
immaginavo più aperta, meno supina alle formalità
borghesi…………………..cosa avrei voluto dalla mia terra per non
sentirmela sfuggire dal mio cuore?! Come l’avrei voluta?! Quale profumo avrei
voluto che emanasse per ammaliarmi?!
L’amore per la propria terra forse non bastava per
trattenermi….ci voleva qualcosa di più, più umano, più comprensivo, più
eccitante, più evoluto. Forse mancava la giusta apertura mentale, anche da
parte mia, per accettare le cose “così come erano” senza costringerle ad un
cambiamento che non le apparteneva, almeno in quel momento. Forse dovevo essere
io a smussare per primo le mie “intransigenze”, forse ero corso troppo in
avanti, avevo fatto balzi da gigante, mentre essa si spostava con passi da
lumaca e i cambiamenti le correvano sotto i piedi senza riuscire a pesarne
l’essenza.
Non decisi nulla, sentivo il desiderio di ritornare a casa
perché volevo abbracciare tutti e raccontare l’avventura a tutti.
Arrivai a Catania in un pomeriggio afoso. Era la fine di
agosto e la stazione pullulava di viaggiatori e di “emigranti” che
rientravano alle proprie sedi di lavoro, vi era anche qualche vagabondo con i
suoi possedimenti sulle spalle pronto a saltare sul primo treno che lo
conducesse verso la Libertà.
Non ero solo, menomale, pensai.
Qualcuno sta continuando a portare l’emblema della
propria sovranità. Un potere supremo autogestito da sé stessi rivolto
esclusivamente a sé stessi. Non più ne meno.
Incontrai Turi Taormina, un mio amico di Motta………
………..mi ricordo quando nel gennaio del 1970 partii da
Catania in autostop da solo alla volta di Parigi per andarlo a trovare. Da sei
mesi lavorava all’ambasciata d’Italia in questa immensa metropoli e, da buon
giramondo, non potevo farmi sfuggire quest’opportunità. Vi arrivai dopo
diversi giorni all’una di notte e, non sapendo cosa fare, chiesi
dell’ambasciata italiana che stava a rue du Varenne. Suonai un campanello e
qualcuno mi rispose in francese chi cercassi a quell’ora.
Monsieur Taormina, je suis Nuccio dalla Sicilia, dissi in
un mio stentato francese. Dopo pochi minuti la sua voce tuonò al citofono:
“……….disgraziato, a quest’ora di notte mi viene a cercare, proprio
all’ambasciata italiana……….” Scese subito dopo, ci recammo a Rue
Turbigò dove con amici aveva affittato un appartamento…………….e
un'altra avventura prese l’avvio.
…………….al quale chiesi subito qualche soldo per
comprare un panino e per prendere un autobus per casa. Mi raccontò le ultime
novità del paese e mi disse anche sulle tante voci che in questo periodo erano
state rovesciate su una mia presunta scomparsa.
Fu il primo abbraccio del mio paese.
Evidentemente non era cambiato, si era avvitato ancora di
più su se stesso manifestando la sua vera natura di piccolo mondo ristretto tra
le sue quattro mura grondanti di formalismo e di rifiuti a priori.
Scesi dall’autobus in piazza, rividi le solite facce e le
solite risatine di meraviglia. Fui circondato da qualche amico e in un afflato
“assimilante” mi sentii ricapitombolato nel solito tram tram paesano
immemore della grande avventura che avevo vissuto.
Ciao Nuccio, sei ritornato……come stai, come va, ti sei
trovato bene, dove sei stato, ti sei divertito, hai avuto esperienze con donne,
come sono le donne…sono più libere, più facili, e i capelloni, e il fumo,
dove dormivi, cosa fumavi, le fiche, le fregne, i fregnoni di Roma, il Pincio………………..dai
raccontaci tutto.
Mio padre stava in piazza come tutte le sere, dalla piccola folla che si era creata capì
che il “figliuol prodigo” era ritornato. Non avevo scritto nemmeno un rigo e
nemmeno telefonato, quindi la loro ansia era comprensibile.
-
Ciao………tunnasti!!
Baci e occhiate di vergogna. Ero veramente sporco e
veramente barbone.
La sera stessa ripresi le mie passeggiate in piazza
sperando di scorgere la mia Pina, l’unico mio vero legame con la mia gente che
non si è mai allontanata dai miei pensieri e dal mio cuore.
Da quell’avventura mi rimase una pienezza assoluta.
Seppi cosa fare della mia vita e mi esplose dentro un Amore
per la Vita stessa considerandoLa una manifestazione Divina dentro la quale
l’Assoluto stesso vi vive in pienezza.
………………..mi sibila ancora oggi quel suono di
sirene spiegate con le quali la “forza” mi accompagnò alla stazione di
Frosinone per non farmi perdere la partenza di quella tradotta verso un Nuccio
risvegliato…………….
Nuccio guarnera
22 marzo 2009
www.viaggiareliberi.it