“Non c’è una via, il cammino si fa nell’andare”

Carlo Pancera

 

§. non un unico cammino

Sono emozionato nell'aprire questa occasione di riflessioni in memoria dell'amico Antonio Valleriani, dato che lo ascoltammo da poco, ed era qui proprio da questa stessa tavola che presentava in ottobre scorso il suo ultimo libro "Al di là dell'Occidente", presentazione che terminò con la citazione dal poeta spagnolo Antonio Machado: "viandante, non c'è via, il cammino si fa con l'andare", cui faceva cenno nelle pagine centrali del libro (vedi p.79). Metafora a lui cara se già intitolò il suo primo libro: "Verso l'oriente del testo" (con pref. di P. Ricoeur) , e il successivo: "Il viandante e la sua strada" (con pref. di M. Laeng, e una immagine emblematica di Charlot in copertina).

Vediamo di fare un po’ di pratica ermeneutica, di riflettere, di ragionare sul senso di questa citazione, scomponendola e ripensandola comparativamente con lo specchio di altre citazioni, da altri orizzonti di senso, che la contestualizzino in altrove semanticamente vicini.

Potremmo iniziare riprendendo una brillante e originale riflessione, fuori da ogni retorica e da ogni schema, sul dialogo platonico intitolato a Fedro, come è quella di Robert Pirsig, attraverso il libro Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, scritto sotto l'apparente genere narrativo, e nello specifico quello del diario di un viaggio, o piuttosto di una peregrinazione o vagabondaggio. Il testo è del 1974, scritto dunque nella scia del filone on the road, e quindi a seguito del famosissimo "On the Road" appunto, di Jack Keruac, del 1957, che divenne quasi un manifesto di una generazione, in cui si leggeva:

« Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»

«Dove andiamo?»

«Non lo so, ma dobbiamo andare »

 Filone narrativo in cui ricordo l' altrettanto famoso film "Easy Rider" del 1969 (con Peter Fonda  e Jack Nicholson che iniziano un loro vagabondaggio in moto proprio con un atteggiamento simile). L'antesignano e modello esemplare è il noto libro di Thoreau, Walden o vita tra i boschi, di un secolo prima, cui si rifacevano pure altri scrittori di quella generazione, tra cui ad es. Allen Ginsberg.

Dunque Robert Pirsig (nato nel 1928 nel Minnesota da genitori di origine tedesca e svedese, e che studiò nei primi aa 50 all'università induista di Benares), in questo suo libro delinea un tortuoso viaggio iniziatico, una vera e propria Grande Avventura (nel senso di J. Campbell) tutta intessuta di minuti accadimenti quotidiani, durante un giro che questo professore di retorica di un college ha compiuto sulla sua amata ma vecchia moto, bisognosa quindi di continua e sapiente manutenzione (e perciò molto amata compagna dei propri ricordi e delle proprie esperienze), con una coppia di amici anch'essi su una moto, dal Minnesota al Pacifico…

In quel viaggio si portò dietro il figlio Chris, agli albori della pubertà (11 aa.), per farlo entrare nello "spirito del viaggio", concepito come antidoto rispetto al suo esser stato, secondo Pirsig, già oramai troppo allenato e abituato -dalle istituzioni educative e dai mass media- a non guardare, non osservare, e dunque a non saper scorgere, non riuscire a vedere, e quindi a cogliere la bellezza, il significato e il valore delle piccole cose, a cogliere il kairòs, il "momento propizio, o magico".

Portandolo dunque passo a passo a concentrarsi sul "qui e ora", insegnandogli ad "andare a naso" (quella modalità di investigazione e di conoscenza che i greci chiamavano noéin), e sulla base di piccoli indizi, perché cominciasse così ad acquisire un nuovo approccio al mondo, e a sviluppare quella qualità di attenzione che favorisce l'intuizione. Pirsig nelle riflessioni che compie durante il percorso, stabilisce che il primo criterio per l'interpretazione della realtà e della vita debba essere l'indagine della categoria della qualità, non solo intesa come la greca areté, solitamente tradotta con "virtù", quanto come livello qualitativo, essendo un ulteriore significato di areté l' "eccellenza". La sua analisi parte da quelli che per lui sono i due modi di vedere il mondo: cioè il classico e il romantico. Per far questo si ispira ai Chautauqua (pron. sciotòca), cioè ad un rito tipico delle comunità di "pellerossa" della regione dei Grandi Laghi (e poi assunta dalla metà dell'ottocento come consuetudine dai docenti di una università vicina), che si riferisce ad "una serie di conversazioni intese sì a edificare e divertire nel contempo, ma soprattutto a migliorare l'intelletto portando cultura e illuminazione alle orecchie e ai pensieri dei partecipanti", insomma conversazioni che intessano una relazione di qualità nello scambio tra gli interlocutori. Con l'obiettivo di non addentrarsi troppo però in una disanima di un concetto, quale accade nei dialoghi di tipo socratico tra maestro e allievo. Quindi, pur senza dilatarsi troppo, Pirsig si "limita" a cogliere spunti su due temi: 1) che cosa è la qualità, e perché non possiamo vivere senza di essa? e inoltre 2) perché dalle nuove acquisizioni della conoscenza scaturisce così spesso un cattivo uso delle loro applicazioni? cioé come nasce il male, in particolare l'odio? e perché è illusorio sfuggirgli?

Si avvale a tal fine dei continui spunti e occasioni che si presentano ai loro occhi nel corso del loro andare. E si pone ad interrogare il proprio "doppio", da lui chiamato Fedro, poiché il viaggio in questione per Pirsig, oltre ad una occasione per recuperare una relazione di intimità e di iniziazione col proprio figlio (quasi egli fosse un Chirone col suo piccolo Achille), è anche una recherche della sua personalità perduta (1), quella cioè con cui conviveva prima del suo ricovero in un ospedale psichiatrico e del trauma dell' elettroshock. Pirsig, ripercorrendo  mentalmente e anche fisicamente i luoghi dove era passato e dove aveva vissuto il suo "Fedro", cerca di riempire vuoti di memoria grazie a flash-back, ricordi di sensazioni e di riflessioni, e percorsi logici. Quindi un viaggio classico attorno al tema omerico dell'Ulisse che anela al rientro in patria, in cui l'obiettivo del nòstos (=il ritorno) è ciò che dota di significato la sua vita, ciò che vi conferisce un senso. Pertanto solo intraprendendo un cammino (in cui dunque il viaggio reale è soltanto un "pretesto" e cioè quel che fornisce molteplici occasioni di riflessione e di dialogo intrecciato tra i protagonisti), la realtà degli eventi stimola un dialogo interiore. In esso Pirsig è sempre inseguito dal fantasma di Platone sul piano formale del linguaggio discorsivo, e dal suo personale "Fedro" (che come è noto è il nome del personaggio platonico che rappresenta la figura di colui che è inesauribilmente sempre in grado di suscitare domande e interrogativi su cui intrattenersi).

Un percorso il cui diario ebbe subito un enorme esito, paragonabile solo a quello avuto negli stessi anni dai libri di Castaneda. Un itinerario della mente verso il divino immanente nel mondo, raffigurato dall'immagine del Buddha, o piuttosto dall'immaginario della buddhità in noi (da qui il riferimento nel titolo al pensiero zen), che ha avuto un decisivo effetto di risanamento per l'autore. Il libro come dicevo ebbe nel 1974 e negli anni seguenti un successo di mercato strabiliante, e per questo fu poi snobbato dai giovani hippies, sicché il gran numero di copie vendute rispecchia non tanto la mentalità della beat generation, quanto piuttosto il fatto che evidentemente secondo il vasto pubblico esso incarnava l'autentico spirito americano delle origini. (2)

§. la meta non è l'essenziale

Certo questo filone degli scritti su itinerari e cammini reali ma con intenti filosofici e/o spirituali, ha una lunga tradizione in occidente, farò solo cenno all' incessante e ossessivo continuo camminare del giovanissimo poeta Rimbaud, non solo tra Charleville e Parigi, ma per tutta la Francia, a Londra, ecc., sino all'ultima sua produzione poetica scritta a ventun'anni (Rimbaud poi morirà all'età di 37 aa. dopo aver vagabondato per lo Yemen e l'Etiopia). Rete di percorsi che è stata ora minuziosamente ricostruita nei suoi sentieri materiali, e che costituisce il cosiddetto trajét Rimbaud, tragitto ora ripercorso da molti estimatori (tra i più recenti ad esempio, dal giovane scrittore norvegese Tomas Espedal che ne racconta nel suo libro Camminare dappertutto, tradotto in italiano l'anno scorso). Filone narrativo e riflessivo che naturalmente in Francia ha origine nelle Rêveries d'un promeneur solitaire ("Fantasticherie di un camminatore solitario", che inaugurano la cosiddetta "prosa di fuga") di Rousseau, e nelle sue "Confessioni ", in cui scrive:

"Non ho mai tanto pensato, tanto vissuto, non sono mai tanto esistito, stato tanto me stesso, se così oso dire, quanto in quei viaggi che ho compiuto solo e a piedi. (...)non posso quasi pensare quando sto fermo (...) la lontananza da tutto quel che mi fa sentire la mia dipendenza, da tutto quel che mi  richiama alla mia situazione, tutto ciò libera il mio animo, conferisce più audacia al mio pensiero". 

Né minori sono le tradizioni in altri paesi europei a partire dai medievali clerici vagantes, sino al Grand Tour settecentesco, e alle tradizioni germaniche del wanderung romantico, cui si ricollega ad es. l'odierno scrittore tedesco Winfrid Sebald, docente alla East Anglia University, che ci racconta il suo giro a piedi di tutta l'Inghilterra orientale, nel suo diario Gli anelli di Saturno, del '95, che è a metà tra un romanzo e un racconto filosofico. Il suo modello di riferimento e nume tutelare è il saturnino e melanconico medico-filosofo del Seicento, Thomas Browne che di fronte all'evidente insensatezza della storia e della vita, diceva che ci resta comunque il dono dell'interrogazione e della scoperta dell' interconnessione tra tutte le cose e tutti i viventi, doni che in un cammino, concreto o metaforico che sia, di riflessione possono essere estremamente utili.

Per ritornare al messaggio di Machado, certo -come anch'egli afferma- non si può ripercorrere integralmente lo stesso cammino fatto da altri, e anche chi compia i medesimi pellegrinaggi che si ripetono sempre sugli stessi percorsi da secoli, come il cammino di Santiago, e renda presente in sè il passato rivivendo la stessa fede p.es. dei templari, o di altri pellegrini che lo hanno preceduto sin dai tempi precristiani quando si voleva raggiungere il tramontare del sole alla fine delle terre del mondo recando con sè la conchiglia capasanta, comunque sia li compie ogni volta per la prima e "unica" volta.

Una della passeggiate più belle che si affacciano sul golfo di Trieste è sicuramente quella che, a picco sul mare, collega Sistiana a Duino. Il sentiero prende il nome dal poeta R.M. Rilke che, ospite del Castello all’inizio del secolo scorso, come già lo era stato Dante prima di lui, qui compose le sue “Elegie Duinesi”. Oppure anche chi cammini -come m'è recentemente capitato- tra i resti suggestivi dell'antica Lyndos (cittadina di origine dorica sull'isola di Rodi) meditando sui detti del locale saggio Kleoboulos (uno dei Sette Saggi) nell’età arcaica della Grecia, oppure per raggiungere Lyndos entri in barca nella baia da cui giunse san Paolo, immedesimandosi nelle sue apprensioni d'animo. Anche chi rifaccia esattamente i tragitti compiuti da Rimbaud, o ripercorra gli spostamenti del principe Gautama divenuto il Buddha, oppure il cammino di san Francesco, e sia munito della sua Charta Peregrini viae Francisci, o vada in cerca dell’itinerario compiuto dal cavaliere don Chisciotte nella Mancia in Spagna, o percorra il "Peer Gynt Vegen" (sentiero tra i monti a nord-est di Lillehammer in Norvegia), ripensando al personaggio leggendario rievocato in un dramma di Ibsen (con musiche di scena di Grieg), oppure ripercorra in NordAmerica i duemila km. del Long Pioneer Trail dei mormoni del 1846, o piuttosto rifaccia il percorso della Lunga Marcia del 1934/35 di Mao attraverso la Cina, o che altro..., li vivrà e li doterà di un senso proprio, a dispetto del fatto che si senta profondamente ispirato dal poeta ribelle francese, o dalla filosfia di Dulcinea, o da Rilke, oppure dal giovane educato dai Troll, o dalle epistole paoline o dal libretto rosso o da altri libri sacri, perché non si tratta di un impossibile "ri-fare" ciò che han fatto altri. Nemmeno noi stessi in definitiva potremmo ripercorrere i percorsi da noi già percorsi nel nostro personale passato ("a volver la vista atràs/ se ve la senda que nunca/ se ha de volver a pisar", a rivolgere lo sguardo indietro si vede il sentiero che mai si tornerà a calcare, dice Machado).

Quindi, come abbiamo visto, ci sono dei percorsi ispirati a dei sentieri originari su cui nessuno nella nostra prosaica raltà ha nemmeno mai lasciato una sua impronta del piede, e che da certa gente sono considerati non solo irreali, ma inautentici, eppure che a dispetto della proclamata morte della mitopiesi, risultano per molte altre persone sentieri che percorrono un mondo “talmente fantastico da risultare più vero del vero” (Marcoaldi). Ed è perciò che esistono dei veri tour altrettanto frequentati quanto dettagliati attraverso i luoghi nominati in certi romanzi…

Ciò che resta come messaggio è il concetto stesso del dover compiere un cammino, se si vogliono incontrare situazioni, eventi e personaggi sorprendenti in modo da indurci a riflettere (penso al film di Buñuel La via lattea, del 1968/69, in cui compose un "falso" on-the-road nel quale la ridda delle vicissitudini di alcuni pellegrini sul cammino di Santiago raggiunge livelli surreali). Ma indubbiamente il valore simbolico del percorrere un itinerario è estremamente vivo e tuttora e da sempre stimolante e vivificante.

« Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»

«Dove andiamo?»

«Non lo so, ma dobbiamo andare »

Sempre alla ricerca dunque, sempre nella Grande Avventura del viaggio verso l'ignoto. Con questo spirito Dante fa pronunciare al suo Ulisse l’appello (che forse poi sarà stato ripreso da Colombo...) ad affrontare l’ignoto: “Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza” (Inf. XXVI, 119-120) facendone l’eroe paradigmatico dell’ avventura umana (“considerate la vostra semenza”!). Con quello spirito di determinazione così dantesco, per cui neppure i vincoli d’affetto “vincer potero dentro di me l’ardore/ ch’i’ebbi a divenir del mondo esperto, / e degli vizi umani e del valore, /ma misi me per l’alto mar aperto” (ivi 97-100). Quello spirito di avventura e di ricerca di conoscenze che mosse un "Ulisse" moderno quale fu il norvegese Thor Heyerdahl che nel 1947 affrontò il grande oceano "pacifico" su una zattera di balsa (il "Kon-Tiki"), per sostenere come vi fossero potuti essere contatti tra le popolazioni andine e sudamericane e gli abitanti degli arcipelaghi dell'oceania, impresa ripetuta nel 1956 per dimostrare la provenienza dei costruttori delle imponenti ed enigmatiche statue monolitiche dell'isola di pasqua (a 3600 km dalla costa); quell' indomito spirito d'avventura che ancora lo spinse poi ad attraversare nel 1972 l'Atlantico con una barca di papiro, costruita grazie ad indigeni esperti del lago Titicaca, o ad andare nel 1977 dalla foce del Tigri in Mesopotamia sino all'India e poi di lì a Gibuti in Africa (e in effetti la presenza di garze e tessuti del Gujarat indiano presso i sacerdoti imbalsamatori dei faraoni è documentata, così come gli scambi tra le terre della leggendaria regina di Saba e l'Assiria e la Palestina) su una imbarcazione di giunchi intrecciati simile a quella degli antichi Sumeri (e forse molto simile anche a quella che poté essere usata ai tempi mitici di Noé e poi di Gilgamesh)... per dimostrare la plausibilità di contatti commerciali ed intrecci culturali tra lontane civiltà sin da tempi molto antichi. Questi "cammini" sul mare lo resero un eroe del Novecento ed aprirono nuove inusitate strade per la ricerca storica e antropologica.

Ma si può sempre solo andare?, come Heyerdahl, o come Rimbaud, come Marco Polo e i suoi famigliari, come gli esploratori, gli scopritori di nuove terre, o come i camminatori e gli scalatori senza confini, o insomma come Ulisse...?? nell' Odissea il ritorno ad Itaca, è -come già ricordavo- ciò che dota di senso tutta l'avventurosa vicenda del suo continuo andare, tanto che il poeta greco moderno Kostantin Kavafis affrontando questo tema scriveva: “(…)Se per Itaca volgi il tuo viaggio,/ fa voti che ti sia lunga la via,/ e colma di vicende e conoscenze./ Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi/ (...) E siano tanti i mattini d'estate/ che ti vedano entrare (e con che gioia / allegra!) in porti sconosciuti prima./ (…) Sopratutto non affrettare il viaggio;/ fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio/ tu metta piede sulla tua isola, tu, ricco/ dei tesori accumulati per strada/ senza aspettarti ricchezze da Itaca./(…) Itaca t'ha donato il bel viaggio. (...)/ Reduce così saggio,così esperto, / ora avrai capito che vuol dire un'Itaca./”.

 

§. l' approdo finale

Ma non sempre il ritorno è quello omerico... Lasciate che vi rammenti alcune storie in proposito.

C'è un vascello nero con le vele color sangue che vaga continuamente per i mari, è la nave di un olandese senza nome. Può scendere a terra solo un giorno ogni sette anni per cercare l'amore, ma non avrà mai tregua non potendo nemmeno morire se non troverà una fanciulla che dopo averlo accettato gli sappia restare fedele per tutto il resto della propria vita.

Un insperato giorno incredibilmente la trovò, e la giovane infervorata dall' innamoramento per lui, dichiarò di essere disposta a rinunciare alla promessa di fidanzamento data senza entusiasmo ad un altro il giorno prima, per seguirlo ovunque per tutta la sua vita. Ma l'integerrimo capitano di vascello, si reimbarcò ritenendo non valida una fedeltà che nasca sulla rottura di una promessa. La fanciulla disperata lo rincorse al porto e quando vide che era già salpato si tuffò in mare per tentare di raggiungerlo, pur non sapendo nuotare, e morì annegata. Dunque la sua fedeltà era durata per tutto il corso della sua vita successivo alla promessa fattagli, ed appena si rese conto di ciò, il vascello istantaneamente affondò ed il capitano con esso. Nelle profondità delle acque i due si fondono per sempre...

E' questo un insolito risultato dell' agognato ritorno in porto... Si tratta di un nòstos che dà da pensare, e che anch'esso dota di senso il lungo vagabondare, ...ma significa la morte.

Questa leggenda, anch'essa del folklore nordico (come il sopramenzionato Peer Gynt), fu raccolta da Heine che la riportò in una sua ballata. Ad essa poi si ispirò Wagner nella sua opera L'olandese volante, ovvero il vascello fantasma.

In questo mio riferirvi delle rêveries che mi sovvengono, ora mi tornano alla mente (per curiosa associazione) le immagini bellissime in bianco e nero del film del grande regista svedese Ingmar Bergman "La fontana della Vergine", della fine degli anni Cinquanta, immagini che -come Orfeo il quale col suono del suo flauto ti trascina dove vuole prendendoti per le orecchie- ammaliano e incollano gli occhi e l'attenzione degli spettatori allo schermo, facendo loro compiere favolosi viaggi della mente.

La giovinetta protagonista di questa storia emblematica tratta da una ballata scandinava del XIV sec., è la figlia del signore di una casa, del capo della grande famiglia allargata con i suoi servi e i suoi lavoranti e il parentado, riverito e rispettato per la sua integrità morale, il suo senso di giustizia nell'amministrare la comunità domestica, e il suo fervore religioso. Ma ora la protagonista è lei; è lei il venerato capolavoro, il simbolo della creazione della magione paterna, è lei il gioiello che conferisce senso al tutto. Deve recarsi in viaggio a offrire i ceri alla madonna di un vicino santuario, e chiede alla fantesca gli abiti migliori, ma questi sembrano ai genitori essere troppo vistosi e inadeguati, la giovinetta allora si rivolge alla madre e le dice a tutte lettere: "io devo incarnare la felicità piena? e dunque mi devi assecondare perché è la felicità mia che fa la felicità tua, e se sei felice tu, si rasserena e rallegra anche il padre tuo marito". Cioé le significa la perfetta adesione della materia alla forma, della casa al suo ordine, al suo rito, attorno al suo centro, poiché solo così si può rendere la pienezza del tutto.

La giovinetta parte per il viaggio, per questo itinerario santo, su un destriero bianco e la segue la domestica su un cavallo scuro, la vergine è bionda e la governante bruna, la prima è luminosa, la seconda sciatta e modesta, non vergine ma vittima di violenza e gravida, non serena ma amareggiata. La giovinetta le è affezionata ma un po' la disprezza come serva e disonorata. Non sa ancora che loro due sono le due facce della medesima medaglia, perché non ne è consapevole. Entrano nella fitta foresta passando un ponticello a piedi, e mentre un uomo intrattiene la domestica con l'offerta di leggerle il destino,  si sente un monaco che dice a un pastorello:

"Vedi come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto come avesse paura dell'ignoto. Eppure se si librasse nell'aria e compisse tutto il suo cammino, troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa. Con gli uomini capita lo stesso: essi vagano inquieti come foglie, per quel che sanno e per quel che non sanno".

La ragazza incontra poco dopo tre pastori, due adulti e un fanciullo, che le chiedono di condividere il cibo che ha con sè, e così in una radura iniziano a mangiare. Ma subito i due le usano violenza. La fantesca intanto vede tutto nascosta poco distante, raccoglie una pietra ma ha paura ad intervenire. Poi uno colpisce la ragazza alla testa, la giovane cade priva di sensi e muore, l'assassino le toglie la bella veste per rivenderla. I due portano con sè il ragazzetto (che è stato testimone), e raggiungono la casa più vicina (cioé la casa del padre), chiedono a lui asilo, e siedono subito alla sua mensa invitati come ospiti. Frattanto poi giunge la fantesca e racconta tutto alla signora che subito spranga le porte e chiama il marito. Consumato il pasto i disgraziati cercano di vendere al padre l'abito. Intanto che i tre vengono accompagnati ad un giaciglio per dormire, il padre si prepara a giustiziare i tre pastori, come in un rito, che attuerà all'alba. Quindi guidati dalla serva vanno a recuperare il corpo della figlia, e trovano che dal punto in cui aveva battuto il capo, sgorga una fonte limpida di sorgente. Tutti e tre si lavano in quell'acqua in segno di purificazione. Il padre invoca l'Altissimo chiedendoGli di capire il gesto sacrificale che egli sta per compiere, e implora il perdono, ritenendo di poterlo ottenere:

"Tu vedi o Dio! -dice nell'invocazione- Tu vedi, vedi la morte di una innocente, vedi la mia vendetta di giustiziere, e non l'hai impedito. Io non capisco, eppure chiedo il perdono a Te...". 

...e comunque il fervente implorante non riceverà alcuna risposta....e quindi non riesce a chiarire il senso di tutto ciò. All'alba i due violentatori assassini, e il ragazzino, riceveranno la morte.

Questa in breve la storia del pio viaggio della vergine e del suo ritorno a casa. Anche qui il ritorno è centrale. Si intuisce con estrema nettezza che questo ritorno segnerà per sempre il perno della vita di tutta la famiglia della casa, stravolgendo l'immagine stessa del suo signore, determinando in modo preciso e inequivocabile un prima e un dopo; dotando quindi di senso, ovvero impregnando di sè il significato di tutto ciò che verrà dopo. 

Permettetemi di proseguire con un altro esempio ancora un po' "controcorrente" rispetto all'antico tema greco del nòstos, e rispetto al troppo lungo viaggio di Ulisse. Similmente per certi versi, ma diversamente per altri, ecco la storia del lungo cammino compiuto da un fiero cavaliere, che viene anch'essa narrata dal grande Bergman, nel suo storico film "Il Settimo Sigillo", del 1956, ispirato a certi dipinti medievali presenti in chiese nordiche di legno (stav kirke), intitolati la Danza della Morte in cui si vede la Morte che gioca a scacchi. Nel film si mostra il prode cavaliere che sta ritornando dalle crociate ed è giunto oramai a poca distanza dal suo castello in Svezia, accompagnato dal suo scudiero e da altri. Quando si fermano per l'ultima notte, prima di attraversare l'ultima foresta, mentre il cavaliere è solo sulla riva del mare, gli si avvicina un inquietante personaggio.

"Chi sei?" chiede l'intrepido cavaliere, "Sono la Morte...sei tu pronto?" , "Lo spirito sì è pronto -rispose il crociato che non aveva mai temuto di morire in battaglia- ma il corpo non lo è ancora...-ed aggiunse subito- è poi vero che sai giocare a scacchi?", "Chi te lo ha detto?" , "Le leggende lo narrano...".

La Morte accetta l'ultima sfida del cavaliere e sorteggiano l'attribuzione del colore dei pezzi; alla Morte tocca ovviamente il nero. La partita procede per tutto l'ultimo tratto del cammino verso il rientro al proprio castello e procede non solo sulla scacchiera ma nel viaggio reale in cui accadono incontri ed eventi singolari. Anche Nietzsche nella terza parte di "Così parlò Zarathustra" intitolata appunto "i sette sigilli" (3), aveva considerato la vita come un giocare a scacchi "alla mensa degli dèi che è il mondo" (tema che verrà ripreso dallo stesso Bergman nella scena del primo sogno nel suo film "Il posto delle fragole",1957).

Alla Vita tocca la prima mossa, ma alla morte non solo la seconda ma anche l'ultima. Il cavaliere ha intuito che cosa contendere alla morte, avvicinando una giovane coppia di saltimbanchi con il loro bimbo piccolo, che procede lentamente sul proprio carrozzone assieme ad un quarto personaggio insulso, e si ferma per timore di attraversare la foresta. Lo intuisce contemplando la freschezza di quella giovane madre radiosa durante il frugale pasto consumato vicino al mare. Il mare (come nell' Olandese e in Machado) è qui un motivo ricorrente, è la materia in senso metafisico, l'immensità delle possibilità dell'essere, mentre la foresta è simbolo di misteriosa impenetrabilità, del regno dell'ombra. Il cavaliere promette di scortare quei saltimbanchi attraverso il bosco, per condurli al suo castello dove avranno la sua protezione. (E alla fine i membri di quella giovane famiglia saranno i soli a sopravvivere...). Giunto al suo castello la moglie che lo attendeva da anni gli chiede se si è pentito di aver fatto quel viaggio, e lui le risponde di no ma che ora si sente spossato e molto stanco. Mentre si distende e riposa anche il corpo, accetta la morte. Sin lì quindi, quella è stata la pausa che il cavaliere ha ottenuto di strappare alla Morte. Intanto tutti quanti muoiono contaminati dalla peste, tranne i tre della famigliola. Qui dunque il valore del raggiungimento della mèta è supremo, ciò che più vale è riuscire a saper perseverare sino a portare a compimento ciò che si doveva compiere nella vita; come se ognuno di noi avesse un compito da svolgere che non può esser lasciato incompiuto.

Mi sovviene un testo dell'ultracentenaria Rita Levi Montalcini che nel suo libro Senz'olio, contro vento, rende esplicita la sua concezione di un “dovere di vivere”, chiarendo come per lei esso sia stato sempre sostentato da un imperativo etico a dare il proprio contributo al miglioramento della condizione umana, e dunque non manca in lei un accento critico verso quel “mestiere di vivere” -così denominato da Cesare Pavese- e soprattutto verso il comune "saper vivere" per imparare il quale in definitiva si dovrebbe cercare di adattarsi con “realismo” ai “valori” della realtà vigente appunto per "imparare a stare al mondo" ...

"viandante, non c'è via, il cammino si fa con l'andare". Ciò che conta in Machado è il cammino stesso, il fatto di mettersi in cammino, e -dice Machado- voltando indietro lo sguardo si vede il sentiero che mai si tornerà a calcare, e ci si avvede che dunque il cammino non è nient'altro che quelle impronte che lasci. Nessuno può ripercorrere il tuo cammino, esso è unico, e nemmeno tu stesso puoi ritornarvi. Questa assoluta unicità individuale prospettata da Machado è una tessera costituente della molteplicità del mondo fenomenico delle forme, rispetto al Mondo inteso come unicità-totalità dell' insieme, e raffigurato come "luogo del ritorno". Anche le impronte si diluiranno: poiché in effetti camminiamo su un mare (in un altro canto, il XLIV, dice: "Todo pasa y todo queda, / pero lo nuestro es pasar, / pasar haciendo caminos, / caminos sobre la mar" (tutto passa e tutto resta, ma il nostro (dovere) è di passare, passare facendo dei cammini, dei cammini sul mare). In cui ritroviamo il valore simbolico  e purificatore dell'elemento primordiale dell'acqua.

Come scriveva Pirsig ne Lo zen e la manutenzione della motocicletta, ciò che conta è la qualità del percorso, ciò che conta è - come in quel rituale dell' intrattenersi a dialogare dei pellerossa dei Grandi Laghi - intessere le nostre relazioni con il nostro prossimo, cercando sempre di fare in modo che si instauri il più possibile una relazione di qualità nello scambio tra gli interlocutori, e nello scambio con chi si incrocia lungo la via. “Bisogna –diceva Seneca- srotolare per così dire la memoria e, di tanto in tanto, scuoterne tutta la polvere che vi si è depositata”. Dunque imparare a discernere il senso, apprezzando la bellezza e l'unicità degli eventi e dei soggetti, proprio -direi- perché effimere (lo dico ripensando ai versi di Pindaro in cui si accostano l'eroe ginnico e la precaria rugiada, citati e commentati da Martha Nussbaum in apertura del suo libro su "La fragilità del bene", 1986, pp. 44 segg.). E in effetti se vogliamo bere dalla purezza dell'acqua raccolta nel palmo, dobbiamo non esitare, se no essa ci scorre tra le dita.

§. molto dipende dal come

Riandando con la mente a quegli anni, mi sovviene quanto riferiva Carlos Castaneda in "Gli insegnamenti di don Juan - Una via Yaqui alla conoscenza", del 1968, in cui il "nagual" (sciamano) don Juan Matùs del popolo "indio" degli Yaqui nella regione desertica di Sonora nel nord del Messico, gli disse parlandogli in qualità di suo maestro di iniziazione:

«Tutto è solo una strada tra tantissime possibili. Devi sempre tenere a mente che una strada è solo una strada; se senti che non dovresti seguirla, non devi restare con essa a nessuna condizione. Per raggiungere una chiarezza del genere devi condurre una vita disciplinata. Solo allora saprai che qualsiasi strada è solo una strada e che non c'è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nel lasciarla andare se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Ma il tuo desiderio di insistere sulla strada o di abbandonarla deve essere libero da timori o dall'ambizione. Ti avverto: Guarda ogni strada attentamente e deliberatamente. Mettila alla prova tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una domanda. Questa è una domanda posta solo da un uomo anziano. Il mio benefattore me l'ha detta una volta quando ero giovane, e il mio sangue era troppo vigoroso perché la comprendessi. Ora la comprendo. Ti dirò che cosa è: "Questa strada ha un cuore?". Tutte le strade sono uguali; non portano da alcuna parte. (...) Nella mia vita posso dire di aver percorso strade lunghe, molto lunghe, ma io non sono da nessuna parte. La domanda del mio benefattore ha adesso un significato.(...) E' una cosa che si sente. Il problema è che nessuno si pone questa domanda, e quando un uomo si accorge di aver intrapreso una strada senza cuore, essa è pronta ad annientarlo. Ma arrivati a quel punto, sono pochi quelli che si fermano a riflettere e abbandonano la strada.»

In questo brano si sottolinea il fatto che in fondo non è la cosa più importante quale via tu prenda, e che la cosa più importante non è forse nemmeno la mèta, ma lo è -come diceva pure Pirsig- la qualità del percorso, e il come viene percorso, ed anche il fatto di avere sempre lo spirito critico sveglio, non cessare di porsi domande, e avere il coraggio di prendere atto dei cambiamenti, soprattutto di quelli che accadono dentro noi stessi. Dunque con tono profetico Castaneda sembra lanciare una ammonizione anti-integralista avvisandoci che un cammino già preconfezionato, inteso come il cammino unico, il cammino della unica verità, è un cammino che ti anestetizza. Allora in questo caso porre domande lungo il cammino può divenire praticamente impossibile, e se giunge tardivamente il giorno in cui proviamo perplessità, può darsi che sia troppo tardi e che manchi l'energia per eventualmente cambiare sentiero e ricominciare. Se il percorso che percorriamo non producesse alcuna trasformazione in noi stessi, non sarebbe un percorso degno di esser compiuto durante la vita da un essere umano (cfr.Socrate), e adatto a farci compiere una maturazione, e dunque un processo di crescita. Naturalmente stiamo parlando di percorsi di conoscenza e anche di percorsi di arricchimento spirituale e interiore, che possiamo interpretare anche come percorsi di formazione più in generale, e si può ben intendere come in questo senso, sapere, conoscere, capire, avere consapevolezza, possano essere visti e posti come stadî di un viaggio iniziatico. Innanzi tutto bisogna riconoscere in sè il desiderio, che può attivare l’intenzione, quindi la volontà di sapere per conoscere, ma bisognerebbe poi usare questo sapere, queste conoscenze, per capire, poiché solo così si conosce veramente, ordinando, combinando, concatenando le cose per dare loro un senso e poterle interpretare. Infine quel che si è capito di ciò che si conosce, deve essere assimilato, fatto proprio, come dirà Dante (“non fa scienza sanza lo ritener lo aver inteso”), e dunque reso fondamento della consapevolezza, solo a questo punto tutto ciò si traduce in un fattore di maturazione e trasformazione del nostro modo di relazionarci col mondo e col prossimo, perché avere un sapere fa l’essere, da forma alla modalità di essere, il che genera l’atteggiamento e l’agire, e quindi l’esperienza che si vien facendo, nel senso del termine tedesco Erfahrung, dalla radice fahrt, viaggio (4).

Non è dunque il percorso in sè stesso ad essere importante, in definitiva un percorso è un metodo (meta-hodos), è solo un mezzo. Ma è di importanza cruciale verificare che il cammino sia adeguato a noi, per seguirlo con sobrietà e serenità, senza tensioni, o ossessioni. Senza fondamentalismi e integralismi. Altrimenti si tratta di una dottrina, di una ideologia, di una scuola chiusa in sè stessa. Quindi bisogna che sia un cammino "di cuore" ("Vai dove ti porta il cuore", sintetizzava la nostra S.Tamaro), scelto seguendo il cuore per percorrerlo con cuore, e che non generi timori o ansie o crei problemi, o eccessive ambizioni, e che venga posto costantemente al vaglio del nostro giudizio critico e spassionato, a mente libera e serena. "Provalo e poni continuativamente a te stesso, ma al tuo interiore soltanto", dice don Juan, "la domanda: se ti senti pentito o titubante per aver intrapreso quella strada, oppure sereno e in pace con la tua scelta". (E la domanda è poi quella stessa della moglie del crociato). “Per me esiste solo il cammino lungo sentieri che hanno un cuore…. E qui io cammino, guardando, guardando, guardando senza fiato”. Cioé, ci dice don Juan, esperimenta pure varie strade (e questa disponibilità al confronto è importante), ma percorri ciascuna sempre mantenendo viva e presente la consapevolezza che si tratta di una tua messa alla prova di te stesso, per la tua crescita, la tua maturazione nella comprensione di te stesso, dell'uomo, e del suo mondo, e in definitiva che è questa la cosa più importante.

"L'artista che non dubita di sè, non potrà mai giungere alle somme vette dell' arte", annotava Leonardo da Vinci ( Pensieri sull'Arte, XI).

Quindi dovrebbe sempre essere anche un cammino in cui mantenere sveglie le nostre capacità analitiche e critiche, in cui cioé vi sia la serenità d'animo sufficiente per poter ragionare sulle cose, su ciò che ci sta accadendo, come diceva ancora Socrate nella sua famosa risposta data al caro amico d'infanzia Critone nel carcere in attesa della esecuzione, quando lo incitava a salvarsi con la fuga: "Poiché io, e non ora per la prima volta, ma da sempre, sono fatto in modo tale da non dar retta a null'altro di ciò che è in me se non al ragionamento, e proprio quello che, mentre sto ragionando, mi si configura come il migliore" (5). Quindi un percorso intrapreso con equilibrio tra grande compartecipazione di sentimenti, e insieme con mente serena e spirito critico desto.

§. ritornare a noi stessi, all'approdo interiore

Bisognerebbe insomma sempre ricordarsi la questione socratica: che cosa rende una vita degna d'esser vissuta? Per quanto lo riguarda lui rispose nel suo famoso discorso di  difesa (Apologhìa): una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta da un uomo (ho dè anexétatos bìos où biotòs anthròpo), se non è dunque dedita al domandare, quindi ad aprire un dialogo con ogni interlocutore, e al domandarsi. "Il più gran bene dato all'uomo -diceva Socrate- è proprio questa possibilità di andar riflettendo quotidianamente sulla virtù e altri vari temi". Ma per saper rispondere devi prima di tutto dubitare del tuo credere di sapere già quali siano le cose di maggior valore, quindi devi prenderti cura di te stesso (la classica epiméleia seautoù), e infine e innanzitutto dedicarti ad ottemperare all'antichissima indicazione del tempio di Delfi, "conosci te stesso" (gnòthi seautòn).

In definitiva sempre al soggetto bisogna ritornare. Tutti dobbiamo fare le esperienze e provare i patimenti di Ulisse per tornare a casa e liberare il popolo di Itaca dai Proci che hanno occupato il nostro palazzo per gestirlo loro, e oltretutto col fine di farsi solo gli interessi propri. Naturalmente intendendo il messaggio anche in senso metaforico relativamente al mondo che è dentro a noi stessi (la propria isola felice, il proprio palazzo interiore, i proprî "Proci" che lo infestano). In questo impulso di partire per un Grande Viaggio va considerata anche l'importanza di percorrere non solo un cammino all'esterno, ma anche nella direzione interiore, per cui bisognerebbe il più frequentemente possibile, in questa via introspettiva verso la scoperta di sè ("the way in", la chiamava nel '68 Barry Long) farsi "entronauti" (per riprendere una felice espressione dello scrittore italosvizzero Piero Scanziani).

A questo punto lasciatemi pure citare quel che scrisse G.K. Chesterton nella sua novella spirituale del 1912 Le avventure di un uomo vivo  (=Man alive, di dieci anni precedente la sua conversione):

«esclamò il forestiero: “C’è una sola cosa buona che la scienza abbia mai scoperto: una cosa buona, un gran messaggio di gioia - ed è che il mondo è rotondo.”

Gli significai gentilmente che le sue parole mi risultavano incomprensibili

“Voglio dire” rispose “che andar dritto intorno al mondo

è la strada più corta per giungere al posto dove vi trovate”. 

“Ma non sarà anche più corta” domandai” rimaner dove siamo?”

“No, no, no!” esclamò con grande enfasi “Cotesta strada è lunghissima e quanto mai faticosa. Alla fine del mondo, alle spalle dell’aurora, troverò la sposa che veramente sposai e la casa ch’è veramente casa mia. E davanti a quella casa sarà un lampione anche più verde di quello che ora c'è e una cassetta postale anche più rossa. Non sentite mai bisogno” mi disse con passione repentina “non sentite mai bisogno di fuggire dalla vostra casa allo scopo di ritrovarla?” ».

Non posso però ora, per associazione di idee, trattenermi dal ricordare, avviandomi al termine di questa peregrinazione da vagabondi del pensiero, quella storiella ebraica, di cui riferì anche Martin Buber nel 1928 nella sua raccolta di vecchi racconti dei chassidim (una corrente mistica dell'ebraismo dell'est europeo del Settecento), nella quale...

un povero rabbino del ghetto di Cracovia, di nome Eisik, fece un sogno in cui gli si indicava che al ponte del castello di Praga avrebbe trovato un tesoro che avrebbe risolto l'indigenza della sua famiglia. Fece il lungo viaggio, ma all'inizio del ponte c'erano dei gendarmi, e quindi tornò a diversi orari per tre giorni sperando in loro assenza di poterlo percorrere. Sinché una guardia che lo aveva notato gli chiese come mai venisse sempre lì, e il povero Eisik gli disse che aveva sognato di dovervi venire. Al che la guardia si mise a ridere, e gli disse "Davvero hai percorso tutta quella strada per un sogno? quale idiota darebbe così retta a un sogno? Se anch'io avvessi dato retta ai sogni sai cosa avrei dovuto fare? un percorso proprio come il tuo ma in senso opposto, e senza dubbio ne avrei cavato il medesimo risultato. Avevo sognato di dover andare a cercare un tesoro nel ghetto degli ebrei di Cracovia in casa di un certo Eisik sotto l'angolino sporco dietro la stufa! figurarsi!... andare col piccone cercando in un quartiere dove la metà della gente si chiama Eisik !..." Subito il povero rabbino rifece tutta la strada a ritroso e giunto a casa scoprì che nell'angolo più negletto si trovava sepolto un bel gruzzolo di monete d'oro, con una parte del quale risolse le sue maggiori urgenze e col resto fece erigere una casa di preghiere.  (sintesi mia)

Questa storiella ci dice con il consueto spirito autoironico che caratterizza gli ebrei di cultura yiddisch, che dunque se non avesse compiuto tutta quella strada non avrebbe mai saputo di quel che aveva già in casa, e naturalmente perché ci potesse credere aveva bisogno di sentirselo dire da un altro, di diversa tradizione, di un'altro paese, di un'altra religione (6).

Machado in una sua nota interessante e ricca di spunti, in cui si mostra critico nei confronti della concezione di tipo sostanzialista dell’identità che tende a rifiutare quel che percepisce come alterità, così scriveva:

(dicono che)“l’altro, non esiste: è questa la fede razionale, l’incurabile credenza della ragione umana. Identità = realtà, come se, alla fin dei conti, tutto debba essere assolutamente e necessariamente uno e il medesimo. Ma l’altro non si lascia eliminare; sussiste, persiste; è l’osso duro da rodere in cui la ragione perde i suoi denti. Abel Martìn, con fede poetica, non meno umana della fede razionale, credeva nell’Altro, nella ‘essenziale eterogeneità dell’essere’, come a dire nella incurabile "altrità" di cui ha sentimento l’uno.”

 Racconti simili poi sono stati la base da cui ha preso ispirazione anche Paulo Coelho per noti suoi romanzi come L'alchimista, o Il pellegrinaggio. Nè dissimile è il viaggio di cui ci parlava Saramago verso un’isola sconosciuta, perché poi … “bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, è che non ci vediamo, se non ci allontaniamo da noi, Se non ci allontaniamo da noi stessi, intendete dire, Non è la medesima cosa.”… così scriveva nel suo O conto da ilha Desconhecida, in cui oltretutto “Il filosofo del re diceva che ogni uomo è un’isola”, … e allora alla fine, come sappiamo, “verso mezzogiorno, con la marea, l’Isola Sconosciuta prese infine il largo… alla ricerca di sè stessa”.

Naturalmente anche qui la metafora rimanda al nostro interiore e a ciò che conculchiamo nei recessi oscuri e più profondi dietro al nostro cuore. Bisogna ascoltare anche la voce del diverso da noi per poter "scoprire" noi stessi (e che abbiamo bisogno dell'altro), per poter costruire la nostra stessa personalità e identità, e scoprire la complessità (su questi temi cfr. il mio, 2011). Bruce Chatwin ci riferisce di tante interviste ad altri per lui importanti personaggi, tanti incontri, tante osservazioni compiute, per riuscire a darsi una spiegazione alla domanda “che ci faccio io qui?”. Abbiamo bisogno degli altri come gli altri di noi in questa intricata rete di relazioni in cui viviamo, come ben sintetizzava Primo Levi in una sua poesia intitolata “ai miei amici”: “(...) o tu /che mi leggi: ricorda il tempo /prima che s’indurisse la cera, /quando ognuno era come un sigillo. /Di noi ciascuno reca l’impronta /dell’amico incontrato per via;/ in ognuno la traccia di ognuno. /Per il bene od il male /in saggezza o in follia /ognuno stampato da ognuno. (...)”.

Ma in definitiva dire che "non c'è via, il cammino si fa con l'andare", rimanda  un po' anche all'antico memento di Sallustio: "faber est suae quisque fortunae", che ci vuole ricordare che ciascuno di noi è comunque l'artefice della propria sorte, che ognuno dunque costruisca e percorra il proprio cammino con consapevolezza di essere appunto l'autore della propria stessa vita in mezzo ad altre vite. Ma dato che si tratta di faccenda non certo facile, anche mi torna in mente un motto del rinascimento inglese, che diceva: "Life is the only game in which the object of the game is to learn the rules",  la vita è l'unico gioco in cui l'obiettivo del gioco è di impararne le regole...(7).

Questi ed altri temi si trovano in uno dei grandi libri del novecento, cioè "Tristi Tropici" di Claude Lévi-Strauss, che forse è anche uno degli ultimi romanzi di formazione, ovvero Roman d'apprentissage, nel quale l'autore nel suo diario di quel grande viaggio in Amazzonia ci racconta anche le motivazioni che erano state alla base della sua scelta di intraprendere il mestiere di antropologo, e cioé lo scoprire il generale, "nascosto" nel particolare (come Pirsig intendeva fare col figlio), e il cercare l'altro che è anche dentro noi stessi....

 

§. percorso di formazione come processo di trasformazione

“E’ una buona cosa avere una destinazione per intraprendere il proprio viaggio: ma in fin dei conti, quel che veramente importa è il viaggio.” (Ursula K. Le Guin)

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi” (Marcel Proust)

“Il bello del viaggio, non è la mèta, è l’imprevisto, perché desta la meraviglia” (Antonio Tabucchi)

Nell'intraprendere un cammino esperienziale di consapevolezza, molto determinanti si mostrano essere le motivazioni che ci hanno spinto, le aspettative che nutriamo, le intenzioni e gli intenti che ci indirizzano.

Ma in un cammino che lasci spazio alla spontaneità e all'avventura, importante è anche una certa disposizione d'animo, la curiosità e l'apertura al nuovo. Per il grande scrittore, drammaturgo, romanziere e poeta Jean Genet tutto ciò nasceva dal fatto che per lui il “fantasticare” (il dedicarsi alle rousseauiane rêveries) era un “paraurti” contro la “solitudine morale”. Perciò, arruolatosi nella Legione Straniera e partito per il sud marocchino, ad un certo punto il soldato Genet lasciò la sua postazione e disertò per andare a vedere il grande Paese Berbero, e poi il deserto al di là della imponente catena innevata dell’Atlante. Fu poi ripreso e arrestato, e disse: “no, non sempre si scappa perché si rifiuta un luogo, ma perché si spera in un non-so-cosa”. Forse era stato affascinato dalla vicenda del viaggio folle di Michel Vieuchange fino al sito della favolosa Smara, appunto oltre-Atlante, che trovò e in cui sostò tre ore, per poi ritornare sulla costa e morire. Da qui poté sorgere forse il desiderio di emularlo, e di ripercorrere il suo percorso… Due anni dopo gli fu richiesto un articolo per una rivista, e con il pretesto di raccontare quella famosa avventura, scrisse: “La mia  prima intenzione era quella di parlare del viaggio di Vieuchange a Smara. Ma sarebbe come nascondermi. Ho piena coscienza che tocca a un soldato francese in NordAfrica inamorato di quello che c’è più-in-là, dire cos’è stata l’opera di un giovane avventuriero che attinse nel suo genio esaltato una follia tale, che realizzò sè stesso realizzarsi, ecco. Diventare sè stesso nella propria opera. Michel Vieuchange oramai non è più altro che un viaggio a Smara. Tutti conosciamo il bisogno di andare altrove; pensiamo di fuggirci fuggendo il cerchio più o meno vasto in cui esaliamo tanto di noi stessi, che l’aria diventa irrespirabile. Vogliamo una atmosfera vergine di noi. Michel Vieuchange non ha voluto fuggire ma andare. Il suo vagabondaggio è un’opera d’arte, e l’opera d’arte non è una fuga. (…) era un innamorato. Carezzò la sua opera prima di realizzarla. Per un anno forse. Fare quello che nessuno ha mai fatto. (…) Quando si è davanti all’Atlante – “cosa c’è dietro?”, ci si dice. (…) E’ lo stesso paese grigio col cielo. (…) Però si spera in un paese misterioso. Non si è mai delusi, perché si vuole quello che c’è dietro. (…) Andare, sapere che tutto è uguale, e volere più-in-là. Andare soli, pensierosi, annerire al sole (…). Per l’amante del laggiù, ci saranno sempre Smara addormentate al sole di mezzogiorno (…).” (su “Jeunes”, Paris, 1933. Da D.Galateria, in “La Repubblica”, domenica 05.12.2010, p.40). Genet dunque non solo non aveva semplicemente l’intenzione di ripercorrere il percorso di Vieuchange (e in effetti non andò a Smara) ma di intraprendere un suo cammino, stimolato da quell’esempio, in piena consapevolezza e lucidità, tanto che è ben in grado non solo di autoanalizzarsi ma di comunicarlo. Genet era in attesa dell’inatteso, che cercava anche inoltrandosi in un paesaggio sempre uguale.

L'antico filosofo Eraclito ammoniva il suo auditore dicendo: “aspéttati sempre l'inatteso, altrimenti non lo saprai affrontare” (eàn mé élpetai anélpiston, ouk exeurései); è pur vero che ci sono cose che non conosci in modo certo, ma che dopo averle verificate e aver constatato che rispondono alle aspettative (cioè che sono proprio -o più o meno- come prevedevi che potessero essere a partire dai dati di cui disponevi), ti aiutano ad acquisire cognizioni più salde... ma il problema vero, avverte Eraclito, sta nel fatto che altre invece no...non si presentano come pensavi, e inoltre molto di frequente se ne presentano alcune del tutto impreviste e imprevedibili. Ed è proprio da lì che si deve iniziare la ricerca. Dobbiamo aspettarci persino l'insorgere de l'Alterità estrema, nel confronto con ciò o con colui che non ci aspettavamo fosse così contrastante, lontano e diverso rispetto a noi, così opposto tanto che il suo stesso esserci di fronte a noi, ci turba nel profondo. Anche questo faccia-faccia imprevisto va preso invece come opportunità per conoscere anche che cosa eventualmente innesca il suo e il nostro rifiuto, tanto da superare a volte la soglia di tollerabilità reciproca. Se non ci confrontiamo con l'inatteso, con la diversità, come potremmo "crescere"? Cioè per Eraclito se non hai questo fondamentale atteggiamento comunque sempre aperto, perderai le occasioni che ti si presentano per conoscere il nuovo, e per rinnovarti, sia pur ponendo forse in crisi alcune tue certezze e sicurezze confortanti, e comunque per porti a riflettere.

E l'inatteso può essere qualsiasi cosa, un evento, un incontro, lo sconosciuto, l'avversario, il nemico, l' "altro", ma dunque anche l'Alterità radicale, ovvero la creatura del dottor Frankenstein (raffigurata nel romanzo di Mary Shelley), o il nostro personale Mister Hyde interiore (raccontatoci dal romanzo di Stevenson sul dottor Jekyll), insomma l'incubo, oppure il non-noto, o il non-conoscibile, ma anche, in definitiva... la Morte, ... forse dunque ... anche il Divino, ... quindi anche qualcosa forse di straordinariamente bello e affascinante, e risolutivo...il Principe azzurro, l'Eroe salvatore. Oppure invece "semplicemente" il ritorno nel rassicurante alveo protettivo della quotidianità, ora vista in questo suo inatteso e inedito aspetto, dunque riscoperta, ri-vista e rivista, rivisitata, reintesa come positiva, autentica, vera realtà, il nòstos, il ritorno nel luogo per il quale si provava rimpianto, nostalgia (quella che ci comunicava il regista russo Tarkowskij nel suo fantastico film Solaris, del 1972, e poi appunto in Nostalghìa, del 1983), che generavano un sentimento di mancanza...e di saudade brasiliana (quella del film "Orfeo negro"), quindi cui "deve" seguire finalmente la chiusura del cerchio, la ricomposizione, la risoluzione, la fine di quei mutamenti e di quelle metamorfosi da cui siamo stati coinvolti.

A quel punto, assicurati certi punti importanti, ricomposto l'insieme di quegli elementi che riteniamo non ci possano mancare, acquisite le condizioni imprescindibili, potremo perferzionarci ulteriormente. Sciveva Machado: “ Come mi sono cari i miei amici quando sono solo; come li sento distanti quando sono con loro...”.

Ma il vero scopo di un viaggio è quello di reincontrarsi con le persone con cui poi condividere quel che si è raccolto: “siamo gli uni per gli altri dei pellegrini che, per strade diverse, cercano con fatica di arrivare in tempo all’appuntamento” (Antoine de Saint-Exupéry).

 Ricapitolando dunque, in un percorso di maturazione e di approfondimento, cognitivo e spirituale, scelto e intrapreso "col cuore", ciò che conta è tener desto lo spirito critico, come ricordavo poc'anzi, cioè avere sempre viva la consapevolezza di noi stessi e di ciò che stiamo compiendo, ma nel contempo anche essere disponibili alla trasformazione interiore, lasciando che le esperienze ci tocchino pure nel profondo, tocchino sia la mente che la psiche. Lasciare dunque stimolare le corde dell'anima e dello spirito, lasciare che gli eventi, anche drammatici, del vissuto, ci trasformino, per poter passare ad un livello più alto, più sottile -anche se più sofferto- di consapevolezza interiore.

La "zetetica" di tipo socratico dunque si configura in definitiva come una ricerca che doti di maggior senso gli eventi con cui ci incrociamo, e anche i nostri movimenti interiori, grazie a una accresciuta conoscenza del vivere, della complessità del mondo e di noi stessi, affinandoci sul piano intellettuale e sentimentale, ma anche spirituale, in modo da acquisire consapevolezza di quali siano le cose cui conferire maggior valore.

Scriveva Rabindranath Tagore in una sua poesia del ciclo “Offerta di canti”: “A lungo durerà il mio viaggio/ e lunga è la via da percorrere./ (…) sono le vie più remote/ che portano più vicino a te stesso;/ è con lo studio più arduo che si ottiene/ la semplicità di una melodia./ (…) Il viandante deve bussare/ a molte porte straniere/ per arrivare alla sua,/ e bisogna viaggiare/ per tutti i mondi esteriori/ per giungere infine al sacrario/ più segreto all’interno del proprio cuore./ (…) ” (Gitanjali, XII).

 

§. urgenza di una formazione alla complessità

 Ugualmente il messaggio che possiamo trarre da pagine di saggezza come quelle menzionate più sopra, e molte altre che trattano il tema del o dei sentieri di conoscenza, e in questo caso dal fatto che l'amico Antonio Valleriani citasse il brano di Machado nell'ambito di una riflessione sulla pluralità dei loci loquendi in un contesto di mondializzazione (cioè delle fonti dei discorsi sul mondo, dei centri di enunciazione culturale, in cui egli sostiene che ogni cultura ha compiuto o almeno intrapreso anche una propria specifica via al moderno), è che bisogna riconoscere l'arricchimento che ci può venire dall'ascoltare la parola che altre culture ci comunicano, al fine di stimolarci a compiere un lavoro interiore che vada verso una crescita e maturazione, oltre che di noi stessi in quanto individui attenti e sensibili, anche più in generale, della nostra stessa cultura europea attuale e della via occidentale alla postmodernità.

Ora, dato che sto rivolgendomi ad un pubblico in buona parte composto da insegnanti, e scusandomi per aver sin’ora solo parlato di me, volevo aggiungere ancora due parole su alcuni risvolti di quanto detto sopra, di qualche interesse pedagogico.

Nella strutturazione di percorsi formativi per i non-adulti molto si può fare per "addestrare" a saper osservare, a saper cogliere certi segnali e cercare di dotarli di un nostro significato (come cercava di fare anche Pirsig con il suo figliolo Chris). E' dunque molto importante imparare a saper stimolare negli allievi le curiosità, e la libertà di espressione dei propri pensieri. Inoltre potremmo imparare a saper guidare esercizi elementari di meditazione, o di yoga, e di rilassamento nell'ascolto del silenzio o di orecchiabili e gradevoli motivi musicali, poiché questi possono essere strumenti molto proficui per favorire il raggiungimento di un migliore equilibrio psichico e per curare l'armonia tra mente e corpo nei ragazzi, anche a livello dei bambini di scuola primaria, che in genere appaiono molto ben disposti verso questi esperimenti e "giochi". Così come apprendere tecniche dialogiche nell'affrontare problematiche "filosofiche" con i bambini, che sono così sensibili alle grandi questioni e chiedono di aiutarli a capire, sono oramai oggetto di numerose riflessioni, sperimentazioni e studi. Parimenti la conoscenza di elementi di culture e di spiritualità diverse da quelle da noi prevalenti, se fornite con tatto e discrezione, senza offendere sentimenti di appartenenza, ma anche in modo corretto e senza esprimere giudizi di merito, mostrando come provare a porsi dal punto di vista di altri, possono rivelarsi molto importanti nell'aiutare a formarsi alla complessità del mondo di oggi e di domani. Accompagnamo dunque i nostri eredi generazionali ad iniziare un loro cammino attraverso questa sempre più fitta foresta di simboli (per usare una espressione di Victor Turner) di questo nostro nuovo mondo mal-globalizzato, ben attrezzati per compiere la traversata con le proprie forze, soprattutto dunque cerchiamo di stimolare in loro lo spirito critico, e le capacità di analisi critica e di documentazione critica, come un solido zoccolo di base, perché si sviluppino degli anticorpi culturali ad ogni forma di integralismo, di dogmatismo, e di intolleranza, in un percorso che contempli sempre una tendenziale armonia tra corpo, mente e spirito.

 

§. in chiusura, sulla via

In chiusura vorrei solamente ritornare al paragrafo precedente sull'approdo finale, con una citazione dal diario intimo di C.G.Jung, in cui in una sublime e poetica pagina dell'ottobre 1913 (nel periodo in cui iniziava "il tormentato emanciparsi dalla figura del maestro") scriveva a seguito di una visione avuta in sogno: (...)"percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io ti parlo, ti chiamo... Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui. Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto sin da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? o non vuoi sentir nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c'è altra via, ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via che mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. (...) Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. (...) anima mia il mio viaggio deve proseguire insieme a te ».(...) Pensavo e parlavo molto dell' anima, conoscevo tante parole dotte in proposito, l'avevo giudicata e resa oggetto della scienza. Credevo che la mia anima potesse essere oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. (...) Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l'anima: la vede come una creatura vivente dotata di esistenza propria, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo, per il quale l'anima è una cosa dipendente dall'uomo, che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini. Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto tale bensì un'inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all'anima come se fosse qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me ma grazie alla quale io stesso esistevo. (...) essa si trova certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell'anima sua. Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio stesso, ma non negli oggetti del desiderio: Se (l'uomo) fosse padrone del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano l'anima propria, perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione.(...)".(8).

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(1) Si veda su questo filone in letteratura: Io e l'Altro, Racconti fantastici sul Doppio, a cura di Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino, 2004, 2007.

(2) Nell'anno successivo i coniugi si trasferirono in Inghilterra dove vissero su un barcone dando lezioni di vela. Poi divorziarono e Pirsig con una seconda moglie si trasferì in Svezia. Più volte vagabondò in barca attraverso l'oceano Atlantico. Nel 1979 il figlio Chris fu incidentalmente ucciso da dei rapinatori all'età di 23 aa. Solo nel 1991 Pirsig ritentò la via risanatrice della scrittura con il suo solo altro libro, anch'esso un diario di un percorso: Lila, una indagine sulla morale, dedicato idealmente alla sua figlia di dieci anni, nata dal secondo matrimonio.

(3) si riferisce alla consuetudine antica di arrotolare i papiri con sigilli lungo il bordo del foglio che resta così incollato a rotolo. In caso di scritture riservate o di testamenti, questi sigilli erano sette (cfr. Amédée Ayfre, cit. sotto). Perciò nella "Apocalisse" (apokàlypsis significa rivelazione) di Giovanni si dice: "E quando l'Agnello ebbe disuggellato il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa lo spazio di mezz'ora. Ed io vidi i sette Angeli che stanno in pié dinnanzi a Dio, e furon date loro sette trombe"...ecc.

(4) sulla distinzione tra i due vocaboli in cui si può tradurre in tedesco il nostro "esperienza", cioè Erfahrung e Erlebnis, si soffermò a riflettere non solo Remo Bodei, ma anche Antonio Valleriani in Figure dell'esperienza cit. sotto, pp.15-21, ricordandoci che il secondo si riferisce ad un dato, mentre il primo traduce piuttosto un processo, uno svolgimento; ma su questo interessante tema ora qui non posso soffermarmi.

(5) frase riportata nel monumento che gli ateniesi fecero scolpire da Lisippo per commemorare il loro grande cittadino quando si resero conto dell'ingiustizia che era stata fatta (l'Erma è nella collezione Farnese del museo archeologico di Napoli).

(6) così almeno commentarono il grande indianista Heinrich Zimmer, cit. sotto, pp. 197-199, e poi anche la studiosa Wendy Doniger, in "I miti degli altri" (trad.it. Adelphi editore). Una vicenda quasi identica la si può leggere anche in Borges nella sua "Storia Universale dell'infamia" (trad.it. edizioni Il Saggiatore, Milano, 1961, pp.93-95) in un raccontino che scrisse rifacendosi ad una favola presente nell'originale persiano de "Le Mille e una notte" (la 351), che riportò anche nella Antologia della Letteratura fantastica (Buenos Aires 1976, trad.it. Editori Riuniti, Roma, 1981, pp. 555-556), nella versione dell’ orientalista tedesco Gustav Weil (1808-89) del 1862. 

(7) motto riproposto da A.E. Brillant, quando, dopo essersi laureato in storia a Berckeley fondò a metà degli aa. sessanta in California una sua innovativa e originale "Floating University", università flottante, su un battello che proponeva crociere educative intorno al mondo.

Sul tipo delle Travelling Folk High Schools nate a Tvind in Danimarca ispirate dalla pedagogia popolare di Grundtvig (su cui cfr. il mio articolo: "Profilo storico delle scuole superiori popolari danesi, 1844-1944", in: "Annuario dell'Istituto di Storia Contemporanea ISCMOC- Ferrara", N°5 (1982-1983), Clueb editrice, Bologna, 1984, pp. 245-263.

(8) Stiftung der Werke von C.G.Jung, 2009, trad. it. C.G.Jung, Il Libro rosso, o Liber Novus, Bollati-Boringhieri editori, Torino, 2010.

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Carlo Pancera

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