“Non c’è una via, il cammino si fa nell’andare”
§.
non un unico cammino
Sono
emozionato nell'aprire questa occasione di riflessioni in memoria dell'amico
Antonio Valleriani, dato che lo ascoltammo da poco, ed era qui proprio da questa
stessa tavola che presentava in ottobre scorso il suo ultimo libro "Al
di là dell'Occidente", presentazione che terminò con la citazione dal
poeta spagnolo Antonio Machado: "viandante, non c'è via, il cammino si fa
con l'andare", cui faceva cenno nelle pagine centrali del libro (vedi
p.79). Metafora a lui cara se già intitolò il suo primo libro: "Verso
l'oriente del testo" (con pref. di P. Ricoeur) , e il successivo:
"Il viandante e la sua strada"
(con pref. di M. Laeng, e una immagine emblematica di Charlot in copertina).
Vediamo
di fare un po’ di pratica ermeneutica, di riflettere, di ragionare sul senso
di questa citazione, scomponendola e ripensandola comparativamente con lo
specchio di altre citazioni, da altri orizzonti di senso, che la
contestualizzino in altrove semanticamente vicini.
Potremmo
iniziare riprendendo una brillante e originale riflessione, fuori da ogni
retorica e da ogni schema, sul dialogo platonico intitolato a Fedro, come è
quella di Robert Pirsig, attraverso il libro Lo
zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, scritto sotto
l'apparente genere narrativo, e nello specifico quello del diario di un viaggio,
o piuttosto di una peregrinazione o vagabondaggio. Il testo è del 1974, scritto
dunque nella scia del filone on the road,
e quindi a seguito del famosissimo "On
the Road" appunto, di Jack Keruac, del 1957, che divenne quasi un
manifesto di una generazione, in cui si leggeva:
« Dobbiamo
andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove
andiamo?»
«Non
lo so, ma dobbiamo andare »
Filone
narrativo in cui ricordo l' altrettanto famoso film "Easy
Rider" del 1969 (con Peter Fonda e
Jack Nicholson che iniziano un loro vagabondaggio in moto proprio con un
atteggiamento simile). L'antesignano e modello esemplare è il noto libro di
Thoreau, Walden o vita tra i boschi,
di un secolo prima, cui si rifacevano pure altri scrittori di quella
generazione, tra cui ad es. Allen Ginsberg.
Dunque
Robert Pirsig (nato nel 1928 nel Minnesota da genitori di origine tedesca e
svedese, e che studiò nei primi aa 50 all'università induista di Benares), in
questo suo libro delinea un tortuoso viaggio iniziatico, una vera e propria
Grande Avventura (nel senso di J. Campbell) tutta intessuta di minuti
accadimenti quotidiani, durante un giro che questo professore di retorica di un
college ha compiuto sulla sua amata ma vecchia moto, bisognosa quindi di
continua e sapiente manutenzione (e perciò molto amata compagna dei propri
ricordi e delle proprie esperienze), con una coppia di amici anch'essi su una
moto,
dal Minnesota al Pacifico…
In
quel viaggio si portò dietro il figlio Chris, agli albori della pubertà (11
aa.), per farlo entrare nello "spirito del viaggio", concepito come
antidoto rispetto al suo esser stato, secondo Pirsig, già oramai troppo
allenato e abituato -dalle istituzioni educative e dai mass media- a non
guardare, non osservare, e dunque a non saper scorgere, non riuscire a vedere, e
quindi a cogliere la bellezza, il significato e il valore delle piccole cose, a
cogliere il kairòs, il "momento
propizio, o magico".
Portandolo
dunque passo a passo a concentrarsi sul "qui e ora", insegnandogli ad
"andare a naso" (quella modalità di investigazione e di conoscenza
che i greci chiamavano noéin), e
sulla base di piccoli indizi, perché cominciasse così ad acquisire un nuovo
approccio al mondo, e a sviluppare quella qualità di attenzione che favorisce
l'intuizione. Pirsig nelle riflessioni che compie durante il percorso,
stabilisce che il primo criterio per l'interpretazione della realtà e della
vita debba essere l'indagine della categoria della qualità, non solo intesa
come la greca areté, solitamente
tradotta con "virtù", quanto come livello qualitativo, essendo un
ulteriore significato di areté l' "eccellenza". La sua analisi parte
da quelli che per lui sono i due modi di vedere il mondo: cioè il classico e il
romantico. Per far questo si ispira ai Chautauqua
(pron. sciotòca), cioè ad un rito
tipico delle comunità di "pellerossa" della regione dei Grandi Laghi
(e poi assunta dalla metà dell'ottocento come consuetudine dai docenti di una
università vicina), che si riferisce ad "una serie di conversazioni intese
sì a edificare e divertire nel contempo, ma soprattutto a migliorare
l'intelletto portando cultura e illuminazione alle orecchie e ai pensieri dei
partecipanti", insomma conversazioni che intessano una relazione di qualità
nello scambio tra gli interlocutori. Con l'obiettivo di non addentrarsi troppo
però in una disanima di un concetto, quale accade nei dialoghi di tipo
socratico tra maestro e allievo. Quindi, pur senza dilatarsi troppo, Pirsig si
"limita" a cogliere spunti su due temi: 1) che cosa è la qualità, e perché
non possiamo vivere senza di essa? e inoltre 2) perché dalle nuove
acquisizioni della conoscenza scaturisce così spesso un cattivo uso delle loro
applicazioni? cioé come nasce il male, in particolare l'odio? e perché
è illusorio sfuggirgli?
Si
avvale a tal fine dei continui spunti e occasioni che si presentano ai loro
occhi nel corso del loro andare. E si pone ad interrogare il proprio
"doppio", da lui chiamato Fedro, poiché il viaggio in questione per
Pirsig, oltre ad una occasione per recuperare una relazione di intimità e di
iniziazione col proprio figlio (quasi egli fosse un Chirone col suo piccolo
Achille), è anche una recherche della sua personalità perduta (1), quella cioè con cui
conviveva prima del suo ricovero in un ospedale psichiatrico e del trauma dell'
elettroshock. Pirsig, ripercorrendo mentalmente
e anche fisicamente i luoghi dove era passato e dove aveva vissuto il suo
"Fedro", cerca di riempire vuoti di memoria grazie a flash-back,
ricordi di sensazioni e di riflessioni, e percorsi logici. Quindi un viaggio
classico attorno al tema omerico dell'Ulisse che anela al rientro in patria, in
cui l'obiettivo del nòstos (=il
ritorno) è ciò che dota di significato la sua vita, ciò che vi conferisce un
senso. Pertanto solo intraprendendo un cammino (in cui dunque il viaggio reale
è soltanto un "pretesto" e cioè quel che fornisce molteplici
occasioni di riflessione e di dialogo intrecciato tra i protagonisti), la realtà
degli eventi stimola un dialogo interiore. In esso Pirsig è sempre inseguito
dal fantasma di Platone sul piano formale del linguaggio discorsivo, e dal suo
personale "Fedro" (che come è noto è il nome del personaggio
platonico che rappresenta la figura di colui che è inesauribilmente sempre in
grado di suscitare domande e interrogativi su cui intrattenersi).
Un
percorso il cui diario ebbe subito un enorme esito, paragonabile solo a quello
avuto negli stessi anni dai libri di Castaneda. Un itinerario della mente verso
il divino immanente nel mondo, raffigurato dall'immagine del Buddha, o piuttosto
dall'immaginario della buddhità in noi (da qui il riferimento nel titolo al
pensiero zen), che ha avuto un decisivo effetto di risanamento per l'autore. Il
libro come dicevo ebbe nel 1974 e negli anni seguenti un successo di mercato
strabiliante, e per questo fu poi snobbato dai giovani hippies, sicché il gran
numero di copie vendute rispecchia non tanto la mentalità della beat generation, quanto piuttosto il fatto che evidentemente secondo
il vasto pubblico esso incarnava l'autentico spirito americano delle origini.
(2)
§.
la meta non è l'essenziale
Certo
questo filone degli scritti su itinerari e cammini reali ma con intenti
filosofici e/o spirituali, ha una lunga tradizione in occidente, farò solo
cenno all' incessante e ossessivo continuo camminare del giovanissimo poeta
Rimbaud, non solo tra Charleville e Parigi, ma per tutta la Francia, a Londra,
ecc., sino all'ultima sua produzione poetica scritta a ventun'anni (Rimbaud poi
morirà all'età di 37 aa. dopo aver vagabondato per lo Yemen e l'Etiopia). Rete
di percorsi che è stata ora minuziosamente ricostruita nei suoi sentieri
materiali, e che costituisce il cosiddetto trajét
Rimbaud, tragitto ora ripercorso da molti estimatori (tra i più recenti ad
esempio, dal giovane scrittore norvegese Tomas Espedal che ne racconta nel suo
libro Camminare dappertutto, tradotto in italiano l'anno scorso). Filone
narrativo e riflessivo che naturalmente in Francia ha origine nelle Rêveries
d'un promeneur solitaire ("Fantasticherie di un camminatore
solitario", che inaugurano la cosiddetta "prosa di fuga") di
Rousseau, e nelle sue "Confessioni
", in cui scrive:
"Non
ho mai tanto pensato, tanto vissuto, non sono mai tanto esistito, stato tanto me
stesso, se così oso dire, quanto in quei viaggi che ho compiuto solo e a piedi.
(...)non posso quasi pensare quando sto fermo (...) la lontananza da tutto quel
che mi fa sentire la mia dipendenza, da tutto quel che mi
richiama alla mia situazione, tutto ciò libera il mio animo, conferisce
più audacia al mio pensiero".
Né
minori sono le tradizioni in altri paesi europei a partire dai medievali clerici
vagantes, sino al Grand Tour
settecentesco, e alle tradizioni germaniche del wanderung romantico, cui si ricollega ad es. l'odierno scrittore
tedesco Winfrid Sebald, docente alla East Anglia University, che ci racconta il
suo giro a piedi di tutta l'Inghilterra orientale, nel suo diario Gli
anelli di Saturno, del '95, che è a metà tra un romanzo e un racconto
filosofico. Il suo modello di riferimento e nume tutelare è il saturnino e
melanconico medico-filosofo del Seicento, Thomas Browne che di fronte
all'evidente insensatezza della storia e della vita, diceva che ci resta
comunque il dono dell'interrogazione e della scoperta dell' interconnessione tra
tutte le cose e tutti i viventi, doni che in un cammino, concreto o metaforico
che sia, di riflessione possono essere estremamente utili.
Per
ritornare al messaggio di Machado, certo -come anch'egli afferma- non si può
ripercorrere integralmente lo stesso cammino fatto da altri, e anche chi compia
i medesimi pellegrinaggi che si ripetono sempre sugli stessi percorsi da secoli,
come il cammino di Santiago, e renda presente in sè il passato rivivendo la
stessa fede p.es. dei templari, o di altri pellegrini che lo hanno preceduto sin
dai tempi precristiani quando si voleva raggiungere il tramontare del sole alla
fine delle terre del mondo recando con sè la conchiglia capasanta, comunque sia
li compie ogni volta per la prima e "unica" volta.
Una
della passeggiate più belle che si affacciano sul golfo di Trieste è
sicuramente quella che, a picco sul mare, collega Sistiana a Duino. Il sentiero
prende il nome dal poeta R.M. Rilke che, ospite del Castello all’inizio del
secolo scorso, come già lo era stato Dante prima di lui, qui compose le sue
“Elegie Duinesi”. Oppure anche
chi cammini -come m'è recentemente capitato- tra i resti suggestivi dell'antica
Lyndos (cittadina di origine dorica sull'isola di Rodi) meditando sui detti del
locale saggio Kleoboulos (uno dei Sette Saggi) nell’età arcaica della Grecia,
oppure per raggiungere Lyndos entri in barca nella baia da cui giunse san Paolo,
immedesimandosi nelle sue apprensioni d'animo. Anche chi rifaccia esattamente i
tragitti compiuti da Rimbaud, o ripercorra gli spostamenti del principe Gautama
divenuto il Buddha, oppure il cammino di san Francesco, e sia munito della sua Charta
Peregrini viae Francisci, o vada in cerca dell’itinerario compiuto dal
cavaliere don Chisciotte nella Mancia in Spagna, o percorra il "Peer
Gynt Vegen" (sentiero tra i monti a nord-est di Lillehammer in
Norvegia), ripensando al personaggio leggendario rievocato in un dramma di Ibsen
(con musiche di scena di Grieg), oppure ripercorra in NordAmerica i duemila km.
del Long Pioneer Trail dei mormoni del
1846, o piuttosto rifaccia il percorso della Lunga Marcia del 1934/35 di Mao
attraverso la Cina, o che altro..., li vivrà e li doterà di un senso proprio,
a dispetto del fatto che si senta profondamente ispirato dal poeta ribelle
francese, o dalla filosfia di Dulcinea, o da Rilke, oppure dal giovane educato
dai Troll, o dalle epistole paoline o dal libretto rosso o da altri libri sacri,
perché non si tratta di un impossibile "ri-fare" ciò che han fatto
altri. Nemmeno noi stessi in definitiva potremmo ripercorrere i percorsi da noi
già percorsi nel nostro personale passato ("a volver la vista atràs/ se
ve la senda que nunca/ se ha de volver a pisar", a rivolgere lo sguardo
indietro si vede il sentiero che mai si tornerà a calcare, dice Machado).
Quindi,
come abbiamo visto, ci sono dei percorsi ispirati a dei sentieri originari su
cui nessuno nella nostra prosaica raltà ha nemmeno mai lasciato una sua
impronta del piede, e che da certa gente sono considerati non solo irreali, ma
inautentici, eppure che a dispetto della proclamata morte della mitopiesi,
risultano per molte altre persone sentieri che percorrono un mondo “talmente
fantastico da risultare più vero del vero” (Marcoaldi). Ed è perciò che
esistono dei veri tour altrettanto frequentati quanto dettagliati attraverso i
luoghi nominati in certi romanzi…
Ciò
che resta come messaggio è il concetto stesso del dover compiere un cammino, se
si vogliono incontrare situazioni, eventi e personaggi sorprendenti in modo da
indurci a riflettere (penso al film di Buñuel La
via lattea, del 1968/69, in cui compose un "falso" on-the-road nel
quale la ridda delle vicissitudini di alcuni pellegrini sul cammino di Santiago
raggiunge livelli surreali). Ma indubbiamente il valore simbolico del percorrere
un itinerario è estremamente vivo e tuttora e da sempre stimolante e
vivificante.
« Dobbiamo
andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove
andiamo?»
«Non
lo so, ma dobbiamo andare »
Sempre
alla ricerca dunque, sempre nella Grande Avventura del viaggio verso l'ignoto.
Con questo spirito Dante fa pronunciare al suo Ulisse l’appello (che forse poi
sarà stato ripreso da Colombo...) ad affrontare l’ignoto: “Fatti non foste
a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza” (Inf.
XXVI, 119-120) facendone l’eroe paradigmatico dell’ avventura umana
(“considerate la vostra semenza”!). Con quello spirito di determinazione così
dantesco, per cui neppure i vincoli d’affetto “vincer potero dentro di me
l’ardore/ ch’i’ebbi a divenir del mondo esperto, / e degli vizi umani e
del valore, /ma misi me per l’alto mar aperto” (ivi
97-100). Quello spirito di avventura e di ricerca di conoscenze che mosse un
"Ulisse" moderno quale fu il norvegese Thor Heyerdahl che nel 1947
affrontò il grande oceano "pacifico" su una zattera di balsa (il
"Kon-Tiki"), per sostenere
come vi fossero potuti essere contatti tra le popolazioni andine e sudamericane
e gli abitanti degli arcipelaghi dell'oceania, impresa ripetuta nel 1956 per
dimostrare la provenienza dei costruttori delle imponenti ed enigmatiche statue
monolitiche dell'isola di pasqua (a 3600 km dalla costa); quell' indomito
spirito d'avventura che ancora lo spinse poi ad attraversare nel 1972
l'Atlantico con una barca di papiro, costruita grazie ad indigeni esperti del
lago Titicaca, o ad andare nel 1977 dalla foce del Tigri in Mesopotamia sino
all'India e poi di lì a Gibuti in Africa (e in effetti la presenza di garze e
tessuti del Gujarat indiano presso i sacerdoti imbalsamatori dei faraoni è
documentata, così come gli scambi tra le terre della leggendaria regina di Saba
e l'Assiria e la Palestina) su una imbarcazione di giunchi intrecciati simile a
quella degli antichi Sumeri (e forse molto simile anche a quella che poté
essere usata ai tempi mitici di Noé e poi di Gilgamesh)... per dimostrare la
plausibilità di contatti commerciali ed intrecci culturali tra lontane civiltà
sin da tempi molto antichi. Questi "cammini" sul mare lo resero un
eroe del Novecento ed aprirono nuove inusitate strade per la ricerca storica e
antropologica.
Ma
si può sempre solo andare?, come Heyerdahl, o come Rimbaud, come Marco Polo e i
suoi famigliari, come gli esploratori, gli scopritori di nuove terre, o come i
camminatori e gli scalatori senza confini, o insomma come Ulisse...?? nell'
Odissea il ritorno ad Itaca, è -come già ricordavo- ciò che dota di senso
tutta l'avventurosa vicenda del suo continuo andare, tanto che il poeta greco
moderno Kostantin Kavafis affrontando questo tema scriveva: “(…)Se
per Itaca volgi il tuo viaggio,/ fa voti che ti sia lunga la via,/ e colma di
vicende e conoscenze./ Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi/ (...) E siano tanti
i mattini d'estate/ che ti vedano entrare (e con che gioia / allegra!) in porti
sconosciuti prima./
(…) Sopratutto non affrettare il viaggio;/ fa che duri a lungo, per anni, e
che da vecchio/ tu metta piede sulla tua isola, tu, ricco/ dei tesori accumulati
per strada/ senza aspettarti ricchezze da Itaca./(…) Itaca
t'ha donato il bel viaggio. (...)/ Reduce così saggio,così esperto, / ora
avrai capito che vuol dire un'Itaca./”.
§.
l' approdo finale
Ma
non sempre il ritorno è quello omerico... Lasciate che vi rammenti alcune
storie in proposito.
C'è
un vascello nero con le vele color sangue che vaga continuamente per i mari, è
la nave di un olandese senza nome. Può scendere a terra solo un giorno ogni
sette anni per cercare l'amore, ma non avrà mai tregua non potendo nemmeno
morire se non troverà una fanciulla che dopo averlo accettato gli sappia
restare fedele per tutto il resto della propria vita.
Un
insperato giorno incredibilmente la trovò, e la giovane infervorata dall'
innamoramento per lui, dichiarò di essere disposta a rinunciare alla promessa
di fidanzamento data senza entusiasmo ad un altro il giorno prima, per seguirlo
ovunque per tutta la sua vita. Ma l'integerrimo capitano di vascello, si
reimbarcò ritenendo non valida una fedeltà che nasca sulla rottura di una
promessa. La fanciulla disperata lo rincorse al porto e quando vide che era già
salpato si tuffò in mare per tentare di raggiungerlo, pur non sapendo nuotare,
e morì annegata. Dunque la sua fedeltà era durata per tutto il corso della sua
vita successivo alla promessa fattagli, ed appena si rese conto di ciò, il
vascello istantaneamente affondò ed il capitano con esso. Nelle profondità
delle acque i due si fondono per sempre...
E'
questo un insolito risultato dell' agognato ritorno in porto... Si tratta di un nòstos
che dà da pensare, e che anch'esso dota di senso il lungo vagabondare, ...ma
significa la morte.
Questa
leggenda, anch'essa del folklore nordico (come il sopramenzionato Peer Gynt), fu
raccolta da Heine che la riportò in una sua ballata. Ad essa poi si ispirò
Wagner nella sua opera L'olandese volante,
ovvero il vascello fantasma.
In
questo mio riferirvi delle rêveries
che mi sovvengono, ora mi tornano alla mente (per curiosa associazione) le
immagini bellissime in bianco e nero del film del grande regista svedese Ingmar
Bergman "La fontana della Vergine",
della fine degli anni Cinquanta, immagini che -come Orfeo il quale col suono del
suo flauto ti trascina dove vuole prendendoti per le orecchie- ammaliano e
incollano gli occhi e l'attenzione degli spettatori allo schermo, facendo loro
compiere favolosi viaggi della mente.
La
giovinetta protagonista di questa storia emblematica tratta da una ballata
scandinava del XIV sec., è la figlia del signore di una casa, del capo della
grande famiglia allargata con i suoi servi e i suoi lavoranti e il parentado,
riverito e rispettato per la sua integrità morale, il suo senso di giustizia
nell'amministrare la comunità domestica, e il suo fervore religioso. Ma ora la
protagonista è lei; è lei il venerato capolavoro, il simbolo della creazione
della magione paterna, è lei il gioiello che conferisce senso al tutto. Deve
recarsi in viaggio a offrire i ceri alla madonna di un vicino santuario, e
chiede alla fantesca gli abiti migliori, ma questi sembrano ai genitori essere
troppo vistosi e inadeguati, la giovinetta allora si rivolge alla madre e le
dice a tutte lettere: "io devo incarnare la felicità piena? e dunque mi
devi assecondare perché è la felicità mia che fa la felicità tua, e se sei
felice tu, si rasserena e rallegra anche il padre tuo marito". Cioé le
significa la perfetta adesione della materia alla forma, della casa al suo
ordine, al suo rito, attorno al suo centro, poiché solo così si può rendere
la pienezza del tutto.
La
giovinetta parte per il viaggio, per questo itinerario santo, su un destriero
bianco e la segue la domestica su un cavallo scuro, la vergine è bionda e la
governante bruna, la prima è luminosa, la seconda sciatta e modesta, non
vergine ma vittima di violenza e gravida, non serena ma amareggiata. La
giovinetta le è affezionata ma un po' la disprezza come serva e disonorata. Non
sa ancora che loro due sono le due facce della medesima medaglia, perché non ne
è consapevole. Entrano nella fitta foresta passando un ponticello a piedi, e
mentre un uomo intrattiene la domestica con l'offerta di leggerle il destino,
si sente un monaco che dice a un pastorello:
"Vedi
come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto come avesse paura dell'ignoto.
Eppure se si librasse nell'aria e compisse tutto il suo cammino, troverebbe uno
spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa. Con gli uomini capita lo
stesso: essi vagano inquieti come foglie, per quel che sanno e per quel che non
sanno".
La
ragazza incontra poco dopo tre pastori, due adulti e un fanciullo, che le
chiedono di condividere il cibo che ha con sè, e così in una radura iniziano a
mangiare. Ma subito i due le usano violenza. La fantesca intanto vede tutto
nascosta poco distante, raccoglie una pietra ma ha paura ad intervenire. Poi uno
colpisce la ragazza alla testa, la giovane cade priva di sensi e muore,
l'assassino le toglie la bella veste per rivenderla. I due portano con sè il
ragazzetto (che è stato testimone), e raggiungono la casa più vicina (cioé la
casa del padre), chiedono a lui asilo, e siedono subito alla sua mensa invitati
come ospiti. Frattanto poi giunge la fantesca e racconta tutto alla signora che
subito spranga le porte e chiama il marito. Consumato il pasto i disgraziati
cercano di vendere al padre l'abito. Intanto che i tre vengono accompagnati ad
un giaciglio per dormire, il padre si prepara a giustiziare i tre pastori, come
in un rito, che attuerà all'alba. Quindi guidati dalla serva vanno a recuperare
il corpo della figlia, e trovano che dal punto in cui aveva battuto il capo,
sgorga una fonte limpida di sorgente. Tutti e tre si lavano in quell'acqua in
segno di purificazione. Il padre invoca l'Altissimo chiedendoGli di capire il
gesto sacrificale che egli sta per compiere, e implora il perdono, ritenendo di
poterlo ottenere:
"Tu
vedi o Dio! -dice nell'invocazione- Tu vedi, vedi la morte di una innocente,
vedi la mia vendetta di giustiziere, e non l'hai impedito. Io non capisco,
eppure chiedo il perdono a Te...".
...e
comunque il fervente implorante non riceverà alcuna risposta....e quindi non
riesce a chiarire il senso di tutto ciò. All'alba i due violentatori assassini,
e il ragazzino, riceveranno la morte.
Questa
in breve la storia del pio viaggio della vergine e del suo ritorno a casa. Anche
qui il ritorno è centrale. Si intuisce con estrema nettezza che questo ritorno
segnerà per sempre il perno della vita di tutta la famiglia della casa,
stravolgendo l'immagine stessa del suo signore, determinando in modo preciso e
inequivocabile un prima e un dopo; dotando quindi di senso, ovvero impregnando
di sè il significato di tutto ciò che verrà dopo.
Permettetemi
di proseguire con un altro esempio ancora un po' "controcorrente"
rispetto all'antico tema greco del nòstos,
e rispetto al troppo lungo viaggio di Ulisse. Similmente per certi versi, ma
diversamente per altri, ecco la storia del lungo cammino compiuto da un fiero
cavaliere, che viene anch'essa narrata dal grande Bergman, nel suo storico film
"Il Settimo Sigillo", del
1956, ispirato a certi dipinti medievali presenti in chiese nordiche di legno (stav
kirke), intitolati la Danza della Morte in cui si vede la Morte che gioca a
scacchi. Nel film si mostra il prode cavaliere che sta ritornando dalle crociate
ed è giunto oramai a poca distanza dal suo castello in Svezia, accompagnato dal
suo scudiero e da altri. Quando si fermano per l'ultima notte, prima di
attraversare l'ultima foresta, mentre il cavaliere è solo sulla riva del mare,
gli si avvicina un inquietante personaggio.
"Chi
sei?" chiede l'intrepido cavaliere, "Sono la Morte...sei tu
pronto?" , "Lo spirito sì è pronto -rispose il crociato che non
aveva mai temuto di morire in battaglia- ma il corpo non lo è ancora...-ed
aggiunse subito- è poi vero che sai giocare a scacchi?", "Chi te lo
ha detto?" , "Le leggende lo narrano...".
La
Morte accetta l'ultima sfida del cavaliere e sorteggiano l'attribuzione del
colore dei pezzi; alla Morte tocca ovviamente il nero. La partita procede per
tutto l'ultimo tratto del cammino verso il rientro al proprio castello e procede
non solo sulla scacchiera ma nel viaggio reale in cui accadono incontri ed
eventi singolari. Anche Nietzsche nella terza parte di "Così
parlò Zarathustra" intitolata appunto "i
sette sigilli" (3), aveva considerato la vita come un giocare a scacchi
"alla mensa degli dèi che è il mondo" (tema che verrà ripreso dallo
stesso Bergman nella scena del primo sogno nel suo film "Il
posto delle fragole",1957).
Alla
Vita tocca la prima mossa, ma alla morte non solo la seconda ma anche l'ultima.
Il cavaliere ha intuito che cosa contendere alla morte, avvicinando una giovane
coppia di saltimbanchi con il loro bimbo piccolo, che procede lentamente sul
proprio carrozzone assieme ad un quarto personaggio insulso, e si ferma per
timore di attraversare la foresta. Lo intuisce contemplando la freschezza di
quella giovane madre radiosa durante il frugale pasto consumato vicino al mare.
Il mare (come nell' Olandese e in Machado) è qui un motivo ricorrente, è la
materia in senso metafisico, l'immensità delle possibilità dell'essere, mentre
la foresta è simbolo di misteriosa impenetrabilità, del regno dell'ombra. Il
cavaliere promette di scortare quei saltimbanchi attraverso il bosco, per
condurli al suo castello dove avranno la sua protezione. (E alla fine i membri
di quella giovane famiglia saranno i soli a sopravvivere...). Giunto al suo
castello la moglie che lo attendeva da anni gli chiede se si è pentito di aver
fatto quel viaggio, e lui le risponde di no ma che ora si sente spossato e molto
stanco. Mentre si distende e riposa anche il corpo, accetta la morte. Sin lì
quindi, quella è stata la pausa che il cavaliere ha ottenuto di strappare alla
Morte. Intanto tutti quanti muoiono contaminati dalla peste, tranne i tre della
famigliola. Qui dunque il valore del raggiungimento della mèta è supremo, ciò
che più vale è riuscire a saper perseverare sino a portare a compimento ciò
che si doveva compiere nella vita; come se ognuno di noi avesse un compito da
svolgere che non può esser lasciato incompiuto.
Mi
sovviene un testo dell'ultracentenaria Rita Levi Montalcini che nel suo libro Senz'olio,
contro vento, rende esplicita la sua concezione di un “dovere di
vivere”, chiarendo come per lei esso sia stato sempre sostentato da un
imperativo etico a dare il proprio contributo al miglioramento della condizione
umana, e dunque non manca in lei un accento critico verso quel “mestiere di
vivere” -così denominato da Cesare Pavese- e soprattutto verso il comune
"saper vivere" per imparare il quale in definitiva si dovrebbe cercare
di adattarsi con “realismo” ai “valori” della realtà vigente appunto
per "imparare a stare al mondo" ...
"viandante,
non c'è via, il cammino si fa con l'andare". Ciò che conta in Machado è
il cammino stesso, il fatto di mettersi in cammino, e -dice Machado- voltando
indietro lo sguardo si vede il sentiero che mai si tornerà a calcare, e ci si
avvede che dunque il cammino non è nient'altro che quelle impronte che lasci.
Nessuno può ripercorrere il tuo cammino, esso è unico, e nemmeno tu stesso
puoi ritornarvi. Questa assoluta unicità individuale prospettata da Machado è
una tessera costituente della molteplicità del mondo fenomenico delle forme,
rispetto al Mondo inteso come unicità-totalità dell' insieme, e raffigurato
come "luogo del ritorno". Anche le impronte si diluiranno: poiché in
effetti camminiamo su un mare (in un altro canto, il XLIV, dice: "Todo pasa
y todo queda, / pero lo nuestro es pasar, / pasar haciendo caminos, / caminos
sobre la mar" (tutto passa e tutto resta, ma il nostro (dovere) è di
passare, passare facendo dei cammini, dei cammini sul mare). In cui ritroviamo
il valore simbolico e purificatore
dell'elemento primordiale dell'acqua.
Come
scriveva Pirsig ne Lo zen e la
manutenzione della motocicletta, ciò che conta è la qualità del percorso,
ciò che conta è - come in quel rituale dell' intrattenersi a dialogare dei
pellerossa dei Grandi Laghi - intessere le nostre relazioni con il nostro
prossimo, cercando sempre di fare in modo che si instauri il più possibile una
relazione di qualità nello scambio tra gli interlocutori, e nello scambio con
chi si incrocia lungo la via. “Bisogna –diceva Seneca- srotolare per così
dire la memoria e, di tanto in tanto, scuoterne tutta la polvere che vi si è
depositata”. Dunque imparare a discernere il senso, apprezzando la bellezza e
l'unicità degli eventi e dei soggetti, proprio -direi- perché effimere (lo
dico ripensando ai versi di Pindaro in cui si accostano l'eroe ginnico e la
precaria rugiada, citati e commentati da Martha Nussbaum in apertura del suo
libro su "La fragilità del bene",
1986, pp. 44 segg.). E in effetti se vogliamo bere dalla purezza dell'acqua
raccolta nel palmo, dobbiamo non esitare, se no essa ci scorre tra le dita.
§.
molto dipende dal come
Riandando
con la mente a quegli anni, mi sovviene quanto riferiva Carlos Castaneda in
"Gli insegnamenti di don Juan - Una
via Yaqui alla conoscenza", del 1968, in cui il "nagual" (sciamano) don Juan Matùs del popolo
"indio" degli Yaqui nella regione desertica di Sonora nel nord del
Messico, gli disse parlandogli in qualità di suo maestro di iniziazione:
«Tutto
è solo una strada tra tantissime possibili. Devi sempre tenere a mente che una
strada è solo una strada; se senti che non dovresti seguirla, non devi restare
con essa a nessuna condizione. Per raggiungere una chiarezza del genere devi
condurre una vita disciplinata. Solo allora saprai che qualsiasi strada è solo
una strada e che non c'è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nel
lasciarla andare se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Ma il tuo
desiderio di insistere sulla strada o di abbandonarla deve essere libero da
timori o dall'ambizione. Ti avverto: Guarda ogni strada attentamente e
deliberatamente. Mettila alla prova tutte le volte che lo ritieni necessario.
Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una domanda. Questa è una
domanda posta solo da un uomo anziano. Il mio benefattore me l'ha detta una
volta quando ero giovane, e il mio sangue era troppo vigoroso perché la
comprendessi. Ora la comprendo. Ti dirò che cosa è: "Questa strada ha un
cuore?". Tutte le strade sono uguali; non portano da alcuna parte. (...)
Nella mia vita posso dire di aver percorso strade lunghe, molto lunghe, ma io
non sono da nessuna parte. La domanda del mio benefattore ha adesso un
significato.(...) E' una cosa che si sente. Il problema è che nessuno si pone
questa domanda, e quando un uomo si accorge di aver intrapreso una strada senza
cuore, essa è pronta ad annientarlo. Ma arrivati a quel punto, sono pochi
quelli che si fermano a riflettere e abbandonano la strada.»
In
questo brano si sottolinea il fatto che in fondo non è la cosa più importante
quale via tu prenda, e che la cosa più importante non è forse nemmeno la mèta,
ma lo è -come diceva pure Pirsig- la qualità del percorso, e il come viene
percorso, ed anche il fatto di avere sempre lo spirito critico sveglio, non
cessare di porsi domande, e avere il coraggio di prendere atto dei cambiamenti,
soprattutto di quelli che accadono dentro noi stessi. Dunque con tono profetico
Castaneda sembra lanciare una ammonizione anti-integralista avvisandoci che un
cammino già preconfezionato, inteso come il cammino unico, il cammino della
unica verità, è un cammino che ti anestetizza. Allora in questo caso porre
domande lungo il cammino può divenire praticamente impossibile, e se giunge
tardivamente il giorno in cui proviamo perplessità, può darsi che sia troppo
tardi e che manchi l'energia per eventualmente cambiare sentiero e ricominciare.
Se il percorso che percorriamo non producesse alcuna trasformazione in noi
stessi, non sarebbe un percorso degno di esser compiuto durante la vita da un
essere umano (cfr.Socrate), e adatto a farci compiere una maturazione, e dunque
un processo di crescita. Naturalmente stiamo parlando di percorsi di conoscenza
e anche di percorsi di arricchimento spirituale e interiore, che possiamo
interpretare anche come percorsi di formazione più in generale, e si può ben
intendere come in questo senso, sapere, conoscere, capire, avere consapevolezza,
possano essere visti e posti come stadî di un viaggio iniziatico. Innanzi tutto
bisogna riconoscere in sè il desiderio, che può attivare l’intenzione,
quindi la volontà di sapere per conoscere, ma bisognerebbe poi usare questo
sapere, queste conoscenze, per capire, poiché solo così si conosce veramente,
ordinando, combinando, concatenando le cose per dare loro un senso e poterle
interpretare. Infine quel che si è capito di ciò che si conosce, deve essere
assimilato, fatto proprio, come dirà Dante (“non fa scienza sanza lo ritener
lo aver inteso”), e dunque reso fondamento della consapevolezza, solo a questo
punto tutto ciò si traduce in un fattore di maturazione e trasformazione del
nostro modo di relazionarci col mondo e col prossimo, perché avere un sapere fa
l’essere, da forma alla modalità di essere, il che genera l’atteggiamento e
l’agire, e quindi l’esperienza che si vien facendo, nel senso del termine
tedesco Erfahrung, dalla radice fahrt,
viaggio (4).
Non
è dunque il percorso in sè stesso ad essere importante, in definitiva un
percorso è un metodo (meta-hodos), è
solo un mezzo. Ma è di importanza cruciale verificare che il cammino sia
adeguato a noi, per seguirlo con sobrietà e serenità, senza tensioni, o
ossessioni. Senza fondamentalismi e integralismi. Altrimenti si tratta di una
dottrina, di una ideologia, di una scuola chiusa in sè stessa. Quindi bisogna
che sia un cammino "di cuore" ("Vai dove ti porta il cuore",
sintetizzava la nostra S.Tamaro), scelto seguendo il cuore per percorrerlo con
cuore, e che non generi timori o ansie o crei problemi, o eccessive ambizioni, e
che venga posto costantemente al vaglio del nostro giudizio critico e
spassionato, a mente libera e serena. "Provalo e poni continuativamente a
te stesso, ma al tuo interiore soltanto", dice don Juan, "la domanda:
se ti senti pentito o titubante per aver intrapreso quella strada, oppure sereno
e in pace con la tua scelta". (E la domanda è poi quella stessa della
moglie del crociato). “Per me esiste solo il cammino lungo sentieri che hanno
un cuore…. E qui io cammino, guardando, guardando, guardando senza fiato”.
Cioé, ci dice don Juan, esperimenta pure varie strade (e questa disponibilità
al confronto è importante), ma percorri ciascuna sempre mantenendo viva e
presente la consapevolezza che si tratta di una tua messa alla prova di te
stesso, per la tua crescita, la tua maturazione nella comprensione di te stesso,
dell'uomo, e del suo mondo, e in definitiva che è questa la cosa più
importante.
"L'artista
che non dubita di sè, non potrà mai giungere alle somme vette dell'
arte", annotava Leonardo da Vinci ( Pensieri
sull'Arte, XI).
Quindi
dovrebbe sempre essere anche un cammino in cui mantenere sveglie le nostre
capacità analitiche e critiche, in cui cioé vi sia la serenità d'animo
sufficiente per poter ragionare sulle cose, su ciò che ci sta accadendo, come
diceva ancora Socrate nella sua famosa risposta data al caro amico d'infanzia
Critone nel carcere in attesa della esecuzione, quando lo incitava a salvarsi
con la fuga: "Poiché io, e non ora per la prima volta, ma da sempre, sono
fatto in modo tale da non dar retta a null'altro di ciò che è in me se non al
ragionamento, e proprio quello che, mentre sto ragionando, mi si configura come
il migliore" (5). Quindi un percorso intrapreso con equilibrio tra grande
compartecipazione di sentimenti, e insieme con mente serena e spirito critico
desto.
§.
ritornare a noi stessi, all'approdo
interiore
Bisognerebbe
insomma sempre ricordarsi la questione socratica: che cosa rende una vita degna
d'esser vissuta? Per quanto lo riguarda lui rispose nel suo famoso discorso di
difesa (Apologhìa): una vita senza ricerca non vale la pena di essere
vissuta da un uomo (ho dè anexétatos bìos
où biotòs anthròpo), se non è dunque dedita al domandare, quindi ad
aprire un dialogo con ogni interlocutore, e al domandarsi. "Il più gran
bene dato all'uomo -diceva Socrate- è proprio questa possibilità di andar
riflettendo quotidianamente sulla virtù e altri vari temi". Ma per saper
rispondere devi prima di tutto dubitare del tuo credere di sapere già quali
siano le cose di maggior valore, quindi devi prenderti cura di te stesso (la
classica epiméleia seautoù), e
infine e innanzitutto dedicarti ad ottemperare all'antichissima indicazione del
tempio di Delfi, "conosci te stesso" (gnòthi
seautòn).
In
definitiva sempre al soggetto bisogna ritornare. Tutti dobbiamo fare le
esperienze e provare i patimenti di Ulisse per tornare a casa e liberare il
popolo di Itaca dai Proci che hanno occupato il nostro palazzo per gestirlo
loro, e oltretutto col fine di farsi solo gli interessi propri. Naturalmente
intendendo il messaggio anche in senso metaforico relativamente al mondo che è
dentro a noi stessi (la propria isola felice, il proprio palazzo interiore, i
proprî "Proci" che lo infestano). In questo impulso di partire per un
Grande Viaggio va considerata anche l'importanza di percorrere non solo un
cammino all'esterno, ma anche nella direzione interiore, per cui bisognerebbe il
più frequentemente possibile, in questa via introspettiva verso la scoperta di
sè ("the way in", la
chiamava nel '68 Barry Long) farsi "entronauti" (per riprendere una
felice espressione dello scrittore italosvizzero Piero Scanziani).
A
questo punto lasciatemi pure citare quel che scrisse G.K. Chesterton nella sua
novella spirituale del 1912 Le avventure
di un uomo vivo (=Man alive,
di dieci anni precedente la sua conversione):
«esclamò
il forestiero: “C’è una sola cosa buona che la scienza abbia mai scoperto:
una cosa buona, un gran messaggio di gioia - ed è che il mondo è rotondo.”
Gli
significai gentilmente che le sue parole mi risultavano incomprensibili
“Voglio
dire” rispose “che andar dritto intorno al mondo
è
la strada più corta per giungere al posto dove vi trovate”.
“Ma
non sarà anche più corta” domandai” rimaner dove siamo?”
“No,
no, no!” esclamò con grande enfasi “Cotesta strada è lunghissima e quanto
mai faticosa. Alla fine del mondo, alle spalle dell’aurora, troverò la sposa
che veramente sposai e la casa ch’è veramente casa mia. E davanti a quella
casa sarà un lampione anche più verde di quello che ora c'è e una cassetta
postale anche più rossa. Non sentite mai bisogno” mi disse con passione
repentina “non sentite mai bisogno di fuggire dalla vostra casa allo scopo di
ritrovarla?” ».
Non
posso però ora, per associazione di idee, trattenermi dal ricordare, avviandomi
al termine di questa peregrinazione da vagabondi del pensiero, quella storiella
ebraica, di cui riferì anche Martin Buber nel 1928 nella sua raccolta di vecchi
racconti dei chassidim (una corrente
mistica dell'ebraismo dell'est europeo del Settecento), nella quale...
un
povero rabbino del ghetto di Cracovia, di nome Eisik, fece un sogno in cui gli
si indicava che al ponte del castello di Praga avrebbe trovato un tesoro che
avrebbe risolto l'indigenza della sua famiglia. Fece il lungo viaggio, ma
all'inizio del ponte c'erano dei gendarmi, e quindi tornò a diversi orari per
tre giorni sperando in loro assenza di poterlo percorrere. Sinché una guardia
che lo aveva notato gli chiese come mai venisse sempre lì, e il povero Eisik
gli disse che aveva sognato di dovervi venire. Al che la guardia si mise a
ridere, e gli disse "Davvero hai percorso tutta quella strada per un sogno?
quale idiota darebbe così retta a un sogno? Se anch'io avvessi dato retta ai
sogni sai cosa avrei dovuto fare? un percorso proprio come il tuo ma in senso
opposto, e senza dubbio ne avrei cavato il medesimo risultato. Avevo sognato di
dover andare a cercare un tesoro nel ghetto degli ebrei di Cracovia in casa di
un certo Eisik sotto l'angolino sporco dietro la stufa! figurarsi!... andare col
piccone cercando in un quartiere dove la metà della gente si chiama Eisik
!..." Subito il povero rabbino rifece tutta la strada a ritroso e giunto a
casa scoprì che nell'angolo più negletto si trovava sepolto un bel gruzzolo di
monete d'oro, con una parte del quale risolse le sue maggiori urgenze e col
resto fece erigere una casa di preghiere. (sintesi
mia)
Questa
storiella ci dice con il consueto spirito autoironico che caratterizza gli ebrei
di cultura yiddisch, che dunque se non
avesse compiuto tutta quella strada non avrebbe mai saputo di quel che aveva già
in casa, e naturalmente perché ci potesse credere aveva bisogno di sentirselo
dire da un altro, di diversa tradizione, di un'altro paese, di un'altra
religione (6).
Machado
in una sua nota interessante e ricca di spunti, in cui si mostra critico nei
confronti della concezione di tipo sostanzialista dell’identità che tende a
rifiutare quel che percepisce come alterità, così scriveva:
(dicono
che)“l’altro, non esiste: è questa la fede razionale, l’incurabile
credenza della ragione umana. Identità = realtà, come se, alla fin dei conti,
tutto debba essere assolutamente e necessariamente uno e il medesimo. Ma
l’altro non si lascia eliminare; sussiste, persiste; è l’osso duro da
rodere in cui la ragione perde i suoi denti. Abel Martìn, con fede poetica, non
meno umana della fede razionale, credeva nell’Altro, nella ‘essenziale
eterogeneità dell’essere’, come a dire nella incurabile "altrità"
di cui ha sentimento l’uno.”
Racconti
simili poi sono stati la base da cui ha preso ispirazione anche Paulo Coelho per
noti suoi romanzi come L'alchimista, o
Il pellegrinaggio. Nè dissimile è il viaggio di cui ci parlava
Saramago verso un’isola sconosciuta, perché poi … “bisogna allontanarsi
dall’isola per vedere l’isola, è che non ci vediamo,
se non ci allontaniamo da noi, Se non ci allontaniamo da noi stessi, intendete
dire, Non è la medesima cosa.”… così scriveva nel suo O
conto da ilha Desconhecida, in cui oltretutto “Il filosofo del re diceva
che ogni uomo è un’isola”, … e allora alla fine, come sappiamo, “verso
mezzogiorno, con la marea, l’Isola Sconosciuta prese infine il largo… alla
ricerca di sè stessa”.
Naturalmente
anche qui la metafora rimanda al nostro interiore e a ciò che conculchiamo nei
recessi oscuri e più profondi dietro al nostro cuore. Bisogna ascoltare anche
la voce del diverso da noi per poter "scoprire" noi stessi (e che
abbiamo bisogno dell'altro), per poter costruire la nostra stessa personalità e
identità, e scoprire la complessità (su questi temi cfr. il mio, 2011). Bruce
Chatwin ci riferisce di tante interviste ad altri per lui importanti personaggi,
tanti incontri, tante osservazioni compiute, per riuscire a darsi una
spiegazione alla domanda “che ci faccio io qui?”. Abbiamo bisogno degli
altri come gli altri di noi in questa intricata rete di relazioni in cui
viviamo, come ben sintetizzava Primo Levi in una sua poesia intitolata “ai
miei amici”: “(...) o tu /che mi leggi: ricorda il tempo /prima che
s’indurisse la cera, /quando ognuno era come un sigillo. /Di noi ciascuno reca
l’impronta /dell’amico incontrato per via;/ in ognuno la traccia di ognuno.
/Per il bene od il male /in saggezza o in follia /ognuno stampato da ognuno.
(...)”.
Ma
in definitiva dire che "non c'è via, il cammino si fa con l'andare",
rimanda un po' anche all'antico
memento di Sallustio: "faber est suae
quisque fortunae", che ci vuole ricordare che ciascuno di noi è
comunque l'artefice della propria sorte, che ognuno dunque costruisca e percorra
il proprio cammino con consapevolezza di essere appunto l'autore della propria
stessa vita in mezzo ad altre vite. Ma dato che si tratta di faccenda non certo
facile, anche mi torna in mente un motto del rinascimento inglese, che diceva:
"Life is the only game in which the
object of the game is to learn the rules",
la vita è l'unico gioco in cui l'obiettivo del gioco è di impararne le
regole...(7).
Questi
ed altri temi si trovano in uno dei grandi libri del novecento, cioè "Tristi
Tropici" di Claude Lévi-Strauss, che forse è anche uno degli ultimi
romanzi di formazione, ovvero Roman d'apprentissage,
nel quale l'autore nel suo diario di quel grande viaggio in Amazzonia ci
racconta anche le motivazioni che erano state alla base della sua scelta di
intraprendere il mestiere di antropologo, e cioé lo scoprire il generale,
"nascosto" nel particolare (come Pirsig intendeva fare col figlio), e
il cercare l'altro che è anche dentro noi stessi....
§.
percorso di formazione come processo di
trasformazione
“E’
una buona cosa avere una destinazione per intraprendere il proprio viaggio: ma
in fin dei conti, quel che veramente importa è il viaggio.” (Ursula K. Le
Guin)
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare
nuove terre ma nell’avere nuovi occhi” (Marcel Proust)
“Il
bello del viaggio, non è la mèta, è l’imprevisto, perché desta la
meraviglia” (Antonio Tabucchi)
Nell'intraprendere
un cammino esperienziale di consapevolezza, molto determinanti si mostrano
essere le motivazioni che ci hanno spinto, le aspettative che nutriamo, le
intenzioni e gli intenti che ci indirizzano.
Ma
in un cammino che lasci spazio alla spontaneità e all'avventura, importante è
anche una certa disposizione d'animo, la curiosità e l'apertura al nuovo. Per
il grande scrittore, drammaturgo, romanziere e poeta Jean Genet tutto ciò
nasceva dal fatto che per lui il “fantasticare” (il dedicarsi alle
rousseauiane rêveries) era un
“paraurti” contro la “solitudine morale”. Perciò, arruolatosi nella
Legione Straniera e partito per il sud marocchino, ad un certo punto il soldato
Genet lasciò la sua postazione e disertò per andare a vedere il grande Paese
Berbero, e poi il deserto al di là della imponente catena innevata
dell’Atlante. Fu poi ripreso e arrestato, e disse: “no, non sempre si scappa
perché si rifiuta un luogo, ma perché si spera in un non-so-cosa”. Forse era
stato affascinato dalla vicenda del viaggio folle di Michel Vieuchange fino al
sito della favolosa Smara, appunto oltre-Atlante, che trovò e in cui sostò tre
ore, per poi ritornare sulla costa e morire. Da qui poté sorgere forse il
desiderio di emularlo, e di ripercorrere il suo percorso… Due anni dopo gli fu
richiesto un articolo per una rivista, e con il pretesto di raccontare quella
famosa avventura, scrisse: “La mia prima
intenzione era quella di parlare del viaggio di Vieuchange a Smara. Ma sarebbe
come nascondermi. Ho piena coscienza che tocca a un soldato francese in
NordAfrica inamorato di quello che c’è più-in-là, dire cos’è stata
l’opera di un giovane avventuriero che attinse nel suo genio esaltato una
follia tale, che realizzò sè stesso realizzarsi, ecco. Diventare sè stesso
nella propria opera. Michel Vieuchange oramai non è più altro che un viaggio a
Smara. Tutti conosciamo il bisogno di andare altrove; pensiamo di fuggirci
fuggendo il cerchio più o meno vasto in cui esaliamo tanto di noi stessi, che
l’aria diventa irrespirabile. Vogliamo una atmosfera vergine di noi. Michel
Vieuchange non ha voluto fuggire ma andare. Il suo vagabondaggio è un’opera
d’arte, e l’opera d’arte non è una fuga. (…) era un innamorato. Carezzò
la sua opera prima di realizzarla. Per un anno forse. Fare quello che nessuno ha
mai fatto. (…) Quando si è davanti all’Atlante – “cosa c’è
dietro?”, ci si dice. (…) E’ lo stesso paese grigio col cielo. (…) Però
si spera in un paese misterioso. Non si è mai delusi, perché si vuole quello
che c’è dietro. (…) Andare, sapere che tutto è uguale, e volere più-in-là.
Andare soli, pensierosi, annerire al sole (…). Per l’amante del laggiù, ci
saranno sempre Smara addormentate al sole di mezzogiorno (…).” (su “Jeunes”,
Paris, 1933. Da D.Galateria, in “La
Repubblica”, domenica 05.12.2010, p.40). Genet dunque non solo non aveva
semplicemente l’intenzione di ripercorrere il percorso di Vieuchange (e in
effetti non andò a Smara) ma di intraprendere un suo cammino, stimolato da
quell’esempio, in piena consapevolezza e lucidità, tanto che è ben in grado
non solo di autoanalizzarsi ma di comunicarlo. Genet era in attesa
dell’inatteso, che cercava anche inoltrandosi in un paesaggio sempre uguale.
L'antico
filosofo Eraclito ammoniva il suo auditore dicendo: “aspéttati sempre
l'inatteso, altrimenti non lo saprai affrontare” (eàn mé élpetai anélpiston, ouk exeurései); è pur vero che ci
sono cose che non conosci in modo certo, ma che dopo averle verificate e aver
constatato che rispondono alle aspettative (cioè che sono proprio -o più o
meno- come prevedevi che potessero essere a partire dai dati di cui disponevi),
ti aiutano ad acquisire cognizioni più salde... ma il problema vero, avverte
Eraclito, sta nel fatto che altre invece no...non si presentano come pensavi, e
inoltre molto di frequente se ne presentano alcune del tutto impreviste e
imprevedibili. Ed è proprio da lì che si deve iniziare la ricerca. Dobbiamo
aspettarci persino l'insorgere de l'Alterità estrema, nel confronto con ciò o
con colui che non ci aspettavamo fosse così contrastante, lontano e diverso
rispetto a noi, così opposto tanto che il suo stesso esserci di fronte a noi,
ci turba nel profondo. Anche questo faccia-faccia imprevisto va preso invece
come opportunità per conoscere anche che cosa eventualmente innesca il suo e il
nostro rifiuto, tanto da superare a volte la soglia di tollerabilità reciproca.
Se non ci confrontiamo con l'inatteso, con la diversità, come potremmo
"crescere"? Cioè per Eraclito se non hai questo fondamentale
atteggiamento comunque sempre aperto, perderai le occasioni che ti si presentano
per conoscere il nuovo, e per rinnovarti, sia pur ponendo forse in crisi alcune
tue certezze e sicurezze confortanti, e comunque per porti a riflettere.
E
l'inatteso può essere qualsiasi cosa, un evento, un incontro, lo sconosciuto,
l'avversario, il nemico, l' "altro", ma dunque anche l'Alterità
radicale, ovvero la creatura del dottor Frankenstein (raffigurata nel romanzo di
Mary Shelley), o il nostro personale Mister Hyde interiore (raccontatoci dal
romanzo di Stevenson sul dottor Jekyll), insomma l'incubo, oppure il non-noto, o
il non-conoscibile, ma anche, in definitiva... la Morte, ... forse dunque ...
anche il Divino, ... quindi anche qualcosa forse di straordinariamente bello e
affascinante, e risolutivo...il Principe azzurro, l'Eroe salvatore. Oppure
invece "semplicemente" il ritorno nel rassicurante alveo protettivo
della quotidianità, ora vista in questo suo inatteso e inedito aspetto, dunque
riscoperta, ri-vista e rivista, rivisitata, reintesa come positiva, autentica,
vera realtà, il nòstos, il ritorno
nel luogo per il quale si provava rimpianto, nostalgia (quella che ci comunicava
il regista russo Tarkowskij nel suo fantastico film Solaris,
del 1972, e poi appunto in Nostalghìa,
del 1983), che generavano un sentimento di mancanza...e di saudade
brasiliana (quella del film "Orfeo
negro"), quindi cui "deve" seguire finalmente la chiusura del
cerchio, la ricomposizione, la risoluzione, la fine di quei mutamenti e di
quelle metamorfosi da cui siamo stati coinvolti.
A
quel punto, assicurati certi punti importanti, ricomposto l'insieme di quegli
elementi che riteniamo non ci possano mancare, acquisite le condizioni
imprescindibili, potremo perferzionarci ulteriormente. Sciveva Machado: “ Come
mi sono cari i miei amici quando sono solo; come li sento distanti quando sono
con loro...”.
Ma
il vero scopo di un viaggio è quello di reincontrarsi con le persone con cui
poi condividere quel che si è raccolto: “siamo gli uni per gli altri dei
pellegrini che, per strade diverse, cercano con fatica di arrivare in tempo
all’appuntamento” (Antoine de Saint-Exupéry).
Ricapitolando
dunque, in un percorso di maturazione e di approfondimento, cognitivo e
spirituale, scelto e intrapreso "col cuore", ciò che conta è tener
desto lo spirito critico, come ricordavo poc'anzi, cioè avere sempre viva la
consapevolezza di noi stessi e di ciò che stiamo compiendo, ma nel contempo
anche essere disponibili alla trasformazione interiore, lasciando che le
esperienze ci tocchino pure nel profondo, tocchino sia la mente che la psiche.
Lasciare dunque stimolare le corde dell'anima e dello spirito, lasciare che gli
eventi, anche drammatici, del vissuto, ci trasformino, per poter passare ad un
livello più alto, più sottile -anche se più sofferto- di consapevolezza
interiore.
La
"zetetica" di tipo socratico dunque si configura in definitiva come
una ricerca che doti di maggior senso gli eventi con cui ci incrociamo, e anche
i nostri movimenti interiori, grazie a una accresciuta conoscenza del vivere,
della complessità del mondo e di noi stessi, affinandoci sul piano
intellettuale e sentimentale, ma anche spirituale, in modo da acquisire
consapevolezza di quali siano le cose cui conferire maggior valore.
Scriveva
Rabindranath Tagore in una sua poesia del ciclo “Offerta di canti”: “A
lungo durerà il mio viaggio/ e lunga è la via da percorrere./ (…) sono le
vie più remote/ che portano più vicino a te stesso;/ è con lo studio più
arduo che si ottiene/ la semplicità di una melodia./ (…) Il viandante deve
bussare/ a molte porte straniere/ per arrivare alla sua,/ e bisogna viaggiare/
per tutti i mondi esteriori/ per giungere infine al sacrario/ più segreto
all’interno del proprio cuore./ (…) ” (Gitanjali,
XII).
§.
urgenza di una formazione alla complessità
Ugualmente
il messaggio che possiamo trarre da pagine di saggezza come quelle menzionate più
sopra, e molte altre che trattano il tema del o dei sentieri di conoscenza, e in
questo caso dal fatto che l'amico Antonio Valleriani citasse il brano di Machado
nell'ambito di una riflessione sulla pluralità dei loci
loquendi in un contesto di mondializzazione (cioè delle fonti dei discorsi
sul mondo, dei centri di enunciazione culturale, in cui egli sostiene che ogni
cultura ha compiuto o almeno intrapreso anche una propria specifica via al
moderno), è che bisogna riconoscere l'arricchimento che ci può venire
dall'ascoltare la parola che altre culture ci comunicano, al fine di stimolarci
a compiere un lavoro interiore che vada verso una crescita e maturazione, oltre
che di noi stessi in quanto individui attenti e sensibili, anche più in
generale, della nostra stessa cultura europea attuale e della via occidentale
alla postmodernità.
Ora,
dato che sto rivolgendomi ad un pubblico in buona parte composto da insegnanti,
e scusandomi per aver sin’ora solo parlato di me, volevo aggiungere ancora due
parole su alcuni risvolti di quanto detto sopra, di qualche interesse
pedagogico.
Nella
strutturazione di percorsi formativi per i non-adulti molto si può fare per
"addestrare" a saper osservare, a saper cogliere certi segnali e
cercare di dotarli di un nostro significato (come cercava di fare anche Pirsig
con il suo figliolo Chris). E' dunque molto importante imparare a saper
stimolare negli allievi le curiosità, e la libertà di espressione dei propri
pensieri. Inoltre potremmo imparare a saper guidare esercizi elementari di
meditazione, o di yoga, e di rilassamento nell'ascolto del silenzio o di
orecchiabili e gradevoli motivi musicali, poiché questi possono essere
strumenti molto proficui per favorire il raggiungimento di un migliore
equilibrio psichico e per curare l'armonia tra mente e corpo nei ragazzi, anche
a livello dei bambini di scuola primaria, che in genere appaiono molto ben
disposti verso questi esperimenti e "giochi". Così come apprendere
tecniche dialogiche nell'affrontare problematiche "filosofiche" con i
bambini, che sono così sensibili alle grandi questioni e chiedono di aiutarli a
capire, sono oramai oggetto di numerose riflessioni, sperimentazioni e studi.
Parimenti la conoscenza di elementi di culture e di spiritualità diverse da
quelle da noi prevalenti, se fornite con tatto e discrezione, senza offendere
sentimenti di appartenenza, ma anche in modo corretto e senza esprimere giudizi
di merito, mostrando come provare a porsi dal punto di vista di altri, possono
rivelarsi molto importanti nell'aiutare a formarsi alla complessità del mondo
di oggi e di domani. Accompagnamo dunque i nostri eredi generazionali ad
iniziare un loro cammino attraverso questa sempre più fitta foresta di simboli
(per usare una espressione di Victor Turner) di questo nostro nuovo mondo
mal-globalizzato, ben attrezzati per compiere la traversata con le proprie
forze, soprattutto dunque cerchiamo di stimolare in loro lo spirito critico, e
le capacità di analisi critica e di documentazione critica, come un solido
zoccolo di base, perché si sviluppino degli anticorpi culturali ad ogni forma
di integralismo, di dogmatismo, e di intolleranza, in un percorso che contempli
sempre una tendenziale armonia tra corpo, mente e spirito.
§.
in chiusura, sulla via
In
chiusura vorrei solamente ritornare al paragrafo precedente sull'approdo finale,
con una citazione dal diario intimo di C.G.Jung, in cui in una sublime e poetica
pagina dell'ottobre 1913 (nel periodo in cui iniziava "il tormentato
emanciparsi dalla figura del maestro") scriveva a seguito di una visione
avuta in sogno: (...)"percepii
lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso mi forzò facendomi
provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove
sei? Mi senti? Io ti parlo, ti chiamo... Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo
qui. Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto sin da
te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato
da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? o
non vuoi sentir nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa
devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita
è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi
chiamiamo divino. Non c'è altra via, ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato
la via che mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. (...)
Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona
stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano anima mia quasi dimenticata. Che
immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha
riportato a te. (...) anima mia il mio viaggio deve proseguire insieme a te ».(...)
Pensavo e parlavo molto dell' anima, conoscevo tante parole dotte in proposito,
l'avevo giudicata e resa oggetto della scienza. Credevo che la mia anima potesse
essere oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio
sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. (...) Da ciò
impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l'anima: la vede come
una creatura vivente dotata di esistenza propria, e con ciò contraddice lo
spirito di questo tempo, per il quale l'anima è una cosa dipendente dall'uomo,
che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini. Ho
dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto tale
bensì un'inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all'anima come
se fosse qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me ma grazie
alla quale io stesso esistevo. (...) essa si trova certo nelle cose e negli
uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la sua
anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell'anima sua. Come potrebbe
distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio
stesso, ma non negli oggetti del desiderio: Se (l'uomo) fosse padrone del suo
desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe
toccato con mano l'anima propria, perché il suo desiderio ne è immagine ed
espressione.(...)".(8).
------------
N O T E ---------
(1)
Si veda su questo filone in letteratura: Io
e l'Altro, Racconti fantastici sul Doppio, a cura di Guido Davico Bonino,
Einaudi, Torino, 2004, 2007.
(2)
Nell'anno successivo i coniugi si trasferirono in Inghilterra dove vissero su un
barcone dando lezioni di vela. Poi divorziarono e Pirsig con una seconda moglie
si trasferì in Svezia. Più volte vagabondò in barca attraverso l'oceano
Atlantico. Nel 1979 il figlio Chris fu incidentalmente ucciso da dei rapinatori
all'età di 23 aa. Solo nel 1991 Pirsig ritentò la via risanatrice della
scrittura con il suo solo altro libro, anch'esso un diario di un percorso: Lila,
una indagine sulla morale, dedicato idealmente alla sua figlia di dieci
anni, nata dal secondo matrimonio.
(3)
si riferisce alla consuetudine antica di arrotolare i papiri con sigilli lungo
il bordo del foglio che resta così incollato a rotolo. In caso di scritture
riservate o di testamenti, questi sigilli erano sette (cfr. Amédée Ayfre, cit.
sotto). Perciò nella "Apocalisse" (apokàlypsis significa rivelazione) di Giovanni si dice: "E
quando l'Agnello ebbe disuggellato il settimo sigillo, si fece silenzio nel
cielo per circa lo spazio di mezz'ora. Ed io vidi i sette Angeli che stanno in
pié dinnanzi a Dio, e furon date loro sette trombe"...ecc.
(4)
sulla distinzione tra i due vocaboli in cui si può tradurre in tedesco il
nostro "esperienza", cioè Erfahrung e Erlebnis, si soffermò a
riflettere non solo Remo Bodei, ma anche Antonio Valleriani in Figure
dell'esperienza cit. sotto,
pp.15-21, ricordandoci che il secondo si riferisce ad un dato, mentre il primo
traduce piuttosto un processo, uno svolgimento; ma su questo interessante tema
ora qui non posso soffermarmi.
(5)
frase riportata nel monumento che gli ateniesi fecero scolpire da Lisippo per
commemorare il loro grande cittadino quando si resero conto dell'ingiustizia che
era stata fatta (l'Erma è nella collezione Farnese del museo archeologico di
Napoli).
(6)
così almeno commentarono il grande indianista Heinrich Zimmer, cit.
sotto, pp. 197-199, e poi anche la studiosa Wendy Doniger, in "I
miti degli altri"
(trad.it. Adelphi editore). Una vicenda quasi identica la si può leggere anche
in Borges nella sua "Storia
Universale dell'infamia"
(trad.it. edizioni Il Saggiatore, Milano, 1961, pp.93-95) in un raccontino che
scrisse rifacendosi ad una favola presente nell'originale persiano de "Le
Mille e una notte"
(la 351), che riportò anche nella Antologia
della Letteratura fantastica
(Buenos Aires 1976, trad.it. Editori Riuniti, Roma, 1981, pp. 555-556), nella
versione dell’ orientalista tedesco Gustav Weil (1808-89) del 1862.
(7)
motto riproposto da A.E. Brillant, quando, dopo essersi laureato in storia a
Berckeley fondò a metà degli aa. sessanta in California una sua innovativa e
originale "Floating University", università flottante, su un battello che
proponeva crociere educative intorno al mondo.
Sul
tipo delle Travelling Folk High Schools nate a Tvind in Danimarca ispirate
dalla pedagogia popolare di Grundtvig (su cui cfr. il mio articolo:
"Profilo storico delle scuole superiori popolari danesi, 1844-1944",
in: "Annuario dell'Istituto di Storia Contemporanea ISCMOC- Ferrara",
N°5 (1982-1983), Clueb editrice, Bologna, 1984, pp. 245-263.
(8)
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trad. it. C.G.Jung, Il Libro rosso, o Liber
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