24
GIORNI IN VIETNAM E CAMBOGIA
Diario di viaggio 7 Agosto – 31 Agosto 2004
Premessa
L’inverno, si sa, è lungo e questo del 2004 lo
è stato in modo particolare. Alla
fine di Febbraio avevo due possibili mete per Agosto: Namibia e Rajasthan.
I miei compagni di viaggio accolgono positivamente
l’idea delle destinazioni, e con l’immancabile entusiasmo, mi metto al
lavoro e in due settimane ho già pronto l’itinerario namibiano, con tanto di
prenotazioni aeree, lodge auto e
costi.
Nonostante l’apprezzamento del programma il costo
è troppo alto e la meta africana viene scartata così come la destinazione
indiana: piove troppo…! Bisogna
cambiare destinazione. Prenoto voli per mezzo mondo, mi informo su costi,
offerte e promozioni, ma siamo ancora troppo alti e vengono scartati Australia,
Brasile e Costa Rica… mi resta l’Oriente, ma dove? Durante il viaggio in
Thailandia del 2003 ricordo il rammarico di non essere stati ad Angkor e quindi
mi chiedo perché non farlo quest’anno, accostando al sito archeologico
cambogiano un altro paese confinante come per esempio il Vietnam.
E così eccomi a lavorare su questo nuovo viaggio.
Comincio, come al solito, dai voli per arrivare a definire un programma ed un
itinerario di massima. Forse la destinazione l’abbiamo finalmente trovata ed
anche le date di partenza e di rientro sono fissate.
Lavoro assiduamente per la messa a punto del programma la cui prima tappa
sarà la Cambogia per poi proseguire in Vietnam da Sud verso Nord; una persona
mi consiglia di ribaltare completamente l’ordine e lasciare per ultima la
Cambogia ed i templi di Angkor…in effetti è meglio ed è anche più pratico e
cominceremo l’avventura vietnamita da Nord verso sud e concluderemo il viaggio
in Cambogia.
“L’Indocina, un oriente che
non è oriente, che ricordiamo solo per la violenza delle bombe americane o per
l’atrocità ed i massacri dei Khmer rossi; mi affascina l’idea di visitare
questi luoghi e comincio a leggere, a studiare e la mia curiosità accresce
tanto più leggo.
Mi documento su usi, costumi,
religione e tradizioni culinarie: un lavoro di tre mesi che non fa altro che
alimentare la voglia di vedere realmente questi luoghi…e la baia di Halong
come sarà? - il grande Delta del Mekong Sarà simile all’Orinoco in Sud
America? - e Angkor? Sarà così imponente e suggestiva come si dice?.
Ero
già nato quando il generale Ho Chi Minh entrò a Saigon ed i carri armati
comunisti distrussero il cancello dell’odierno Palazzo della Riunificazione,
ed ero già grande per ricordare molto bene i feroci crimini di un certo Pol
Pot.
Mille
domande e l’impazienza di partire, ma com’è ancora lontano il 7 agosto: ho
voglia di tradurre dal vivo le immagini che inevitabilmente si susseguono nella
mia mente e mi chiedo se ciò che sto immaginando corrisponderà veramente a
quello che i miei occhi vedranno.”
…le tappe sono tutte pronte così come gli
spostamenti, i mezzi di trasporto da utilizzare, il visto, i voli
intercontinentali, le prime notti ad Hanoi e le ultime notti in
Cambogia…bisogna solo attendere la data di partenza per decollare finalmente
alla volta dell’Indocina; lo spettacolo sta per iniziare ed è sempre
emozionante trovarsi in un aeroporto ed imbarcarsi per una nuova destinazione,
significa imbarcarsi per una nuova e sconosciuta avventura che comunque vada,
arricchirà il nostro bagaglio culturale, ci permetterà di conoscere persone e
luoghi, usi e costumi, insegnandoci sicuramente qualche cosa di nuovo, qualche
cosa da non dimenticare, qualche cosa da raccontare, un tesoro da custodire
nello scrigno dei ricordi più belli.
…e
già penso al viaggio successivo…!
Capitolo
I
Vietnam
La
sveglia suona prestissimo, disturbando un fresco sonno.
E’ la mattina del 7 Agosto, è il giorno della partenza: ormai tutto è
pronto, una ricontrollata ai documenti ed eccoci davanti al banco della Swiss.
Un
volo di 40 minuti ci porterà da Malpensa a Zurigo da dove proseguiremo alla
volta di Hanoi, via Bangkok.
L’MD11
della Thai decolla puntuale ed arriveremo in perfetto orario allo scalo
Thailandese , tanto che abbiamo tempo per un po’ di shopping ed una
rinfrescata prima dell’imbarco per la nostra ultima destinazione.
Tocchiamo
terra alle 10,30 all’aeroporto di Noi Bai, il principale scalo aereo
vietnamita e, nonostante i volti del personale preposto al controllo passaporti
non siano proprio così ben auguranti, con nostra grande meraviglia le formalità
per l’ingresso sono abbastanza veloci e prive di ogni difficoltà.
La
nostra macchina ci sta aspettando fuori dal terminal degli arrivi e in poco
imbocchiamo la più moderna strada di tutto il Vietnam: una specie di
superstrada a due corsie per ogni senso di marcia dove, fra aree industriali e
risaie, l’attraversamento di animali è abbastanza frequente.
Fa
molto caldo ed il tasso di umidità è elevatissimo. Questa è la stagione dei
monsoni che spirano da sud, portando piogge torrenziali e venti fortissimi, ma
oggi splende un bel sole ed il cielo azzurro fa presagire tutto tranne il
rischio pioggia che peraltro, in ventiquattro giorni, prenderemo solamente
pochissime volte….forse il monsone è in ritardo o anche qui il clima sta
cambiando.
Lo
sguardo impietrito di fronte al disordinatissimo e pericolosissimo traffico
lascia il posto alla stanchezza e, tra sbigottimento e divertimento, arriviamo
al grande ponte sotto il quale scorre il Fiume Rosso. Siamo ormai vicinissimi ad
Hanoi ed il caos stradale aumenta accompagnato dal fastidioso strombazzamento di
scooters, auto e cyclo; nessuno si ferma, le precedenze sono optional
inesistenti così come il rispetto dei semafori rossi o delle strisce
pedonali…ognuno segnala suonando evitandosi abilmente.
Frastornati
e un po’ stanchi arriviamo finalmente al nostro albergo, il Golden Key,
leggermente e fortunatamente interno rispetto alla strada. Siamo nel centro di
Hanoi, vicino alla stazione ferroviaria e poco distante dall’ Hoan Kien Lake e
dal Quartiere Vecchio.
E’
passato da poco mezzogiorno quando entriamo nelle nostre spaziose e luminose
camere, un po’ di relax e l’appuntamento è per le quattordici: dobbiamo
cominciare ad organizzare le tappe successive del nostro viaggio.
Il
caldo umido che ci assale all’uscita dall’albergo è sconvolgente, e ci
incamminiamo lungo il grande viale Pho Hai Ba Trung. Sul grande marciapiede si
vende un po’ di tutto, dai libri alle reliquie di guerra, dai cappelli agli
incensi, dalla frutta ad ogni genere di cibo. Anziani venditori con il
tradizionale Non Bai Tho, copricapo conico, e dai visi segnati da profonde
rughe, un po’ dimessi e con lo sguardo triste, sono accovacciati vicino alla
loro misera mercanzia in cerca di qualcuno che si fermi ad acquistarla. Ad ogni
angolo e lungo ogni strada gli autisti di cyclo e motobyke offrono i loro
servizi per pochissimi dong.
Piccole
e grandi botteghe brulicano di gente ed il frastuono dei motorini è
assordante…ma ci faremo l’abitudine. Attraversare la strada è un problema:
le orde di motorini, taxi e macchine transitano da qualsiasi direzione senza mai
neppure accennare a rallentare. Pur con qualche timore iniziale capiremo che
anche noi dobbiamo buttarci senza esitazione, tanto ci eviteranno…diventeremo
molto bravi e smaliziati ma soprattutto abbandoneremo il timore di essere
investiti.
La
nostra direzione è il Lago Hoan Kien che raggiungiamo dopo una breve
passeggiata: passiamo di fianco all’ Hanoi Towers, uno degli edifici più alti
della capitale, dove hanno sede un grande albergo e gli uffici di alcune
compagnie aeree.
Siamo
nel cuore di Hanoi ed il lago rappresenta uno dei simboli della città oltre che
il luogo dove passeggiare, fare jogging e concedersi una sosta nei tanti
localini situati lungo le sue rive ed è proprio in uno di questi, il
Dak Lin Cafè, che ci concediamo il nostro primo caffè vietnamita,
osservando il traffico
esasperato ed il frenetico passeggio sul lungolago.
Ma
è ora di proseguire verso il Quartiere vecchio e,
mappa alla mano, raggiungiamo Pho Hang Bo (la via delle ceste) e Pho Hang
Bac
(la via degli argentieri), le due più importanti strade dove sono concentrate
quasi tutte le agenzie della città e decidere per una o per l’altra non è
facile.
La
nostra Loney suggerisce alcuni indirizzi: taluni ci ispirano fiducia e simpatia
altri proprio no.
Ci
fermiamo in alcuni chioschi e negozi e finalmente incontriamo le vetrine del Kim
Cafè. Entriamo, illustriamo il nostro programma ed ascoltiamo le proposte,
l’itinerario, le sistemazioni ed i costi: alla fine, e un po’
precipitosamente, accettiamo. Partiremo la mattina del 10 agosto alla volta di
uno dei posti più belli del Vietnam e di tutto il sud Est asiatico: la Baia di
Halong, nel Golfo del Tonchino. Per
non perdere tempo ci premuriamo di prenotare il treno Hanoi-Hue per il 13 Agosto
e l’unica possibilità è il notturno delle 19,50…il mitico e
“supermoderno” Espresso della Riunificazione.
Le
stradine del Quartiere Vecchio si animano mentre la sera pian piano scende sulle
botteghe e sulle bancarelle dei mercati; mille fioche luci si accendono e gli
ambulanti si scatenano in vivaci schiamazzi ed in animate e fantasiose
contrattazioni, mentre sui marciapiedi si consumano le tradizionali cene.
Entriamo
nel mercato di Pho Hang Bo, un grande bazar all’aperto dove si vende di tutto
ma in particolare generi alimentari, frutta, verdura, carne, pesce vivo e secco,
tartarughe, serpenti, ...ma anche bellissimi fiori e piante.
L’odore acre e spesso insopportabile che aleggia ovunque, non ferma la
nostra curiosità su alcuni particolari generi di frutti o pesci esposti,
sforzandoci di capire, talvolta invano, di cosa esattamente si tratti…ma
rimaniamo stupefatti e sconcertati nel riconoscere le teste di cane ed altre sue
parti…ma d’altronde noi mangiamo i conigli, nell’Europa del Nord mangiano
le renne e gli orsi, non è forse la stessa cosa ? …no! per noi non è la
stessa cosa ma comprendiamo ed accettiamo che per loro lo sia.
L’impatto
iniziale è forte e ci interroghiamo su cosa incontreremo nelle zone o nei
centri più piccoli: qui siamo in una grande città, figuriamoci sul Mekong !
Nonostante
l’insopportabile tasso di umidità, unica costante certezza del nostro
viaggio, la visita di Hanoi prosegue senza soste, concentrandoci sul vivace e
caratteristico Quartiere Vecchio dove, nel lontano XIII secolo, si stabilirono
le trentasei corporazioni di Hanoi occupando ciascuna una via diversa ed è
proprio da qui che deriva il nome originale del quartiere che significa appunto
“36 strade”, ognuna delle quali
fu contraddistinta dal nome della merce (in vietnamita hang) che li si
vendeva; oggi queste strade sono una cinquantina, anche se non sempre gli
articoli che si vendono corrispondono alle vecchie denominazioni. Il nostro giro
comincia da Pho Hang Giay, la via delle calzature, e prosegue nell’intricato
labirinto di vicoli e vicoletti sui quali si affacciano le basse e strette
costruzioni, che sono una delle caratteristiche principali del Quartiere e che
rievocano il rispetto dell’antica legge feudale secondo la quale gli immobili
venivano tassati in base allo spazio che occupavano in larghezza sulla strada ma
non solo: sempre secondo la legge di allora le abitazioni non potevano avere più
di due piani e, per rispetto al re, non dovevano essere più alte del Palazzo
Reale. Sembra strano ma anche oggi la caratteristica della maggior parte delle
abitazioni è questa: sono strette e lunghe anche se spesso molto alte.
Curiose
sono le strade dove si vendono casseforti, tende di qualsiasi tipo, sigarette,
ceste, seta e canapa, statue e altari buddisti, lapidi, erbe medicinali, spezie,
denaro fantasma (banconote false che vengono bruciate nei cerimoniali buddisti),
vasi contenenti enormi serpenti sotto spirito…insomma un vero bazar ben
suddiviso e molto colorato dove è molto difficile non trovare confusione o
venir malamente urtati dai passanti od essere schiacciati dalle ruote delle
biciclette di frettolosi e laboriosi ambulanti.
La nostra visita al Quartiere Vecchio termina ed essendo ad Hanoi, non si può non andare al teatro Municipale delle Marionette sull’Acqua per assistere alla rappresentazione di questa antica forma di espressione artistica; una grande vasca come palcoscenico, decine di singolari, colorate e divertenti marionette abilmente mosse dai marionettisti ed un gruppo di musicisti che suonano flauti di legno, xilofoni di bambù ed originali strumenti ricavati dal bau, un’anguria cinese.
Lo
spettacolo è decisamente interessante e divertente ed il programma prevede
diversi quadri illustranti scene di vita pastorale e antiche leggende;
particolarmente belli e vivaci sono i colorati draghi che sputano fuoco, un
tocco di vero realismo lo offre il quadro che racconta la battaglia fra un
pescatore e la sua preda, veloce e divertente è la farsa del gioco del gatto
con il topo tra un giaguaro, uno stormo d’anatre ed il loro guardiano,
melodica ed irreale è la scena del ragazzo che suona il flauto in groppa ad un
bufalo.
Dalla
frescura del teatro rieccoci piombati nel caotico e caldo centro di Hanoi che
continuiamo a visitare incuranti della stanchezza alla quale pian piano stiamo
cedendo. Un aspetto particolarmente affascinante di questa stranissima città è
che il tempo, qui, sembra essersi fermato agli anni ’50. Le costruzioni sono
alte solo pochi piani e, a differenza delle vicine capitali asiatiche, la
modernizzazione e lo sviluppo urbano sembrano stentare a decollare, solo le
motociclette, che in parte hanno soppiantato la tradizionale bicicletta, e
l’insediamento di strutture industriali di capitale straniero rappresentano un
evidente e concreto segnale di sviluppo e progresso che certamente interessano
Hanoi e gli altri grandi centri urbani del Paese, ma che ancora non toccano le
campagne e le zone degli altopiani centrali, determinando una netta differenza
fra l’arretrato Nord ed il ricco Sud dominato dal potere economico di Ho Chi
Minh City.
L’atmosfera
della capitale è spesso un misto di tradizione vietnamita fusa all’interno di
quella lontana e volutamente dimenticata presenza francese che ancora si può
rivivere, in modo discreto, in molti locali e ristoranti del Quartiere Vecchio
come il famoso Green Tangerine, in stile coloniale, con il suo piccolo cortile
interno, scarsamente illuminato ed arredato con pochi e piccoli tavoli in ferro
battuto, nel quale si respira quella sobria e raffinata atmosfera di un
occidente disconosciuto e rifiutato, che tanto ha lasciato in questo angolo di
terra così lontano e così diverso.
…e
forse come i francesi di allora, anche noi arriviamo all’ingresso del locale
in cyclo ed entriamo dirigendoci verso il tavolo a noi riservato. La cena è
veramente gustosa, i piatti sono serviti con cura e fantasia, tanto da essere
ricordata come una delle migliori e costose di tutto il nostro soggiorno
Indocinese.
…intanto
i nostri cyclo ci attendono all’uscita e, fra gli affollati vicoli, prendiamo
la strada del ritorno.
Oltre
al caldo umido, un’altra costante di questa nostra avventura è rappresentata
dalla sveglia che immancabile, non ha mai suonato dopo le sette del mattino, ed
anche oggi 10 Agosto eccola puntuale.
Sono
da poco passate le sei ed il sole è già alto ed il traffico, sotto le nostre
finestre, scorre caotico e frenetico come ogni giorno.
Lasciamo la capitale a bordo di un moderno mini-bus con aria condizionata che ben presto trasformerà l’abitacolo in una sorta di cella frigorifera. Uscire da Hanoi non è facile, il grande traffico rallenta qualsiasi spostamento ma, fortunatamente, siamo ad attraversare il Chuon Đ, uno dei due ponti che collegano le sponde del Song Hong, il Fiume Rosso, verso Halong City, che raggiungeremo in poco più di quattro ore, percorrendo la statale n.5.
Appena fuori dalla città gli insediamenti industriali sono sempre meno ed anche le aree urbane sono ridotte a poche case per lo più sparse qua e la per la campagna di riso, anche se, in molte zone abbiamo visto un grosso sviluppo dell’edilizia nella sua più tradizionale espressione architettonica.
Il traffico lungo quest’importante arteria stradale non è particolarmente elevato ed è costituito prevalentemente da vecchi autobus carichi di persone ammassate ma non solo: il tetto è stipato di ogni cosa, da grandi sacchi a biciclette, da ingombranti borsoni a penzolanti gabbie di animali.
Il paesaggio cambia lentamente e dalla piatta pianura pian piano spuntano piccole montagne e all’orizzonte la grande catena montuosa che delimita il confine cinese.
Halong City è tutto tranne che una bella ed affascinante città: brutta, confusa e disordinata, rappresenta però il punto di partenza per la splendida Baia di Halong che già si vede in lontananza. Il bacino di Halong pullula di piccole e grandi barche di legno, alcune lussuose altre spartane, tutte adibite alle escursioni attraverso la Baia. Un gran via vai di imbarcazioni che manovrano in modo disordinato, chi urtandosi per guadagnare un ormeggio, chi investendo le piccole e malconce tinozze degli ambulanti, lasciando la banchina. Come per strada, così sull’acqua non esiste ne un codice ne una regola, vige il disordine e la legge del più grosso.
Il grande Golfo del Tochino, teatro di aspri bombardamenti durante gli anni settanta, oggi è patrimonio dell’Umanità e rappresenta una delle più importanti attrattive turistiche del Vietnam. Le oltre tremila isole, alcune ancora senza nome, sono ricche di una lussureggiante vegetazione che si riflette sulle tiepide acque color smeraldo; molte di esse racchiudono splendide lagune ed affascinanti grotte come Hung Sung Sot , nella quale le rocce formano figure di donne, leoni, draghi e straordinari giochi di ombre: all’uscita della grotta il panorama della baia è stupefacente e la miriade di isolotti sembrano formare una grande catena montuosa adagiata nelle calme acque del Golfo.
…ormai il sole fa capolino dietro i ripidi picchi ed un tuffo ristoratore nelle caldissime acque è quanto ci vuole.
Il cielo color cobalto comincia a brillare, le isole sono ormai sagome scure, solo una fioca luce illumina il ponte della barca e in questa splendente e suggestiva notte di San Lorenzo gli sguardi sono rivolti verso un desiderio da esprimere.
La
barca non appartiene a quelle di categoria lussuosa e, a causa del caldo, è
pressoché impossibile dormire nelle cabine, ed il ponte superiore viene
trasformato in un grandissimo letto. La notte è fresca e l’umidità bagna
tutto ma la stanchezza è tale che si riuscirebbe a dormire persino su una
gamba.
Le isole del Parco marino di Halong sono disabitate e povere di spiagge ad eccezione di Cat Ba, la più grande, dove si concentra la maggior parte della popolazione del luogo.
L’insignificante cittadina di Cat Ba con il suo centro abitato in stile tipicamente cinese, è il punto di attracco per chi vuole esplorare le bellezze di quest’isola, ricca di corsi d’acqua, grandi alberi di mango e banane, coloratissimi fiori e particolari cespugli dalle gigantesche foglie. I Monti Ngu Lam, ricoperti da una lussureggiante foresta pluviale e sub-tropicale, circondano una vasta zona pianeggiante dove si coltiva riso ed il piccolo e sperduto villaggio di Ri Luan, costituito da alcune capanne e qualche casa in muratura, rappresenta l’unico luogo in cui sostare per rifocillarsi e comprare dell’acqua, prima di continuare alla volta del piccolo porticciolo di Viet Hai da dove ci si imbarca alla scoperte di alcune delle piccole isole intorno a Cat Ba.
Le
isole intorno a Cat Ba sono particolarmente suggestive e talvolta è possibile
fermarsi per una bella nuotata e godersi un po’ di relax stesi sulle
bianche spiagge di sabbia corallina; una di queste è Monky Island abitata da
divertenti e curiose scimmie François, che danno spettacolo saltando fra i rami
degli alberi.
Non
lontano da Cat Ba sono nati colorati e pittoreschi villaggi galleggianti dediti
sostanzialmente alla pesca e all’allevamento di pesci, oltre che essere punti
di rifornimento per le tante
barche che ogni giorno solcano queste acque. Spesso si incontrano gli zingari
del mare provenienti chissà da dove e che, senza meta, vagano per queste
tranquille acque in cerca di cibo e riparo a bordo dei loro poveri e minuscoli
sampan a remi.
I
giorni trascorsi a contatto con i silenziosi paesaggi della baia presto sono
solo nostalgici ricordi mentre, stipati come sardine, un mini-bus ci sta
riportando nel frastuono di Hanoi che raggiungiamo percorrendo la solita statale
n. 5.
Stanchi
e con i pesanti zaini ci incamminiamo lungo le strade del centro alla ricerca di
un taxi mentre nella piazza lungo le sponde del lago gli schiamazzi di centinaia
di persone ci incuriosiscono tanto che ci facciamo sfuggire l’unico taxi in
sosta. Non comprendiamo cosa stia succedendo esattamente quando un fuggi fuggi
generale pone fine ad una lite o a chissà cosa.
Una pioggia battente ed un cielo nero apre questo 13 Agosto. Indossati i nostri mitici poncho, che ci fanno ricordare i giorni trascorsi in foresta Amazzonica, ci incamminiamo verso l’antico Tempio della Letteratura attraverso i grandi viali della zona delle ambasciate, dove scopriamo un Hanoi bellissima, elegantemente avvolta dall’architettura coloniale delle grandi ville circondate da grandi giardini ben curati.
Il
Tempio della Letteratura è fuori dal caos del centro e rappresenta uno dei rari
esempi di arte tradizionale vietnamita che meglio si sono conservati nel tempo.
Dedicato a Confucio, fu eretto nel 1070 in omaggio ai letterati e divenne sede della prima università del Vietnam per la formazione dei figli dei mandarini. I diversi stili architettonici che caratterizzano i cinque cortili ed i relativi padiglioni, rappresentano le diverse epoche che maggiormente influenzarono il cammino del Vietnam nel corso dei secoli.
L’utilizzo
della lacca come rivestimento di pareti e colonne e le numerose statue di
Confucio all’interno di molte sale rimanda al periodo cinese così come le
ricche decorazioni dei soffitti e dei portali. Una parte dell’ultima
sala ospita un piccolo teatro dove un piccolo complesso musicale intrattiene i
visitatori del Tempio con musiche tradizionali vietnamite.
Il
cortile delle ottantadue stele poggianti sopra altrettante tartarughe di pietra
è sicuramente il più interessante e costituisce il vero tesoro del tempio.
Il
nostro soggiorno ad Hanoi sta volgendo al termine ma abbiamo sufficiente tempo
per visitare i monumenti del complesso del Mausoleo di Ho Chi Minh, non molto
distanti dal Tempio della Letteratura.
All’interno
del complesso si trovano parchi, monumenti e pagode dove l’elemento profano,
rappresentato dal monumentale edificio che contiene le spoglie del leader
comunista, si mescola con quello spirituale costituito dalle numerose pagode e
templi presenti nella zona.
Il
grande lastricato e le ampie gradinate che precedono l’ingresso al mausoleo
sono normalmente gremite di visitatori, in gran parte vietnamiti, giunti qui per
rendere omaggio non solo all’uomo che liberò il popolo vietnamita dal
colonialismo ma anche per i suoi ideali e le sue idee comuniste.
Sotto
un pioggia incessante, e attenti a non scivolare sul lucido lastricato,
proseguiamo per la Palafitta dove Ho Chi Minh visse in modo discontinuo per
circa un decennio. L’edificio, immerso in un delizioso giardino accanto
ad un laghetto pieno di carpe, è costruito secondo lo stile delle
minoranze etniche del Vietnam ed è stato conservato esattamente come Ho Chi
Minh lo lasciò.
Nella
zona più vicina al Mausoleo spicca per bellezza ed originalità la piccola
Pagoda con una Sola Colonna, la cui struttura in legno poggia su un’unica
colonna di pietra che rappresenta un fiore di loto simbolo di purezza; poco
prima di lasciare Hanoi i francesi distrussero la piccola Pagoda che
successivamente fu ricostruita dal nuovo governo di allora.
Affermare
che il complesso di Ho Chi Minh sia un luogo che resta nei ricordi per la sua
bellezza sarebbe decisamente azzardato, ma è indiscutibile la strana atmosfera
che qui si respira. L’immagine del corpo imbalsamato dello Zio Ho è come un
fantasma che vaga inquieto fuori dalla sua prigione di vetro a dispetto di chi,
contro il suo volere, lo volle imbalsamare anziché cremare; ed eccolo allora
camminare in un viale, leggere seduto su una panchina o entrare nel Palazzo
presidenziale con le sue guardie armate.
Perfino
i venditori ambulanti sono irreali: i loro modi pacati e silenziosi sono in
netto contrasto con quelli vivi e accesi della gente del Quartiere Vecchio,
tanto da sembrare malinconicamente finti.
La
pioggia che fino ad ora è caduta copiosa lascia posto ad un pallido sole e
l’umidità che sale dalle strade raggiunge livelli insopportabili. L’unica
soluzione è quella di rifugiarsi nella frescura condizionata di qualche museo.
Il
Museo Etnografico di Hanoi raccoglie le tradizioni, la cultura e la storia di
tutte le diverse etnie presenti in Vietnam, raccontate attraverso arte, tessuti
e oggetti. Una parte del Museo è allestita all’esterno e la sua visita è
resa agevole da un percorso obbligato che, snodandosi fra vialetti ombreggiati e
laghetti trasparenti, conduce alle tipiche abitazioni dei Thai neri, ricostruite
sapientemente rispettandone proporzioni e particolari.
Una
settimana è trascorsa da quando entrammo in Vietnam ed ora è tempo di
proseguire la nostra discesa verso Sud.
La
stazione di Hanoi ( Ga Hanoi) non è molto grande, non ci sono sottopassi ne
cartelloni elettronici ad indicare i treni in partenza e in arrivo. Le
informazioni delle destinazioni appaiono scritte a penna ed il nostro treno è
segnalato in partenza dal binario tre; si tratta dell’espresso della
riunificazione S3 diretto a Ho Chi Minh City.
Velocemente
e senza accorgercene, veniamo circondati da un gruppetto di vivaci e chiassosi
ragazzini che ci vogliono accompagnare al treno…”where are you going?” ci
chiedono e in un baleno alcuni di loro afferrano le nostre valige e zaini
cominciando a correre lungo il marciapiede che costeggia il primo binario.
Increduli su ciò che sta succedendo, non capiamo se veramente vogliono aiutarci
o se siamo vittime di un furto di bagagli. Corriamo con loro senza perdere
d’occhio i nostri bagagli ed arrivati al termine del marciapiede,
attraversiamo i binari per raggiungere il terzo binario dove è in sosta il
nostro treno.
La
carrozza n. 10 è a circa metà treno ed il gruppetto di improvvisati
portabagagli aspetta la mancia. Qualche spicciolo è sufficiente e saliamo a
bordo della sporca e maleodorante vettura di prima classe.
Lo
scompartimento è piccolo e l’aria condizionata è talmente gelida che
decidiamo di spegnerla. A fatica riusciamo a sistemare i nostri bagagli e ci
prepariamo per questo lungo viaggio che durerà diciotto interminabili ore.
Sono
le 19,50 e l’espresso S3 lascia puntuale la stazione di Hanoi, rumoroso ed
ondeggiante . E’ subito buio, non una luce intorno alla strada ferrata.
Solamente campagna per i prossimi settecento chilometri.
Ai
passeggeri stranieri viene chiesto di registrare il proprio numero di
passaporto, la cittadinanza e la stazione di destinazione su di un unto e
consumato libro.
Far
passare il tempo è la nostra preoccupazione maggiore: chi legge, chi scrive,
chi fa parole crociate chi, un po’ desolato per la precarietà della
sistemazione, cerca di farsi coraggio cercando di dormire con un occhio sempre
aperto sospettoso e guardingo.
La
principale strada ferrata del Vietnam è quella che collega Hanoi ad Ho Chi Minh
City ed i suoi millesettecento chilometri sono ancora a binario unico e questo
comporta alcune lunghe soste in piccole stazioni in attesa del convoglio
proveniente dalla parte opposta; le grate ai finestrini, i grossi lucchetti di
ferro alle porte delle vetture, il fumo che esce da sotto i vagoni e le piccole
lanterne tenute fra le mani di stanchi controllori, schierati ognuno davanti la
propria vettura, illuminano con la loro fioca luce i marciapiedi di deserte
stazioni ci trasportano ad epoche lontane, che non abbiamo vissuto ma che
abbiamo visto nei film. Flash di immagini e sensazioni vengono alla memoria
mentre lo sguardo è fisso ad osservare ogni cosa, ogni movimento. E intanto la
lenta corsa verso Huè continua, scandita dal ferruginoso rumore del convoglio
interrotto di tanto in tanto dal fragore delle brevi sassaiole che rimbombano
nello scompartimento facendoci sussultare nelle nostre cuccette.
E’
quasi l’alba quando mi trovo a vagabondare per i corridoi delle assonnate
vetture di seconda classe in cerca di un finestrino senza grate. Siamo nei
pressi della grande catena montuosa dei Monti di Marmo ed il treno rallenta la
sua corsa serpeggiando fra tortuosi e stretti canaloni, passando sopra rugginosi
ponti sotto i quali sparuti gruppi di bufali d’acqua già pascolano sulle rive
di paludosi fiumi.
La
regione è ricca di corsi d’acqua, paludi e risaie. La catena montuosa che ben
si distingue all’orizzonte segna il confine laotiano che qui raggiunge la sua
minima distanza rispetto ad ogni altra parte del paese, ma non solo: la zona
segna un altro storico confine. E’ il 1956 quando il Vietnam si trovò di
fatto diviso in due stati, quello del Nord e quello del Sud, che avevano come
linea di demarcazione il Fiume Ben Hai, situato quasi esattamente all’altezza
del 17° parallelo. In quegli anni Il Ben Hai non solo fu il confine
“politico-geografico” di due stati, ma fu soprattutto il palcoscenico presso
il quale le truppe contrapposte diedero origine ad alcune delle battaglie più
sanguinose di tutto il conflitto ed in particolare nella regione di Quang Tri, a
sud della cosiddetta DMZ ovvero zona demilitarizzata che sorgeva alla foce
del fiume, sul mare; anche dopo gli accordi che siglarono la pace del 1975,
migliaia di civili rimasero vittime delle mine e degli ordigni rimasti inesplosi
dai tempi della guerra e ancor’oggi molti contadini impoveriti cercano di
guadagnarsi da vivere raccogliendo residuati bellici di metallo da vendere come
rottami in cambio di pochi soldi.
Il
Ben Hai River e la DMZ sono oramai lontani e dal finestrino impolverato le
immagini della guerra e della devastazione svaniscono e riappare la brillante e
quieta campagna baciata dal sole del nuovo giorno.
L’odore
acre di cibo e il vocio stridente e convulso sono il segnale che il treno pian
piano si sta svegliando e negli scompartimenti la maggior parte degli occupanti
è intenta in uno dei riti che più li accomuna, che non è certo la preghiera
buddista ma tagliatelle di riso, più simili a serpetelli che galleggiano in
scure brodaglie maleodoranti di coriandolo.
In
poco anche i corridoi si trasformano in “ristoranti” e tentare di
passare diventa un’impresa davvero difficile cui si è obbligati a rinunciare,
implorando che eventuali bisogni urgenti restino sopiti poichè significherebbe
saltare decine di persone, chi in piedi, chi sdraiate con il rischio di essere
inondati dalle loro minestrine che, grazie al dondolio del treno, in parte si
riversano sul pavimento in parte su loro stessi. La sporcizia aumenta ed
è inimmaginabile pensare in che condizioni igieniche questo convoglio affronterà
i restanti mille chilometri, se dopo soli settecento è già simile ad una
discarica.
Mentre
a bordo fervono i preparativi per l’arrivo nella vecchia capitale, il
paesaggio cambia rapidamente e la terra lascia posto alla sabbia, biancastra e
sottile. Anche noi ci prepariamo e cominciamo a riorganizzarci ma soprattutto
cerchiamo di raggiungere indenni la via di “fuga”.
La
stazione di Huè (Ga Huè) è vivacissima e guadagnamo l’uscita fra una folla
chiassosa in attesa di salire sul treno. Tanto vivace e brulicante di gente al
suo interno quanto mezza deserta al suo esterno, l’edificio della stazione è
un’allegra casetta colorata di rosso che si affaccia su un ampio e ordinato
piazzale alberato con parcheggiati numerosi taxi, bus e cyclo.
Siamo
finalmente arrivati nell’antica città imperiale divenuta capitale per la
prima volta nel seicento e poi di nuovo nel secolo scorso. Huè sorge in
mezzo ad una pianura di acquitrini e sabbia tanto che l’antica immagine
buddista la vuole come un fiore di loto cresciuto in mezzo al fango.
I
grandi viali alberati aperti dai francesi fanno di Huè una città ordinata e
pulita, adagiata sulle tranquille acque dell’operoso e mistico Fiume dei
Profumi.
Dalle vetrate del Century Riverside Hotel centinaia di piccoli sampan sono immobili uno in fianco all’altro sulle sponde del Fiume che qui si biforca in due rami, uno dei quali giunge fino al mare.
Il
traffico non è esasperato ed il mezzo di trasporto preferito è il cyclo.
L’incombenza di dover organizzare le successive tappe ci impone qualche sosta
obbligata e quindi approfittiamo delle tre ruote quale mezzo di trasporto; la
formazione dei nostri quattro cyclo si muove alla volta degli uffici della
Vietnam Airlines dove, a costi decisamente irrisori rispetto a quelli offertici
in Italia, comperiamo i passaggi aerei per Nha Trang e Ho Chi Minh City.
Ridendo
e scherzando con i guidatori,
la piccola carovana è pronta per cominciare la visita alla cittadella che
raggiungiamo percorrendo i viali del centro cittadino, attraverso il ponte Phu
Xuan di fronte al quale l’antica Porta di Thuon Tu segna l’ingresso al lungo
viale che, costeggiando la Torre della Bandiera, conduce alla Porta Ngo Mon la
principale via di accesso alla Città Imperiale.
La
Cittadella di Huè voleva essere una copia in piccolo della Città Proibita di
Pechino, ma l’aggiunta di elementi decorativi quali i pinnacoli colorati sui
tetti, la rese unica.
La
città imperiale racchiude al suo interno la Città Purpurea Proibita che era la
residenza privata dell’Imperatore: gli unici servitori che vi avevano accesso
erano gli eunuchi i soli a non costituire una minaccia sessuale per le concubine
del sovrano. La Città Purpurea Proibita venne quasi completamente distrutta
durante l’offensiva del Tet nel 1968 e oggi si presenta come un grande campo
coltivato o semi abbandonato nel quale solamente alcuni edifici sono ancora
visibili come la Biblioteca Imperiale, che conserva sopra il tetto elaborate
statue in ceramica di mandarini ed altri personaggi, ed i resti del Teatro Reale
che ora ospita il Conservatorio Nazionale di musica.
Gli
stessi americani riconoscono oggi che i maggiori danni inflitti furono causati
dalla loro stessa aviazione ed in Francia, sul finire degli anni ’80, un noto
giornalista affermò, con non poche polemiche, che sarebbe stato meglio uccidere
un numero maggiore di vietnamiti piuttosto che distruggere i palazzi e le
vestigia dell’antica città imperiale.
Uscendo
dal perimetro della Città Purpurea Proibita, fra sterpaglie, alberi di mimosa e
piccoli fossati coperti di fiori di loto, si arriva alla residenza della regina
madre della dinastia dei Nguyen, Dhien Tho.
Il complesso si presenta molto ben conservato e di particolare interesse sono la sala delle udienze, con il piccolo trono color rosso porpora ed una piccola collezione di abiti dell’epoca, ed il vicino padiglione in legno intarsiato che fungeva da luogo di diletto delle Altezze Reali.
La
Porta Hien Nhon, ad est del Palazzo della Regina Madre, conduce all’esterno
della cinta muraria, sul grande viale alberato Doan Thi Dien.
Stanchi
ed accaldati ci sediamo in un piccolo bar all’aperto: un carretto, qualche
tavolino circondato da piccole seggiole di plastica rossa, catini con cocchi e
bevande, la gentilezza della padrona e le sue attenzioni a servirci al meglio
sono i giusti ingredienti per cominciare la nostra prima sera nella ex capitale
vietnamita, che concluderemo seduti ad uno dei tavoli del Tinh Gia Vien, un
ristorante immerso in un bellissimo giardino che serve piatti finemente decorati
ispirati alla tradizione della corte imperiale di Huè.
E’
notte fonda e le strade intorno alla Cittadella sono deserte e poco illuminate;
solo la fosforescente torre della televisione rappresenta il punto cospicuo che
ci permette di capire che la, in fondo, c’è il fiume e sicuramente un ponte.
Huè
non è solo la Cittadella, tanto splendida durante la dinastia imperiale quanto
devastata dai razzi vietcong diretti al comando militare sudvietnamita, ma anche
il luogo dove riposano i sovrani Nguyen nei loro sfarzosi mausolei costruiti
lungo le rive del Fiume dei Profumi o immersi nelle tranquille colline intorno
alla città.
La
barca è già pronta al pontile davanti al nostro albergo; il malconcio
comandante, la sua intraprendente moglie ed il loro piccolo figlio ci accolgono
a bordo come se dovessimo partire per una crociera ai Carabi tanto che in men
che non si dica una piccola boutique di bordo viene allestita sul sudicio
pagliolo e la battaglia della contrattazione ha inizio quasi subito, mentre il
ragazzino, forse ancora addormentato, piomba sul pavimento della barca come
svenuto: che sia lo spettacolo di bordo? Il poverino
è solo assonnato, non si regge in piedi.
Il
colore marrone scuro di questo fiume dal nome così candido e fresco contrasta
con le colorate prue delle decine di imbarcazioni che si incrociano lungo il
percorso verso i principali luoghi di culto, templi, pagode e mausolei.
L’inconfondibile
sagoma della Torre ottagonale della Pagoda di Thien Mu, sfortunatamente
ricoperta da un’impalcatura di bambù, è una delle opere architettoniche più
famose di tutto il Vietnam divenuta celebre negli anni ’60 anche per essere
stata uno dei focolai della protesta contro il governo sudvietnamita.
A
sinistra della torre, un padiglione esagonale custodisce un’enorme campana di
due tonnellate il cui suono, si dice, sia udibile nel raggio di dieci
chilometri. Da questo padiglione un vialetto conduce al santuario principale
dietro il quale vive una piccola comunità di monaci buddisti che si confondono
con il grande andirivieni dei turisti tale da rendere il luogo ormai privo di
carattere al contrario di Ho Chen, poco più a sud.
Qui
misticismo e fede si fondono nella quiete del piccolo tempio pervaso dal profumo
di incenso e dal sorriso degli anziani monaci che accolgono i fedeli di Huè e
dei vicini villaggi.
Incrociamo
piccoli sampan a remi ricoperti da tondeggianti lamiere di metallo: sono la casa
di anziani e malmessi uomini che vivono di offerte e di elemosina, girovagando
sul fiume senza una meta.
Abbiamo
percorso circa dodici chilometri e la nostra barca ci lascia al piccolo
villaggio di An Bang, sulla riva occidentale del Fiume dei profumi. Un piccolo
sentiero immerso fra i banani conduce alla strada di accesso alla più maestosa
fra le tombe imperiali, quella di Ming Mang. L’armoniosa fusione fra
architettura e natura è l’elemento di maggior importanza di questo grandioso
mausoleo.
Il
cortile d’onore ha tre porte di ingresso che conducono ai padiglioni interni
circondati da stagni coperti di fiori di loto e attraversati da piccoli ponti
dove avrebbe dovuto passeggiare l’anima dell’imperatore all’ombra di
boschetti di pini e frangipane.
Gli
astrologi che scelsero quest’eremo per la sua tranquillità non lessero bene
nel futuro. Questo luogo fu anche scelto dal Comando della prima divisione di
Saigon per il riposo delle proprie truppe e per ospitare gli sfollati di Quang
Tri.
Come
per altri monumenti, attorno e fuori Huè, anche questo fu condannato agli
inevitabili patimenti imposti dalle regole della guerra che ancor’oggi sono
visibili in alcuni dei fatiscenti edifici che compongono il complesso.
L’auto
che ci sta attendendo all’uscita ci porterà ora dall’altra parte del Fiume
verso Thien Thai Hill, le verdi montagne che dominano la piana di Huè e che
furono base e nascondiglio delle forze nordvietnamite oltre che punto di
partenza dei razzi che puntualmente colpirono Huè durante l’offensiva del Tet.
Il
primo villaggio che si incontra lungo la tortuosa strada è quello di Chau Chu
dove si erge maestosa la tomba dell’imperatore Khai Dinh. La monumentale
struttura in cemento si differenzia nettamente dalle altre tombe imperiali
essendo una sintesi di elementi europei e vietnamiti in cui perfino i mandarini
in pietra della guardia d’onore sono ritratti con tratti somatici europei ed
orientali.
Lasciamo
il grigiore e la pesantezza della tomba di Khai Dinh alla volta del villaggio di
Duong Xuan Thuong sulla strada che conduce ad Huè.
Un’ordinata
fila di colorate bancarelle di souvenirs vivacizza l’entrata dell’imponente
mausoleo di Tu Duc il cui regno fu il più lungo di tutti i sovrani Nguyen.
L’armonioso
e raffinato complesso, progettato dallo stesso sovrano, è situato su una
collinetta di pini e frangipane circondato da spesse mura ottagonali.
Il
viottolo che si snoda, costeggia il piccolo lago con al centro il padiglione di
caccia, il moletto ed il padiglione dove l’imperatore soleva recarsi per
recitare o comporre poesie in compagnia delle sue concubine, che si narra siano
state numerose oltre alle centoquattro mogli, dalle quali non ebbe mai figli.
Città
delle tombe, luogo sacro e religioso Huè ha addosso tutti i segni del suo
splendore e le cicatrici della sua decadenza: i templi, le pagode, le tombe, i
palazzi costruiti dalla dinastia Nguyen, le piccole case dai tetti di terracotta
dei mandarini, le rovine fatte dalle disastrose cannonate del 1968.
Huè
è come una vecchia e stanca signora seduta su di una consumata sedia a dondolo
con lo sguardo fisso sul fiume che si racconta senza parlare: nei suoi occhi si
leggono i segni del tempo, la distruzione, la rassegnazione, la modernizzazione
e la consapevolezza di non poter essere più la città del grande impero memore
però dell’importante ruolo che ha esercitato nella storia di questo
contrastato e contraddittorio paese del quale, forse, non ha mai smesso di
esserne protagonista.
E’
il 16 Agosto quando lasciamo l’antica capitale del Vietnam, con le immagini
del suo ricco passato e del suo modesto presente, alla volta di Hoi An,
centotrenta chilometri più a Sud.
Sulla
statale 1 non c’è molto traffico ed il malmesso autobus di linea attraversa i
tranquilli villaggi di pescatori che si susseguono ininterrottamente lungo
questo tratto di costa reso famoso dagli allevamenti di gamberetti.
Il
Mar Cinese meridionale spesso appare e scompare dietro la fitta vegetazione
mentre, più avanti, già si scorgono le sagome dei monti che fungono da linea
divisoria tra il ventoso clima del Nord e quello del Sud.
Una
sosta al piccolo villaggio di Lang Co è quello che ci vuole prima di affrontare
i restanti 30 chilometri della tortuosa strada che, inerpicandosi sulle Truong
Son, conduce alla Baia di Danang attraverso il passo delle Nuvole Marine, meglio
noto come Passo di Hai Van.
Lang
Co è un tranquillo villaggio costruito su una lingua di sabbia ombreggiata da
palme con una laguna da una parte e chilometri di spiagge affacciate sul Mar
Cinese Meridionale dall’altra.
Il
viaggio è ancora lungo e nella piccola area di servizio compriamo una grande
cartina del Vietnam, acqua e qualcosa di commestibile. Si riparte.
Più
le montagne si avvicinano meno villaggi si incontrano; solo qualche capanna si
intravede semi nascosta dalla folta vegetazione.
Si
sale e la strada è talmente stretta e sinuosa che in due non si passa.
Lo
scenario è incantevole: a destra, lungo la massicciata, i grandi banani fanno
ombra ai colorati cespugli di lantana incastonati fra rotondeggianti massi
granitici bagnati dalle acque di limpidi torrenti che qua e la formano piccole
cascate; a sinistra, ripide scogliere si specchiano nel verde del Mar Cinese
Meridionale.
Viaggiare
lungo le strade vietnamite è spesso un’esperienza singolare che va al di la
dell’inimmaginabile. Come in altre parti del paese anche qui, fra i
tornanti che conducono al passo, incontriamo diversi mezzi pesanti fermi; si può
pensare che siano in avaria ma non è così.
Un
semplice ramo d’albero come segnale di mezzo fermo e un grande telone per
proteggersi dal sole e dal caldo è l’indispensabile riparo per gli autisti
che, incuranti di poter essere d’intralcio agli altri mezzi, consumano
indisturbati il loro pasto ascoltando musica a tutto volume salutando
allegramente con la mano. Oltre a questi aspetti prettamente pratici la
particolarità più interessante risiede nella scelta del luogo ove sostare o
sorpassare: di norma appena dopo una curva. Come si può ben immaginare,
talvolta è meglio chiudere gli occhi per evitare di vedere le acrobazie delle
autovetture, camion e autobus nel tentativo, per fortuna quasi sempre riuscito,
di evitare catastrofici incidenti.
Con
la paura scritta sui volti, in particolare di quelli dei passeggeri stranieri,
finalmente arriviamo al Passo Hai Van dove con una manovra da “manuale”
l’autista , senza rallentare e a ridosso di una curva, sposta il pesante mezzo
dall’altra parte della strada per fermarsi lungo una stradina sterrata
disseminata di escrementi di mucca.
Nessuno
degli occupanti comprende il motivo per il quale l’autobus si è fermato; è
semplice l’autista ha scelto un luogo di sosta diverso da quello che
normalmente tutti i pullman di linea utilizzano quando arrivano al passo.
Increduli scendiamo e, stando attenti a non imbrattarci le scarpe, guadagnamo il
ciglio della strada da dove si apre una spettacolare veduta della grande Baia di
Danang. Pochi minuti e si riparte.
Lo
stesso dramma della salita lo si rivive ora che dobbiamo scendere ma,
fortunatamente, qui la strada è più larga. Siamo a Danang la quarta città del
Vietnam.
Importante
porto del Vietnam centrale, Danang divenne famosa come sede della base
principale della Marina americana e come palcoscenico dei più accaniti
combattimenti di tutto il conflitto. La città è tutt’altro che bella e dal
finestrino lo squallore delle sue strade, dei suoi edifici e gli sguardi ostili
dei suoi abitanti riflettono ancora il disagio psicologico delle atrocità della
guerra.
Usciamo
dal caotico centro cittadino percorrendo i grandi e torridi viali della
periferia sui quali sorgono moderne infrastrutture in contrasto con il grigiore
dei fatiscenti palazzi dormitorio.
Lasciamo
Danang sperando di non dover mai sostare in uno dei suoi alberghi e riprendiamo
la Statale 1.
Ancora
trenta chilometri per l’antica Faifo.
I
Monti di Marmo fanno da cornice alla rigogliosa pianura ricca di corsi d’acqua
sui quali torbidamente si specchiano colorati ed operosi villaggi.
Il
lungo viaggio è finito ed entriamo ad Hoi-An che sono da poco passate le
tredici.
La
maggior parte dei viaggiatori giunge ad Hoi-An senza una prenotazione ma
l’organizzazione cittadina è tale che su ogni autobus in entrata alla città
audaci venditori salgono a proporre sistemazioni di qualsiasi tipo, tours e
tutto quanto Hoi-An può offrire al turista “fai da te”.
Magra
e pittoresca nella sua voce stridula, la venditrice comincia ad urlare il suo
monologo in un inglese veloce e poco comprensibile tanto che molti di noi si
chiedono cosa stia succedendo ma soprattutto cosa stia dicendo questa strana
apparizione.
Siamo
ancora lontani dal centro e l’autista ci consiglia di scendere al capolinea
dove troveremo dei taxi; ma dove sono? Ci sono solo scooters. In men che
non si dica veniamo circondati dagli autisti dei motorini che senza alcun
problema e per la modica spesa di un dollaro ci caricano insieme ai bagagli. La
scena è pittoresca
quanto
incredibile e velocemente ci dirigiamo verso il Cua Dai Hotel dove nessuna
prenotazione a nostro nome è mai stata registrata. L’albergo è pieno e
sembra non esistere neppure la persona che due giorni prima ci ha confermato le
camere.
Il
volto beffardo e ridanciano della receptionist mi scatena la furia tanto che
ottengo una nuova sistemazione presso il pacchiano Van Loi Hotel con tanto di
autovettura per i bagagli e motorini per noi.
Siamo
sulla piccola isola di Cam Nam al di la del Thu Bon River e dalla grande
terrazza della camera il vocio della quotidianità è nascosto dalla fitta
vegetazione di palme e banani che lasciano intravedere i piccoli sentieri di
sabbia del minuscolo villaggio di pescatori.
Nonostante
il gran numero di turisti Hoi-An mantiene un fascino speciale. I numerosi
edifici in legno intagliato si mescolano alle tinte pastello delle case del
periodo coloniale francese; il profumo di croissant dei bistro si mischia
all’acre odore di spezie del vivace mercato di Bach Dong che, snodandosi fra i
marciapiedi del centro, assume il suo aspetto più caratteristico lungo il
fiume, dove centinaia di piccole imbarcazione provenienti dagli sperduti
villaggi della zona giungono qui fin dalle prime luci dell’alba, dando
l’immagine di come Hoi-An doveva essere in passato quando era il principale
porto fluviale del Vietnam centrale.
Il
mare non è lontano. Solo cinque chilometri separano la cittadina dalla spiaggia
di Cua Dai che decidiamo di raggiungere in bicicletta. Lungo la strada riusciamo
a trovare un’escursione a quello che resta delle antiche rovine del regno dei
Champa a My Son.
La
spiaggia di Cua Dai è una lunga striscia di sabbia bianca ombreggiata da palme
che si raggiunge facilmente lungo una dritta strada che costeggia il fiume da
una parte e ampie distese destinate alla coltivazione di gamberi dall’altra.
Il
forte vento e le poco rassicuranti nubi nere ci fanno desistere dal tuffarci e
le prime gocce ci obbligano a muoverci verso Hoi-An, ma un simpatico localino
lungo il fiume interrompe il nostro ritorno spinti da un’irresistibile sosta
godereccia per un drink che ben presto si trasforma in una sorta di coatto
esilio in attesa che la tempesta tropicale ci permetta di proseguire. La tregua
tarda ad arrivare e, indossati i poncho, pedaliamo verso l’isola di Cam Nam
totalmente allagata.
Tanto
brulicante e vivace di giorno, Hoi-An quasi si addormenta una volta che il
mercato chiude la sua attività, lasciando posto alla sporcizia, topi e
scarafaggi. Le luci dei locali lungo Bach Dong si riflettono sul fiume e gli
odori fuoriescono quasi ad avvertire che è ora di cena.
Hoi-An
è famosa per i suoi Cau Lau, tagliolini di riso preparati con una speciale
acqua ed il cafè des Amis è uno dei migliori a prepararli. Kim e suo figlio
sono certamente personaggi stravaganti: il primo per i suoi menù a sorpresa; il
secondo per la straordinaria abilità a servirli. Unico cameriere del locale,
fra una portata e l’altra si riposa semi sdraiato su una seggiola fuori
dal locale, gambe accavallate, mani fra i piedi, sguardo perso nel vuoto. Le
portate sono pronte e, con quelle stesse mani che fino a pochi minuti prima
accarezzavano i suoi delicati piedi, sbriciola la carta di riso sulla brodaglia
di pesce coperto di “profumatissimo” coriandolo.
Ma
Hoi-An è principalmente nota per le reliquie del periodo Champa. Le antiche
vestigia di My-Son si raggiungono con jeep lasciate dagli americani e
risistemate nei particolari dall’ente che sovrintende e gestisce la zona
archeologica.
Il
lungo regno dei Champa ha inizio nel II° secolo D.C. e, fra conquiste e
distruzioni, viene definitivamente annientato dai Khmer nel XV° secolo D.C. ;
ancor’oggi è possibile rintracciare i discendenti di quest’etnia,
riconoscibili dai particolari copricapo colorati, nella zona del Mekong.
Situato
su di un altopiano isolato e circondato da verdi montagne, My Son fu scelto
dalla popolazione Cham quale luogo di vacanza e preghiera secondo il culto
induista di Shiva.
L’influenza
induista emerge negli stupendi bassorilievi che decorano le rovine del complesso
religioso che, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, è
sottoposto ad un attento intervento di restauro e recupero da parte di diversi
governi occidentali, fra i quali anche quello italiano.
Rientriamo
ad Hoi-An via fiume con una sosta al piccolo villaggio di pescatori ed
intagliatori di legno dell’Isola di Cam Kim.
Il
nostro soggiorno ad Hoi-An sta finendo e non può non mancare un po’ di tempo
per qualche acquisto ed un buon croissant.
Con
una margine sufficientemente prudente arriviamo nello squallido aeroporto di
Danang da dove partiremo alla volta di Nha Trang per poi proseguire in taxi
verso la nostra successiva meta: Mui Ne.
Il
volo VN337 della Vietnam Airlines atterra con un ritardo di venti minuti nel
nuovo aeroporto di Cham Ra:
Ormai
è buio e lungo la statale 1 piove a dirotto. Mui Ne dista 246 chilometri che
copriremo in più di quattro ore.
Mui-Ne
è un piccolo villaggio di pescatori alla periferia del quale sorgono diversi
resort che si affacciano direttamente sulla lunghissima spiaggia orlata da
altissime palme.
Lungo
la strada principale qualche ristorante e pochi negozi sono tutto quello che
questa tranquilla località del sud può offrire, lontana dal caos dei più
famosi centri turistici della zona.
Siamo ormai a metà della nostra vacanza e qui a Mui-Ne trascorreremo gli unici tre giorni di riposo prima di proseguire il viaggio per Ho Chi Minh City, il Delta del Mekong e la Cambogia.
I
giorni trascorrono lenti e nel totale relax; lunghe passeggiate sulla
spiaggia, bagni di sole, nuotate nell’agitato Mar Cinese Meridionale e un
po’ di studio su quelle che saranno le mete successive del nostro tour.
I
raggi del sole illuminano la bianca distesa di sabbia e i pulviscoli d’acqua
sollevati dal vento brillano sulle decine di piccole imbarcazioni tonde come
tinozze dei pescatori che, come ogni mattina, popolano la spiaggia con le loro
colorate reti piene di pesce, rendendola simile ad un grande mercato.
I
volti allegri dei bambini che non perdono l’occasione di farsi scattare una
fotografia in cambio di una conchiglia si trasformano quando si rivedono sul
piccolo video della macchina digitale, quasi a chiedersi cosa sia quello strano
oggetto che probabilmente non hanno mai visto prima; e ancora
l’indimenticabile cena al Dung Su, un originale ristorante su palafitta
direttamente sull’acqua caratterizzato dalle grandi vasche davanti alle quali
si sceglie cosa mangiare.
E’
il 21 agosto e la vacanza “nella vacanza” è terminata e lasciamo la placida
Mui Ne a bordo di un affollato autobus che, per soli cinque dollari, ci porterà
ad Ho Chi Minh City, duecento chilometri più a sud.
Lasciamo
presto la costa e a Phan Thiet riprendiamo la statale 1 verso la metropoli del
Sud.
Pian
piano la campagna e le verdi colline lasciano il posto al susseguirsi
ininterrotto di case, bancarelle, insegne e traffico.
Siamo
nel Distretto 1 a pochi passi dal Saigon River e fra biciclette, auto, moto e
carri riusciamo a trovare due taxi che ci porteranno all’International Hotel,
non tanto lontano dal centro.
Come
al solito organizziamo le prime ore cercando di sbrigare alcune incombenze
necessarie come una capatina negli uffici della Vietnam Airlines in Nguyen Hue
per un rimborso aereo, ma soprattutto in cerca di agenzie che ci possano aiutare
a pianificare le tappe sul Delta del Mekong senza aggregarci ai grossi tour
organizzati “toccata e fuga”.
Ho
Chi Minh City o Saigon, come ancora viene abitualmente chiamata anche se
ufficialmente il nome indica solo il Distretto 1, con i suoi sei milioni di
abitanti è la più grande città del Vietnam.
Immagini
contrastanti di esotico e di mondano si susseguono in ogni angolo. Ci sono i
mercati nelle strade, dove si fanno affari e transazioni; venditori di occhiali
e fragole; i caffè lungo i marciapiedi i cui altoparlanti diffondono ritmi
melodiosi; giovani donne in carriera guidano le proprie
Honda
Dreams nel traffico delle ore di punta, lunghi capelli al vento, tacchi a spillo
sui freni;. L’uomo d’affari cinese , accaldato dal clima tropicale, parla al
cellulare maledicendo la cravatta ed il doppio petto che indossa. Ma agli angoli
delle strade del centro e non solo, la disperazione dei mendicanti fa ricordare
che, nonostante le belle apparenze, questa è pur sempre una città del terzo
mondo.
Anche
l’architettura di questa metropoli è ricca di contrasti. Ci sono pagode dove
i monaci pregano e l’incenso brucia; nei vicoli interni si pratica
l’agopuntura e i ragazzi imparano a suonare il violino. Nei parchi i
burattinai intrattengono i bambini mentre al di sopra delle secolari piante
svettano altissimi e lucenti grattacieli.
E
intanto, fra contrasti e contraddizioni, proseguiamo il nostro pellegrinaggio
nella zona di Đ Pham Ngu Lao alla ricerca di agenzie; ne giriamo parecchie
ma i tour proposti, uno la fotocopia dell’altro, ci convincono poco. Dopo una
sosta rifocillatrice facciamo il punto della situazione e decidiamo di
continuare. Un buon compromesso ci viene offerto dall’agenzia di Kim, una
bellissima ed intraprendente donna vietnamita dai lunghi capelli mossi e dai
lineamenti marcati. Parla un ottimo inglese, veste alla moda e di affari se ne
intende.
La
partenza per il Delta è fissata per il 23 Agosto: un tour di tre giorni
organizzato su misura per noi nel quale la maggior parte degli spostamenti
avverrà via fiume e toccherà i luoghi principali di questa immensa vallata
d’acqua.
Come
in tutto il Vietnam anche qui il Cyclo è usualmente adoperato e visto che non
abbiamo moltissimo tempo utilizziamo le tre ruote per muoverci dal centro verso
il quartiere degli antiquari, passando dalla Cattedrale di Notre Dame, dal
lungo-fiume fino al Palazzo della Riunificazione, uno dei luoghi più
affascinanti di Ho Chi Minh City oltre che esserne uno dei principali simboli.
La
città è una grande vetrina di negozi, caffè, pubs e ristoranti di tutti i
tipi e per tutte le tasche e lungo le strade del centro la vivacità e la
frenesia regnano incontrastate tanto di giorno come di notte.
Il
grande tavolo rotondo, l’atmosfera elegante e le melodiche note di uno zithar
contrastano con il caos esterno; siamo all’interno del raffinato Lemongrass
uno dei tanti ristoranti del centro dove si servono piatti tradizionali della
cucina vietnamita.
La
vicinanza al Continental Hotel e al Rex , i due alberghi più antichi della città,
ci spinge ad una sosta obbligata; ma come non vedere Ho Chi Minh City
dall’alto? E allora la scelta cade sull’edificio più alto della città.
Entriamo nella grande hall dello Sheraton e saliamo al 23° piano dal quale si
gode una spettacolare vista.
Thin è puntuale e, attraverso il caotico traffico cittadino, raggiungiamo Mien Tay appena fuori Ho Chi Minh City, dove ci attende una veloce barca che ci condurrà a Mytho sul Delta.
Navighiamo
sul Saigon River per più di un’ora ed il traffico delle grosse chiatte
cariche di sabbia è enorme e, a parte qualche villaggio, il paesaggio non è
particolarmente interessante. Il Saigon River si getta nel Mekong poco distante
da Mytho e subito ci si accorge di essere entrati nel grande Fiume perché qui
il colore dell’acqua ed il grande traffico di imbarcazioni cambia aspetto.
Siamo arrivati sul Mekong e, in lontananza, Mytho la nostra prima tappa.
Grazie
alla fertilità dei suoi terreni la zona del Delta è chiamata il “granaio”
del Vietnam anche se sarebbe più opportuno definirla una grande risaia poiché
qui si produce tali quantità del miracoloso cereale da sfamare l’intera
nazione, lasciando ancora una notevole eccedenza.
Oltre
al riso nella regione del Delta si coltivano noci di cocco, canna da zucchero e
frutta; anche la pesca è un’attività redditizia.
Vivere
in una pianura alluvionale comporta alcuni problemi di carattere tecnico. Data
l’assenza di altipiani dove trovare rifugio durante le piene, gli abitanti del
Delta costruisco le proprie abitazioni su palafitte di bambù.
L’unico
modo per poter osservare da vicino la vita quotidiana di questa regione è
utilizzare la barca e girovagare fra gli innumerevoli canali.
Preso possesso della nostra imbarcazione cominciamo il nostro giro per i canali
con
una sosta
all’isola del Drago a mangiare frutta condita con sale
e pepe, ad un
laboratorio che fabbrica caramelle al cocco e ad un
allevamento di api in una
delle isole che formano la provincia di Ben Tre.
I piccoli sampan si muovono lentamente lungo il dedalo di canali orlati di palme acquatiche, banani e alte palme da cocco; solo il rumore della pagaia rompe il silenzio di questi canali illuminati dai raggi del sole che penetrano attraverso la fitta vegetazione.
Nonostante
il clima del sud sia più secco rispetto a quello del nord, gli acquazzoni sono
più frequenti e improvvisi; indossati i nostri poncho visitiamo le vie del
centro di Mytho
zeppe
di bancarelle che vendono ogni sorta di prodotti, dai cibi freschi al tabacco
all’ingrosso, dalla carne di pitone alle eliche per le barche.
La
pagoda di Vinh Trang è un tempio molto curato nel quale vive una folta comunità
di monaci caritatevoli che danno asilo a orfani, disabili e a bambini bisognosi,
aiutati da alcuni volontari che offrono i loro servigi in virtù di possibili e
propiziatori benefici per il futuro.
Dobbiamo
raggiungere Cantho entro sera e la strada è lunga.
La
quiete dei piccoli villaggi che si specchiano sui silenziosi canali, si
contrappone al frenetico caos della terra ferma. Identificare il termine o
l’inizio di una città è impossibile, tutto è costruito, ed il traffico è
intenso e disordinato. Lungo la strada che porta da Mytho a Cantho si incontrano
piccoli e grandi centri abitati congestionati da auto, moto e autocarri ma anche
dai divertenti mezzi economici che trasportano gli studenti nelle loro
impeccabili divise bianche.
Cantho
si raggiunge attraverso il grande ponte di Vinh Long, costruito grazie al
contributo australiano, oltre il quale si trova la brulicante stazione dei ferry
che collegano le due sponde. La coda è lunghissima e i turisti sono veramente
pochi. Scendiamo dalla jeep e, dirigendoci verso la biglietteria, ci fermiamo a
guardare le bancarelle di un piccolo mercato; thin non ci perde d’occhio
neppure per un attimo consigliandoci di tenere ben stretti macchina
fotografica e portafogli.
Mentre
il sole fa capolino sul fiume l’ammasso ferruginoso raggiunge l’altra sponda
urtando violentemente la banchina per fermarsi: siamo arrivati a Cantho,
principale centro della regione e quinta città per estensione di tutto il
Vietnam.
La maggiore attrattiva della città è rappresentata dai suoi mercati
galleggianti e dal dedalo di canali navigabili che la collegano alla maggior
parte delle località del Delta.
Il
mercato galleggiante di Cai Rang è il più grande di tutto il Delta del Mekong.
Un
numero incalcolabile di imbarcazioni affollano ogni mattina un lungo
tratto di fiume vendendo qualsiasi cosa: dalla frutta al riso, dalla carne al
pesce, dall’abbigliamento alle spezie, dagli oggetti in plastica per la casa
alla stessa barca dove si trovano. Ci sono poi i piccoli supermarket
galleggianti riconoscibili dal particolare segnale acustico che emettono.
Con la nostra piccola imbarcazione dobbiamo stare attenti a non venir urtati: la “folla” di imbarcazioni, piccole o grandi, a motore o a remi, si muove frettolosamente sull’acqua come se stessero camminando su un marciapiede e le contrattazioni fra venditori e acquirenti si svolgono dai bordi delle barche.
Ci accostiamo ad un’imbarcazione che vende ananas e, grazie alla nostra guida, possiamo salire a bordo per scattare qualche foto dall’alto.
Abbandoniamo il colorato mercato di Cai Rang per addentrarci nei piccoli canali
dove pian piano, fra fabbriche di riso, carta di riso e nuddols, riusciamo
a raggiungere la calma e la pace di luoghi scarsamente abitati; solo qualche
capanna con il piccolo pontile ed il “garage” per la barca. Incrociamo
qualche piccolo sampan di ritorno dal mercato carico di spesa, vediamo mamme che
lavano il proprio bambino nelle torbide acque del fiume o giovani donne che
fanno il bucato, passeggiamo fra i sentieri della campagna all’ombra dei
grandi banani
in fiore deliziati dal profumo delle erbe medicinali essiccate al sole
osservando i lenti gesti quotidiani di questo popolo che convive da sempre,
nella buona e nella cattiva sorte, con l’elemento naturale. Il grande Mekong e
i suoi canali, principali o secondari, rappresentano la
vita per gli abitanti della zona; ma Il fiume è anche una grande discarica
oltre che una fogna a cielo aperto: si getta di tutto. Ogni scarico delle
abitazioni, nei grandi centri come nei piccoli e isolati villaggi interni,
finisce inevitabilmente qui.
Lungo
la strada verso Chau Doc, ultima meta vietnamita, si incontra il piccolo
villaggio di Thoi An che ospita una delle riserve naturali più grandi del
paese. Il malconcio e lurido sampan naviga lento fra le palafitte di
selvaggi villaggi dove si lavora il bambù; gli arcaici macchinari disposti
lungo il canale costituiscono i diversi processi di lavorazione per la
realizzazione di ceste e tovagliette.
Se
il Sud del Mekong è ricco di palme qui, a Nord, i grandi alberi di bambù
ombreggiano gli stretti canali attraversati dai bassi ponti delle scimmie che
spesso impongono strane e difficoltose contorsione per evitare impatti dannosi
alle nostre teste.
Il
colorato susseguirsi di piccole e grandi esposizioni di incensi ordinatamente
sistemati sul ciglio della strada, ci accompagna lungo il tragitto verso Chau
Doc che dovremmo raggiungere prima del tramonto.
Crocevia
di etnie e religioni diverse quest’ordinata cittadina di confine racchiude in
se l’evidente segno di come popoli dalle diverse culture possano convivere ed
amalgamarsi pacificamente sotto lo “stesso tetto” nel reciproco rispetto
della loro storia e del loro credo tanto che sorge spontanea la considerazione
del perché, in altre parti del mondo, non possa avvenire la stessa cosa.
La
nostra prima tappa è il Monte Sam, poco distante da Chau Doc; nei pressi di
questa montagna si trovano decine di pagode e templi.
L’influenza
cinese è evidente in questi edifici ed il Monte Sam è una delle mete preferite
da questo gruppo etnico: infatti la frequentano sia pellegrini provenienti da Ho
Chi Minh sia i turisti di Hong Kong e Taiwan.
La
principale attrattiva di questo luogo è senza dubbio la salita al monte dal
quale si gode uno straordinario panorama che spazia fino alla Cambogia.
Il
sole comincia a calare sulla sterminata campagna di riso scomparendo pian piano
nelle acque del grande fiume tinto dall’argenteo riflesso degli ultimi raggi,
e rimaniamo impietriti ad osservare questo spettacolo fino al comparire delle
prime stelle.
L’umidità
ed il caldo non ci abbandonano e con buon passo cominciamo la buia strada del
ritorno; mille gradini, sassi fra cui saltare, baracche lungo il sentiero e
tanta sporcizia intorno. Qualcuno ci offre dell’acqua altri restano sdraiati
impassibili al nostro passaggio.
Simili
ai villaggi dei pescatori incontrati nella Baia di Halong, la zona di Chau Doc
è nota per le case galleggianti; questo tipo di abitazione, che galleggia su
bidoni di metallo vuoti, garantisce il sostentamento dei residenti poiché,
sotto ogni casa, sono appese delle reti metalliche in cui vengono allevati i
pesci che possono quindi riprodursi nel loro habitat naturale. La famiglia li
nutre con qualsiasi cosa commestibile capiti a portata di mano riuscendo poi a
pescarli con estrema facilità, sollevando semplicemente alcune assi poste
normalmente nel portico antistante l’ingresso o, in alcuni casi, all’interno
dell’abitazione stessa.
I
volti sorridenti, ma al tempo stesso malinconici, delle persone che si
affacciano per invitarci ad entrare, infondono uno strano senso di tristezza che
si mischia ad un orgoglioso e riservato modo di porsi di fronte a ciò che la
sorte gli ha riservato, sempre pronti a combattere, giorno dopo giorno e senza
mai arrendersi, la dura battaglia della sopravvivenza.
Lasciamo
Chau Doc ed il Mekong con questa immagine ben impressa nei nostri occhi e,
speriamo, anche nei nostri rullini, per calarci nuovamente nelle atmosfere
ben più confuse di Ho Chi Minh City. La città è tutto un fermento e un
brulicare di vita: i locali alla moda, i lussuosi ristoranti francesi, le vie
dello shopping, i fast food e i grandi magazzini.
Situazioni
diverse che tuttavia hanno come denominatore comune la prova vivente della
tenace volontà dell’essere umano di sopravvivere e migliorare la propria
esistenza e, nonostante che gli sconvolgimenti economici e le implicazioni
negative che ne derivano a livello sociale siano più evidenti nelle grandi aree
urbane piuttosto che nei piccoli centri o nelle zone rurali, in tutto il paese
si respira il desiderio di riconquistare una propria identità sociale e
culturale guardando al futuro senza mai dimenticare il passato.
E’ la sera del 26 Agosto quando il boeing della Vietnam Airlines si stacca alla volta del Regno di Cambogia, ultima tappa del nostro viaggio in terra indocinese.
Capitolo
II
Cambogia:
Angkor
Ed
eccoci in Cambogia!
Siem
Reap oasi felice di un paese flagellato da anni di crudeltà e guerra, è il
punto di partenza per visitare l’immensa città di Angkor che domina il
passato ed il presente della Cambogia e, di sicuro, contribuirà al suo futuro.
“Preferisco raccontare Angkor attraverso alcune immagini, con la speranza che possano trasmettere la grandiosità, la ricchezza ed il misterioso fascino del Regno Khmer, anche se sono convinto che nessuna immagine potrà mai suscitare la stessa emozione che Angkor produce a chi la visita”.
Rolous: Il Preah Ko Rolous: Il Bakong
Angkor Thom : Il Bayon Angkor Thom : Il Bayon
Angkor Thom : Terrazza del Re Lebbroso e Terrazza degli elefanti - bassorilievi e sculture -
Ta Prohm
Banteay Srei: La Cittadella delle donne
Angkor
Wat
I dintorni di Angkor
“Dedicato
a tutti coloro che amano viaggiare e conoscere, ai bambini della Cambogia e al
popolo del Vietnam”.
Copyright 2004: Tutti i diritti di testi e immagini sono riservati esclusivamente all’autore del documento e ai detentori di eventuali concessioni. Non è consentito alcun uso a scopi commerciali se non previo accordo. Sono consentite la riproduzione e la circolazione solo ad uso didattico o documentario, purché i documenti non vengano alterati in alcun modo sostanziale, ed in particolare mantengano le corrette indicazioni di data, paternità e fonte originale (nome, cognome, indirizzo email dell’autore).