Una vita da mahout,
l’uomo degli elefanti.
Thailandia
Racconto di viaggio 2008
La sveglia era alle sei del mattino. Ci si metteva la divisa blu, fatta con un tessuto di cotone grosso, ruvido e resistente, e ci si incamminava verso la foresta circostante, con in mano due o tre lunghe canne da zucchero. Il mio mahout mi indicava la strada, ma non era necessario, bastava avere un po’ d’occhio e seguire le tracce: un elefante ne lascia parecchie! Arrivati sul posto, dopo una mezz’ora di cammino, iniziava la prima pulitura dell’animale, che la sera prima avevamo legato a un albero per costringerlo a restare a dormire fuori altrimenti, come tutti, sarebbe rientrato subito al centro. Mentre lui faceva colazione sgranocchiando le prelibate canne zuccherine, utilizzando la proboscide con una manualità indescrivibile, noi gli toglievamo di dosso il grosso del fango di cui era ricoperto. Poi in groppa, a passi lenti verso lo stagno dove avremmo finito (assieme) la prima toletta. Infine di nuovo a casa, noi a fare la nostra di colazione, loro a prepararsi per una nuova giornata di lavoro. Sì, perché gli elefanti, come gli uomini, lavorano, e in Thailandia, per legge, vanno in pensione a 60 anni. Per me era solo un’affascinate diversivo di qualche giorno, ma per loro e per i mahout la stessa routine va avanti per tutta la vita.
Ma chi sono i mahout?
Un paio di mesi fa durante un mio viaggio in Laos e Thailandia, decisi di spendere un po’ di soldi per dare una mano a un centro di conservazione per elefanti, nel nord della Thailandia, a Lampang, il Thai Elephant Conservation Center (TECC). Ne parlo perché è un tipo di esperienza più costruttiva rispetto all’andare a vedere gli animali allo zoo o a fare un qualche semplice giro sull’elefante in uno dei tanti elephant camp che ci sono in Asia. Sia chiaro, vanno bene anche quelli: l’esperienza sarà meno costruttiva, ma avrete contribuito comunque a dare un lavoro agli elefanti, cosa non secondaria.
L’elefante asiatico, cosi come anche il suo fratello africano, è uno dei grandi mammiferi a forte rischio di estinzione. Per molti secoli il Sud-Est asiatico ha rappresentato uno degli habitat ideali per la vita e la proliferazione di questi straordinari animali, tanto che un tempo il nome ufficiale dell’antico regno del Laos era “Terra di un milione di elefanti”. Oggi di elefanti selvatici in Laos ne sono rimaste poche centinaia. In Thailandia le cose vanno solo leggermente meglio. Ancora circa duemila animali vivono in libertà e altrettanti si trovano in cattività, più che altro negli “elephant camp” per turisti, diffusi soprattutto nella zona nord del paese. Non sempre si tratta di luoghi ideali per la tutela degli animali, anche se dare un’occupazione agli elefanti è vitale per molti di loro. Il progresso, infatti, ha sottratto a questi animali molte delle loro mansioni, sostituiti dai trattori meccanici e dai carri armati, e molti ex-proprietari di elefanti, data la scarsità di impieghi per i loro animali, non essendo più in grado di mantenerli, li abbandonavano o li tenevano in uno stato di denutrizione.
Uno dei più attivi centri asiatici di conservazione della specie, che si distingue dagli ordinari campi attrazione per i turisti, è appunto il TECC. Nato alla fine degli anni ’80, e cresciuto sino a oggi tanto da arrivare a ospitare più di settanta elefanti, ha unito le attrattive di un campo elefanti prettamente turistico (con piccoli spettacoli e possibilità di entrare in contatto con gli animali) con l’impegno di un centro studi avanzato e strutture di recupero e assistenza tanto che gli introiti del centro servono soprattutto al finanziamento dell’ospedale specializzato nella cura degli elefanti, il più grande e efficiente della Thailandia e uno dei pochi dell’Asia, che riceve animali da ogni parte del paese, e che porta anche avanti pionieristici tentativi di inseminazione artificiale per favorire la riproduzione dei mammiferi.
Al centro arrivano anche elefanti sequestrati a ex-proprietari che li maltrattavano o, come Sing Khon, la “mia” elefantessa durante in giorni che ho trascorso là, sottratti alla criminalità organizzata che li utilizzava per il disboscamento illegale.
Tutto questo però non sarebbe possibile senza i mahout. Il mahout (termine indiano che deriva dal sanscrito) è l’addestratore degli elefanti, colui che lo guida e se ne prende cura per tutta la vita. Un lavoro duro, ma di fondamentale importanza per la sana sopravvivenza degli elefanti in cattività e per la loro rieducazione alla vita nella foresta. Il ragazzo che aveva adottato il mio elefante, Berm, aveva 39 anni e stava con Sing Khon da 10 anni, e dato che lei di anni ne aveva 26, sarebbero arrivati assieme alla pensione, mentre suo figlio si sarebbe occupato di uno dei suoi due cuccioli. Tutti i mahout vivevano in un villaggio all’interno del centro in case di legno su palafitte, alcuni con gli elefanti più vecchi o con piccoli a dormire fuori della soglia di casa.
I pochi viaggiatori che si cimentano con la loro vita danno loro un po’ di sollievo: eravamo noi a finire in acqua per il bagno, noi che durante i due spettacoli giornalieri per i turisti eravamo in groppa agli animali, noi che nelle pause davamo da mangiare ai nostri amici.
E’ una vita durissima, ma purtroppo oggi in Thailandia ci sono più mahout che elefanti. Faccio un po’ di pubblicità perché di italiani da quelle parti se ne vedono pochi, in quella veste intendo, cioè non di semplice turista che arriva al campo e se ne va in giornata. Secondo Supat, il supervisore del centro, non c’erano stati italiani a vestire i panni da mahout da un paio d’anni, e comunque erano pochissimi anche in assoluto, e l’ultimo sono ancora io, mentre abbondavano gli anglosassoni.
Non è niente di impossibile, smitizzo subito la cosa. Diventare “apprendista mahout” richiede pazienza, fatica, disponibilità a fare dei bei bagni con gli animali in pozze non sempre “limpide”, capire un po’ di inglese (ma con gli animali servono solo una decina di parole in tailandese), ma nessuna particolare dote da avventuriero, e anche i bambini vi si possono cimentare, e qualche famiglia inglese lo ha fatto. E vi assicuro che per un bambino qualche giorno in groppa a un elefantino è ben altra esperienza che una gita allo zoo, sia per le emozioni che per l’educazione che ne deriva (nel mio sito trovate altre informazioni sul centro, oltre a foto e video girati lo scorso settembre).
Pubblicato il 10 dicembre 2008 su
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