Norvegia
- Svezia Finlandia
InterRail
2008
Diario
di viaggio 28 Luglio - 19 Agosto 2008
Tappa
per tappa:
Milano
– Londra (Aereo)
Londra
– Oslo (Aereo)
Oslo
– Stavanger (Treno)
Stavanger
– Bergen (Bus)
Bergen
– Myrdal (Treno)
Myrdal
– Flam (Treno)
Flam
– Bergen (Traghetto)
Bergen
– Oslo (Treno)
Oslo
– Trondheim (Treno)
Trondheim
– Bodø (Treno)
Bodø
– Moskenes (Traghetto)
Moskenes
- Å (Bus)
Å
– Svolvær (Bus)
Svolvær
- Kabelvåg (Bus)
Svolvær
- Narvik (Bus)
Narvik
– Luleå (Treno)
Luleå
– Haparanda/Tornio (Bus)
Haparanda/Tornio
– Kemi (Bus)
Kemi
– Kuopio (Treno)
Kuopio
– Helsinki (Treno)
Helsinki
– Stoccolma (Traghetto)
Stoccolma
– Vienna (Aereo)
Vienna
– Milano (Aereo)
Un sogno a lungo atteso
Il Grande Nord è terra di leggende: vi si
narrano a proposito storie mirabolanti di battaglie vichinghe combattute al
largo delle coste e sulle spiagge degli sventurati popoli razziati e decimati,
di apparizioni di mostruosi kraken marini così grandi da essere scambiati per
isole da sventurati marinai in cerca di un riparo e pronti a tirare sott'acqua
qualsiasi nave con la forza dei loro devastanti tentacoli, di inverni lunghi tre
volte il normale che presagiscono al Ragnarök, l'ultima battaglia degli Dei che
porrà la parola fine a questo mondo dopo un’epica lotta in cui tutti si
uccideranno per poi ricostruire il mondo intero dall’inizio. Il sole alla
mezzanotte non tramonta mai, risalendo beffardo prima di toccare l’acqua e
illuminando costantemente le rocce che si tuffano vertiginosamente in mare senza
alcun preavviso, scavate nei millenni dall'acqua lentamente sciolta negli enormi
e maestosi ghiacciai montani. Oppure cambia idea e per molti mesi non si mostra,
preferendo mandare solo qualche flebile raggio di luce come messaggero. Queste
antiche leggende non hanno mai smesso di affascinarmi profondamente fin da
quando non raggiungevo il metro di altezza, facendo sorgere in me il germe
dell'amore per queste lande, nato molti anni orsono e mai sopito, fino a quando
non ho avuto la reale possibilità di vedere con i miei occhi e calpestare con
le mie scarpe queste terre così misteriose. Ognuno sa in cuor suo quali sono i
suoi sogni ed è tenuto a custodirli gelosamente finché il destino, a volte
beffardo e crudele ma altre così benevolo da concederci dei regali
indimenticabili, dia la possibilità di realizzarli, andando ad arricchire il
nostro spirito in maniera incalcolabile. La trasformazione interna opera in ogni
viaggio che sia affrontato col cuore e con lo spirito giusto, in particolare al
viaggio che si fa nel luogo che si è sempre sognato e in un periodo della vita
d'oro come sono i vent'anni, quando le energie fisiche e mentali sono al culmine
e le speranze sono vivissime, quando si ha voglia di vedere com'è il mondo là
fuori, partendo all'avventura portandosi dietro solamente uno zaino pieno dello
stretto necessario e la propria voglia di esplorare mondi sempre nuovi. Ventitrè
giorni in cui metterci alla prova, per chiederci se siamo ancora capaci di
guardare dentro noi stessi e trovare le forze per andare avanti, per cambiare
modo di giudicare il mondo all'infuori di noi, per imparare qualcosa di
sconosciuto che mai si sarebbe potuto scoprire se non si fosse tentato. Questo
è ciò che di meraviglioso ogni viaggio cela: non è solamente una carrellata
di nuove terre che appaiono una dopo l’altra davanti agli occhi,
immagazzinandosi nella memoria come il rame nei depositi, ma un momento in cui
si ha la possibilità di plasmare la propria anima, non permettendole mai di
diventare un insensibile pezzo di legno di fronte a ciò che le appare davanti,
e costringendola a cambiare. Il cambiamento è vita, l'animale che non si evolve
si estingue. O continua a vivere, ma per forza d'inerzia, senza più nulla che
lo tenga in vita se non il battito ritmico e stanco di un cuore ormai esangue.
Ora che sono tornato, fortunatamente vivo e vegeto, posso dire senz'ombra di
dubbio di essere cambiato, attraverso questo percorso lungo, molto articolato e
impegnativo, che potrà apparire estremo od ordinario in base all'esperienza di
chi legge, ma in ogni caso estremamente intenso e gratificante. Solo in due,
armati unicamente di carta geografica e guida turistica, nonchè di biglietto
Interrail che ci permette di usufruire quasi liberamente delle linee ferroviarie
ovunque in tutta Europa. Il Grande Nord aspettava impaziente, e non aveva più
tempo. L'occasione era da prendere al volo, o l’ultimo treno sarebbe partito
senza di noi.
Ansia
Siamo seduti in una delle tante aree di
sosta per i passeggeri del ben conosciuto e affollato aeroporto della Malpensa,
in paziente attesa del primo dei due aerei che ci porteranno fino alla capitale
norvegese. Fuori dalle ampie finestre possiamo scorgere le centinaia, forse
migliaia di automobili lasciate poco fa dai viaggiatori che come noi stanno
trascinando i loro bagagli su dei pratici carrellini a rotelle, mettendoli uno a
uno sul nastro trasportatore che li inghiotte inesorabilmente dietro le bande
pendenti di plastica flessibile per portarli nei posti più disparati. Mi sento
legato a loro da un invisibile ma potente filo conduttore: tutti stiamo
lasciando la sicurezza della vita ordinaria per metterci in qualche modo in
gioco, scegliendo ognuno la propria sfida personale, da vincere per tornare a
casa con un po' più di tesori nel cuore e nella mente di quanti ne avessimo
prima di partire. Mi diverto ad osservare le persone che mi passano davanti
senza sosta come formiche, cercando di immaginare cosa celino in quel bagaglio
così ingombrante che non passa da qualsiasi check - in ordinario e deve essere
incanalato nel trasporto apposito, o in quella borsa così piccola che sembra
poter contenere al massimo i vestiti per due giorni, e magari serve per un
viaggio di una settimana o più. Chissà se anche gli altri si chiedono ciò
guardando noi, ormai muniti solo di zainetto e seduti uno a fianco all’altro
con le fattezze simili al punto da essere frequentemente scambiati per fratelli
gemelli.
Nonostante le diverse ore di attesa che
abbiamo ancora davanti, non ho voglia di mettermi a passeggiare per i saloni
dell'aeroporto. Preferisco rimanere stravaccato sulla poltroncina aspettando che
il luogo mi fornisca qualche stimolo per alzarmi, ma a parte il febbrile
movimento dei passeggeri a venire c'è ben poco che possa risvegliare la mia
ancora incredula coscienza. Per scaramanzia non voglio immaginarmi nulla di
Oslo, le domande che mi frullano in testa su ciò che troverò una volta
arrivato e soprattutto su come ce la caveremo vengono temporaneamente
accantonate lasciando spazio ad una marcata ansia che mi prende ogni volta che
devo salire su uno di questi mezzi volanti. Una tensione generale che decido di
curare solo con le mie forze, calmandomi poco a poco da solo, senza affidarmi a
pericolosi sedativi che non si sa mai quali strani effetti possano sortire. Va a
momenti: per qualche minuto credo di essermi calmato definitivamente, per poi
sentire all'improvviso una lieve fitta all'epigastrio che mi ricorda inesorabile
che sono ancora a terra e che la trasvolata non è ancora cominciata.
In questi momenti di attesa mi chiedo se il
viaggio che sto per intraprendere non possa essere l’ultimo della mia vita.
Non essendo mai stato in procinto di allontanarmi da casa per così tanto tempo,
senza tutto ciò a cui sono abituato, avverto una sensazione inspiegabile, come
di qualcosa di conclusivo. Difficile capirne i motivi: non si tratta di un
pericolo fisico o dovuto alle persone che incontrerò, e nemmeno quello dovuto a
un disastro aereo: è completamente differente, posso capirlo solo io. Tutto ciò
non fa che aumentare le fitte allo stomaco e i pensieri negativi che stanno
lottando contro quelli positivi per avere il sopravvento, ma presto mi convinco
che non sto intraprendendo un viaggio di non ritorno: sto per passare le mie tre
settimane di vita più belle di sempre! Questo pensiero mi fa subito sentire
molto meglio e smetto per un po’ di preoccuparmi.
Qualche ora dopo siamo già in volo a
svariate migliaia di metri di altitudine, vedendo piano piano la città di
Milano divenire sempre più piccola fino a scomparire una volta superate le
nuvole. La visuale esterna è annebbiata ad intermittenza mentre l’aereo
attraversa questi banchi di minutissime goccioline sospese. Nel momento del
passaggio oltre le nuvole, lampi di condensa lattiginosa saettano velocissimi
scomparendo dopo pochi centesimi di secondo, fino ad arrivare nuovamente
nell’aria pura dove la visuale si riapre, stavolta con un pavimento di nuvole
e non di terra. Ora mi rendo conto forse per la prima volta che la situazione in
cui mi trovo è definitivamente irreversibile: qualsiasi ripensamento, dubbio o
pentimento ormai non ha più senso, viene inghiottito dal veloce sfrecciare
dell'aereo che mi porta sempre più lontano da casa alla velocità di quasi
ottocento chilometri orari, cancellando ogni barlume di attaccamento alla patria
e al sicuro e riparato ambiente casalingo. La gioia spazza via l’inquietudine
e la paura, mi sento in una botte di ferro nonostante non sia ancora arrivato a
terra. La vista dello splendido stretto della Manica, attraversato per fare
scalo intermedio a Heathrow, è la prima conferma di ciò: siamo partiti solo da
un’ora e già si vedono i primi frutti da collezionare. Chissà quanti altri
ne seguiranno.
Heathrow
L’enorme aeroporto londinese è
affollatissimo, colorato ovunque da pannelli luminosi di un giallo sgargiante e
riempito in ogni angolo disponibile da boutiques e negozi di ogni genere. La
scena di poche ore prima si ripete, ma con qualche lieve differenza: la tensione
che mi attanagliava le viscere ora è completamente svanita, mi sento già
arrivato a destinazione e quasi non penso al secondo aereo che prenderò di lì
a non molto. Se sono sopravvissuto al primo, non potrà succedere più nulla di
male. Pigramente seduti su una panchina di legno inganniamo il tempo osservando
un padre che rincorre lentamente il figlioletto di pochi anni che si nasconde
continuamente dietro le colonne, ingenuamente convinto di non esser visto.
Paiono proprio divertirsi: non si curano di nulla di quello che hanno di fianco,
nè di noi che li fissiamo, nè delle donne delle pulizie che svuotano i cestini
pieni fino all'orlo a due passi da loro, nè degli altri passeggeri che a volte
devono scansarsi leggermente per non essere investiti dal vivace marmocchio, nè
degli avvisi all'altoparlante che annunciano l'ultima chiamata per imbarcarsi su
un dato volo. Sto cominciando a ciondolare di lato con la testa, la lunga attesa
mista alla monotonia dell'atmosfera di aeroporto mi sta leggermente snervando,
mi distraggo nuovamente ascoltando un po' di musica quando padre e figlio se ne
vanno dai dintorni delle colonne lasciandoli vuoti. Le rabbiose ed intense
melodie di chitarra e basso che scaturiscono dagli auricolari accelerano
notevolmente il trascorrere del tempo, fino a quando appare finalmente sul
tabellone il numero del nostro terminale, a lungo scommesso tra noi. Presto
siamo nuovamente allacciati strettamente alle poltrone con il sibilo delle
potenti turbine che si fa sempre più forte, accelerando vertiginosamente e
librandoci ancora una volta nell'aria per raggiungere finalmente la tanto
agognata Oslo. Le utili televisioncine di bordo tengono traccia della posizione
dell’ aereo minuto per minuto, con tanto di striscia colorata che si allunga
progressivamente.
Presto sono visibili i primi accenni della
notoriamente frastagliata costa nordica: sembra che qualcuno si sia divertito a
sbriciolare un’enorme torta di terra, lasciando i rimasugli sul bordo a
formare una cortina che avvolge la costa ancora rimasta intera. Tante,
tantissime isolette, alcune minuscole altre più estese, che non lasciano
nemmeno un pezzettino di litorale diritto e regolare. Osservarle è un piacere,
mentre l'aereo scende al ritmo di dieci metri al secondo definendo sempre più i
particolari alla nostra vista. Intravedendo i primi sprazzi di città, la
curiosità sale: ora mi rifaccio la domanda che a Malpensa ho temporaneamente
accantonato. Come si presenterà Oslo ai miei occhi? Sarà una meraviglia di
architettura nordica da lasciare senza fiato, od un'ordinaria città senza arte
nè parte?
Lufthavn
Le sorprese ad Oslo non mancano, a
cominciare dall'aeroporto: la prima cosa che ci colpisce è un interminabile
corridoio di legno da percorrere in compagnia di sorprendentemente poche
persone, in un calore asfissiante dovuto alla mancanza di ricambio d'aria e al
sole che trafigge i vetri da parecchie ore, implacabile. Nei pochi metri che ci
separano dall'ambiente climatizzato cominciamo già a sudare abbondantemente
sotto le nostre felpe pesanti, impreparati a questo sbalzo termico così severo.
È dalla tarda mattinata che non possiamo uscire a respirare l'aria fresca
dell'esterno: fortunatamente nel locale check – out il climatizzatore funziona
e smettiamo di fondere sotto i vestiti. Gli imprevisti non sono però finiti:
proprio davanti a noi nella fila c’è una numerosa famiglia di colore,
probabilmente proveniente dall’Africa nera, i cui componenti devono essere
chiamati tutti per nome, con conseguente grossa perdita di tempo. Alla fine il
controllore di aeroporto scoppia a ridere insieme a tutta la famiglia, per
quella situazione così imbarazzante. Quando la conta degli impronunciabili nomi
finisce e l’ultimo corridoio è finalmente terminato, possiamo uscire: dopo
ore e ore costretti al chiuso respiriamo a pieni polmoni la fresca aria esterna
per ossigenarci il sangue a dovere, subito prima di iniziare a correre per
prendere il primo treno appositamente istituito per fare spola dall'aeroporto
fino alla città. Tra pochissimo percorrerà i quarantasette chilometri che
separano i due, e non abbiamo nessuna intenzione di perdere subito il primo
treno, avendo davanti un intero viaggio composto in gran parte da spostamenti su
binari. Sarebbe scoraggiante cominciare male. Per fortuna saliamo a bordo poco
prima che parta, e ciò lascia ben presagire per il futuro di tutta la vacanza:
si sa che chi ben comincia è a metà dell’opera.
Oslo
Da una prima occhiata veloce al mezzo in cui
ci troviamo, vediamo subito di essere finiti in un paese molto avanzato
tecnologicamente e socialmente: la carrozza è spaziosa, i vetri e i sedili sono
perfettamente puliti, le indicazioni molto chiare: ogni fermata è segnalata sia
a voce che a video in più lingue, scorrono informazioni supplementari, non c'è
la possibilità di sbagliare nemmeno volendo. Faticosamente incastrati i nostri
ingombranti bagagli tra i sedili quasi tutti vuoti, riprendiamo fiato e possiamo
rilassarci godendoci dal finestrino il primo accenno dell’inconfondibile
panorama norvegese: campi brulli e sterminati, ogni tanto qualche casetta rossa
sperduta in cima a una collinetta, mucche al pascolo libere, con il sole che
accenna appena un tramonto sull'orizzonte. Un primo momento di rilassata
curiosità e di contatto con la natura locale che ci ristora un po' dalla
stancante trasvolata e ci mette di ottimo umore. Osservo curiosamente tutto ciò
che mi appare dal finestrino: voglio assimilare fin da subito il più possibile
della Norvegia, stampandomi in mente le prime decisive immagini che saranno
quelle che ricorderò in modo particolare quando tornerò a casa: ciò che si
vede e si fa per la prima volta ha un sapore speciale ed irripetibile. La
stazione centrale in cui arriviamo poco dopo ha un ottimo aspetto, con degli
enormi tabelloni infissi a parecchi metri di altezza che segnano decine di
partenze con tutte le informazioni in perfetta vista. Non c'è una carta per
terra nemmeno a pagarla e tutto sembra organizzato con razionalità e senso
pratico. Non abbiamo molto tempo per trovare il nostro ostello, che scopriamo
essere situato a qualche chilometro dalla stazione, ovviamente da percorrere a
piedi con tutto il bagaglio sulle spalle. Il mio compagno Davide, col suo ottimo
senso di orientamento e una capacità straordinaria di lettura veloce delle
cartine e delle guide turistiche, trova subito il nostro percorso: un paio di
chilometri in tutto. Così ci incamminiamo per le vie del centro, voltando lo
sguardo qua e là in preda alla prima montante curiosità. La prima impressione
è contrastante: Oslo non pare molto diversa da una normale capitale europea.
Sono poche le costruzioni di fattura nordica chiaramente riconoscibile, la
maggior parte degli edifici è squadrata ed ordinaria. Lavori in corso ovunque,
con buche aperte e montagne di ghiaia, rendono un po’ difficoltoso percorrere
le stradine, costringendoci spesso a noiose deviazioni. Un tale più morto che
vivo è finito dentro un cassonetto e la polizia sta cercando di tirarlo fuori
con vani tentativi, fermandosi spesso per valutare le sue condizioni
psicofisiche. Intersecando spesso le vuote rotaie dei tram prendiamo l’ultimo
vialone in fondo al quale sta il nostro primo alloggio.
Il dormitorio si rivela abbastanza spartano
ma tutto sommato accogliente. I nostri compagni di stanza sono tre uomini che
viaggiano indipendenti come noi, il più giovane dei quali ha circa trent'anni:
sono un cipriota, un indiano e un altro di nazionalità a noi sconosciuta ma
probabilmente tedesca, dato che ha l’abitudine di bere la birra a colazione.
Il cipriota, capelli molto corti ed espressione curiosa, si rivela subito molto
cordiale e loquace con noi, da cui iniziamo a raccontarci un po’ le nostre
aspettative di viaggio, cosa faremo domani, dove andremo dopodomani e così via,
scoprendo molte analogie tra il suo programma di viaggio e il nostro. Del resto,
i posti da visitare in Norvegia sono sempre gli stessi: non è uno stato così
grande da permettere decine di itinerari. Ci sistemiamo alla bell'e meglio,
affittando le lenzuola per non dover dormire su materassi di gommapiuma
totalmente antitraspiranti e decisamente poco igienici, visto lo sporco che li
copre. Appena ricevute e profumatamente pagate, tentiamo di infilare il
materasso nel copriletto a tasca, con delle manovre tragicomiche che divertono
non poco l’amico cipriota, intervenuto più volte per darci consigli su come
operare. Dopo svariati minuti abbiamo successo e possiamo incastrare i materassi
nei letti di legno per non smuoverli più.
Ormai sono quasi le undici di sera: grande
la sorpresa nel leggere il quadrante dell’orologio, è ancora chiaro come di
giorno! Le alte latitudini a cui ci troviamo fanno sì che d’estate il sole
tardi a scomparire sotto l’orizzonte, un fenomeno davvero curioso ed inusuale.
Nelle parti più settentrionali avviene il fenomeno delle “notti bianche”,
che è una sorta di sole di mezzanotte incompleto: il sole tramonta, ma la luce
che rimane fa sembrare la notte molto simile al giorno. Avremo modo di vederne
delle belle prossimamente. Ci infiliamo sotto le spiegazzatissime lenzuola a
recuperare un po’ di forze, per essere pronti a dare il meglio domani.
Il
negozio di dolciumi
Mi sveglio decisamente poco riposato: un
vicino di letto tedesco che russa è un metodo formidabile per passare una notte
movimentata ed insonne. Davide ha dormito tranquillamente, senza mai svegliarsi:
io me ne starei volentieri a letto per dormire adesso visto che stanotte mi sono
svegliato come minimo dieci volte, ma non c’è tempo per poltrire: Oslo ci sta
aspettando. Non sapendo assolutamente dove e cosa mangiare per colazione,
optiamo per un negozietto che abbiamo visto en passant la sera precedente,
proprio a due passi da noi, sperando di trovare qualcosa di sufficientemente
nutriente per tenerci in piedi tutta la mattinata. Sembra un normale negozio di
alimentari, ma entrando scopriamo che non è esattamente così: in tutte le città
nordiche sono molto diffusi questi pseudo-negozi specializzati unicamente nella
vendita di caramelle, dolciumi vari ripieni di cioccolato fino quasi a
scoppiare, cioccolata, bibite gassate, salatini, patatine e poco altro di sano.
Chi ci capitasse dentro in cerca di qualcosa di sostanzioso da consumare per
pranzo, rimarrebbe decisamente deluso! Scegliamo ciò che ci sembra più
innocuo: una banale aranciata. Si rivela semplicemente imbevibile: è gassata e
zuccherata ad un livello tale da costringermi a buttare via la mia bottiglietta
dopo solo qualche sorso, appena sufficiente a placare la sete. Non voglio
certamente farmi venire un tumore allo stomaco alla mia età. Maledicendo le
abitudini alimentari nordiche e contando di mangiare meglio prossimamente, ci
dirigiamo finalmente verso il centro della città.
Oslo
La prima zona che raggiungiamo è quella
portuale: su di essa si erge una strana costruzione quasi interamente bianca e
lucente, che si rivela essere il prestigioso Teatro d'Opera. È l’unico
edificio che colpisce seriamente il nostro sguardo, nella normalità generale
nella quale niente spicca particolarmente sul resto. Ha dei gradini volutamente
irregolari messi ad ampi intervalli, che spezzano la monotonia delle rampe
levigate, e domina fieramente la scena marittima composta da numerosi promontori
naturali e da rientranze create dall'irregolare costa norvegese. Il sole è
cocente: i suoi raggi leggermente più inclinati dal cambio di latitudine sono
ugualmente molto carichi di energia. Lo sentiamo presto sulla nostra pelle,
iniziando a sudare copiosamente sotto i nostri maglioni scuri che assorbono
moltissimo la radiazione solare riflettendone solo una percentuale infima.
Le strade sono ben fornite di piste
ciclabili munite di semaforino regolatore, sottopassaggi e sovrappassaggi, dando
un'aria di funzionalità e di sicurezza quasi palpabile. Anche il traffico è
perfettamente scorrevole e non ci sono ingorghi di alcun tipo. I semafori per
l'attraversamento pedonale sono tutti muniti di segnale acustico per i non
vedenti, e non c'è automobilista che non si fermi per lasciarci passare sulle
strisce zebrate. Non uno. Abituati a tutt’altro trattamento, non riusciamo a
credere a ciò che vediamo, ovvero automobilisti che rallentano e si arrestano
prontamente quando solo diamo l’impressione di voler tentare un
attraversamento. Quando li ringraziamo agitando la mano ed affrettando il passo
come da perfetta tradizione italiana, notiamo una certa sorpresa da parte loro:
perché questi mi stanno ringraziando quando ho solo fatto il mio piccolo dovere
civile? Ma forse non conoscono certe scene che in Italia sono la norma…
Anche dal punto di vista della criminalità,
le città nordiche sono molto sicure, e non è solo una frase di circostanza
scritta sulle guide turistiche: mai nessuno che ci abbia infastidito, mai una
scena di violenza, mai avuto problemi con la gente del posto nè con i
numerosissimi immigrati di ogni nazionalità che popolano le città, Oslo in
particolare. Gli abitanti del posto sono proprio come vengono descritti:
tranquilli e piuttosto riservati, ma all’occorrenza anche socievoli ed
ospitali. Ho sempre pensato che sarei dovuto nascere qui in Norvegia: il mio
carattere sarebbe stato molto più adatto a questa cultura.
La prima delle nostre numerose mete
culturali programmate è il museo dei vecchi residuati bellici. La nostra
benemerita carta studenti internazionale del CTS ci garantisce un cospicuo
sconto sull’entrata in tutti i musei, e a prezzo ridotto possiamo ammirare una
lunga fila di bombarde e cannoni ancora inquietanti nonostante non sparino più
da parecchi decenni. Fanno da contorno a due impressionanti carri armati un
po’ arrugginiti ma ancora integri, del peso di quasi cinquanta tonnellate
l'uno come recita il pannello informativo. La bocca di fuoco è ormai dormiente
ma non per questo meno minacciosa. All'interno invece v'è ogni tipo di arma da
guerra esistente, dalle umili baionette fino ai potenti siluri da sottomarino,
uno dei quali veramente da rimanere a bocca aperta: oltre sette metri di
lunghezza per trecento chilogrammi di peso, un mostro di latta grigiastra e
perfettamente liscia, dalla potenza distruttiva grande tanto quanto la sua
insensatezza e la scelleratezza di chi l'ha progettato e costruito. È poi il
turno di un famoso castello di epoca medioevale dagli enormi e luminosi saloni e
dalle suggestive viuzze lastricate che lo circondano, immortale nella sua enorme
storia che ha alle spalle. Sul lato rivolto verso il centro cittadino si
stagliano fieri non pochi cannoni di colore verdognolo che sembrano puntare
direttamente al porto per distruggerlo, l'effetto è molto realistico nonostante
siano ovviamente solo ornamentali. Una volta camminato su ogni bastione e
visitato tutto questo gioiello medioevale da cima a fondo, possiamo darci
all'ozio in una delle numerose panchine nelle vicinanze, finalmente all'ombra.
Siamo appena all'inizio delle nostre camminate, ma i nostri piedi fin troppo
lisci e disabituati iniziano già a soffrire: le vesciche, croce di ogni
viaggiatore insieme ai disturbi gastro - intestinali, stanno aspettando
solamente il momento giusto per comparire e rovinarci le giornate. Escogito
subito un sistema molto artigianale per eliminare il problema: il cerotto di
seta bianca rimasto nelle mie tasche dopo il mio ultimo tirocinio ospedaliero
nel reparto neurochirurgico si rivela eccezionale per ridurre gli attriti sulle
parti più sensibili della pianta del piede e risolvere quasi radicalmente il
problema. Devo però stare attento a sistemarlo senza formare pieghe, o le tali
grinze potrebbero peggiorare gli strofinii e causare lesioni anche più
fastidiose, ma faccio un lavoro perfetto, da vero studente infermiere al secondo
anno: presto il problema è dimenticato e siamo nuovamente pronti ad affrontare
lunghe camminate.
Passando per il lungomare troviamo lo
squadrato ed altissimo municipio di mattoni rossi e il palazzo dove avviene la
consegna del premio Nobèl per la pace. Non tutti i premi Nobèl vengono però
consegnati qui: quelli per le materie scientifiche e letterarie vengono
assegnati nella cugina Svezia. Il viale è decorato da lunghi filari di fiori
colorati, mentre qualche barca a vela ormeggiata mostra i suoi alberi maestri,
spogli da vele. Presto ci troviamo a camminare sul conosciuto Karl Johans Gate,
il principale viale della città su cui si trovano la gran parte degli edifici
storici: il Palazzo Reale ottocentesco, l'Università anch'essa dello stesso
periodo, e non meno importante il Parlamento. Si tratta di un edificio molto
sfarzoso e barocco, ma utilizzato dai politici nel nome dell’effettivo
interesse dei propri cittadini e non solo del proprio, o se va bene del proprio
gruppo di casta sociale, come succede in qualche bel Paese di cui non cito il
nome ma che si può facilmente intuire. Il vialone è lungo più di un
chilometro e mezzo, e alla vista dall'estremità in rilievo è semplicemente
splendido: sul lato destro, quasi del tutto sgombro da edifici e palazzine, si
trovano fontane dalle forme più bizzarre, aiuole di fiori variopinti, statue
intervallate da chioschi gastronomici che vendono piatti tipici con ottimi
profitti. Il viavai di persone è continuo, la strada non sembra mai svuotarsi,
per giunta è l'ora di punta, ma la densità umana è ancora entro i limiti del
sopportabile. I numerosi alberi e le panchine disposte strategicamente ci
riservano un po’ di ombra e riposo, necessari periodicamente per riportarci in
temperatura con il sole che si fa sempre più implacabile.
La gente che si incontra è di tutte le
nazionalità: i norvegesi si riconoscono subito, con i loro capelli biondi e la
corporatura piuttosto robusta, ma sono numerose anche le persone di carnagione
scura, musulmani in quantità, frotte di giapponesi e soprattutto di italiani:
come una maledizione strisciante, sentiamo dovunque ci giriamo parlare il nostro
idioma, chi discretamente e senza dar fastidio a nessuno, chi così
sguaiatamente da venir voglia di tagliargli la lingua. La nostra nazionalità
non ci permette di lamentarci, non siamo niente in più di loro per avere il
diritto di essere lì, ma arrivare in un posto distante qualche migliaio di
chilometri da casa e sentire ancora parlare nella propria lingua può essere
veramente seccante. In ogni caso gli italiani all’estero sono l'ultimo dei
nostri problemi: le voci dei nostri connazionali passano in secondo, in terzo e
progressivamente minor piano, mentre percorriamo questo ricchissimo viale, in
cui ad ogni metro c'è una sorpresa nuova.
Presto sentiamo gli effetti del caldo, degli
inutili vestiti pesanti che abbiamo addosso e dello stomaco che brontola senza
poter essere calmato da qualche sorso d’acqua: dopo tutto questo sole e questo
camminare abbiamo proprio voglia di fermarci, ma non c’è nessun posto che non
appaia costosissimo. Ad un passo dal vaneggiamento, mentre giungiamo in una
confluenza con densità di passanti e di venditori ambulanti elevatissima,
scorgiamo per miracolo un fast food al quale ci fermiamo per un'oretta, tempo in
cui sentiamo la vita rifiorire nuovamente in noi, nonostante all'interno faccia
caldo tanto quanto all'esterno. Riempito lo stomaco ripartiamo cercando il Munch
Museum, logicamente dedicato al grande pittore nato a Løten, nel sud della
Norvegia. Contiene però solo le copie dei dipinti più famosi, come l'Urlo e la
Madonna: i veri dipinti sono in un altro museo sempre qui ad Oslo. Non essendo
un grande appassionato d'arte, i musei non sono il mio pane, ma non possiamo di
certo perderci una delle attrazioni più famose della città. La visita passa
veloce, tra i miei sguardi distratti e sfuggenti che si soffermano solo su ciò
che pare straordinario a prima vista, contrapposti a quelli più attenti e
prolungati del mio compagno, maggiormente avvezzo ai musei pittorici e ben più
ferrato di me in materia artistica, che riesce a cogliere più sfumature
nascoste che a me passano sotto gli occhi senza fermarsi. Passiamo il resto del
pomeriggio stesi sull'erba del parchetto appena lì fuori, a respirare aria
pulita sotto qualche frondoso albero, giocando a briscola per ingannare il
tempo, senza obblighi nè doveri di alcun genere. Questo è l'aspetto più bello
di un viaggio non organizzato, soprattutto se affrontato in pochi: è
infinitamente più facile trovarsi d'accordo e decidere cosa fare. Non è vero
nemmeno che un viaggio lungo in due persone debba esser per forza noioso: tutto
dipende dalle risorse interne di ognuno, dalla capacità di recepire gli
stimoli, e ovviamente da dove si va. Sicuramente il Nord non è un posto dove ci
si può annoiare: troppe e troppo belle le cose da vedere e da fare. E siamo
solo all’inizio, chi può immaginare cosa succederà ora della fine? Il solo
pensiero infiamma di forze e di energie, la sensazione dell’ignoto è
fantastica.
Il tedesco entra dalla porta dell’ostello
con fare gongolante, pochi minuti dopo il nostro ritorno, declamando "I'm
drunk and happy!", ovvero: sono ubriaco e felice. Subito dopo inizia a
lamentarsi animatamente con il mite cipriota, a proposito dell’indiano che
lascia sempre tutte le finestre chiuse quando esce per ultimo dalla camera. Come
ci si poteva aspettare, la stanza è diventata un forno, e aleggia pure un certo
odorino lieve ma persistente. La battuta del tedesco è esilarante: "Ma da
dove viene questo, dall'inferno?". Risate assicurate per qualche minuto,
poi piano piano torna la calma e ci troviamo a chiacchierare con il cipriota a
proposito della politica italiana: vuole sapere qualcosa di questa famosa Mafia,
che tipo di organizzazione sia, dove stiano le mele marce in Italia. Dopo averlo
informato dell’alto livello di corruzione e collusione mafiosa dei politici
nostrani, sentiamo i primi morsi della fame. Non abbiamo certamente voglia di
spendere tutti i nostri risparmi per mangiare qualcosa di decente, così
ripieghiamo su un minuscolo ristorantello consigliatoci dai gentilissimi gestori
dell'ostello: è gestito da turchi che cucinano pizza e kebab, e che parlano a
malapena l'inglese. Una pizza Margherita sarà l'ultima cibaria con una qualche
parvenza di italiano che mangeremo di lì alla fine della vacanza. Dopo cena
tocca di nuovo ad una camminata nell'arteria principale della città, stavolta
con un'atmosfera tutta particolare: nuvoloni neri solcati da qualche raro
fulmine ci fanno compagnia, ma senza pioggia. La luce è quasi irreale, sembra
un'alba, ma senza sole. Seduti di spalle al Palazzo dei Congressi, con tutto il
viale illuminato dritto davanti a noi che si estende a perdita d'occhio,
rimaniamo fermi ad osservare senza pronunciar parola, affascinati
dall’atmosfera di vita notturna che si avverte. Un tuono un po’ troppo forte
ci spinge a muoverci per tornare al coperto, ma ci perdiamo nelle intricate vie
del centro proprio mentre sta infuriando la parte peggiore dell'acquazzone, che
ci infradicia impietosamente. Ritrovata la via giusta, rientriamo bagnati come
pulcini e altrettanto sudati, crollando sui letti vergognosamente sfatti.
Nessuno ha voglia di sistemarli, dovranno rimanere così solo per poco ancora…
Crampi
In un orario imprecisato oltre la mezzanotte
vorrei seriamente alzarmi per strozzare il tedesco: sta russando anche di più
della scorsa notte. Fargli il classico “pissi pissi” non serve a nulla, anzi
peggiora la situazione: il russamento aumenta a livelli vertiginosi proprio
mentre tento di svegliarlo con il classico sibilo. Di conseguenza passo
un’altra notte disturbata, e la mattina presto voglio perlomeno fare una
colazione decente. Riproviamo al solito negozietto sperando ci sia qualcosa di
meglio di quelle orribili aranciate, e stavolta siamo più fortunati: c'è un
distributore automatico di caffè, latte e tè che ieri non abbiamo notato. Non
si capisce esattamente come funzioni, da cui i primi risultati non sono
esaltanti: sforno un caffelatte terribilmente annacquato, che getto nei rifiuti
riuscendo anche ad ustionarmi una mano. Quando riusciamo a produrre qualcosa di
decente, paghiamo con le nostre monete norvegesi curiosamente bucate al centro e
iniziamo a buttare giù tutto voluttuosamente: abbondiamo con le bustine di
zucchero e contorniamo con biscotti anch’essi dall’alto tasso di saccarosio.
Non l’avessimo mai fatto. Lì per lì ci sembra di stare benissimo, ma presto
il corpo presenta il suo conto da pagare: appena entrati nel supermercato
distante qualche centinaio di metri, sentiamo entrambi l’intestino contrarsi
rabbiosamente, costringendoci a posare subito il cestino di plastica appena
tolto dalla pila e a tornare precipitosamente in ostello in cerca di un bagno.
Ci riprendiamo dall'attacco di diarrea dopo circa tre quarti d'ora decisamente
spiacevoli, e quando ci sembra che i movimenti interni si siano placati
definitivamente ritentiamo con la spesa. Stavolta abbiamo successo. Non abbiamo
però molta scelta su cosa comprare: possiamo permetterci solo dei panini di
gomma con la spiccata tendenza a sfaldarsi, mortadella svenuta in bustina,
qualche porcheria di dolciumi e solo raramente della frutta. La qualità del
cibo non è una delle nostre principali priorità: basta che ci tenga in piedi,
per comprare qualcosa di più gustoso è meglio aspettare di tornare in un Paese
dove la vita costa meno!
Opere d’arte
Dobbiamo sloggiare, il tempo per il check
– out è ormai agli sgoccioli. Il cipriota ci saluta dicendo con fare
amichevole "Italian Mafia is leaving!", emblematica espressione della
considerazione di cui godiamo all'estero. Ricambiamo il saluto a quello che è
stato uno dei nostri migliori compagni d’ostello nell’intero viaggio, e
riprendiamo la via per la stazione. Depositiamo i bagagli nei lockers a
pagamento e prendiamo la strada per un altro importante museo d'arte, quello in
cui si trova il vero Urlo di Munch, recuperato per l'ennesima volta dopo
l'ennesimo furto. Effettivamente, non è protetto da chissà quale sistema di
sicurezza, ma è semplicemente appeso come tutti gli altri quadri, solo in una
posizione un po’ più appartata. Essere davanti a questo quadro così famoso,
presente su tutti i libri d’arte che ho comprato alle elementari, medie e
superiori, non mi riempie di particolare ammirazione o curiosità. In compenso
non posso fare a meno di esaltarmi quando vedo, gigantesco sul muro, la Caccia
Selvaggia di Odino: il quadro di Peter Arbo a cui si è ispirato il musicista
metal svedese Quorthon per la copertina di un suo album. L’orda divina
rappresentata trasuda epicità da ogni pennellata, quella stessa epicità che
impregna ogni composizione artistica partorita in queste terre. Tocca poi ad una
carrellata di quadri naturalistici davvero fantastici che entusiasmano anche me
nonostante non sia minimamente appassionato di pittura. Raffigurano paesaggi più
o meno inventati dell'estremo Nord: un preludio di ciò che ci aspetta? Semplice
fantasia degli artisti? Lo scopriremo tra una decina di giorni.
Il villaggio
Finiti i quadri, è l’ora di un deciso
cambiamento di programma: un villaggio tipico norvegese, ora riadattato a museo.
Casette di legno a tetto spiovente, dai colori più disparati che spaziano dal
giallo al rosso vivo, fino all'azzurrino. Piccoli cortili circondati da bianche
staccionate. Finestrelle anch'esse contornate di bianco e munite di tripli vetri
per isolare meglio dalle rigide temperature dei mesi invernali, e rossi interni
così angusti e raccolti, che lasciano a malapena lo spazio per muoversi. Fanno
venire una voglia incredibile di abitarci, per la loro atmosfera così antica e
suggestiva e gli spazi così piccoli che ispirano protezione e riservatezza. È
davvero affascinante vedere come vivevano i norvegesi fino a non molto tempo fa,
e come qualcuno vive tuttora: queste casette hanno un che di fiabesco. Una
bambina vestita di abiti tradizionali sta preparando un caffè in una delle
stamberghe, con la probabile madre che stende i panni fuori, anch’essa vestita
come una fiera donna vichinga. Nei loro occhi chiari si legge l’attaccamento
alle tradizioni che ha questa gente, che mai rinnegherebbe il suo glorioso
passato e le fantastiche conquiste che ha ottenuto. La riproduzione del
villaggio è organizzata ed inscenata alla perfezione: c’è da domandarsi se
non vivano davvero lì. Oltre vi sono capanne su palafitte dalle strane forme
oblunghe o irregolari, interamente costruite in legno scuro non verniciato.
Buona parte hanno l'erba che cresce sul tetto, come se fossero emerse
direttamente dal bosco selvaggio. Un divertente particolare che però ha anche
un risvolto ecologico non indifferente: se tutte le case al mondo avessero
l’erba sul tetto, chissà quanto ossigeno in più ci sarebbe nell’atmosfera!
Rimaniamo veramente colpiti da ciò che
vediamo, e proseguiamo lungo il sentiero battuto con crescente meraviglia.
Incrociamo qualche maiale che grufola allegramente nel suo cortile rotolandosi
nel fango senza timore di sporcarsi, poi un socievole gatto a pelo corto che non
ci teme e si lascia accarezzare fiducioso, strusciandosi sulle nostre gambe come
fanno tutti i gatti per salutare gli esseri umani di cui ritengono di potersi
fidare. Sono animali splendidi, racchiudono in essi qualcosa di regale, e non
smetterò mai di considerarli come gli animali più belli del mondo.
Agli sgoccioli
Le nostre gambe stanno iniziando a dare
segni di cedimento dopo tutto questo camminare senza sosta, da cui ci fermiamo
all’ombra di qualche albero per mettere qualcosa sotto i denti, guardando un
gruppo di bambini giocare con dei trampoli. Una panchina su cui sederci è ora
un toccasana, ci rimaniamo per un’oretta, prima di partire per la prossima
destinazione, da raggiungere in autobus: il museo delle navi vichinghe. In realtà
è un unico stanzone in cui si trovano tre relitti di drakkar, le navi da guerra
vichinghe dalla caratteristica prua a spirale, che nel caso delle navi più
grandi è talvolta modellata per assumere la forma di animali mostruosi come
serpenti marini e draghi, necessari per incutere timore al nemico e proteggersi
dalla malvagità delle mitiche creature marittime. Pur belle che siano, nel
piccolo museo non c'è altro, da cui usciamo presto per darci nuovamente al
relax sull'erba. Ormai la visita di Oslo e dintorni sta volgendo al termine, ci
aspetta verso tarda sera il treno per Stavanger. Via, verso la stazione,
salutando questa ambigua città forse non così splendida come ce la saremmo
aspettata, un po’ difficile da digerire e comprendere ma comunque dotata della
sua buona fetta di fascino ed interesse.
Cinque ore è il tempo che dobbiamo far
passare prima di prendere il notturno, un’attesa che può essere lunga per chi
è abituato da tempo ad aspettare al massimo un quarto d'ora per l'autobus, o può
essere brevissima per chi è abituato a viaggiare in lande sterminate dove i
viaggi in treno durano giorni. In quelle ore passiamo il tempo a rielaborare ciò
che abbiamo appena visto: osserviamo l'apparente freddezza degli sguardi dei
nordici, i negozi con gli articoli a prezzo decisamente elevato, le fornitissime
ed ubiquitarie librerie atte a soddisfare la risaputa passione degli abitanti
per la lettura. Per ammazzare il tempo risaliamo sul Teatro d'Opera, rischiando
costantemente di inciampare negli insidiosi gradini. Dalla cima ci godiamo un
tramonto un po’ nuvoloso, e prendiamo anche qualche goccia di pioggia che
inizia a cadere proprio mentre decidiamo di rientrare. La brezza si fa sempre più
tesa, è meglio ripararsi al caldo.
Notte in treno
Questa notte dormirò per la prima volta in
vita mia su di un treno, e mi sento decisamente preoccupato viste le grosse
difficoltà che ho nel dormire seduto: non mi riesce assolutamente, nemmeno dopo
viaggi di ore e ore in automobile o in pullman, in cui spesso sono l’unico
oltre al guidatore a rimanere sveglio. In ogni caso i treni notturni ci sono
molto utili, non possiamo lesinare su di essi: il risparmio che ci garantiscono
in termini di notti in ostello non pagate e soprattutto di ore utili guadagnate
per girare è notevole, e ciò può essere decisivo in un economia di ventitrè
giorni, apparentemente numerosi ma in realtà molto compressi e talvolta
incerti. Il treno finalmente arriva al quarto binario, i nostri posti prenotati
alla cieca si rivelano tutto sommato comodi: gli organizzatori ci hanno
gentilmente lasciato mascherina per gli occhi, coperta e tappi per le orecchie,
tutto incluso nel prezzo, quasi completamente azzerato dal biglietto interrail.
Il sedile si può reclinare ma non sufficientemente per stare sdraiato come
vorrei, da cui mi preparo ad una notte difficile. Penso però che sarebbe potuta
andarmi molto peggio: nei posti immediatamente dietro di noi gli schienali dei
sedili non si possono abbassare nemmeno di un millimetro, essendo a contrasto
direttamente con la parete posteriore della cabina. Il controllore passa tra i
sedili subito dopo la partenza in cerca di sprovveduti senza biglietto, non
trovandone nessuno, e una volta finito il suo giro le luci vengono messe in
notturna. Forse questo mi aiuterà un po’ a prendere sonno, penso...
Niente da fare. Dopo due ore sono ancora al
punto di partenza, continuo a rigirarmi nel sedile in cerca di una posizione
conciliante il sonno, ma senza il benchè minimo risultato. Tuttalpiù riesco a
distruggermi qualche vertebra del collo per averlo tenuto piegato di lato troppo
tempo senza accorgermi della posizione scomoda. Comincio ad irritarmi, ma non ci
posso fare niente. Davide, che non ha di questi problemi, si è già
addormentato da un pezzo. Io mi rassegno a passare la notte in bianco, ma una
piccola consolazione c'è: quella di vedere la luce del sole sotto l'orizzonte a
notte inoltrata, scena che non mi era mai balzata davanti agli occhi prima
d'ora. Questo spettacolo mi riscuote dall’apatia dell’accennato pre-sonno e
mi allieta un po’ il viaggio: non capita tutti i giorni di vedere la luce a
quest’ora, seppur lieve ed accennata. Il sole è nascosto dietro le montagne,
ma non è lontano…i suoi tenui raggi creano un’aura di colori sbiaditi
attorno alle creste delle montagne, un altro momento che mi si scolpisce in
mente e che se avessi dormito mi sarei perso.
Intanto arrivano le ore piccole. Gli
sbadigli si fanno sempre più frequenti ed estenuanti, la voglia di
addormentarmi aumenta. Il sonno a tratti è addirittura violento, ma non ce n'è:
la posizione semiseduta rovina tutti i miei sforzi, sia che tenti di rilassarmi
e non pensare a niente, sia che ricerchi la posizione più comoda in un continuo
rigirarsi senza tregua. Il massimo che riesco a fare è cadere in uno stato di
trance che potrei definire come dormiveglia profondo, ma che non diventa mai
sonno vero, se non per pochissimi insignificanti minuti, di cui non ho memoria nè
certezza. La notte passa lentamente, ma passa, come le lunghe notti in ospedale
che alle sei di mattina finalmente finiscono...e alle sette l’agonia termina.
Siamo arrivati.
Stavanger
Questa cittadina di oltre centomila abitanti
è famosa per la fiorente industria petrolifera che ospita, ma non offre alcuna
attrazione turistica di rilievo. L’unica cosa che abbia una parvenza artistica
è un simpatico laghetto circolare posto proprio di fronte all’uscita della
stazione che stiamo attraversando in questo momento, ancora un po’
disorientati e infastiditi dallo sbalzo di temperatura con l’esterno. Una
fontanella posta proprio al centro del laghetto spruzza acqua in ogni direzione,
costantemente. Non abbiamo tempo di osservare la scena, dobbiamo trovare in
fretta un ufficio informazioni: solo lì ci potranno dire dove si trova il
nostro ostello prenotato in anticipo, e soprattutto come dobbiamo fare per
effettuare la gita al Preikestolen, il vero motivo per cui siamo qui. Tradotto
in italiano come “Roccia Pulpito”, si tratta di una mastodontica roccia a
forma di parallelepipedo, strapiombante per seicento metri sull’oceano
Atlantico. Una meraviglia di architettura naturale ed una tappa irrinunciabile
per qualsiasi viaggiatore che approdi in Norvegia. La febbre della conquista
brucia in noi, ansiosi come siamo di conquistare anche questa meta, ma le cose
iniziano ad andare storte: orientarsi a Stavanger, della quale non sappiamo
nulla, non è per niente facile, e il tempo a nostra disposizione è fin
dall'inizio molto scarso. Non possiamo certo tentare la salita alla Roccia con
gli zaini pesanti sulle spalle, nemmeno nel più sconsiderato impeto di spirito
d'avventura estrema. Non arriveremmo in cima vivi portandoci dietro tutti i
vestiti, le guide turistiche e gli accessori per l’igiene, lì completamente
inutili. Così dobbiamo lasciarli in ostello od in alternativa nelle casseforti
della stazione dei traghetti, di cui ignoriamo l’ubicazione. Calcolando male i
rischi optiamo per il deposito in ostello, decisamente lontano e irraggiungibile
a piedi dalla stazione. Per arrivarci bisogna prendere uno dei numerosi bus
urbani che servono il paese in ogni angolo, per poi logicamente riprendere lo
stesso bus e tornare indietro...un piano azzardato e rischioso.
Con una veloce puntatina al per nulla vicino
ufficio informazioni, e con il successivo aiuto di un autista di pullman fermo
sul ciglio della strada, riusciamo a trovare la fermata giusta per raggiungere
l’ostello. Lì incontriamo una signora che parla italiano, infatti arriva da
Chiasso, pochissimo oltre al confine tra Svizzera ed Italia: è proprio vero che
il mondo è piccolo! Dopo averci parlato dei suoi parenti che abitano all'isola
d'Elba, nemmeno troppo distante dal paesino di nome Lacona in cui sono stato un
paio di volte in vacanza e che lei conosce, ci chiede la nostra destinazione:
essendo abitante del posto da tantissimi anni, ci può dare delle informazioni
molto utili su come muoversi in paese e su quali fermate preferire per il nostro
programma. La ringraziamo moltissimo per il vitale aiuto e scendiamo alla
fermata da lei indicata, la terza dopo che lei ha abbandonato l’autobus. Il
problema è che di quest'ostello non v'è nemmeno l'ombra, vediamo solo un
camping coperto in ogni centimetro quadrato da tende e roulotte, con alcune case
in legno ancora in fase di tinteggiatura. La reception è chiusa, aprirà di lì
a cinque minuti stando a ciò che recita il cartello affisso sull’entrata. Ci
sono un po’ di persone che stanno aspettando fuori, con l'aria seccata:
saranno anche loro clienti dell'ostello che stanno cercando? Sarà veramente la
reception dell'ostello quella? Non possiamo saperlo finchè non apre, ed il
tempo utile per prendere il traghetto è sempre più agli sgoccioli. Non
sappiamo assolutamente cosa fare e ci sta salendo una spiacevole ansia: è
meglio rimanere lì in attesa ancora cinque minuti o forse più fino
all’apertura della reception, o tornare immediatamente alla fermata del bus e
riprendere la via della stazione, lasciando i bagagli nelle casseforti apposite
per poi prendere subito il traghetto? Non abbiamo molto tempo per decidere in
modo ponderato, per cui tentiamo la fortuna scegliendo la soluzione più
immediata, ripartire subito. Il bus dal quale siamo scesi poco prima tarda solo
qualche minuto ad arrivare, ma quei minuti potrebbero fare la differenza tra
salire sul traghetto e vederselo passare davanti. Quando finalmente lo scorgiamo
percorrere senza troppa fretta le curve in cima alla strada, dirigendosi verso
di noi col motore che ansima e borbotta, saliamo e scopriamo con sorpresa che c'è
a bordo la stessa signora di prima. Andiamo subito a spiegarle la situazione, e
lei vedendoci in difficoltà si offre di portarci i bagagli nell'albergo della
zona, dove lavora da trent'anni, cosicchè potessimo finalmente liberarci di
quei fardelli e partire immediatamente. L’offerta è allettante, ci teniamo
veramente a prendere la coincidenza giusta, avendo già calcolato che la
successiva avrebbe causato enormi problemi di tempistiche probabilmente
rovinandoci la giornata. Ci consultiamo per un attimo tra di noi, ma uno sguardo
diffidente di Davide mi convince che per quanto l'anziana signora si mostri
gentile e disponibile ad aiutarci e molto probabilmente non sia intenzionata a
derubarci, non possiamo fidarci a lasciare in mano i nostri bagagli a quella che
è pur sempre un'estranea. Che ne sappiamo poi della fine che avrebbero fatto?
Al che rifiutiamo gentilmente ma con decisione, ignorandola quando profetizza
che probabilmente perderemo il traghetto.
Una volta scesi dal bus inizia la corsa
folle per raggiungere la stazione navale, fortunatamente poco distante da quella
ferroviaria, dove sistemiamo i bagagli in fretta e furia cercando febbrilmente
le monetine da inserire per poter chiudere a chiave. Ripartiamo a razzo verso la
biglietteria davanti alla quale siamo appena passati correndo, già convinti di
essere arrivati troppo tardi. Scopriamo invece che il nostro traghetto arriverà
tra ben tre quarti d'ora e non a momenti come pensavamo fino ad un attimo fa.
Quello delle nove in punto appartiene ad un'altra compagnia navale che non
c'entra con noi. Accidenti alle informazioni sbagliate! Tanta fatica per niente,
ma almeno possiamo tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, nonché
fare una colazione decente nel tempo che ci separa dalla partenza. Decente
significa qualche tossico biscotto all'amarena con del succo di frutta appena
meno disgustoso di quello preso a Oslo, che finisce anche lui allegramente nel
cestino dopo qualche stentato sorso. Inutile ogni tentativo di farselo piacere,
è veramente ripugnante. Vorrei strozzare i nordici che riescono senza problemi
a bere quel liquame di fogna, propinandocelo come "succo di frutta 100%
naturale".
Tau
Consumata anche questa poco appetibile
colazione, è tempo di prendere il traghetto per Tau che tanto abbiamo temuto di
perdere irrimediabilmente: la traversata non ha niente di particolarmente
interessante, a parte gli isolotti completamente disabitati e sperduti in mezzo
al mare che sembrano apparsi dal nulla tanto sono apparentemente fuori posto. Il
sole batte forte anche oggi, si prospetta una splendida giornata. Siamo
felicissimi di essere riusciti a prendere il traghetto della mattina,
l’energia è salita di nuovo a livelli stellari e siamo pronti ad affrontare
le due ore e mezzo di salita necessarie per posare i piedi sulla rude roccia
granitica che regna incontrastata sul Lysefjord.
Un’ora dopo il traghetto approda dove un autobus è fermo ad aspettare dei passeggeri, ma non è ancora il nostro. La folla di persone è abbastanza consistente, nessuno sale sull’altro autobus da cui capiamo che stanno tutti puntando alla Roccia, come noi ora. Un quarto d’ora dopo arriva il pullman giusto, con l’aria condizionata a mille causa la temperatura afosa: sistematici negli ultimi due posti disponibili, percorriamo venticinque minuti di strada montana popolata da casette bianche e da cespugli di fiori di ogni colore, con uno sfondo di montagne frastagliate ed aguzze nel quale cerchiamo di individuare la nostra Roccia, senza successo: non si può vedere da lì. L’autobus fatica a salire sui tornanti, appesantito dal pieno carico, ma se la cava egregiamente portandoci nell’area di ristoro allestita appositamente per i turisti che puntano alla scalata dei fiordi. Il parcheggio è enorme, data la mole di visitatori che raggiunge questo sito in massa ogni estate, con ogni mezzo. Usciti dall’autobus non perdiamo tempo e puntiamo subito verso il cartello che segna inequivocabilmente l’inizio del sentiero: Preikestolen, da quella parte.
La salita
Armati di scarpe da trekking e di spirito di
avventura e conquista, iniziamo la salita su questo sentiero che inizialmente
sembra ben tracciato e livellato. Presumiamo una salita ordinaria, in cui fare
affidamento soltanto sul fiato e sulla buona volontà di arrivare presto in
cima. Sulla destra possiamo scorgere gli ultimi lembi di oceano che sono
penetrati fino a qui serpeggiando in mezzo alle montagne, è veramente
paradossale vedere il mare confinare direttamente con esse, ma in Norvegia
questo paesaggio è la norma, anche se per i nostri occhi è ancora troppo
presto per farci l’abitudine. I miei scarponcini sono forse un po’ troppo
nuovi e poco collaudati per risultare comodi e inoffensivi per i piedi, ma non
posso certo stare a badare a queste sottigliezze: è probabilmente l’unico
giorno in cui sono necessari e non voglio certo tornare a casa senza averli mai
messi una volta.
I primi dieci minuti fila tutto liscio come
l’olio, ma il nostro ottimismo è presto intaccato da una poco incoraggiante
rivelazione: finito il primo tratto ci rendiamo conto che il sentiero è
completamente diverso da quello che appariva. Consiste ora quasi interamente in
massi e rocce irregolari che tappezzano completamente la strada, fastidiosissimi
quando ci si cammina sopra. Tutte queste rocce sono ovviamente da scavalcare,
poggiando il piede nel posto giusto, stando attenti a non sbilanciarsi e a non
caricare il peso su una roccia instabile che si muove e ti fa rischiare di
capitombolare all'indietro, e soprattutto a non causarsi qualche fatale
distorsione alla caviglia che sarebbe un problema veramente difficile da
gestire, specie se occorsa più avanti nel percorso. I piedi iniziano subito a
soffrire per quel sentiero così aspro ed irregolare, il fiato non ci manca ma
la natura della strada rende tutto doppiamente arduo. Come se non bastasse, il
percorso è popolato da centinaia di persone che intralciano il percorso a noi
tanto quanto noi lo intralciamo a loro: sono tantissimi quelli che come noi
stanno tentando la scalata alla mitica roccia. La maggior parte di questi sono,
manco a farlo apposta, italiani, da cui sentiamo ancora ovunque le voci che
parlano la nostra lingua, questa volta dandoci molto meno fastidio: la
concentrazione è tutta dedicata al mettere un piede davanti all’altro.
Alterniamo momenti di accelerazioni furiose
a testa bassa, stufi di non vedere mai un punto di arrivo, con altri di
camminata enormemente rallentata per un colpo di fatica. Ogni crinale roccioso
sembra essere l'ultimo ma poi si scopre che ce n'è ancora un altro identico da
raggiungere prima di arrivare in cima. La strada inoltre non è una salita
uniforme ma è un continuo e imprevedibile saliscendi che mette a dura prova i
piedi dentro le scarpe già scomode, costretti prima a volgersi in un senso e
poi nell'altro, senza potersi abituare ad un andatura regolare. Solo raramente
godiamo di un po’ di sollievo quando nelle (rare) parti pianeggianti ci sono
dei ponticelli in legno fissati sul terreno misto tra l'erboso e il paludoso, ma
è un sollievo di breve durata, in men che non si dica siamo di nuovo in mezzo
ai sassi. Quando finalmente il tremendo sentiero pietroso finisce, passo dopo
passo e un'imprecazione dietro l'altra, lo scenario varia: ora non c'è più
nemmeno un sentiero vero e proprio, ci sono solo rocce larghissime e
discretamente piatte dalle quali bisogna continuamente scendere e salire, con
alcuni punti in cui vanno letteralmente scalate dal basso prendendo lo sprint
per non fermarsi a metà. Spesso sbagliamo strada finendo in vicoli ciechi che
terminano in un laghetto, e dobbiamo ritornare indietro di qualche metro,
relativamente breve ma reso insopportabile dalla fatica che tende a farci
risparmiare anche il più piccolo sforzo inutile. Le rocce sono tutte (e dico
tutte) inclinate da un lato, cosicchè il piede non si trova mai dritto ma si
flette costantemente ora a destra ora a sinistra, col rischio di distorsioni
altissimo e come minimo un dolore assurdo alle caviglie, irritate dal bordo
della scarpa. Nessuno attorno ha un'idea precisa di dove sia il sentiero giusto,
vediamo la massa di persone aprirsi a ventaglio ognuno cercando la via più
facile in un posto diverso, solo pochi riescono a trovare una via agevole, e non
siamo tra questi. L'intera scena montana è condita da limpidi laghetti dallo
scuro fondale, veramente suggestivi. In essi, alcuni temerari stanno facendo dei
rigeneranti pediluvi alla temperatura di forse quattro o cinque gradi
centigradi, non li imito nonostante la tentazione si faccia sentire. Si vedono
specchi d’acqua in lontananza anche sulle montagne vicine, per metà rocciose
e per l’altra boscose. Questi laghetti sono circondati dai pini che paiono
minacciarli, tutti in cerchio armati di spine e frasche. L’insolito paesaggio
contribuisce a lenire un po’ la fatica dell'ascesa, esacerbata dalla scarsità
di acqua che ci costringe ad un razionamento severo. Passiamo continuamente da
vaste zone completamente in ombra, dove senza maglione si muore di freddo, a
zone esposte al sole cocente tenuto a bada molto poco dal cielo che solo in
alcuni piccole porzioni è a pecorelle, mentre per il resto è completamente
sgombro. Togliamo e rimettiamo ogni tanto il maglione pesante, finchè ci
stanchiamo e decidiamo di sbarazzarcene una volta per tutte, in barba al freddo
e al vento che contrastiamo col riscaldamento prodotto dai nostri muscoli in
piena attività. La faccenda inizia a farsi stressante, ci stiamo preoccupando
seriamente sulla distanza che ci rimane da percorrere: ogni volta che troviamo
un cartello indicativo scopriamo di essere ben più indietro di quanto
pensassimo, traditi dalla morfologia del percorso che fa sembrare molto più
lunghi i tratti percorsi quando in realtà si sono fatte poche decine di metri.
Tutt'a un tratto passiamo sul fianco della montagna dove ci sono tanti
ponticelli di legno collegati tra di loro intervallati a rocce sporgenti, e da lì
si inizia ad intravedere in lontananza la fine della montagna, il che ci dà
nuova forza per continuare. Non possiamo mollare ora che siamo così vicini.
I primi strapiombi
Dopo altri trenta minuti buoni di
scarpinata, coi piedi sempre più doloranti e macerati nel sudore, raggiungiamo
tutto d’un tratto il primo punto in cui la montagna dà a picco sul mare: è
impossibile esprimere cosa si prova a trovarsi in un luogo del genere. Lo
strettissimo sentiero fiancheggiato dalla roccia da una parte e la vista a
strapiombo col mare dall'altra, con ai bordi della stradina soltanto della
scivolosa e traditrice erba a fungere da ciglio, fanno una certa impressione,
anche se la paura di ruzzolare di sotto non mi sfiora nemmeno per un istante,
così come non accuso vertigini che un tempo mi prendevano al trovarmi in un
luogo particolarmente alto. La bellezza del panorama attorno e l'emozione di
essere lì, finalmente, sovrastano qualsiasi paura e sensazione fisica
sgradevole. La stanchezza e i dolori ai piedi non si sentono più, sono come
temporaneamente svaniti. Rallentiamo il passo per goderci meglio questi
spettacolari paesaggi e per assaporare fino in fondo il brivido dell’emozione.
Distogliendo lo sguardo dall’acqua in basso, vediamo a perdita d’occhio le
catene montuose estendersi, magnificate da un cielo terso e illuminato dal sole
ora non più nemico dispensatore di raggi malefici. Man mano che ci avviciniamo
alla meta vera e propria, lontana solo poche decine di metri da noi, gli
strapiombi si fanno sempre più netti e paurosi. La densità di popolazione è
sempre più alta, ed ormai la stanchezza non ha più alcun senso: le gambe
ritrovano una rinnovata forza e spingono con forza senza più sentire alcuna
fatica, finchè il sentiero finalmente si appiattisce e ci rendiamo conto di
essere arrivati sullo spiazzo finale. La Roccia è conquistata.
Sulla Roccia
Mi fermo per qualche secondo a digerire la
strana e quasi irreale situazione in cui mi trovo: sono su un blocco di granito
quasi perfettamente liscio e verticale che si getta a precipizio in quello che
sembra un grosso fiume ma in realtà è l’Oceano Atlantico. Esso serpeggia tra
le due catene montuose che si fronteggiano fieramente, dividendole in due
riempiendo le vallate che una volta erano asciutte. Le pareti laterali di questa
roccia sono completamente sgombre da vegetazione, nessun free climber per quanto
esperto ci potrebbe salire. Qualche traghetto solitario carico di turisti solca
lentamente le acque, lasciando un'appena visibile scia di schiuma bianca dietro
di sé. Sembra così piccolo a guardarlo da lassù, e anche il resto del mondo
sembra così infimo ed insignificante da quella posizione privilegiata. Lassù
niente altro aveva importanza. Nel cielo ora ci sono pochissime nubi, il
paesaggio è qualcosa di irripetibile. Davanti a me un limite nettissimo, una
linea retta divide la fine della montagna dall’inizio dell’acqua ben
seicento metri più in basso, limite al quale mi avvicino prudentemente sdraiato
bocconi onde evitare una fatale sincope da vertigine. L’emozione raggiunge il
climax: la mancanza assoluta di protezioni e la visuale diretta sul fiordo da
quell’altura lascia sensazioni indescrivibili. È davvero incredibile pensare
a come la natura abbia potuto produrre un luogo di una bellezza così
straordinaria, sapendo che è tutto unicamente effetto dell'erosione dell'acqua
sciolta nei ghiacciai, che poi è andata a riempire le vallate sottostanti,
millennio dopo millennio, pazientemente e senza mai stancarsi, con la forza
della perseveranza che solo la natura possiede e che gli uomini invidiano.
Le persone che sono attorno a noi non fanno
che vociare concitatamente, in tutte le lingue possibili e immaginabili, ma non
me ne curo. Mi siedo sul bordo laterale della Roccia, ammirando un contrafforte
che mi sovrasta sulla destra, e lasciandomi cullare dai riflessi del sole
sull’acqua che si muove tutte quelle centinaia di metri sotto di me. In certi
punti il sole forma delle strane figure sull’acqua, sembrano veri e propri
disegni impressi sulla superficie. Guardando giù mi sento come invulnerabile:
io sono lassù e il resto del mondo è lì in basso. Una sensazione fantastica.
Ci rilassiamo finalmente tutti e due, in silenziosa estasi contemplativa.
La discesa
La fatica muscolare richiede però di essere
smaltita, e lo stomaco di essere riempito nuovamente: in mezzo alla piana
rocciosa facciamo uno spuntino decisamente spartano, più qualche barretta
energetica per aiutarci nella discesa, che immaginiamo non più semplice della
salita. Rifare al contrario tutti quegli improbabili sentieri, con la stanchezza
accumulata e non del tutto smaltita dal breve riposo, non si prospetta un gioco
da ragazzi. L'unico aiuto è dato da qualche barretta energetica ed un panino
ingurgitati prima di scendere, dobbiamo farceli bastare perché non abbiamo
altro. Vediamo diverse persone che si tolgono le calze per mettere i cerotti
antivescica sulle piante dei piedi, esattamente come ho fatto io prima di
partire: per chi ha i piedi che tendono a ferirsi e vescicarsi facilmente, quel
sentiero non perdona. Oltretutto l’acqua è agli sgoccioli, dobbiamo usarla
con parsimonia per evitare di trovarci a metà sentiero con la gola arsa e solo
poche inservibili gocce sul fondo della bottiglietta di plastica.
Cominciamo a scendere lentamente, tastando prudentemente ogni roccia per evitare di sentire l'ingravescente dolore ai lati del piede, causato dai continui spostamenti laterali della caviglia quando camminiamo su rocce inclinate. Mano a mano che scendiamo, ci sentiamo decisamente più fortunati rispetto a chi incontriamo mentre sta ancora salendo, e per nessuna ragione al mondo vorremmo essere al loro posto, anche se ciò significherebbe vedere quello splendido spettacolo ancora una volta. Ora che non c’è più febbre di conquista ad infiammarci, avendo raggiunto il nostro obiettivo, sopportare la fatica e i dolori è meno facile. Ripercorriamo lo stesso sentiero al contrario, fermandoci spesso per bere e constatando che probabilmente l’acqua non basterà fino alla fine. In un tratto boscoso dove la sete è di nuovo incoercibile ci consultiamo per un attimo su cosa sia meglio fare: vuotare subito quel che rimane della bottiglia, facendosi durare il più possibile gli ultimi sorsi, o tenere il fondo per emergenza? Scegliamo il tutto e subito, vuotando la bottiglietta in pochi sorsi. Da quel momento non parliamo più per risparmiare le energie e non far inaridire la gola, respiriamo solo col naso e soffriamo in silenzio sulle rocce aguzze che ci fanno prendere continuamente delle lievi ma fastidiosissime distorsioni alle caviglie. Il silenzio viene rotto solo da qualche rara imprecazione quando troviamo il masso scivoloso e traditore che ci fa cadere col sedere per terra o quasi. A scendere impieghiamo quasi lo stesso tempo che abbiamo speso per salire, la consapevolezza che ogni passo ci porta più vicino alla salvezza ci aiuta un po’, ma ad un certo punto darei veramente tutto quello che ho pur di essere già in fondo al percorso. Ma come ogni brutto momento che non è mai eterno perché presagisce sempre ad una schiarita, passa anche questo calvario: lentamente ma costantemente, passo dopo passo e una fitta dolorosa dopo l'altra, tastiamo di nuovo con i piedi il suolo asfaltato, che ci sembra una manna dal cielo. La non poca sete residua viene curata immediatamente con un gelato, forse il più buono e rigenerante della mia vita date le circostanze. Completamente senza forze e coi piedi distrutti, saliamo sull'autobus che arriva a prenderci dopo una mezzoretta, ci sediamo e vorremmo rimanere lì in eterno, esausti. Ma in fondo siamo indescrivibilmente felici per ciò che siamo appena riusciti a compiere, trovando anche la giornata perfetta per ammirare appieno uno spettacolo che la natura regala solo di rado.
Stanchezza
Ripartendo in traghetto da Tau disponiamo
finalmente di un posto abbastanza largo in cui sederci per riposare
decentemente, rispetto all’autobus in cui c’è a malapena lo spazio per
stendere a metà le gambe. Badando a non sprecare nemmeno la più piccola delle
energie residue, sistemiamo come possibile zaini e scarpe. Togliendole scopro un
piede distrutto che nelle parti più massacrate mi duole solo al tocco. Davide
cede al sonno e si addormenta ancora seduto, mentre io resisto ma sono così
rallentato e privo di forze che potrei cascare a terra da un momento all'altro,
scivolando giù dal sedile. La forza di volontà, così necessaria nella
difficile ascesa e non meno nella discesa, è ora svanita completamente. Rimango
in quello stato di simil - dormiveglia apatico fino alla fine dell’ora di
traversata, recuperando appena quel briciolo di energie che mi serviranno per
raggiungere il posto dove potremo finalmente recuperare tutte le forze perdute
con una sana e lunghissima dormita, cosa di cui sento assolutamente il bisogno
non avendo praticamente dormito la notte precedente.
Con il solito autobus arriviamo in zona
campeggio, dove una ragazza sta pitturando la facciata di quello che pare un
bungalow, con molta solerzia e pazienza. Ci rinfranchiamo pensando che deve per
forza essere una dipendente del campeggio e quindi qualche punto informazioni
aperto ci sarà di sicuro. Secondo le indicazioni che abbiamo, il nostro ostello
sta proprio lì: fatti pochi passi in più scopriamo che si trova letteralmente
a quattro falcate dalla sede del camping visitato questa mattina, anche se è più
simile ad una lavanderia pubblica o ad una stalla, piuttosto che ad un ostello.
Vaghiamo per dei corridoi assolutamente tutti uguali e privi di qualsiasi
riferimento, con pareti di un arancione brillante fastidiosissimo per gli occhi,
ma non troviamo la nostra stanza. Torniamo indietro a farci rispiegare
l’ubicazione della camera: odiamo dover ritornare sui nostri passi lungo la
strada che abbiamo appena percorso, ma non c’è scelta. La pazientissima
receptionist dai capelli rossi e dai modi affabili ci rispiega tutto da capo
senza irritarsi. Dopo la nuova spiegazione finalmente accogliamo con enorme
gioia e sorpresa la nostra camera doppia, come si accoglie l'acqua nel deserto.
Possiamo riposarci tutto il tempo che vogliamo senza badare alle vicende di
nessun compagno di stanza. Il supermercato vicino viene letteralmente svuotato
dal cibo non appena recuperiamo le forze per raggiungerlo: i nostri stomaci e
soprattutto i muscoli reclamano cibo a volontà per riparare tutti i microtraumi
prodotti dalla salita e soprattutto dalla discesa, per non parlare dei piedi
profondamente segnati di rosso nelle zone corrispondenti agli attriti con la
parte dura delle scarpe. Ripensando a cosa abbiamo appena passato, sul duro
sentiero per il fiordo, ci sentiamo veramente dei pascià in riposo serale, e
finalmente dopo quaranta ore ininterrotte di veglia posso dormire come si deve,
in conclusione di una giornata passata a sognare ad occhi aperti.
La
strada atlantica
Non c’è come dormire in un letto vero per
cancellare completamente la stanchezza accumulata da giorni. L’autobus che ci
porterà a Bergen, la nostra prossima destinazione, parte alle nove e tre
quarti, lasciandoci abbastanza tempo per verificare le nostre condizioni fisiche
e fare una colazione decente. Le mie caviglie sono ancora molto doloranti: un
movimento sbagliato o un colpo anche leggero nei punti offesi è sufficiente a
farmi vedere le stelle, potrei inventare una nuova costellazione se qualcuno mi
desse un calcio lì. Fortunatamente le scarpe di tela flessibile mi risparmiano
il dolore e presto sto camminando nuovamente bene, alla volta della stazione dei
bus di Stavanger. Dopo una breve attesa su una delle tante pensiline in serie
poste sotto un alto tetto di cemento, il bus parcheggia dinanzi a noi ed il
controllore ci ricorda di sua spontanea volontà che se siamo studenti possiamo
beneficiare di un consistente sconto sul caro biglietto. Questa si chiama onestà.
Dobbiamo passare cinque ore in viaggio, con
diversi cambi in cui il bus viene caricato su dei traghetti: approfittiamo di
questa traversata per riposarci ancora un po’ dopo la massacrante giornata
alla Roccia, e non di meno per gustarci un altro giro panoramico
indimenticabile. Siamo ora sulla spettacolare strada atlantica: ad ovest abbiamo
direttamente l’immenso Oceano. Vi sono innumerevoli ponti stile Brooklyn,
costoni rocciosi ovunque a delimitare le strade che serpeggiano a due passi
dall'acqua, altrettanto ubiquitari cespugli di fiori viola intenso che sono una
delizia per lo sguardo, mandrie di mucche e pecore che pascolano tranquille
sapendo che nessuno le disturberà mai. Il tutto con la musica nelle orecchie
che stuzzica la mente e rende quel susseguirsi di paesaggi veramente
coinvolgente. Un fraseggio di chitarra impetuoso corrisponde ad una violenta
discesa lanciati in velocità, un arpeggio più delicato a una curva stretta con
l'oceano che lambisce la strada, basta lasciarsi trasportare. Anche dal
traghetto il panorama è meritevole: il sole, che anche in questo caso ci regala
tutta la potenza dei suoi raggi senza essere ostacolato dalle nuvole, ci
abbronza il volto e rinvigorisce lo spirito, mentre passiamo da un'isoletta
all'altra, in una strada complicata e tortuosa, sempre sospesa tra la terra e
l'acqua.
Bergen
Nel primo pomeriggio raggiungiamo la città:
dico subito che definirla splendida è riduttivo. Lasciata la stazione centrale,
molto vicina alla fermata dell'autobus alla quale siamo scesi, passiamo di
fronte ad un laghetto con le onnipresenti fontane situate proprio in mezzo
all'acqua, a non poca distanza dalla costa. Spruzzano i loro getti altissimi
incessantemente, muovendo l’acqua tranquilla con nubi di goccioline e onde che
non le permettono mai di riposarsi. Delle sculture di triangoli impossibili,
interamente in legno, decorano il viale che costeggia il lago. Tale viale ci
porta al cuore della città, che versa direttamente sul porto: lì, sulla baia
di Vagen, si trova il famoso quartiere di case tipiche denominato Bryggen.
Principale attrazione di Bergen, è classificato dall'organo dell’Unesco come
patrimonio dell'umanità: si tratta di un intero villaggio di ben 280 casette di
legno, che nella parte frontale al porto sono tutte uguali. Le finestrelle a
volta sono sviluppate in verticale più che in orizzontale, i colori sono vari.
Queste casette sono attaccate l'una all'altra come delle villette a schiera, con
i tetti la cui fine coincide con l’inizio di quelli successivi. Mi chiedo cosa
succede quando nei mesi invernali ci nevica sopra: si accumula tutta la neve
nelle conche formate? I canali di drenaggio dove sono? Non riusciamo a capirlo,
ma di sicuro gli abitanti sanno il fatto loro e sono attrezzati per tutto.
Queste casette sono ormai in buona parte
riadattate a negozi di souvenir, ristoranti e musei, sempre in grande attività
data l’ingente mole di turisti che visita ogni anno Bergen, la prima città
realmente norvegese che vediamo. Si nota dovunque il classico stile di
costruzione nordico, a differenza di Oslo dove non ce n’è poi molto. Ci sono
i soliti mercatini del pesce e non solo che ogni città degna di questo nome qui
deve possedere, più tanti pittoreschi e strettissimi viottoli che sfociano al
molo letteralmente invaso dalle barche di ogni genere. In massima parte sono
pescherecci all'opera per mantenere il primato nazionale di decimo posto al
mondo per merluzzo pescato, nonostante la popolazione complessiva non raggiunga
i quattro milioni e mezzo di abitanti.
La città è fantastica, ma siamo molto
stanchi e prima di tutto dobbiamo trovare un ostello per tranquillizzarci sulla
nostra sistemazione e poterci organizzare al meglio. Uno dopo l’altro li
troviamo tutti pieni, ma fortunatamente le ben informate ragazze dell'ufficio
turistico ci parlano di un dormitorio non lontano da dove siamo ora e che non
figura in nessuna guida o carta ostelli di cui disponiamo. È la nostra
salvezza: una volta raggiunto, con gli zaini pesanti ancora addosso che
cominciamo ad odiare profondamente, apprendiamo dalla sorridente ragazza bruna
della reception che hanno giusto due posti da riservarci per la prossima notte,
ma solo per quella. Ci sistemiamo subito in camera, si tratta di un dormitorio
da otto posti, molto spartano e minimale. I letti a castello dalla sottilissima
struttura sono verniciati di nero, hanno l'aspetto veramente povero. La prima
persona con cui veniamo in contatto è un inquietante ragazzone di colore
rastafariano, con le classiche treccine e lo sguardo veramente truce. Sta
dormicchiando sul letto a castello proprio di fronte alla porta, la quale si
apre sempre con un secco rumore che talvolta sveglia chi stia dormendo dentro, a
meno che non abbia il sonno pesante. Dopo un primo e secco “What’s up?”, a
cui rispondiamo senza ricevere a nostra volta una replica, ci chiede con una
voce da oltretomba la nostra nazionalità, senza nemmeno girare la testa, e dopo
la nostra timida confessione di essere italiani emette un laconico verso di
intendimento e smette di parlare non curandosi più di noi. Si limiterà
successivamente a squadrarci con sguardi obliqui, da noi il più possibile
evitati. Il resto dei compagni d'ostello invece ci ignora totalmente fin da
subito, ma senza che la cosa ci disturbi minimamente: meglio il silenzio
piuttosto che la parlantina inarrestabile di qualche logorroico inguaribile. Le
porte si aprono con delle mai del tutto sicure chiavi magnetiche che tendono a
guastarsi e smagnetizzarsi con estrema facilità, e l'armadio dove dovremmo
chiudere a chiave i nostri bagagli è difettoso, completamente scardinato nella
parte inferiore. Lo chiudiamo solo dopo non pochi sforzi e imprecazioni,
producendo molto rumore che potrebbe turbare i sonni del nostro inquietante
vicino di letto con chissà quali conseguenze. Dopo aver riposato qualche
minuto, partiamo con l’esplorazione della città.
Il centro è un fermento di attività, con
le bancarelle che vendono ogni bene possibile e immaginabile, commestibile e
non, macchine d’epoca parcheggiate in riva al mare, negozi italiani che
offrono gelati alla panna cotta e al lampone a cui non sappiamo resistere,
tavolini all'aperto degli innumerevoli bar che servono birra a quasi otto euro
al boccale. Un prezzo decisamente proibitivo al quale non cediamo nonostante la
tentazione di farci una sana birretta di fronte al porto al tramonto sia forte.
Dalla piazza si nota anche la funivia panoramica che percorre la montagna sopra
di noi. I viottoli della cittadina sono una goduria da esplorare: ce ne sono
alcuni così stretti da sembrare di essere in un antico paesino di montagna, le
case sono tutte di colori diversissimi tra di loro anche se il bianco predomina;
alcune di esse hanno perfino l'asta per la bandiera incorporata
nell'architettura, che sporge da sotto le finestre del secondo piano. Camminando
per il primo di questi viottoli notiamo un inflessibile vigilessa che sta
multando un'automobile parcheggiata appena fuori dal limite delle strisce, di
fronte ad una chiesa costantemente chiusa ai visitatori. Viene da sorridere
pensando a certi parcheggi selvaggi in terza fila che si vedono a casa nostra,
totalmente impuniti. Una casa mostra evidenti segni di incendio, è tutta
annerita nella parte centrale, che spicca immediatamente sulle travi bianche.
Nonostante qui piova più di duecento giorni l’anno, gli edifici bruciano lo
stesso.
Non ci sono costruzioni particolarmente alte
nel quartiere residenziale, predomina l'architettura tipica: bassa, squadrata e
spigolosa. Le panchine abbondano, ideale rifugio per ammirare la vita di questa
cittadina, specie le centinaia di persone che entrano ed escono dai negozi di
souvenir cercando qualcosa da portare a casa come ricordo indelebile della loro
vacanza. Sono attratto dai ciondoli raffiguranti le rune vichinghe, simbolo di
una grandiosa cultura che ancora si nota ovunque passeggiando per la città, ma
costano decisamente troppo per potermele permettere. Così rinunciamo al
proposito e torniamo verso l’ostello, intercettando un esercitazione di canto
nella chiesetta vicino alla piazza principale, con il coro che intona serie di
note via via sempre più articolate, ma che non inizia mai a cantare sul serio:
lo spettacolo inizierà solo dopo diverse ore, da cui accantoniamo il proposito
di assistervi ce ne andiamo a dormire.
I musei
Le mete del giorno, dopo esserci alzati di
buon ora come sempre, sono il castello di re Hakon, l’edificio laico più
grande dell’intera Norvegia, e successivamente il museo della pesca, vicino al
quartiere industriale. La mattina piove e ci siamo alzati troppo presto per
l'orario di apertura dei musei, fissato tra le dieci e le undici di mattina.
Camminiamo lentamente verso la nostra prima meta, il dolore che ho ai piedi per
la salita alla Roccia non è ancora svanito del tutto e basta un movimento falso
per riportare a galla delle fitte dolorose non trascurabili. La pasta all'ossido
di zinco si rivela utilissima per curare velocemente ed efficacemente tutte le
abrasioni e piccole vescicole che si sono formate ad entrambi, permettendoci di
camminare normalmente o quasi. Il nostro castello apre troppo tardi, per cui
continuiamo a camminare verso il museo della pesca. La pioggia si fa più forte
e forma una pozzanghera enorme ad un lato della strada, proprio quello del
nostro marciapiede. Mentre stiamo camminando passa un autobus e centra in pieno
la pozzanghera qualche decina di metri più avanti a noi: vediamo coi nostri
occhi cosa rischiamo nell’eventualità di trovarsi di fianco alla pozzanghera
quando passa un automobile. La pozza è lunga, un bel respiro e la superiamo di
corsa in un momento di calma del traffico, arrivando oltre ancora asciutti.
Cessato il rischio doccia, arriviamo nel quartiere industriale, dove sono
ormeggiate alcune enormi navi da trasporto container in attesa di partire per
chissà quale destinazione in giro per il mondo; probabilmente sono cariche di
merluzzi da esportare che produrranno enormi guadagni. Il museo della pesca apre
ancora più tardi del castello, da cui ritorniamo indietro, stavolta senza
bisogno di corse per superare le pozzanghere traditrici. L'interno è realmente
angosciante: prima di tutto visitiamo i sotterranei, le vecchie prigioni.
Finestre minuscole e claustrofobiche, così come le stanze, grandi quel tanto
che basta per vivere (?) ma non di più. Ci chiediamo stupefatti come fosse
possibile che degli esseri umani venissero rinchiusi in quelle celle di
isolamento così terribili, trattati come bestie indegne, e non troviamo
risposta per quanto ci sforziamo. Le scale sono estremamente strette, da salire
molto lentamente per evitare di incastrarsi, così come i soffitti e in
particolare le porte che sono bassissimi e ci si può tranquillamente pestare la
testa se non si presta attenzione. In compenso, la sala cerimoniale è enorme,
con il suo pavimento in legno un po’ scricchiolante e polveroso e il tavolo
ricoperto da un decoratissimo arazzo giallo. Una puntatina veloce alla cima
della torre per avere una visuale più generale della città, logicamente
splendida anche da lassù, per poi ridiscendere lungo quelle scale
claustrofobiche fino a terra.
Ci viene offerto un caffè gratuitamente al
vicino bar, grazie al nostro biglietto d'entrata. Approfittiamo volentieri di
questo insperato e corroborante spuntino, quindi riprendiamo la strada per il
museo della pesca che ormai è aperto. Abbiamo davanti agli occhi una carrellata
di tutti gli arnesi da pesca usati dai norvegesi, riproduzioni fedeli dei
pescherecci, gli enormi arpioni (veri!) usati per la caccia alle balene, lunghi
diversi metri e terribilmente potenti. Quegli arnesi squarterebbero un essere
umano in mille brandelli di carne sanguinante, con un colpo solo e senza alcuna
fatica: non vorrei certo essere al posto delle sventurate balene. L'atmosfera mi
ricorda molto Capitani Coraggiosi, un libro sempreverde letto anni e anni fa ma
che mai come ora sento vicino, con tutti quei grossi merluzzi seccati,
appiattiti e salati dal caratteristico odore penetrante e pungente, gli enormi
ippoglossi piatti come sogliole riprodotti a grandezza naturale. Di tutti quegli
attrezzi da pesca dalla strana forma non immaginiamo nemmeno la funzione, e
anche le reti da pesca sono una rivelazione: scopriamo da alcune riproduzioni in
scala che vengono messe sott'acqua a grande profondità, enormemente di più di
quello che pensassimo, per catturare tutto il pesce possibile in una singola
pescata. Come doveva essere difficile fare il pescatore qualche secolo fa, senza
le moderne navi accessoriate con ogni comfort e dotate di tutti gli attrezzi da
pesca intensiva ed automatizzata!
Dobbiamo ora trasferirci di ostello:
lasciamo un dormitorio da otto persone per approdare in uno da dodici. Le porte
si aprono anche stavolta a tessera magnetica e farebbero bestemmiare un santo da
quanto funzionano male. Gli inservienti stanno disinfettando le stanze, passando
lo straccio dappertutto insistentemente dopo averlo imbevuto e strizzato nel
secchio della candeggina. Non c’è nessuno nelle camere e non ci sono nemmeno
le lenzuola pulite posate sui materassi, sembra che siamo gli unici occupanti.
Capiamo che dobbiamo levarci dalle scatole per non intralciare le operazioni di
pulizia: dopo aver buttato gli zaini a terra, completamente incustoditi, ce ne
andiamo a visitare un altro villaggio, rappresentante l’antica Bergen, ora
tramutata in esposizione gratuita. Un po’ fuori dalla città, ancora una volta
dobbiamo prendere l’autobus. Superando ciò che assomiglia vagamente ad un
arco di trionfo romano, entriamo in questo piccolo agglomerato di casette a
punta, che si sviluppa in pendenza. Ormai iniziamo a conoscere l'architettura
delle case norvegesi, per cui non c’è più molto di nuovo da vedere, a parte
alcuni sentieri davvero piacevoli da percorrere con le siepi che li costeggiano
da ogni lato, inaugurati da staccionate bianche disposte a ventaglio. Il tutto
è accompagnato da stormi di piccioni, gabbiani ed anatre che coesistono
pacificamente a fianco del laghetto, camminando gli uni in mezzo agli altri
senza mai battibeccare per accaparrarsi le briciole di pane lasciate dai
visitatori. Troviamo un posto riparato per consumare il nostro fugace pranzo,
proprio mentre comincia a piovere. Non rimaniamo a lungo nel villaggio: al
ritorno optiamo per qualcosa da vedere al chiuso, evitando così la fastidiosa
pioggerella che sta diventando sempre più fitta ed insistente.
L’acquario
La scelta cade sull'acquario, stavolta
raggiungibile a piedi dal centro. Riprendiamo l'autobus dalla fermata in mezzo
alla superstrada e torniamo nei dintorni del porto, dove assistiamo ad una
scenetta davvero comica: un tale si è lanciato in acqua avvolto da capo a piedi
in una rete da pesca imbottita all'inverosimile di pop corn, e ora sta
lentamente nuotando a dorso verso la riva, gettando a manciate i pop corn che
vengono prontamente raccolti dagli uccelli nella zona. Chiede anche a tutti i
curiosi ammassati a riva, tra cui noi due, se ne volessimo qualcuno, con
un'espressione gioviale e compiaciuta dalla sua eccentrica prestazione. Dopo
averlo osservato per un po’ mentre cerca di togliersi la rete di dosso,
passiamo oltre, senza badare troppo allo strano personaggio.
Nell'acquario troviamo ogni genere di
animale pensabile, tranne i grossi mammiferi come le balene: nelle vasche
all'aperto ci sono i pinguini, esserini alti tre barattoli che paiono avere
perennemente freddo da come tengono le pinne raccolte attorno al corpo, i maschi
impegnati nella cova delle uova, tutti che camminano lentamente con la loro
goffa andatura caratteristica. Da dietro i vetri mi diverto per qualche secondo
a far impazzire uno sventurato esemplare sventolandogli velocemente la macchina
fotografica di fronte al becco e osservando la sua reazione mentre tenta di
seguirne il movimento, poi proseguiamo nella vasca delle grasse foche, un po’
pigre ma molto simpatiche. All'interno invece, in un clima tropicale artificiale
ed asfissiante, con palme e liane che calano da ogni dove, stanno i coccodrilli,
i varani e tutti gli animali della zona amazzonica: i coccodrilli sono
decisamente pigri, è difficile convincerli a fare qualcosa, tantomeno a farsi
fotografare. Alcune piccolissime scimmiette dagli occhi curiosi e attenti sono
chiuse in gabbia assieme ad un'iguana abilissima nel mimetizzarsi sui rami, mi
fanno un po’ pena lì dentro così, chiuse in un metro cubo di spazio in un
habitat artificiale che non potrà mai sostituire quello in cui sono nate per
vivere, ma almeno lì sanno che non verranno mai mangiate da nessuno, magra
consolazione. Nella zona delle vaschette c’è un’altra serie impressionante
di pesci diversi, inclusi ragni e stelle marine, ognuno con relativo commento
scritto e proiettato su un video. Alcuni hanno forme davvero curiose che
attirano l’attenzione, altri si nascondono timorosi di essere visti.
Vita cittadina
Facendo tappa ad ogni panchina pubblica per
far riposare le gambe, decisamente massacrate da tutto quel tempo passato in
piedi con pochissime soste, torniamo in ostello. Lì conosciamo un po’ di
gente nuova: due giapponesi inquietanti, uno dei quali si siede per terra
proprio di fianco al mio letto a tagliarsi le unghie dei piedi spargendone i
pezzi in giro, sotto il nostro sguardo un po’ divertito e un po’
infastidito. Poi un po’ di nordici biondissimi, e infine due ragazze bolognesi
della nostra età, anche loro munite di biglietto interrail, ma che si
limiteranno a sedici giorni dedicati interamente alla Norvegia. Parlando un
po’ scopriamo che hanno intenzione di esplorarla da cima a fondo, incluse le
tappe di Tromsø e Capo Nord che noi invece avremmo saltato per motivi di
mancanza di tempo, oltre che per i consigli di altri nostri amici che ci sono
stati e ne hanno parlato come zone tranquillamente trascurabili. Scambiamo un
po’ di chiacchiere con loro sugli ostelli visitati, sui nostri programmi di
viaggio e sulla città di Stoccolma, ultima meta del nostro interrail e che loro
ci assicurano essere splendida. In particolare consigliano di non perdersi il
famoso ostello nave!
Chiacchieriamo ancora un po’, dopodichè
le salutiamo per andare a mangiare fuori, questa volta intenzionati fermamente a
provare qualche piatto tipico, ci saremmo vergognati davvero troppo a non
comprare mai nulla che avesse il sapore del posto. Passando per la solita viuzza
che conduce al centro, giunge dal cielo l'ispirazione: un chioschetto poco
lontano dal porto sta vendendo degli hot dog di ogni genere, tra cui anche
quelli di carne di renna! Li agguantiamo immediatamente, sono squisiti, in barba
al vegetarianesimo che non è decisamente la nostra passione.
Con lo stomaco pieno riprendiamo a girare in
maniera molto disimpegnata per i negozi della zona, specie all'alimentari dove
contiamo di rifornirci: una volta provveduto ai generi di prima necessità, la
nostra attenzione si rivolge ai frigoriferi che stoccano la birra. Ce n'è di
ogni tipo, da quella che si trova in ogni angolo di supermercato anche a casa
nostra, fino a quelle tipicamente nordiche riconoscibili dalle effigi vichinghe
che recano sull'alluminio. Il prezzo sembra buono: circa tre euro per una
lattina da mezzo litro, ci fanno molta gola. Mentre stiamo valutando se sia il
caso di prenderle o no, allungando la mano per aprire il frigorifero così da
guardare meglio, Davide si accorge tutt'a un tratto che la maniglia è legata
strettamente con un fazzoletto di cotone bianco, per cui è impossibile da
aprire. Da cui passiamo al secondo, pensando che il primo sia guasto o chiuso
temporaneamente per motivi logistici: ma in un attimo, guardando meglio, le
nostre certezze crollano. Tutti i quattro frigoriferi sono infatti chiusi col
lucchetto, inaccessibili! Ci siamo cascati proprio come due pere cotte. In
Norvegia infatti il commercio dell’alcol è soggetto a severe limitazioni,
essendo il suo abuso un problema di rilevante gravità sociale: si possono
comprare alcolici solo dopo raggiunta la maggiore età ed esibendo un documento
di identità, l’età da raggiungere è direttamente proporzionale alla
gradazione. Ci sono pochi negozi, di monopolio di Stato, appositamente dedicati
alla vendita di alcolici, ma anch'essi sono soggetti a limitazioni, e il limite
di legge di alcolemia alla guida è tale che con nemmeno mezzo bicchiere di vino
si è già quasi certamente fuorilegge. Essere beccati ubriachi al volante qui
significa come minimo ventuno giorni di carcere senza condizionale, oltre ad una
salatissima multa! La legge norvegese è molto severa e non concede scappatoie,
a noi potrà sembrare esagerato, ma sono sicuro che così facendo di incidenti
mortali per guida in stato di ebbrezza qui ce ne sono molto pochi. Oltretutto,
gli alcolici comprati in bottiglia hanno una sovrattassa che verrà restituita
solo riportando il vuoto al negozio.
Non abbiamo voglia di grane e di trafficare
con documenti d’identità per berci una misera lattina di birra, da cui
torniamo in centro in cerca di altre amenità. L’insistente vento inizia a
spirare con parecchia forza, da cui per non soffrire troppo il freddo ci
mettiamo addosso i kee-way, unica protezione supplementare di cui disponiamo.
Quel che rimane della serata lo passiamo su una panchina ad osservare il
bellissimo tramonto che tinge di rosso e giallino le numerosissime nuvole
all'orizzonte, creando un quadretto del porto e delle casette di legno che pare
fiabesco. Le persone lasciano le barche su cui hanno sicuramente preso ben poco
sole oggi, le strade invece di svuotarsi si riempiono sempre di più di gente
che adora la vita notturna, particolarmente attiva qui al Nord.
Noi però sappiamo di doverci alzare presto
il giorno dopo, quindi non tiriamo troppo la corda e ritorniamo al nostro ovile.
Lì ci irritiamo non poco perchè le nostre tessere magnetiche non funzionano più,
o meglio funzionano una volta sì e dieci no. Dobbiamo litigare con la prima
porta per riuscire ad aprirla, e possiamo entrare solo grazie ad altri occupanti
che ci salvano con la loro tessera fortunatamente funzionante. Una volta dentro
i problemi non sono però finiti: la porta della camera si blocca
automaticamente qualche minuto dopo che è stata chiusa, costringendoci a
rimanere sempre almeno in uno in stanza per poter aprire all'altro che è
rimasto fuori. Per rendere più vivace la serata, uno dei giapponesi si
addormenta con il portatile ancora acceso, e dalle cuffie che ha sulle orecchie
si sente costantemente e chiaramente una fastidiosissima musica da film sempre
uguale, tremolante e ossessiva fino allo spasmo, che durerà fino alla mattina
quando ci risveglieremo. Commento rumorosamente questo fracassone, sicuro di non
essere capito, tra le risate del mio compare che dorme sopra di me nei letti a
castello, finchè non cedo al sonno e si dorme, finalmente. Giapponese
fracassone permettendo.
Sulla
Flamsbana
La terza giornata presso Bergen è
interamente dedicata alla natura ed ai fantastici paesaggi della zona dei fiordi
limitrofa, la più famosa della Norvegia. Indubbiamente le città sono
bellissime da visitare, ma la natura è sempre tre passi avanti all'uomo nel
creare opere d'arte, ed è il motivo principale per cui sono venuto qui al Nord:
entrare in comunione con la natura il più possibile.
In uno dei tre binari che si insinuano
dentro la struttura a tripla volta della piccola stazione, parte tra poco il
treno diretto a Myrdal, la prima tappa dalla quale parte quello che è descritto
come il più bel tratto panoramico dell’intera nazione, culminante nella
successiva gita lungo il fiordo in traghetto. Si preannuncia una scorpacciata di
natura e paesaggi veramente succulenta. Il treno arriva in orario, come è la
regola per i treni nordici. Velocemente arriviamo alla piccola cittadina di
Myrdal, da cui prenderemo la coincidenza per la storica linea denominata
Flamsbana. Al momento di comprare i biglietti abbiamo scelto di percorrerla in
discesa per vedere un panorama più ampio e goderci una pendenza vertiginosa. Il
treno è già lì pronto ad aspettarci. Siamo tutti trepidanti in attesa di
vedere questo famoso tratto, che si compie in poco meno di un'ora superando con
soli 20 km di tratto ferroviario un dislivello di circa 880 metri. Si tratta
della linea ferroviaria senza l’uso della cremagliera più ripida d’Europa,
e un indiscusso capolavoro di ingegneria, con tutte le sue curve incastonate
perfettamente nel coriaceo granito.
Il treno parte lentamente, ancora una volta
dopo quasi settant’anni di onorato ed ininterrotto servizio. Comincia la
discesa tenendo i freni sempre tirati, data la notevole ripidezza dei binari. Le
cascate sono numerosissime: dalle alte montagne che ci sovrastano da ogni lato
scendono in numerosi punti dei rivoli d’acqua a strapiombo, disposti quasi
regolarmente sulle creste rocciose. Dividono in più parti le montagne come una
riga tirata a pennarello, sembra un lavoro fatto da un geometra. La prospettiva
in cui ci troviamo li fa sembrare ancora più alti e minacciosi, con quell'acqua
che scende velocissima e che pare possa tagliare in due qualsiasi ostacolo le si
presenti lungo il percorso, come l’acqua ad alta pressione usata in
ingegneria, che riesce a spezzare in due perfino le lastre di marmo. I freni di
questo vecchio treno rivestito internamente di legno stridono in modo
acutissimo, lancinante, a volte quasi assordandoci. Si sente la locomotiva
incespicare e contrastare a fatica l’imperiosa forza di gravità che tende a
tirare giù tutti i vagoni verso il basso come un fulmine inarrestabile. In
alcuni punti vi sono delle gallerie scavate nella montagna: si aprono delle
finestre naturali in mezzo ad esse, tenute saldamente aperte da delle travi di
legno incrociate a mo’ di grata. Passandoci in mezzo sembra di essere
imprigionati dentro la roccia, ma è fortunatamente solo un’impressione: il
treno, seppur lentamente e frenando a fatica, prosegue la sua discesa.
Raggiungiamo dopo qualche minuto uno spiazzo panoramico in cui il treno si ferma
del tutto e lascia scendere i passeggeri sulla legnosa piattaforma, per
permettergli di ammirare la solenne cascata di Kjosfossen. Sgorga furibonda
dalla cresta della montagna pochissime decine di metri più avanti, e passa
proprio sotto il nostro ponticello. Questa è una vera cascata, molto più larga
dei rivoli visti prima, un vero e proprio fiume in piena che scende impetuoso,
cambiando più volte direzione quando incontra gli scogli indifferenti. È già
uno spettacolo emozionante di per sè, ma lo diventa ancora di più quando, da
degli altoparlanti nascosti dietro le rocce in posizione strategica a noi
invisibile, sale una musica molto evocativa e celestiale, sulla quale ballano
due ragazze biondissime che indossano vesti vichinghe. Le vediamo spostarsi
leggiadramente da un masso all'altro appena davanti alla cascata, danzando
leggere come l'aria sottile di montagna. Sono avvolte dalle nubi di spruzzi e
dal fragoroso rumore dell'acqua che scivola sulle rocce frangendosi in migliaia
di flutti, erodendole nel corso dei secoli con una forza enorme, spaventosa.
Nessuno si aspettava un simile intrattenimento, e rimaniamo tutti a bocca
aperta. Quando la musica finisce, le danzatrici spariscono nel nulla così come
sono apparse, lasciandosi cadere a peso morto al di là del masso. Prima di
poter dire qualcosa, il suono imperioso del fischietto del ferroviere rompe la
magia e ci richiama a risalire sulle carrozze: il viaggio deve proseguire. Le
gallerie nella roccia finiscono, ora siamo all'aperto e possiamo vedere molto
meglio la vallata sotto di noi: ancora cascate, prontamente filmate da Davide
con la sua inseparabile videocamera. Gli stretti fiumi d’acqua in caduta
libera si raccolgono a valle scavando una conca che va poi a formare degli
eleganti laghetti, oltre a provvedere a generare energia grazie alle centrali
idroelettriche sottostanti, abilmente nascoste per non deturpare la panoramica
della zona. Le fattorie e le casupole che si intravedono ogni tanto appese sui
monti fanno veramente domandare come facciano a vivere delle persone in un luogo
così isolato, e parliamo dell'estate, figurarsi in inverno. Questo in
particolare è un aspetto che mi ha sempre suscitato estrema curiosità: queste
persone vivono tutto l'anno in luoghi impervi, eppure sopravvivono lo stesso,
magari vivendo anche meglio di noi, troppo spesso presi dalla frenetica vita
urbana e costantemente sotto stress. Arrivati in fondo al meraviglioso percorso
c'è la cittadina di Flam, un minuscolo borgo portuale e commerciale che conta
circa cinquecento abitanti, e che è il punto di partenza per il nostro battello
che solcherà tutti i quaranta chilometri del Sognefjord, il maggiore fiordo
della Norvegia.
Sul Sognefjord
Il traghetto arriverà tra qualche ora, per
cui ci facciamo un giro spassionato per le piane che danno sul mare, circondate
sugli altri tre lati da montagne dal vago aspetto dolomitico. Non mancano le
zone dove potersi sedere per ammirare il panorama, ma preferiamo camminare un
po’ per sgranchirci le gambe dopo l'immobilità nel treno. Le montagne del
versante opposto a quello del porto sono molto vicine a noi, si gettano quasi a
perpendicolo in acqua come se fossero vette di tremila metri a cui sono stati
tagliati di netto i primi duemila, cadute poi verso il basso tutte di un pezzo
con la parte rimanente fino a impiantarsi sul livello del mare. In realtà la
parte inferiore è sommersa dall’acqua oceanica che si è insinuata fino a
questo punto dell’entroterra, ma riesce difficile immaginarlo, così come è
difficile rimanere indifferenti di fronte ad una singolarità simile. Mentre
aspettiamo, seduti in riva al golfo in una consueta pausa meditativa, due
bambine norvegesi bionde come il sole e munite solo di costume leggero si
tuffano in acqua, che deve essere gelida, senza provare il minimo brivido o
collasso. Rimaniamo allibiti: se lo dovessimo fare noi probabilmente andremmo a
fondo privi di sensi. Anche le persone che incrociamo sono spesso coperte solo
da magliette a maniche corte, al massimo da giacchette leggere, mentre noi
abbiamo freddo pur con addosso strati e strati di indumenti pesanti. Guardiamo
questi individui quasi insensibili al freddo con crescente irritazione mano a
mano che se ne presentano altri ai nostri occhi: com’è possibile che loro non
soffrano minimamente vestiti così poco, mentre noi non possiamo tirare giù la
cerniera della giacca senza congelare dopo pochi minuti? Forza dell'abitudine a
vivere in paesi freddi e a passare qui lunghi mesi invernali dove il sole sorge
con una luce flebile solo per pochi minuti, o addirittura non sorge affatto. Il
cielo, fino a poco prima discretamente nuvoloso, inizia a scurirsi e a coprirsi
di nuvole nerastre: non passerà molto tempo prima che si rimetta a piovere.
Riusciamo a mangiare tranquilli su una panchina le nostre poco invitanti
cibarie, e non appena finito iniziano a cadere i primi goccioloni. Manca solo
una mezzoretta prima che arrivi il nostro traghetto a prelevarci. La traversata
dura circa quattro ore, un vero peccato che il tempo sia così brutto: i fiordi
visti dalla barca sono meno emozionanti di quello che abbiamo potuto ammirare
giorni prima dal Preikestolen, un po’ oscurati dal tempo uggioso, ma la
traversata si rivela comunque piacevole, anche se nell'ultima parte un po’
monotona: dopo qualche ora l'occhio si abitua al paesaggio e non reagisce più
se non nei punti in cui veramente è impossibile non stupirsi. Inganniamo il
tempo ascoltando musica, giocando a carte, facendoci domande sui nostri
rispettivi argomenti di studio che sono infermieristica e ingegneria meccanica:
un buon modo per divertirsi ad interrogarsi e imparare anche qualcosa di nuovo.
Poco prima del ritorno a Bergen, il comandante supera se stesso con un annuncio
decisamente divertente, in perfetto inglese: "Vi ringraziamo per essere
stati a bordo con noi, tra poco saremo arrivati e potrete scendere, ma se le
ragazze vogliono trattenersi di più, sono ben accette!". Tra le risate
generali, la piccola nave si ferma lentamente all’ormai conosciuto porto di
Bergen, e appena smontati puntiamo subito all’ostello. Non abbiamo voglia di
far altro che dormire.
Bergen
Intorno alle sei e mezza vengo bruscamente
svegliato dall'allarme dell'ostello, non riesco a concepire che un buco del
genere disponga anche di un allarme. La fastidiosissima campanella trilla
proprio fuori dalla nostra porta, ossessivamente: probabilmente è scattata per
un contatto elettrico o qualche movimento di un grosso insetto che ha perso la
via di casa. Nessuno si alza per controllare cosa sia successo, e non appena uno
dei norvegesi vicino alla porta inizia ad uscire dalle lenzuola, la campanella
improvvisamente tace. In un attimo ripiombiamo tutti nel sonno, eccetto Davide
che non si è nemmeno svegliato, unico di tutta la camerata a non aver levato la
testa. Quando non molto dopo ci svegliamo tutti e due, stavolta grazie alla ben
più discreta e mite sveglia nel telefonino, lasciamo finalmente anche questo
dormitorio mentre stanno ancora quasi tutti ronfando beatamente. Abbiamo così
voglia di andarcene che non facciamo nemmeno colazione. In particolare lasciamo
con grande piacere i giapponesi pazzi, le tessere magnetiche malfunzionanti e
gli allarmi che partono ad ogni volo di mosca. Buttiamo in qualche modo le
lenzuola sporche in fondo al sacco di recupero e andiamo via senza fare rumore,
il più velocemente possibile.
In questa fredda mattinata finiamo di
visitare la città, iniziando con la chiesa di San Giovanni, rossa e fiera che
si staglia in fondo ad un viale in pendenza, dove sono parcheggiate delle
macchine talmente inclinate da stupirsi che non rotolino giù per la forza di
gravità. Altissima, di forma appuntita, con le guglie verdi e l'onnipresente
arco a sesto acuto tipicamente gotico, il mio stile di costruzione preferito.
Purtroppoè il suo giorno settimanale di chiusura, da cui non possiamo entrare
nemmeno in questa. Dopo questa piccola interruzione nei nostri numerosi aiuti
dalla dea bendata, un altro giretto nella zona più elevata della città, per
fermarci poi di fronte ad uno stagno pieno di anatre e ninfee, divertendoci ad
osservarle mentre galleggiano beate in acqua senza alcuna preoccupazione. Loro
non devono pensare a dove avrebbero dormito il giorno dopo, né ai posti da
prenotare in ostello, né alle coincidenze perse, tutte cose con cui noi abbiamo
a che fare quasi quotidianamente da una settimana, abbastanza stressanti perchè
non finiscono mai, ma allo stesso momento eccitanti e coinvolgenti, trasudanti
spirito d'avventura e di rischio che ogni ventenne che si rispetti dovrebbe
avere. Ormai ci manca poco a lasciare questa affascinante città, da cui
ritorniamo alla stazione ad attendere ancora per qualche ora il treno che ci
riporterà ad Oslo, per poi prendere la coincidenza per Trondheim, la nostra
prossima tappa.
Ci sediamo sulle non troppo comode panchine
di legno della stazione, in paziente attesa. Ognuno è immerso nei propri
pensieri, guardando i pochi treni che la stazione può contenere mentre arrivano
e ripartono, dopo che le inservienti li hanno lustrati da cima a fondo per non
lasciare i passeggeri seguenti sguazzare nella (poca) sporcizia lasciata dai
precedenti. Osserviamo la gente che si muove senza sosta da una piattaforma
all'altra, tutti che posano una parte della loro vita sulle fredde pietre del
pavimento della stazione, erodendo impercettibilmente quel suolo così vissuto.
Anche noi ora siamo parte di tutto questo, orgogliosi di poter dare il nostro
contributo a questo eterno viavai. Lo spirito di chi ama viaggiare si nutre di
questi momenti: anche l'apparente noia delle ore passate ad aspettare il treno
in silenzio ha il suo fascino. Lascia tutto il tempo per pensare, per
riflettere, per fantasticare su quella che sarà la prossima meta, su come sarà
il prossimo treno su cui salirai, su quante cose ti rimangono ancora da vedere e
su come il tempo piano piano stia passando e stia divorando una tappa dietro
l'altra, lasciandoti a bocca aperta per quanto passa velocemente. Sembra così
lunga una vacanza quando si è all'inizio, magari anche scoraggiante per le
risorse mentali e fisiche che ti richiederà, poi un giorno ti svegli ed è già
finita, e questo è un mistero che temo non potremo comprendere mai pienamente.
Ma la vacanza ora è tutto meno che finita, è ancora tutta da vivere, e questo
è meraviglioso. Non posso fare a meno di ringraziare non so chi per avermi dato
la possibilità di essere qui ora, con il corpo e la mente sani, cosa che troppo
spesso diamo per scontata ma sulla quale purtroppo non abbiamo mai certezza.
Mentre ci immergiamo nei meandri della
nostra mente, che nessun altro oltre a noi stessi potrà mai indagare e
conoscere, ci pensa un'ape a risvegliarci e a riportarci nel mondo reale:
infatti ha appena punto l'orecchio di Davide, senza che lui abbia fatto il benchè
minimo movimento che potesse anche lontanamente innervosirla. Sappiamo che è un
ape poichè il pungiglione, ancora infisso nella carne molle del padiglione
auricolare, si è trascinato dietro anche le interiora del temerario insetto. Ha
punto sapendo di morire poco dopo, scardinandosi l'addome a differenza della ben
più cattiva vespa che punge più e più volte senza timore di uccidersi. La
zona offesa diventa subito gonfia e dolorante, ci vorrebbe del ghiaccio, ma non
abbiamo granchè sottomano. L’unica idea che mi viene è di usare la
confezione metallica degli sgombri al pomodoro, l'unica cosa fresca che abbiamo
a disposizione, da mettere sull'orecchio per alleviare dolore e gonfiore. Non è
esattamente un metodo ortodosso, ma funziona!
Facciamo quattro passi per calmare le acque
agitate dalla spiacevole puntura e per rinfrescare la parte dolorante con un
po’ di vento, passando per delle vie ancora non battute in cui però non
troviamo nulla di interessante. Poco prima che il treno si presenti al capolinea
recuperiamo i bagagli dagli indistruttibili cassetti metallici e ci troviamo a
lottare ancora una volta con la massiccia presenza di vespe assassine che sembra
proprio ce l'abbiano con noi e solamente con noi. Riusciamo a scacciarle solo
dopo numerose sventolate di berretti e di mani, finchè finalmente il treno
arriva e ci porta via dalla stazione, liberandoci dal tormento di questi
fastidiosi insetti, mai così aggressivi come in questi ultimi giorni.
Notte in treno
Ci aspettano sedici ore complessive da
passare in carrozza, spezzate solo dal breve cambio che dovremo fare poco prima
della mezzanotte. Dobbiamo ripercorrere lo stesso tratto di ieri fino a Myrdal,
per poi ridiscendere verso la fermata di Hønefoss a poca distanza dalla
capitale, nella quale cambieremo treno e risaliremo con il diretto per Trondheim.
Purtroppo non esistono collegamenti ferroviari diretti tra Bergen e Trondheim,
che ci farebbero guadagnare quasi una giornata, mentre gli altri mezzi di
trasporto come il traghetto hanno un costo proibitivo per le nostre finanze,
oltre ad essere notevolmente più lenti. Lungo la strada vediamo ancora tante
impetuose cascate, un violento temporale che si conclude poco dopo con uno
stupendo arcobaleno che taglia in due le montagne rocciose ed irregolari, altro
regalo di una natura veramente generosa nei nostri confronti. Forse è
segretamente sensibile al nostro ardente desiderio di vedere le meraviglie che
riesce a creare gratuitamente, ed è disposta a regalarci un po’ della sua
ricchezza. La vista dell’arcobaleno fa dimenticare per un attimo tutti i
timori, il dolore per la puntura e la noia del lungo viaggio.
Siamo un po’ preoccupati per la
coincidenza che dovremo prendere ad Oslo, dato che il treno ha più di
mezz’ora di ritardo, probabilmente dovuta ad un guasto: ma ancora una volta
non dobbiamo preoccuparci. Sfrecciando velocemente e senza fermarsi, questa
scatola di latta semovente recupera totalmente i minuti perduti, e l'apprensione
svanisce presto quando abbiamo in mano i biglietti per Trondheim mentre la
coincidenza arriverà a minuti. Controllando meglio i biglietti che abbiamo in
mano però ci accorgiamo che segnano un orario diverso! Tra le scuse del
commesso ci vengono cambiati, e per fortuna che ce ne siamo accorti in tempo. Il
treno è ormai prossimo alla stazione, da cui ci portiamo velocemente sul
binario. Dalla fretta di salire sbagliamo la carrozza, entrando in quella dei
vagoni cuccetta: ci troviamo a dover scavalcare precipitosamente tutti i
numerosi passeggeri muniti di borsoni grandi quanto i nostri che stanno salendo
dietro di noi, per poter raggiungere la carrozza giusta, non essendoci in quel
vagone alcun collegamento diretto con le carrozze normali. Liberi dalla folla
dopo non pochi sforzi e contorsioni negli stretti passaggi dei vagoni,
riprendiamo la via per il nostro vagone che è proprio in fondo al treno,
trovando ancora i gentili regali per aiutarci a dormire meglio. Mi sono
preparato al peggio dopo la precedente esperienza di notte dormita (?) in treno,
infatti stavolta non voglio nemmeno tentare di addormentarmi, vada come vada: se
dormo va bene, altrimenti preferisco rimanere sveglio, tollererei di più una
notte completamente in bianco piuttosto di una dormita pochissimo e malissimo.
Effettivamente, non va molto meglio: dormo complessivamente solo un'ora (ma è
già un deciso miglioramento, se confrontata col nulla), dalle sei alle sette di
mattina. Ma stare sveglio mi offre ancora una volta una cospicua ricompensa:
intorno alle cinque e mezza, mentre il mio compagno è tranquillamente
appisolato, assisto ad una spettacolare alba, con le sue luci e i suoi colori
che mi lasciano ancora una volta a bocca aperta mentre il treno prosegue spedito
tra i monti, indifferente a quella meraviglia.
Trondheim
Poco prima dell'arrivo alla stazione di
Trondheim ci svegliamo tutti e due, uno dal sonno vero e proprio e l’altro dal
dormiveglia, ancora rimbecilliti e con ben poca voglia di passare un'altra
giornata a girare per una città, ma dobbiamo farcela lo stesso. A Trondheim
dedichiamo solo una giornata, prima di ripartire alla volta di Bodø. Arriviamo
verso le sette e mezza, con la luce del sole ormai piuttosto forte, stanchi
morti e con la mente un po’ rallentata nonostante abbiamo dormito un po’ di
più della volta precedente. Il clima è molto più rigido ora, è assolutamente
necessario mettersi su anche il secondo maglione e la giacca. Il cambiamento di
temperatura così repentino ci stupisce, ma siamo pur sempre un bel pezzo più a
nord di prima, ed è mattina presto. Non abbiamo molta fretta di gettarci
nell’esplorazione della città, da cui tento di dormire ancora un po’ non
appena individuo una (rara) panchina completamente sgombra nella stazione. Il
mio tentativo però non va a buon fine: la panca è troppo rigida e i miei cicli
circadiani sono troppo scombussolati per riuscire a prendere sonno, e anche se
ci riuscissi probabilmente dormirei solo pochi minuti svegliandomi ancora più
imbesuito. Così desisto e mi accorgo della mia vescica decisamente tesa, che mi
sta mandando chiari segnali per dirmi che ha una gran voglia di svuotarsi: la
sorpresa è che i bagni della stazione sono a pagamento, o si pagano cinque
corone o la si tiene. Fortunatamente riesco ad approfittare delle circostanze e
ad entrare gratis quando l'uomo delle pulizie apre la porta dall'interno,
proprio mentre sto ispezionando la serratura della porta cercando un modo di
eludere il sistema di blocco automatico. Vede la mia espressione un po’
spaesata, con i capelli ancora completamente arruffati e gli occhi iniettati di
sangue, e subito mi dice con fare rassicurante e quasi paterno che quello è il
bagno, sì proprio quello, posso entrare...di sicuro non posso rifiutare
l’offerta! Sono d'accordo sul fatto che pagando più tasse i nordici si
assicurano migliori servizi, in fede alla loro filosofia “dalla culla alla
tomba”, ma sborsare denaro perfino per andare a fare pipì mi sembra veramente
eccessivo, è quasi crudele. Eppure, la maggior parte delle toilette delle
stazioni e dei centri commerciali nordici è a pagamento. In alcuni si paga
direttamente all'entrata, in altri solo se si deve usare la tazza, mentre gli
orinatoi sono gratis: è tragicomico vedere tutte le file di bagni con la porta
chiusa da un robustissimo lucchetto, magari quando non hai le monete giuste in
tasca e stai per fartela addosso. Chiusa la parentesi bagni pubblici, facciamo
una veloce colazione con quello che c'era rimasto di succhi di frutta, stavolta
decenti, e contornando con biscotti previdentemente scelti tra quelli meno
zuccherati, quel tanto che basta per darci la forza di uscire dalla stazione e
cominciare a camminare senza subire attacchi intestinali, il resto verrà da sé
appena preso il ritmo giusto.
La prima tappa è la stupenda cattedrale di
Trondheim, di nome Nidarosdomen: è la più grande della nazione e considerata
spesso come la più bella di tutta la Norvegia. Effettivamente, è splendida: di
stile romanico-gotico, enorme e maestosa all'esterno con quelle decine di statue
in fila che ti osservano dall'alto e le svettanti guglie. All’interno è ancor
più magnificente, con il suo rosone di vetro sapientemente colorato che è una
delizia per gli occhi, tutto in spazi enormi che avranno richiesto un lavoro
titanico coronato da decenni di sudore e devota tenacia per essere completato.
All’interno c’è quello che sembra un set per girare un film, apprendiamo
presto che si sta preparando una grande recita tradizionale in nome di una
ricorrenza storica della città che cade proprio quel giorno. Due attori vestiti
in abiti tradizionali stanno incrociando le loro spade di legno con
disinvoltura, provando e riprovando finchè le loro mosse non saranno perfette.
Dopo averli osservati per un po’, usciamo dalla grande cattedrale per una
giusta pausa di riposo atta a rifocillarci, assediati come non mai dalla fame e
soprattutto dalle vespe che non ne vogliono sapere di lasciarci in pace ovunque
andiamo, indifferenti ai nostri colpi di mano armata di berretto. Un breve
spuntino, dopodichè un giretto in centro, anche qui come a Bergen pieno di
vita: c’è una fiera medioevale completa di bancarelle (strano!), suonatori
ambulanti di viola, perfino un giovane fabbro che sta dando una dimostrazione di
come si forgia una spada. La batte infinite volte col martello per rimuovere più
impurità possibili, per poi metterla a raffreddare in acqua producendo la
classica fumata bianca che si sprigiona dalla punta arroventata e luminosa.
Quando la punta tocca con troppa violenza una superficie esplode in centinaia di
piccole scintille che vanno a spegnersi spontaneamente nell’aria senza più
lasciare traccia. Piena tradizione norvegese che si assimila attraverso i sensi,
col clangore ossessionante del martello sul coriaceo metallo che stanca il
martello e la staffa dell’orecchio, l'odore del pesce fresco che stuzzica
insistentemente i recettori olfattivi presto saturati, la vista di tutte quelle
cose nuove che stiamo imparando su questo straordinario e fiero popolo. Dopo la
mostra visitiamo la fortezza della città, che dalla sua posizione sopraelevata
domina tutto il paesaggio sottostante. Uno stretto sentiero in mezzo a dei verdi
boschetti ci porta in uno spiazzo erboso molto ampio, che circonda il vecchio
castello: entro le spesse mura troviamo ancora cannoni ornamentali ma che una
volta sparavano davvero, ammassi di roccia, strapiombi senza protezioni e
qualche panchina su cui sedersi ad ammirare l’intera città dall’alto, con
l’oceano e le onnipresenti montagne sullo sfondo. Tornando indietro, in fondo
ad una discesa notiamo un congegno a dir poco insolito: è una specie di binario
metallico che percorre tutto il dislivello, sembra un montascale. Scopriamo
subito dal cartello indicativo di cosa si tratta: è un montacarichi per le
biciclette! Si incastrano nei supporti e il macchinario le porta fino in cima
alla salita, per non doversela fare in sella a morire di fatica, o spingendo la
bicicletta a piedi. Geniale! Lassù pensano proprio a tutto. Successivamente
tocca al quartiere pescatori, molto simile al Bryggen, con due file di case
bianche, rosse, azzurre, gialle e verdi che si estendono a perdita d’occhio.
Ce n’è anche qualcuna più rustica senza vernice, tutte si ergono su
palafitte immerse nell'acqua che separa i due filari, visibili in tutta la loro
bellezza dal rosso ponte che unisce i due lati.
Apatia
La stanchezza della pesante nottata comincia
a farsi sentire prepotentemente, stiamo iniziando a trascinarci piuttosto che a
camminare, e ciò sfocia in un brutto momento di noia ed apatia, quando le forze
vengono meno e si vorrebbe solamente essere a casa propria a dormire, senza
dover prendere altri treni o dover camminare ancora per chissà quanti
chilometri in giro per le città affollate. Forse anche il pensiero
dell'ennesima notte in treno che ci aspetta proprio quella sera per raggiungere
Bodø rende così pesante la fatica, amplificandola. Tutta questione di
psicologia, probabilmente: l'ultimo giorno di lavoro della settimana si sopporta
meglio del primo, sapendo che gli seguirà il fine settimana. Per riprendersi è
sufficiente scavare un po’ più a fondo dentro di sè per ritrovare la
motivazione e le risorse necessarie ad andare avanti: poco alla volta, dopo una
sosta in stazione per riprendere fiato e colore, in cui cerco nuovamente di
dormire su quelle rigidissime panche di metallo ma senza successo, ci
riprendiamo in parte da quella condizione di passività che rischiava di
prenderci totalmente. Aspettiamo il treno per Bodø, tappa che mio padre fece
nel lontano 1971 per vedere il surreale eppur reale spettacolo del sole di
mezzanotte, quando fece tutto il giro della Norvegia come noi, ridiscendendo poi
dalla Svezia fino a completare il percorso in Danimarca. Non potremo vedere il
sole vero e proprio, con nostro grande rammarico: la stagione è già troppo
inoltrata. Non ci muoviamo più dalla panca della stazione, preferiamo
risparmiare il più possibile le energie residue per la giornata di domani, che
sarà altrettanto impegnativa. Il tempo lo passiamo come possiamo, un po’
nella noia e un po’ tentando qualche argomento di conversazione per tenerci
svegli: osserviamo il modellino di plastica rappresentante la linea tranviaria
locale, un tempo funzionante ed attivato da un bottone, ora solamente
ornamentale. Il mio compare si diverte a interrogarmi sulle tecniche di
lavorazione che ha subito il portalampada della stazione prima di essere
installato sopra la nostra panchina: sarà stato tornito, fresato o chissà
cos’altro? E la maschiatura dei bulloni cos’è?
Mentre rispondo alle domande, un po’
arrampicandomi sugli specchi un po’ ragionando, passa un anziano signore
dall’aspetto decisamente trasandato e decrepito, vestito da custode della
stazione ma non certamente in grado di svolgere questo lavoro: infatti è
incassato in una motoretta per handicappati che lo avvolge tutto. Tale mezzo si
muove molto lentamente sulle quattro piccole ruote, continua ad andare avanti ed
indietro senza sosta, non si capisce proprio dove voglia andare. Alla fine il
tizio decide di andarsene, uscendo dalle porte ad apertura automatica, e
tardando troppo a uscire dal raggio d’azione: SBAM! Le porte si sono chiuse
contro la macchinetta, fortunatamente non fracassandola. Poi sparisce nel nulla,
sempre lentamente. La curiosità verso quest’uomo così strano scema
progressivamente, fino a svanire.
Ormai si sta facendo sera e di lì a breve
arriverà il nostro treno: mi attende un'altra notte in bianco? Questa volta no:
nonostante stavolta non ci diano nè coperte nè mascherine nè tappi per le
orecchie, dormiamo quasi normalmente. Io addirittura raggiungo le tre o forse
quattro ore di sonno, poche in assoluto ma tantissime in proporzione, in ogni
caso sufficienti ad un degno recupero di energie. Questo nonostante la presenza
di due cani e due neonati nel vagone, i primi che contrariamente alle
aspettative non si fanno sentire nemmeno con un verso per tutta la notte, i
secondi che urlano spesso e volentieri, con i genitori che invece di farli
smettere li incoraggiano, o almeno così ci sembra. In ogni caso non si danno
molta pena a farli tacere, da perfetti maleducati.
Queste quattro orette dormite, probabilmente
favorite dal sedile molto più reclinabile all'indietro dei precedenti, mi
salvano la vita e rigenerano un po’ lo spirito, non credo che avrei sopportato
un'altra notte quasi totalmente in bianco. La mattina successiva dovremo essere
svegli e ricettivi al massimo, per prendere al volo il traghetto per le
conosciute isole Lofoten. Bodø sarà solo una stazione di passaggio, non
essendo un luogo di attrazione turistica se non fosse che è una delle posizioni
migliori per vedere il sole di mezzanotte, sul quale ha costruito la propria
fortuna. La luce notturna che si intravede di notte intorno alle tre e mezza, in
un momento di veglia temporanea, mi regala altri momenti indimenticabili di
meraviglia e ammirazione.
Bodø
Le foreste sterminate nei pressi di Bodø
sono lo scenario che ci appare davanti agli occhi la mattina prestissimo, quando
ci destiamo con largo anticipo per essere pronti a scattare verso il porto non
appena messo piede a terra. Il treno supera silenziosamente il limite del
Circolo Polare Artico, senza che ciò venga annunciato da alcun altoparlante,
rispettoso del sonno dei viaggiatori: siamo ora nella magica terra del sole di
mezzanotte e della notte polare. Superare questo confine invisibile riempie di
soggezione: essere oltre il Circolo è un po’ come essere in un altro mondo.
Qui si trovano gli ultimi avamposti umani prima delle gelide terre polari, e
raggiungerli è un’altra emozione fantastica.
Ancora non siamo arrivati a Bodø, però.
Non conosciamo nulla di questa città nè dell'ubicazione della sua stazione
navale. Andiamo perciò praticamente alla cieca, sperando di prendere il
traghetto della mattina, o ci sarebbe toccato quello del primo pomeriggio, che
ci avrebbe fatto perdere un sacco di tempo inutilmente, bloccati in una
cittadina dove non c'è veramente niente da vedere nè da fare. Oltretutto siamo
in ritardo di quasi un’ora rispetto agli orari previsti, stavolta non
recuperata: quell’ora fa sì che arriviamo proprio in coincidenza con
l’orario teorico di partenza del traghetto. Mentre il treno si sta lentamente
arrestando al capolinea assoluto delle ferrovie norvegesi, noi siamo già pronti
con gli zaini in spalla, allacciati sotto la vita per scaricare meglio il peso
sui forti muscoli lombari. L'adrenalina è già in corpo a dosi massicce,
sapendo che abbiamo solo pochi minuti per arrivare in tempo, non sentiamo
nemmeno il freddo pungente della mattina artica. Appena scesi non perdiamo un
secondo: la corsa è disperata. Chieste il più velocemente possibile alcune
informazioni alla ragazza che vende i biglietti in stazione, intravedo in
lontananza dell'acqua, e deduco che da quella parte ci dev'essere il porto
appena indicatoci. Una volta arrivati in zona però non vediamo in giro anima
viva, c'è un singolo traghetto attraccato in lontananza che sembra in procinto
di partire, ma non ha scritto niente sulle sue fiancate o da altre parti, da cui
non possiamo sapere dove sarà diretto. Per giunta non c'è nemmeno l'accenno di
una biglietteria, la situazione si sta facendo critica. Rischiando di farci
investire dalle automobili che passano lungo il curvone, attraversiamo la strada
e troviamo casualmente due ragazzi in motocicletta fermi davanti alla barca,
unici esseri umani nel raggio di un chilometro quadrato, che stanno aspettando
di salire con il loro mezzo. Gli chiediamo dove possiamo fare i biglietti, loro
rispondono indicandoci vagamente una zona di costruzioni distante circa un
centinaio di metri, al che corriamo ancora più veloci per fare questi
fantomatici biglietti. La cintura dei pantaloni non tiene e quasi mi cadono a
terra mentre aumento sempre di più la velocità, compatibilmente con il mio
fiato. Arriviamo trafelati in questo complesso di baracche bianche con il tetto
grigio, adibite a bar e servizi igienici, ma di biglietterie nemmeno un’ombra
sbiadita. Ormai disperati, torniamo altrettanto velocemente alla nave, sperando
che ci sia permesso fare i biglietti direttamente a bordo, ammesso che tale nave
sia effettivamente diretta a Moskenes, il paesino a sud dell’arcipelago
Lofoten. La moto dei due ragazzi si è appena accesa e sta entrando nel vano
veicoli: il controllore sta per chiudere il passaggio. Riusciamo ad entrare per
un pelo e a fare i due biglietti direttamente davanti al controllore, dopo aver
ricevuto la conferma che la destinazione è la nostra. Mentre stiamo ancora
cercando le monetine di calibro più piccolo per pagare esattamente la cifra
dovuta, la piattaforma di metallo si rialza velocemente e chiude l'entrata a
qualsiasi altra persona o veicolo che volesse salire.
Isole Lofoten in vista
Ancora totalmente increduli per essere
veramente riusciti a prendere il traghetto, troviamo i primi posti a sedere
disponibili e ci lasciamo cadere quasi a peso morto sulla morbida tela violacea
che li ricopre, con gli zaini ancora allacciati in ogni punto. Col fiatone che
non è ancora passato, ci guardiamo con aria stralunata ma indescrivibilmente
felice, non so come avremmo potuto reagire vedendo il traghetto partire senza di
noi proprio sotto gli occhi, condannandoci a cinque ore di inutile attesa. Il
computer di bordo sopra le nostre teste ci informa che la traversata durerà un
paio d'ore: è scritto tutto, la velocità della nave, quella del vento e la
direzione in cui spira, la posizione sulla carta geografica che stiamo
occupando, la forma dell'itinerario percorso. Anche qui v’è la striscia
colorata che si allunga mano a mano che la nave prosegue nella sua traversata.
Inizialmente non mi accorgo nemmeno che siamo in movimento, sono troppo
concentrato sul colpo di fortuna assurdo che ci è appena capitato. Quando
Davide esce per fare delle riprese con la videocamera, io non ho nemmeno la
forza di alzarmi, sono ancora scosso e preferisco rimanere seduto a lasciare
scaricare l'adrenalina spontaneamente, con le gambe che mi tremano ancora
leggermente. Un po’ di succo di frutta, l'ultimo rimasto, toglie l'aridità
della gola, la barretta di cioccolato mi ridà forza, fino a che mi avventuro
fuori anch’io: solo ora dopo parecchi minuti mi accorgo che Bodø si sta
allontanando e le creste rocciose delle Lofoten si avvicinano. Il forte vento mi
fa presto rientrare, per ora ho solo voglia di starmene dentro tranquillo e
rilassato in un ambiente caldo, finchè non mi sarò completamente ristorato.
Quando però le isole sono vicine, non posso esimermi dal tornar fuori a
vederle: sono veramente uno spettacolo unico. Già da lontano si nota che le
montagne hanno qualcosa di strano, insolito per un'isola come siamo abituati a
vederle: sembrano dei grossi denti che spuntano direttamente dall'acqua, in gran
parte irregolarmente frastagliati ed aguzzi, quasi tutti piegati in un unica
direzione. Come se ci sia un dente del giudizio che li costringe a spostarsi
lateralmente accalcandoli gli uni contro gli altri, o come se ci sia una forza
gravitazionale invisibile sopra l'isola che attira irresistibilmente le cime
delle montagne tutte da una parte. Ci avvicinamo sempre di più al punto di
attracco per la nostra nave, osservando molto intensamente queste strane rocce e
il paesino che sta appena sotto di loro: è il tempo di visitare il paese delle
meraviglie.
Moskenes
Questo villaggio nella punta meridionale
delle isole è il nostro punto di arrivo, e non appena messo piede a terra lo
sbalordimento non fa che aumentare: la tipologia di montagna è identica alle
Dolomiti dall'altezza di circa duemila metri in su, esclusivamente erbose e
totalmente spoglie di vegetazione arborea o anche arbustiva, direttamente
stagliate sull'oceano senza terreni a fare da divisorio, tutte così
curiosamente inclinate. Quello che sembra un telo rosso è in bella vista vicino
alla cima di una di queste montagne, cerchiamo di capire cosa sia: una tenda? Un
segnale di pericolo? Non ci viene in mente nulla di convincente per spiegarlo.
Ci concentriamo meglio su ciò che abbiamo immediatamente davanti agli occhi:
Moskenes è un borgo turistico piccolissimo ed insignificante, con un ufficio
informazioni però efficiente: per queste isolette dimenticate dal mondo, la
pesca ma soprattutto il turismo significano tutto, per il sostentamento. Lì
scopriamo che presto passerà un pullman che ci porterà ad Å, il paese
monolettera che è un po’ il punto di riferimento delle Lofoten meridionali.
Ancora con gli occhi non abituati a questo ben poco comune panorama insulare, ci
sediamo pazientemente ad aspettare questo fantomatico bus, ma non si vede nulla
arrivare. Siamo in pochissimi, la zona è di un silenzio quasi totale, rotto
solo dai rari commenti dei pochi turisti. Diverse automobili sono ferme
aspettando di entrare nel prossimo traghetto che le riporterà sulla terraferma,
ma nulla si muove. Arriva da lontano un anonimo furgoncino che supera la piccola
chiesetta bianca del paese, passa oltre a noi senza fermarsi e parcheggia dietro
il centro informazioni, sparendo dalla nostra vista. Non ci facciamo molto caso,
finchè Davide avanza un'ipotesi audace: non sarà quello il nostro pullman?
Presi dalla curiosità andiamo a controllare, e l’intuizione si rivela
azzeccata: grande poco più di un furgoncino dei gelati ambulante, conta solo
quattordici posti a sedere. Questo è il mezzo che ci porterà fino ad Å, in
soli dieci minuti di strada.
Verso Å
Saliamo divertiti su questo trabiccolo un
po’ malandato ma onesto, per goderci dieci minuti di strada assolutamente
indimenticabili: lo spettacolo che offrono queste isolette è impareggiabile, si
conquista immediatamente il primato di posto più bello al mondo che ho visitato
finora, e ce ne vorrà prima che qualche altro lo superi. Semplicemente
meravigliose. Ovunque ci giriamo ci sono baie, casette rosse su palafitte o
incastrate in mezzo alle rocce costiere su cui cresce solo della fragile erbetta
o qualche raro arbusto abbarbicato su se stesso e piantato saldamente nella poca
terra presente, barchette da pesca ormeggiate sotto le case, cespugli di fiori
circondati da innumerevoli laghetti, golfi che penetrano fin nei villaggi grazie
a strettissime aperture nelle coste rocciose, montagne di nuda roccia appuntite
e arzigogolate che ci sovrastano incastonandosi perfettamente con la geometria
dei villaggi e strapiombando sull'oceano immenso, un paesaggio che sembra uscito
dalla penna del più fantasioso scrittore di favole mai esistito a questo mondo.
I quadri nel museo di Oslo non erano semplice fantasia. Penso subito che quando
sarò pensionato vorrò trasferirmi qui a vivere gli anni che mi restano. Ancora
oggi ci sto pensando.
Il villaggio di Å è altrettanto
meraviglioso: conta circa un centinaio di abitanti, è quanto di più appartato
e rustico si possa pensare. Nonostante abbiano tutti l'accesso a Internet grazie
alla galoppante diffusione della tecnologia, questo vecchio e fiero borgo di
casette rosse con i tetti grigi, abitato da pescatori e innumerevoli gabbiani,
resiste al passare del tempo senza abbandonare le sue tradizioni nè un briciolo
della sua storia, piccola ma significativa. Ogni singolo angolo di strada è
veramente pittoresco: c'è un unico negozio di alimentari di legno bianco che
utilizza ancora il vecchio metodo delle etichette arancioni incollate con
scritto sopra il prezzo delle merci, il registratore di cassa è manuale come si
usava tempo fa. Un solo ristorante che dà diretto sul mare in una posizione
strategica, baracche di legno che fungono da officine attrezzi ormai trasformate
in musei, dei tralicci di legno sparsi per tutta l'isola, usati da secoli per
appendere gli stoccafissi a seccare durante i mesi primaverili e per far
asciugare le reti da pesca al sole. Ancora piacevolmente frastornati
dall'impatto con questo mondo così lontano dalla nostra realtà quotidiana,
troviamo immediatamente l'ostello: il paese è così piccolo che è impossibile
avere problemi di orientamento. All'ufficio turistico, anche qui presente e
funzionante, non ci danno la pianta della città come chiunque si aspetterebbe,
bensì direttamente una fotografia scattata da poche decine di metri di altezza,
che basta a comprendere in un colpo solo tutto quello che c'è da vedere.
Sistemate le formalità burocratiche,
troviamo la nostra camera, in un edificio poco distante: non abbiamo nemmeno
bisogno di chiedere informazioni all’autista, ci ha lasciati proprio lì
davanti. Alloggeremo in un carinissimo rettangolino di legno con quattro letti
singoli, dalle finestrelle quadrate, molto piccolo e spartano ma così
accogliente e pittoresco da far venire voglia di viverci, con la stufetta
elettrica vecchissimo stile che sta fuori dalla porta della camera pronta ad
essere usata in caso di necessità. Sorprendentemente non c’è quasi polvere
sui pavimenti nè sulle suppellettili, un ottimo regalo per noi che siamo
allergici. La camera è ancora completamente libera, gradiremmo proprio essere
da soli, a goderci quello splendido posticino, ma dovremo aspettare la sera per
scoprire se qualcuno avesse prenotato anche gli altri due letti. Ci concediamo
un'ottima birra comprata all'alimentari di fianco, questa volta senza lucchetti
nè limitazioni di alcun genere, gustandocela in ogni sorso come simbolo di
nuovamente ritrovata libertà.
Un centinaio di chilometri sopra il Circolo Polare Artico, ora siamo proprio in un altro mondo.
Le botteghe
Non possiamo assolutamente non esplorare
ogni angolo del paese, e cominciamo subito dopo bevuto l’ultimo sorso di
birra: una mezzoretta prima che chiudano riusciamo a visitare tutti i musei del
posto, se così si possono chiamare viste le loro dimensioni. Ognuno in passato
era adibito a una funzione diversa: la casa del pescatore è talmente piccola
che si fa fatica a muoversi, le scale sono conformate nel modo usuale ma sono
talmente ripide da risultare quasi verticali come una scala a pioli, da cui sono
pericolose da salire e scendere senza aggrapparsi da qualche parte. I soffitti
sono bassissimi per una persona di normale statura, figuriamoci per i nordici
che sono notoriamente più alti di noi. Tutto rispecchia pienamente la dura vita
dei pescatori, abituati alle poche comodità e al molto lavoro. Su ogni comodino
si trovano soprammobili di porcellana, fotografie ricordo e vecchissimi vasi di
ceramica; nella cucina sono allineate tutta una serie di bottiglie di vino
tipico, un po’ impolverate, da annusare solamente. In ognuna di quelle si
sente un odore caratteristico, totalmente diverso dai vini a cui siamo abituati.
La tentazione di rimanere ad abitare per un po’ in quei piccoli gioiellini
dismessi e provare com'era la vita dei pescatori è veramente forte, ma dobbiamo
accontentarci della camera del nostro ostello, in cui potremo tralaltro
soggiornare solo una notte per problemi organizzativi: il giorno dopo ci
sposteranno in un altro edificio. Poi c'è la rimessa delle imbarcazioni e degli
attrezzi per pescare, tutti abbondantemente arrugginiti ma che meritano rispetto
per tutto il pesce che hanno estrapolato dal mare durante la loro vita
lavorativa, pesce che ha dato da mangiare e continua tutt'oggi a nutrire
migliaia di persone. Sempre lì si trovano delle impressionanti ed autentiche
ossa di animali acquatici, in particolare una vertebra di balena, identica per
forma a quelle umane e grossa come un televisore di medie dimensioni: da
rimanere di stucco! Sapevo che la balena può raggiungere e talvolta superare i
trenta metri di lunghezza, un record di dimensioni per un essere vivente a
questo mondo, ma vedere di persona una sua parte, grossa almeno cinquanta volte
la corrispondente umana, è impressionante!
Successivamente vengono la fabbrica di olio
di fegato di merluzzo, la più antica dell'intera Europa: le capsule che
ingoiamo oggi per ridurre i nostri livelli troppo alti di colesterolo arrivano
da posti come questi. A pensarci è strano, fa capire come tutto il mondo sia
collegato insieme da una rete invisibile di cui purtroppo spesso non ci rendiamo
nemmeno conto, credendo di bastare a noi stessi e di non aver bisogno di niente
altro, di nessun altra cultura diversa dalla nostra, mentre ogni singola parte
del mondo è importante per dare il suo contributo al massiccio e poliedrico
ingranaggio della vita. Poco distante c'è la vecchia fucina del fabbro, con le
sue morse arrugginite ma ancora funzionanti, i suoi utensili di ogni forma e
dimensione, dove si fabbricavano gli strani coltelli per sventrare i pesci e le
lampade ad olio indispensabili per illuminare con la loro luce fioca le
abitazioni nei duri mesi invernali. Infine il panificio, cosa per noi banale
essendo abituati ad averlo sotto casa, ma che alle isole Lofoten era un
importantissimo punto di riferimento per l'intero paese, una pietra d’angolo.
Il suo enorme forno annerito tace, ma chissà quanta farina ed acqua saranno
finiti in quella piccola grotta rovente, e chissà come era buono il pane fatto
qui. Questa era la vita che si faceva ad Å: semplice, tranquilla, di pochissime
pretese e altrettante poche aspettative, atta solo a guadagnarsi da vivere
onestamente e con dignità senza dare fastidio a nessuno, e soprattutto senza
distruggere l'ambiente. Una vita che può apparire invidiabile o detestabile, ma
indiscutibilmente autentica. Se penso che anche questi gioiellini di isolette
fuori dal mondo sono state coinvolte loro malgrado nella seconda guerra
mondiale, in cui l'unico obiettivo era distruggere il più possibile per
accaparrarsi una supremazia territoriale ed economica, mi chiedo veramente a che
livello possa arrivare l'idiozia di alcuni esseri umani, sempre che si possano
definire propriamente tali e non si meritino l’appellativo di subumani,
ipotesi più volte avanzata nel tentativo di descriverli.
Tentiamo anche una veloce visita al museo
dello stoccafisso, vero motore dell'economia locale, esportato nel Vicentino
dalle intere isole Lofoten grazie ad un gemellaggio collettivo che garantisce
continui scambi sia commerciali che culturali: in quel di Vicenza poi lo
stoccafisso viene cucinato con la ricetta locale, alla Festa del Baccalà.
Appena entrati troneggia sulla parete un cartello che recita orgogliosamente
"Noi parliamo italiano!", ma proprio mentre stiamo entrando ed
osserviamo un enorme merluzzo dal fortissimo ed inconfondibile olezzo appeso al
soffitto sviscerato ed essiccato, veniamo informati che il museo sta chiudendo.
Abbiamo comunque visto abbastanza da ritenerci soddisfatti, del resto come si può
rimanere delusi in un luogo simile?
Oceano
Esaurita la parte culturale, è il momento
di dedicarsi a quella naturalistica. La baia del paese è una porta aperta
sull’immenso Oceano Atlantico, che si estende coprendo completamente un
territorio così tremendamente esteso da far fatica a comprenderlo. Seduto
sull’ultimo spruzzo di roccia prima del mare, osservo l’orizzonte in uno
stato di pace mentale assoluta, che forse mai ho vissuto così intensamente: il
mare piatto quasi come una tavola mi distende completamente lo spirito ed
elimina qualsiasi brutto pensiero. Guardando il cielo sgombro mentre si fonde
con l’oceano all’orizzonte, mi sento quasi trasportato in quella zona con la
mente, mentre il corpo rimane fermo seduto sulla roccia. Il ritmico alternarsi
delle debolissime onde amplifica questa sensazione, provo un’attrazione enorme
per quella sconfinata distesa d’acqua. Non un rumore, né tantomeno quello
delle nostre voci, che stanno perfettamente zitte lasciandoci ascoltare il
silenzio della natura. Un silenzio assordante, da far venire i brividi. Questo
è quello per cui sono venuto qui, e ora che l’ho raggiunto, non potrei
desiderare di più. Quando mi riprendo dall’estasi, decidiamo di salire sulle
collinette di sassi e muschio che sovrastano il borgo: da quella posizione
potremo vedere tutto in modo ancora più completo. In men che non si dica siamo
in cima, in totale qualche decina di metri più su, e da lì possiamo goderci
una vista nuovamente emozionante. Davanti a noi il paesino che dà sull'immenso
Oceano Atlantico, alla nostra sinistra le imponenti montagne che lasciano in
ombra buona parte della zona, sulla destra è appena visibile un campeggio in
riva al mare, dietro di noi un verdognolo lago circondato dai monti, sulle cui
rive due persone stanno facendo campeggio selvaggio in tenda, non senza
suscitarci una punta d'invidia. E davanti a noi, di nuovo, l’oceano. Il tempo
è perfetto, il sole ancora abbastanza alto nel cielo, possiamo concederci
un’altra buona mezz’ora di rilassamento totale e di meditazione. Quello che
si pensa in questi momenti non si può comunicare nelle pagine scritte di un
diario. Quello che si può comunicare è che quando capita di viverlo, si può
solamente essere grati a Madre Natura.
Pavel
Torniamo in ostello già rimpiangendo gli
stupendi momenti appena vissuti, e vediamo che non c'è ancora nessuno in camera
nostra, sembra quasi che ce l'abbiamo fatta a rimanere soli. Ormai sono le
dieci, non verrà più nessuno, pensiamo. Sogni svaniti: dovremo condividere la
stanza con un israeliano ventiseienne di nome Pavel, che arriva poco dopo di noi
e da subito si rivela estremamente loquace, perfino invadente. Non la smette
nemmeno per un secondo di farci domande di ogni tipo, con fare quasi sospetto.
Scopriamo poco dopo che è entrato in ostello clandestinamente, con il sacco a
pelo che è severamente proibito onde evitare infestazioni di pidocchi, e
addirittura senza pagare. Non sembra comunque ostile nei nostri confronti,
nonostante il suo comportamento poco ortodosso. Facciamo finta di niente ed
aspettiamo che esca, ma dopo poco il richiamo serale di Å si fa sentire anche
per noi: troviamo il nostro compare fuori dall'ostello che ci invita ad una
passeggiata (ma praticamente ci costringe ad andare con lui!), e inizia a
raccontarci le sue imprese di free climber, indicandoci la montagna di fronte a
noi e sostenendo di essere in grado di scalarla in venti minuti senza aiuti di
alcuna sorta, se escludiamo il gesso sulle mani per fare maggiormente presa.
Siamo abbastanza scettici su questa sua ultima affermazione, nonostante il suo
fisico robusto e muscoloso parli chiaro, ma non lo diamo a vedere, facendo solo
una battuta scherzosa “Al massimo, duecento minuti!”. Poi parte a
confrontare le temperature locali con quelle israeliane, spiegandoci che a casa
sua oggi sarebbe una giornata invernale. Finisce col parlare di tutti gli
italiani che ha incontrato in tutti gli ostelli che ha visitato finora, dicendo
di non aver mai visto un ostello senza rappresentanti del Bel Paese. Tutto
sommato è anche simpatico, ma parla decisamente troppo e non ci lascia il tempo
di replicare qualcosa senza partire con un altro argomento. Continuiamo a
camminare verso il promontorio, sono quasi le undici di sera ma la luce è
ancora praticamente diurna, riusciamo perfino a fare qualche fotografia al mare
che incontra il cielo rosato, con qualche gabbiano superstite che lancia il suo
grido in mezzo al mare. La maggior parte di loro si è ormai ritirata sotto i
tetti delle rosse case, dove si raccolgono a decine non smettendo un solo
secondo di garrire. Beati loro che si godono questa meraviglia tutto l'anno
gratis. Un altro momento meditativo di grande intensità: i colori del tramonto
rendono ancora più bella la scena vissuta nel pomeriggio, sto altrettanto zitto
per assimilare il più possibile la magia di quel momento, ma complici la
logorrea di Pavel e il sonno optiamo tutti e due per andare a letto. Tornati in
camera scopriamo che anche il quarto posto è stato occupato, per giunta da un
italiano, che dopo averci salutato sparisce e non ne sapremo più nulla. Il
nostro Pavel ci chiede informazioni su una linea ferroviaria, ricambiando poi
dandoci in regalo una carta che mostra tutti gli ostelli della Scandinavia, in
gran parte da noi già conosciuti, ma che comprende anche alcune novità che
successivamente ci salveranno da situazioni difficili. Quando il compare si
stanca di farci domande indiscrete e noiose possiamo finalmente dormire,
pregustando già la giornata successiva, che abbiamo già un'idea precisa di
come passare.
In
bicicletta
Svegliarsi in quella stanzetta di legno
minuscola, con la luce del sole che filtra timidamente dalle finestre chiuse
solo con tendine semitrasparenti, è presagio di una giornata grandiosa. Non
approfittare delle rare giornate di pieno sole che queste piccole zolle di terra
ci stanno offrendo così generosamente è quasi un delitto. Completiamo
velocemente il trasferimento di camera, giusto in tempo per riuscire a sfuggire
al logorroico Pavel che si sta svegliando proprio in quel momento: il nuovo
alloggio è molto più grande, ha il lavandino incorporato e il bagno
vicinissimo, ma i materassi sono praticamente inesistenti: degli strati di
gommapiuma poco più spessi di stuoie da spiaggia, cosicchè la schiena poggia
quasi direttamente sulle dure doghe, decisamente scomodo ma tutto sommato
sopportabile. La camera è quadrupla ma per ora siamo solo noi, magari almeno
stavolta saremo graziati e non avremo compagni di stanza. Ma a questo ci
penseremo solo la sera. Per la nostra giornata di esplorazioni l'ostello propone
un servizio di noleggio biciclette per ventiquattr'ore, più che sufficienti a
farsi un giro panoramico eccezionale. La parte sud delle Lofoten è infatti
indiscutibilmente la più attraente e la migliore da percorrere miglio dopo
miglio in sella ad una bicicletta. Al prezzo di poco più di venti euro, non
economico ma sicuramente sostenibile, ci aggiudichiamo i nostri mezzi: sono
delle scassate e apparentemente poco affidabili biciclette da città,
probabilmente con molte migliaia di chilometri alle spalle. Sembrano proprio
vecchie e malandate, ma non possiamo pretendere troppo, questo è quello che
abbiamo. E poi l'entusiasmo di girare per le isole in bici ci fa presto
dimenticare dei dettagli. Io non vado in bicicletta da parecchi anni e non sono
mai stato una cima, Davide è un po’ più abituato a pedalare ma anche lui a
digiuno da qualche anno: stiamo tentando l'avventura in condizioni di
sottoallenamento decisamente pesante. Riprendiamo ad andare in bici nell'ultimo
posto al mondo che ci saremmo aspettati fino a poco tempo prima, la situazione
ha un che di paradossale.
La selezione dei mezzi è accurata: scartate
le bici che frenano poco, quelle con i cambi di velocità troppo arrugginiti o
addirittura assenti, quelle apparentemente un po’ sbilanciate, non troviamo di
meglio che due biciclette costruite assemblando parti di altre bici diverse tra
loro, come testimonia il cambio di velocità la cui levetta segna ben sette
rapporti, quando in realtà le ruote dentate di cui dispongono sono solo due o
tre. Partiamo lentamente ancora ignari di ciò che ci aspetta, freschi di
energie…ma per poco. Le strade delle Lofoten, seppur ottimamente asfaltate e
prive di buche, sono estremamente tortuose, si tratta di saliscendi continui e
abbastanza ripidi, non durano molto ma per gambe poco allenate sono distruttivi.
Ripercorrendo la strada che ci porta a Moskenes, rivediamo ancora tutta la
meravigliosa scena dell'andata, ma con la differenza che stavolta stiamo
soffrendo non poco, io in particolare, per far andare quei rottami totalmente
inadatti a un percorso simile su per quelle salite che paiono interminabili. Un
attimo dopo si riprende velocità, giù per discese che finiscono quasi subito,
lasciando ben poco riposo alle gambe. Il percorso è veramente massacrante, un
po’ mi pento di aver spinto decisamente in direzione della gita in bicicletta,
ma presto mi convinco che non si poteva non provarla, l’avremmo rimpianta
troppo. Così stringo i denti e continuo a faticare su quella bicicletta con la
mia penosa andatura, maledicendo ogni salita e benedicendo ogni discesa,
consapevole che prima o poi arriverò ad una qualche destinazione. Mi distraggo
cercando di non pensare che sono su una bicicletta, e in qualche modo continuo
con la mia stentata pedalata.
La galleria
Nonostante la fatica e l’andatura a dir
poco stentata, in men che non si dica percorriamo i quattro chilometri e mezzo
che ci separano da Moskenes, il paese del nostro primo arrivo: ora è il momento
di proseguire diritto verso altre mete, curiosissimi di vedere come siano queste
isole in ogni loro parte. Presto incontriamo una galleria lunga esattamente un
chilometro, come segnala il cartello posto all’entrata. A nessuno dei due è
mai capitato di percorrerne una in bici, ma la imbocchiamo senza pensarci troppo
a lungo. Le automobili che sfrecciano in galleria vengono preannunciate da un
rombo fragoroso, come se stesse atterrando un aereo di linea proprio di fianco a
noi, rombo che poi rivela quasi sempre una semplice utilitaria lanciata a non più
di sessanta chilometri l'ora, fatta eccezione per un solitario camion che crea
una folata di vento abbastanza forte ma non così forte da farci sbilanciare. Un
po’ di paura di sbandare per gli spostamenti d'aria dei mezzi che ci passavano
di fianco c'è, visto anche il bordo della strada molto irregolare e ciottolato,
vicinissimo alla linea di margine della strada. Per fortuna non succede alcun
incidente ed usciamo indenni: quando rivediamo la luce del sole che aumenta
sempre di più all'avvicinarci dell'uscita abbiamo davanti un'altra scena
mirabolante. Il mare è in un bagno di sole, è ben visibile davanti a noi uno
degli innumerevoli ponti che collegano tra loro le decine di isolette, con il
suo aggraziato dosso sull'acqua. Nemmeno una nuvola sparuta in cielo e catene
montuose sullo sfondo a perdita d'occhio, mostri emersi direttamente
dall'oceano. Trovare questo clima alle Lofoten, col mare calmissimo, è una vera
rarità. Ci accorgiamo solo ora della presenza di una pista ciclabile sulla
destra, costruita apposta per non dover attraversare direttamente la galleria
con le biciclette. Ma tutto sommato ci siamo divertiti molto di più a passarci
in mezzo! Con rinfrancato spirito, prendiamo stavolta la pista ciclabile e
imbocchiamo il primo ponte sospeso, con la sua curva sinuosa che aspetta solo di
essere solcata.
Reine
Le isole sono unite tra loro in modo così
apparentemente precario da sembrare catene umane, tanto sono piccole: alcune
sono niente più di scogli, su cui i ponti fanno presa da un lato per poi
ripartire dall’altra parte delle rocce unendosi ad uno scoglio più grande, in
uno spazio di poche decine di metri quadrati. In lontananza si vede chiaramente
la cittadina di Reine, pochi chilometri più in là, sul più grande di questi
“scogli” rocciosi con solo qualche rara collinetta erbosa. Le biciclette
scendono veloci per l'inerzia della discesa permettendomi un breve riposo dopo
la prolungata salita per arrivare allo svincolo, e presto siamo in quest'altro
borghetto appena più grande di quello da cui proveniamo. Qui c’è un
supermercato (si fa per dire), strade decisamente più larghe che ci permettono
un buon margine di sicurezza per non farci investire dalle poche auto
circolanti, e bancomat per il prelievo automatico delle tanto necessarie corone,
che ci fa molto comodo per rifornirci in un momento di scarsa liquidità.
Scopriamo però subito di essere rimasti quasi al verde: la macchina si rifiuta
categoricamente di darmi anche la cifra minima prelevabile dalla mia carta.
Pensiamo ad un guasto della carta prepagata, ma calcolando con più calma le
spese e i prelievi finora effettuati, scopriamo che sono rimasto con poco più
di dieci euro caricati, mentre Davide ne ha solo qualche decina in più! Alla
faccia! Si fa presto a spendere fior di soldi qui in Scandinavia, nonostante le
nostre spese siano ridotte quasi all’osso. Risolto il problema e dopo una
breve sosta per riprendere fiato su una panchina isolata in mezzo a un ghiaioso
cortile, ripartiamo alla volta di Hamnoy, la prossima tappa ancora un paio di
chilometri più in là. Qui ci godiamo lo scenario più bello dell’intero
arcipelago! I ponti si fanno innumerevoli, alcuni di cemento a più campate,
altri dei semplici ammassi di roccia levigata sulla cima per permettere alle
auto di passare, ma lasciata grezza e irregolare sulle pareti laterali. Non sono
ovviamente disposti su una linea retta, ma a zig zag, e non potrebbe essere
altrimenti data la natura tremendamente frastagliata ed irregolare di questi
isolotti. Sui ponti spesso le automobili devono alternarsi da una parte e
dall'altra per poter passare entrambe, da cui sono quasi sempre regolati da
semaforo: nonostante lo scarsissimo traffico, ciò può significare lunghe
attese per passare da un appezzamento di terra all’altro. Il dedalo di vie di
comunicazione creato dai ponti è piacevolissimo da percorrere, la fatica si
attenua notevolmente schiacciata dal fascino di questi sputi di terra e roccia
in mezzo all’oceano. In mezzo all'acqua scorgiamo degli strani recinti
circolari di ferro verniciato di scuro, come delle piccole arene sospese, ma
senza pavimento: c’è solo la ringhiera, all’interno c’è unicamente
acqua, esattamente come fuori. Non si capisce bene come faccia a stare in piedi
una struttura simile, né tantomeno riusciamo ad immaginare a cosa serva: forse
sono punti di pesca per l'attacco delle reti, o chissà cos'altro. Deve per
forza avere a che fare con la pesca dato che è praticamente l’unica attività
che si pratica qui. Vediamo ancora riuniti numerosissimi i caratteristici
tralicci di legno, mentre le montagne, sempre senza vegetazione o popolate da
pochi fili d’erba stentata e fragili licheni, formano delle strette gole e
insenature raggiunte dall'acqua in ogni punto. Solo in alcuni punti le pareti
rocciose degradano in una gola a forma di U, che per quanto bassa non lascia però
intravedere nulla al di là di essa. Alcune montagne hanno persino delle tracce
di neve nelle zone che rimangono perennemente in ombra! La neve in estate su una
montagna a livello del mare è uno spettacolo che, se non fosse
straordinariamente suggestivo, sarebbe quasi grottesco. Questi giganti di roccia
cingono i villaggi come delle muraglie insuperabili, quasi a proteggerli dalle
intemperie del mondo esterno, che potrebbe spazzare via queste casette delle
favole così facilmente se volesse.
Hamnoy
Man mano che passiamo da un ponte all'altro,
fermandoci sempre più spesso per la stanchezza che ormai la bellezza dei
paesaggi non può più sopprimere a sufficienza, arriviamo alla cittadina di
Hamnoy, dislocata in modo a dir poco bizzarro sugli scogli. I nostri stomaci
reclamano qualcosa di commestibile, per cui cerchiamo un posto tranquillo dove
poterci stravaccare a guardarci attorno in pace. Dopo un po’ di tentativi
andati a vuoto ci fermiamo in una zona completamente rocciosa di fianco alla
quale sono infisse una serie di case su palafitte, incastonate perfettamente
nelle rocce lambite dall’acqua. Sono tutte case perennemente lasciate in
affitto e al momento paiono disabitate, per cui possiamo permetterci di
soggiornare fuori senza il timore di essere scacciati. Le alghe e i coralli che
intravediamo nell'acqua bassa della costa sono un'infinità, così come sono
numerosissimi gli uccelli che vociferano continuamente dicendosi chissà che
cosa nel loro linguaggio a noi incomprensibile. Il sole è quasi a perpendicolo
sopra di noi, mi viene quasi la tentazione di fare un bagno in quelle acque per
rinfrescarmi un po’, idea subito accantonata non tanto per la mancanza del
costume ma piuttosto per la paura di cosa mi potrebbe succedere una volta uscito
ed esposto al vento fresco ed incessante che ci sferza vigoroso. Mi limito a
lavarmi le mani con l’acqua del mare, cercando di pulirle da quella specie di
colla di cui è sporco il coprimanubrio sinistro e che mi sta tormentando da
quanto è appiccicaticcio. Il tempo passa rapido mentre osserviamo ogni angolo
di isola, cercando qualche sorpresa che ancora non avessimo notato. Non troviamo
più nulla di eclatante, ma le Lofoten in sé sono già sufficienti per dire di
aver passato una giornata veramente fuori dal comune!
Moskenes
Ormai ripresi dalla fatica della pedalata,
ma non dai dolori alle gambe che sentiamo dopo i quasi venti chilometri
percorsi, torniamo indietro per non rischiare di tardare troppo la sera. Siamo
molto dispiaciuti dal dovercene già andare, ma torniamo comunque pienamente
soddisfatti, è andato tutto liscio come sperato. Anche stavolta, come successe
al Preikestolen, il ritorno è duro tanto quanto l'andata: tutti i saliscendi si
sono semplicemente invertiti, per cui conservano intatta la loro difficoltà.
Non basta certo un'oretta scarsa seduti su una panchina per rimettersi come
nuovi, da cui riprendo a soffrire come prima. Sono così stanco che percorro
praticamente tutte le salite spingendo la bicicletta a piedi, le gambe non mi
reggono quasi più non appena c'è da forzare un po’ sui pedali per superare
una pendenza anche lieve. Sono scandaloso, lo so, ma non so cosa farci. Questa
volta evitiamo le galleria prendendo le sterrate strade alternative,
fiancheggiate da alberelli e percorse solo da qualche raro turista appiedato,
per poi fare una sosta a Moskenes. Si rivela essere un buco più piccolo ancora
di Å, con la chiesetta che funge da punto di riferimento alta solo pochi metri
più del resto delle costruzioni. L’attracco per il traghetto conta ben otto
corsie per le automobili, di cui tutte tranne una sono destinate ai veicoli e
alle persone che tornano a Bodø, mentre la rimanente porta all’isoletta di
Vadøy, poco più a sud. L'ufficio informazioni vende magliette delle Lofoten
raffiguranti il sole di mezzanotte, tazze souvenir e perfino delle strane
bustine di stoccafissi rigidi come il legno, così asciugati da contenere ben
ottanta grammi su cento di proteine pure. Molto nutriente e soprattutto molto
sano! Una prelibatezza che in più protegge dalle diffuse malattie cardiache.
All’esterno invece c’è una bacheca con
esposti gli orari dei bus e dei traghetti, unico luogo in cui possiamo avere
informazioni, dato che di avere volantini da mettersi in tasca non se ne parla
nemmeno. Informatici bene su come muoverci in giro per l'isola con il trasporto
pubblico, rimane solo da completare il giro del promontorio. Passiamo lentamente
in mezzo alle onnipresenti travi di legno fittamente intrecciate, alcune delle
quali recano stesa qualche malandata rete da pesca strappata in alcuni punti e
probabilmente inutilizzabile.
Riprese ancora un po’ di forze, rifacciamo
riprendiamo la via per Å. Ormai scendo praticamente per forza d'inerzia, non
pedalo quasi più. Sono su un celerifero del 1800, quelli senza pedali, più che
su una bici. Un memorabile scambio di battute tra me e Davide, durante una
salita faticosa in cui stranamente sono rimasto in sella e abbiamo un fiatone
pazzesco, è emblematico: "Ma come fanno quelli che fanno il giro
d'Italia?" "Si dopano". "E quelli che non si dopano?"
"Arrivano ultimi". Nella concitazione del momento queste poche frasi
mi fanno scoppiare a ridere fragorosamente. Presto finisce questa agonia e
stiamo nuovamente percorrendo le altalenanti stradine che conducono dritte al
nostro alloggio.
Missione
Torniamo alle cinque e un quarto, scendendo
lentamente nel centro del paese e posizionando direttamente le bici nei loro
sostegni, non volendo averci più a che fare nemmeno per un istante più del
necessario. Siamo distrutti dalla fatica ma largamente soddisfatti, e ritorniamo
in camera per rilassarci il più possibile. Siamo ancora soli e lo rimarremo,
nessun turista prenderà posto negli altri due letti quella notte. Possiamo
finalmente lavarci e mangiare qualcosa. La sera siamo troppo stanchi per uscire,
e passiamo il tempo a raccontarci del più e del meno e cercando di calcolare il
calore irradiato dalla lampadina sopra di noi. Trovata la metratura cubica della
stanza, calcolata partendo dalla capacità nota in litri dei nostri zaini, e il
calore specifico prodotto dalla lampadina, possiamo dedurre a livello teorico
che la nostra lampadina scalda di 6 gradi la temperatura della stanza ogni ora!
Insomma un ottimo modo per far passare il tempo fondendosi il cervello
inutilmente. Prenotiamo inoltre un ostello trovato all’ultimo minuto e non
senza una lunga ricerca nella piccola cittadina di Svolvær, la capitale
amministrativa delle Lofoten nonché città più antica del Circolo Polare
Artico risalente all’epoca dei primi Vichinghi. Situata nella parte centrale
della catena insulare e curiosamente gemellata con la nostrana città di Ancona,
la preferiremo snobbando la ben più visitata turisticamente Stamsund. La
ragione di questo diversivo è che a pochi chilometri da Svolvær si trova un
piccolo ed insignificante villaggio di nome Kabelvåg, dove diverse decine di
anni fa mio padre in viaggio per la Scandinavia come lo siamo noi ora incontrò
una sua corrispondente radioamatrice come lui, di nome Laila, della quale non ha
più notizie da circa una trentina d'anni. Tocca a noi ora tentare di
riallacciare i contatti persi con la signora che sarebbe ormai settantenne, e
coi figli Lars ed Erik ormai quarantenni, ammesso di trovarli e soprattutto di
trovarli vivi. Il giorno successivo prenderemo l'autobus per Svolvær,
preparandoci ad una solerte ricerca: tutto infatti in quel paesino è ormai
cambiato, sia la geografia che le persone. Scivoliamo sotto il piumone, pensando
alla giornata a venire e cercando di distogliere le percezioni dalla scomodità
del letto, fino a passare nel misterioso ed interminabile mondo dei sogni, che
oggi abbiamo potuto sondare senza doverci addormentare.
Svolvær
Come prevedibile, mi sveglio con un marcato
dolore alla schiena, quel dannato materasso seppur imbottito con un piumone in
più rubato al vicino letto vuoto non ha risparmiato le mie vertebre già non
perfettamente sane. La partenza è fissata per le nove: il nostro pullman
impiegherà circa tre ore e mezza per raggiungere la cosiddetta capitale
amministrativa, che conta solamente 4.500 abitanti ma ha addirittura un
aeroporto, tralaltro già presente ai tempi di mio padre.
Arriviamo con largo anticipo alla stazione
dei bus, un enorme spiazzo asfaltato vuoto con un baracchino che funge da punto
informazioni e biglietti, munito anch’esso di toilette a pagamento. Un sacco
della spazzatura smembrato, probabilmente opera di qualche cane o gatto in cerca
di cibo, ha riversato tutto il suo contenuto nella pensilina del bus, ma nessuno
dei pochi presenti si cura di raccogliere i rifiuti, preoccupati tutti solamente
di ripararsi dal freddo penetrante che si insinua in ogni angolo di pelle
lasciato scoperto dalle giacche. Il cielo è molto più nuvoloso di ieri, oggi
la gita in bicicletta sarebbe impensabile, troppo rischio di pioggia e
soprattutto troppo freddo, senza l’ausilio del prezioso sole. Pagata la salata
tariffa per il trasporto, ripercorriamo per l'ennesima volta la strada per
Moskenes che ormai conosciamo a memoria, di aspetto lievemente mutato dal cielo
coperto. Purtroppo è tempo di andarsene dal paese delle meraviglie.
Mentre costeggiamo l'oceano, finalmente
liberi dal freddo e dal vento nel caldo ambiente del grosso pullman turistico,
vediamo tantissime altre ringhiere circolari sospese come per magia in mezzo al
mare, ma non un paio isolate, bensì in file di decine, tutte allineate. Di
nuovo proviamo a immaginare a cosa possano servire e soprattutto come siano
state costruite, ma non ci viene in mente nessuna spiegazione soddisfacente, da
cui desistiamo e le rimuoviamo temporaneamente dalla memoria, riservando la
curiosità a quando potremo informarci. Man mano che proseguiamo, la geografia e
l'aspetto delle isole cambia radicalmente: le montagne cominciano a riempirsi di
vegetazione superiore a muschi e licheni, il paesaggio da fiabesco si fa sempre
più ordinario e più continentale, se vogliamo anche lievemente monotono,
specialmente una volta abbandonata la costa per ripiegare nell'entroterra. I
cartelli stradali a fondo verde, che qui non significano presenza di autostrade
ma di strade ordinarie extraurbane, continuano a segnalare Svolvær lontano,
lungo quelle strisce perfettamente asfaltate e vuote o quasi per decine e decine
di chilometri. Aiuto il tempo a passare più in fretta rimettendo ancora una
volta gli auricolari nelle orecchie e facendo scorrere un po’ di tracce nel
lettore. Cerco sempre di conciliarle col paesaggio, scegliendo solo quelle più
malinconiche ed evocative per accoppiarle alla perfezione con la natura e le
condizioni atmosferiche. Le chitarre decadenti e tristi fanno tornare un po’
di nostalgia per il ridente paesino appena abbandonato, finchè un brano più
deciso e potente risolleva il morale e mi ricorda che sto andando in missione, a
cercare come un segugio questi vecchi amici con i quali mio padre tanto terrebbe
a riprendere i contatti. Ce la dovrò mettere tutta per non deluderlo, anche se
non mi è stato consegnato un ordine tassativo, bensì un semplice invito a fare
questa ricerca se avessimo avuto tempo e voglia, non insistendo oltre nel caso
che Kabelvåg fosse risultato difficilmente raggiungibile o lo fosse stato a
costo una perdita di tempo non indifferente. Ma Kabelvåg è a due passi dalla
nostra via, e io prendo l’incarico molto seriamente: quando mai mi ricapiterà
di viaggiare in un posto così remoto potendo trovare delle persone che tanto
tempo fa hanno avuto contatti con i miei parenti?
Mentre mi faccio tutte queste domande e mi
pongo i miei propositi, è già ora di prepararsi: la piccola cittadina di Svolvær,
anch'essa sulla costa e circondata da montagne stavolta verdi che formano un
cerchio quasi completo, è segnalata a pochi chilometri dai cartelli stradali.
Attraversiamo proprio Kabelvåg, che si trova esattamente sulla strada
principale, cercando di carpire già qualche informazione, ma l'autobus passa
senza fermarsi e non abbiamo modo di vedere quasi nulla, se non i lunghi
cespugli di fiori viola che riempiono ogni angolo libero ai lati della strada.
L'arrivo a Svolvær è un po’
approssimativo: non sappiamo esattamente dove scendere, nè dove sia questa
fantomatica piazza in cui dovrebbe trovarsi il nostro ostello, nè dove sia il
punto informazioni, prima cosa da cercare in ogni posto nuovo che si raggiunge.
Scendiamo alla fermata che ci sembra più centrale, riconoscendo quella che
sembrava una piazzetta, scoprendo poi di aver mancato la fermata giusta: vagando
per una decina di minuti in direzione stavolta indovinata, il punto informazioni
finalmente appare, in una piazza molto più grande che dà direttamente sul
mare. Un di punto di partenza per i traghetti appositi per la visita dei fiordi
lofoteniani è presidiato da delle giovani bigliettaie in borghese che si
guardano attorno speranzose di catturare qualche nuovo cliente, le bancarelle
sono anche qui onnipresenti e gli uffici di cambio e banche in presenza
consistente ci ricordano che siamo veramente in una piccola capitale. Preso il
nostro numerino dalla macchinetta distributrice di turni, identiche a quelle che
si vedono al supermercato, la ragazza dell'ufficio informazioni ci spiega dove
dobbiamo andare: lontanissimo da dove siamo adesso. Un interminabile vialone da
percorrere a piedi prima di voltare a destra per attraversare un quasi
altrettanto lungo ponte curvo, ma non in senso orizzontale, bensì in verticale:
è piegato come da una forza invisibile lungo un'accentuata forma a volta che
deve sicuramente essere stata più difficile da costruire rispetto ad un ponte
piatto. Questa enorme lingua di asfalto, che assicura vertigini ai deboli
d’orecchio essendo altissimo sul mare, sovrasta i moli dove le navi da
container ancora chiuse nei cantieri aspettano di essere varate. Si intravedono
in lontananza le numerose industrie ittiche che mandano avanti tutto il paese
qui come nel resto delle isole, le montagne stavolta lasciano un po’ di terra
tra loro e il mare, non più gettandosi a capofitto in acqua con la loro
vertiginosa pendenza. Superata la parte in salita del ponte, mentre sudiamo
abbondantemente con addosso i vestiti pesanti e gli zaini più pesanti ancora,
la discesa sembra non finire mai: camminiamo e camminiamo, ma le distanze paiono
sempre uguali.
Possiamo renderci conto chiaramente della
natura della zona in cui andremo ad alloggiare: è un porto industriale, con
serbatoi per la benzina e il gasolio. Decine di pescherecci sono ormeggiati,
alternati a qualche nave mercantile, con un olezzo di pesce penetrante che si
sente dappertutto. Recuperate le chiavi del nostro alloggio, camminiamo ancora
per qualche centinaio di metri verso il limite del molo, fino ad arrivare ad un
malandato edificio squadrato e scrostato della vernice. L’unica nota positiva
è che contiene una camera a due solo per noi: per il resto il panorama che si
vede dalla finestra è orrendo, in primissimo piano c'è una cisterna della
Esso, non possiamo aprire la finestra senza che la stanza venga istantaneamente
invasa dalla puzza, un insolito misto tra pesce fresco e gasolio bruciato. I
letti sono ai limiti dell'igiene, cosparsi di peli, capelli e forfora, o chissà
quale altra sporcizia non meglio identificabile, che evitiamo rigorosamente di
toccare. I bagni sono in fondo alle docce, con ingresso unico, per cui se uno si
sta lavando tutto l'ostello deve aspettare per andare a fare i suoi bisogni, un
modo di progettare le stanze decisamente poco logico. Dobbiamo rimanere lì due
notti soltanto, per fortuna. Le lenzuola ci verranno recapitate più tardi dal
custode che ora non vediamo da nessuna parte, senza di esse non osiamo nemmeno
sederci su quei letti sporchi all'inverosimile, quindi lasciamo la stanza per
cercare gli orari dei bus che fermano a Kabelvåg.
Kabelvåg
Il paese è piccolissimo e non sembra
disporre di edifici pubblici significativi, a parte un ufficio informazioni
dipinto di giallino sbiadito, con numerose bandiere di varie nazioni appese al
suo esterno. Ha l’aria di essere quello l’unico ostello che il paese ospita,
ma che stando alle nostre informazioni e alle telefonate effettuate dovrebbe
aver chiuso proprio ieri. Il paese, nonostante sia un luogo insignificante e
pochissimo abitato, ha un aspetto comunque moderno, ben curato, ci sono un
ristorante ed addirittura un punto di prelievo automatico soldi. Prima di
raggiungere il centro vero e proprio cerchiamo il cognome della donna sui
campanelli e le cassette della posta di tutte le case che incontriamo, tutte
rigorosamente di legno e verniciate con colori vivaci, ma senza successo: sono
pochi i campanelli che recano un nome, e quei pochi che leggiamo sono del tutto
diversi da ciò che cerchiamo. Oltretutto mio padre non si ricorda nulla nè
della via in cui si trovava la casa nè tantomeno della casa stessa,
comprensibile dopo tutti questi anni, quindi siamo completamente soli nella
nostra ricerca. In centro proviamo per prima cosa a chiedere all'ufficio
informazioni dove sia il municipio in cui trovare l'elenco dei residenti. In
attesa che qualcuno ci dia retta, notiamo diverse chiavi appese al muro,
deducendo che quello è proprio il fantomatico ed unico ostello di Kabelvåg.
Stranamente alcune chiavi mancano e ci chiediamo se veramente sia tutto pieno lì,
ma non abbiamo il tempo di pensarci ulteriormente: il giovane commesso biondo
posa il telefono e ci rivolge finalmente la parola. Dopo la domanda che gli
faccio mi guarda con aria un po’ spaesata, sembra non capire esattamente cosa
intendo, forse per via della mia richiesta un po’ tentennante ed incerta.
Oltretutto non sappiamo quale sia la parola inglese che sta per municipio, da
cui facciamo un po’ fatica ad intenderci. Sembra che siamo capitati nel luogo
sbagliato e che lì non ne sappiano nulla, o forse non c’è nemmeno un
municipio qui a Kabelvåg, da cui desistiamo e tentiamo la fortuna nel
ristorante della piazza a fianco: essendo l'unico in tutto il paese, sarà
sicuramente frequentato da tutti, e sarà quindi probabile trovare qualcuno che
abbia almeno sentito parlare di lei, o che meglio ancora la conosca di persona.
Il locale è ottimamente arredato e nulla lascia intendere che ci troviamo in
uno sperduto paesino delle Lofoten. Chiediamo informazioni al barista, che si
mostra molto gentile e disponibile radunando tutto il personale e cercando
qualcuno che conosca quel nome. Le voci dei ristoratori si alternano tra loro
incerte, le poche informazioni che riceviamo sono piuttosto contraddittorie e
non molto chiare: l'unica che troviamo incoraggiante è che potrebbe essersi
trasferita vent'anni fa nella vicina isoletta di Skrova. Non è nemmeno troppo
distante, si può raggiungere con tre quarti d’ora di traghetto, ma nessuno
sembra realmente convinto di quello che sta dicendo a proposito dei signori
Wilhelmsen, ci invitano solo a provare, già che siamo qui. Ringraziamo tutti
per la loro cortesia e disponibilità, ed usciamo dal ristorante un po’
scoraggiati ma non ancora vinti.
Incerti sul da farsi, tentiamo altre strade,
trovando quello che sembra un piccolo museo. Proviamo a chiedere al bigliettaio
se conosca l'ubicazione del municipio del paese, cercando di farci capire con
qualche espressione alternativa come “inhabitants list” o “administration”,
ma anche lui ci indirizza all'ufficio informazioni appena visitato: in questo
paesino evidentemente non c’è altro di importante. Decidiamo di tentare il
tutto e per tutto, e di chiedere al commesso dell’ufficio direttamente il nome
della donna, sperando che qualcuno la conosca. Il ragazzo stavolta si mostra
molto più disponibile, anche se troppo giovane per poterci aiutare, avrà si e
no trent'anni. Ci invita a tornare dopo un'ora, quando gli darà il cambio un
uomo più anziano che potrebbe esserci di maggiore aiuto. La proposta è
ragionevole: ringraziamo e ci congediamo, nell'oretta che abbiamo da aspettare
andiamo a visitare la chiesa intravista durante il tragitto in pullman, che
scopriamo poi essere la seconda chiesa in legno più grande della Norvegia.
Esternamente colpisce molto lo sguardo, verniciata di giallino e marrone scuro,
di aspetto squadrato ed austero, domina una vecchia baia ormai prosciugata dal
mare e tappezzata di questi strani fiori viola che qui a Kabelvåg sono
particolarmente numerosi. L'ingresso si paga venti corone ma non le vale
effettivamente, dentro c'è poco da vedere. Usciamo presto, e Davide propone di
cercare il camposanto: non è detto che la nostra Laila non si trovi lì. Lo
troviamo subito, a pochi metri dalla chiesa, in mezzo ad un boschetto: come
cimitero è decisamente grande per un paese così piccolo, ci dividiamo a
cercare il nome sulle tombe, uno sull'ala sinistra e uno su quella destra, ma
pur setacciandolo da cima a fondo troviamo solo un omonimia di cognome. Meglio
così, almeno significa che la signora, seppur irreperibile, è viva. A meno che
non sia stata sepolta altrove…
Torniamo in paese, ormai l'ora è passata e
possiamo ritentare per l'ultima volta l'ufficio informazioni: questa volta ci
sono due uomini, uno dall'aspetto più vissuto, con la pelle rugosa e i
ricciolini a cascata su tutto il capo, l'altro dall'aspetto più giovanile, ma
è quest'ultimo colui che ci viene presentato come l'esperto del luogo.
Purtroppo tutti e due non conoscono nessuno con quel nome, l'uomo apparentemente
più giovane prova anche con una telefonata, presumibilmente ad un ufficio
informazioni di qualche altro posto vicino o forse a qualche suo amico esperto
della gente del luogo. Li sentiamo parlare nella loro lingua captando
chiaramente solo i due nomi pronunciati, di lei e del marito Knut, che però
cadono nel vuoto: nessuna informazione, nessun ricordo. Ci rassegniamo
temporaneamente e ci sediamo in mezzo alla piazza a mangiare qualcosa,
guardandoci attorno per scorgere qualche eventuale anziano che stesse
passeggiando e a cui possiamo fare qualche domanda, confidando in qualche suo
ricordo di tanti anni fa, ma non abbiamo fortuna nemmeno qui. Non passa nessuno
che possa aiutarci, solo qualche turista dall'aria distratta che passeggia per
le anonime viuzze e presto scompare dietro l'angolo di qualche casa per non
tornare più. L’unica signora che riusciamo ad individuare per il nostro scopo
viene abbrancata da un gentile paesano che si offre di portarle le borse della
spesa, prima che potessimo raggiungerla. I due iniziano a chiacchierare
rumorosamente, da cui non ci sembra il caso di disturbare. Nisba. Oggi la
fortuna sembra proprio averci voltato le spalle.
Attacco aereo
Tiriamo fuori i nostri ormai insopportabili
panini con la mortadella, richiusa con lo scotch per non farla andare a male
troppo velocemente, e frugando nello zaino mi accorgo di avere ancora qualche
cracker di riso che mi sono portato da casa per fronteggiare i momenti di fame
acuta non soddisfabile da un vero pasto. Ne sono rimasti tre pacchetti quasi
completamente sbriciolati. Dopo i canonici panini Davide ha ancora fame e si
allontana qualche minuto a comprare un hot dog al vicino spaccio, io d'impulso
penso di offrire i crackers come cibo ai numerosi uccelli che passeggiano per la
piazza lastricata, perennemente in cerca di briciole offerte loro da qualche
generoso passante. Apro un pacchetto, stritolandolo prima tra le mani per
polverizzare bene il contenuto, e incautamente ne getto un po’ a un paio di
piccioni che mi stanno passando proprio ora vicino alle gambe: che idea malsana!
In un attimo attiro una quantità impressionante di pennuti di ogni tipo,
inclusi gli onnipresenti gabbiani, che in pochissimi secondi appaiono dal nulla
e si fiondano sul cibo litigando e beccandosi tra loro. I volatili presi da
frenesia alimentare si ammassano attorno al tavolo e alcuni ci salgono
temerariamente sopra, scatenando le mie risate e l'ira del mio compagno di
merende, che tocca l’apice quando un gabbiano rapace, ingolosito da un
sacchetto di altri crackers salati lasciato imprudentemente aperto sul tavolo,
scende in picchiata e fa razzia del cibo prima che possiamo avvicinarci per
recuperarlo.
Davide mi guarda con aria indescrivibilmente
seccata, vorrebbe uccidermi per quello che ho combinato, ma io non riesco a far
altro che ridere. Non riusciamo a scacciare tutti quegli uccelli, hanno troppa
fame per andarsene, e anche quando hanno finito di beccare anche l'ultima
briciola rimasta non se ne vogliono andare, riconoscendomi come quello che li ha
foraggiati prima e seguendomi nei miei spostamenti ovunque mi trasferisca. Siamo
quindi costretti a traslocare di tavolo, mentre io uso gli altri pacchetti di
cracker come esca lanciata sempre più lontano per attirarli nella parte opposta
della piazza. Con questo simpatico diversivo si conclude la nostra infruttuosa
missione a Kabelvåg, che abbandoniamo pochi minuti dopo.
Rinnovata speranza
Un po’ delusi dal fallimento della
spedizione, siamo ancora ignari su come spenderemo il terzo giorno dedicato alle
isole Lofoten. La gita sul fiordo viene presto scartata quando veniamo a
conoscenza del suo prezzo: quarantacinque euro sono troppi per un paio d'ore di
qualcosa che comunque siamo già abituati a vedere da parecchi giorni, per cui
cerchiamo un'alternativa, ma non è esattamente facile trovare piani alternativi
in un posto del genere. L'ufficio informazioni ci viene in aiuto quando ormai
siamo proprio disperati e senza idee, essendoci resi conto che le poche
attrazioni visitabili che ci sono nei dintorni non sarebbero raggiungibili per
penuria di bus nel fine settimana. Ci viene consigliata una puntatina di una
giornata all'isola di Skrova, proprio quella indicataci dai ristoratori come il
posto in cui cercare Laila, assicurandoci che è in ogni caso un posto carino
dove passare un pomeriggio. Vada per Skrova. La ricerca dunque non è ancora
finita, qualche tenue speranza si sta riaccendendo, l’ultima fiammella
superstite prima del soffio definitivo che ancora ignoriamo se stia per arrivare
o no.
La mattina successiva ci alziamo molto
presto per prendere il primo traghetto, che in tre quarti d’ora dovrebbe
trasportarci su questo minuscolo appezzamento di terra e roccia al largo della
costa, che vive interamente di pesca e caccia alle balene. Solo qualche
rotatoria stradale e galleria da percorrere, stavolta a piedi, fino al porto:
non vediamo anima viva che sta aspettando quel traghetto che dovrebbe partire da
lì, cominciamo a preoccuparci e a pensare di aver sbagliato qualcosa, ma i
cartelli non possono sbagliare e con chiarezza inequivocabile indicano il punto
di partenza proprio lì, in quello spiazzo completamente deserto. Quando la nave
lentamente si accosta e si apre per lasciar salire passeggeri e veicoli, la
verità è presto svelata: siamo gli unici due temerari che quella mattina vanno
all'isola. Senza di noi partirebbe vuoto. Imbarazzante, ma tutto sommato è
divertente avere una nave tutta per noi, con i bigliettai e manovratori che ci
guardano come bestie rare, probabilmente non ne vedono molti salpare a quest'ora
per raggiungere un posto così deserto. Dopo queste premesse non possiamo fare a
meno di chiederci che razza di isola misteriosa sia questa, i cui traghetti sono
così desolatamente vuoti. Il battello si fermerà a Skrova per poi ripartire e
raggiungere un’altra isoletta simile ma ancora più piccola, denominata
Skutvika. Speriamo per i marinai e macchinisti che almeno ci sia qualcun altro
da caricare più avanti, perchè far partire dei traghetti completamente vuoti
non deve essere molto soddisfacente, anche se si viene pagati per farlo.
Skrova
All'arrivo a Skrova troviamo il minuscolo
porto completamente deserto, con un singolo punto di attracco per le navi e
un'altrettanto singola corsia per il carico dei veicoli, anche loro assenti.
Appena messo piede a terra e lanciato un'occhiata circolare a quel che vediamo
del paese, capiamo subito di essere capitati in un vero e proprio villaggio
fantasma: nessuno in giro, silenzio di tomba, tranquille casette con giardino
ben tenuto tutte con le tende tirate, due panchine in croce dalla curiosa forma
a stella nella minuscola piazza adiacente al molo, un unico alimentari che apre
alle dieci di mattina, col marchio della catena Coop infisso sopra l'entrata.
Detto così, potrebbe far pensare ad un grande magazzino, ma il suddetto mercato
non è un grosso parallelepipedo bianco come siamo abituati a vedere: sarà
grande si e no come un minuscolo bar di provincia, suscitando non pochi sorrisi
e commenti da parte nostra. Questa è Skrova, e nulla di più: nonostante la
desolazione che si avverte nell'aria, ha una sua attrattiva: mi affascinano
sempre questi luoghi così dimenticati e fuori dal mondo. Delle volte sogno
perfino di abitarci, per sfuggire al mondo a cui sono abituato, così comodo ma
anche così artefatto.
Skrova è inoltre popolata da tantissimi
gatti: ne vedremo almeno una decina nella giornata che passeremo lì, stupendi
felini notevolmente pelosi e altrettanto pesanti, con le zampe forti e muscolose
indispensabili per cacciare le prede che si nascondono nei fitti ed estesi
boschi norvegesi. Per questi animali deve essere un paradiso vivere qui: hanno
tutto il pesce che vogliono e la probabilità di essere investiti da
un'automobile, la loro più acerrima nemica senza odore nè respiro, è prossima
allo zero.
In questi stretti e polverosi viottoli
vediamo un paio di vecchie automobili, che in Italia non circolano più da
decenni, entrare pigramente in qualche stradina secondaria, sbuffando e
traballando sotto il peso di qualche mobile caricato nel capiente bagagliaio.
Poi un anziano signore che aspetta che la locale Coop apra per andare a comprare
il pane della mattina (confezionato, perchè di pane fresco non se ne parla, a
meno che lo vendano da qualche altra parte). Una delle poche persone che
incrociamo è una giovane signora con gli occhiali da sole che ci riconosce
subito come turisti, e vedendoci vagare senza meta girando la testa qua e là
cercando qualcosa di anche solo vagamente stimolante, ci offre il suo aiuto.
Rispondiamo di non avere bisogno di particolari indicazioni (per dove, poi?), ma
approfittiamo per spiegarle che stiamo cercando l’introvabile signora Laila
che secondo le nostre poche informazioni dovrebbe essersi trasferita qui, lei
scuote il capo ma si offre di provare a chiedere alla gente del posto: ci
conduce in un punto dove è seduta una signora decisamente attempata, con una
rosa di capelli grigi, a giudicare dalla sua pelle ha come minimo novant'anni.
Si parlano un po’ in lingua locale, ma niente: l'anziana donna ha vissuto qui
da sempre e non ha mai conosciuto nè sentito parlare di nessuno che si chiami
in quel modo. La ricerca finisce ufficialmente qui, è ormai chiaro che queste
persone non le troveremo mai.
Il giro dell’isola
Cosa ci rimane da fare, a parte la spesa nel
minuscolo negozietto dal tanto famoso marchio? L'unico interesse dell'isola è
quello naturalistico, che è anche il nostro principale interesse dell’intero
viaggio, da cui ci impegniamo nel completare il giro dell'isola. Inizialmente
vogliamo tentare la scalata alla montagna più alta dell’isola, nulla di che
ma un punto perfetto per ammirare il panorama. Sbagliamo però strada, e ci
troviamo sul percorso del giro a 360°, da cui decidiamo di proseguire per
quella via. Delle banderuole arancioni penzolanti da dei pali di legno infissi
saldamente nel terreno ci indicano la strada in modo abbastanza regolare, un
momento ci troviamo nel sottobosco tra gli alberi che ci coprono come in un
tunnel, un altro momento siamo sulle rocce ricoperte interamente da muschi,
licheni e cardi che crescono invadendo ogni spazio disponibile, in un altro
ancora siamo in riva al mare su dei massi enormi pieni zeppi di conchigliette
portate dalle onde che da millenni bagnano queste coste immacolate o quasi. Il
silenzio è completo, rotto solo dall'incespicare dei nostri passi su una roccia
un po’ scivolosa o instabile, oppure dal muschio secco e dalle eriche
calpestate che crepitano e ci riempiono le scarpe di fastidiose spine. Ogni
tanto mi devo fermare a toglierle, quando mi sembra di camminare su un letto di
chiodi.
Il fascino di quell'isola così selvaggia e
incontaminata è notevole: sul suolo crescono innumerevoli mirtilli e bacche
rosse opache non meglio identificabili, forse ribes ancora immaturi. Le
particolari sostanze nutritive depositate ivi dall'acqua creano un ambiente in
cui riescono a vivere rigogliose delle specie di piante che alle nostre
latitudini crescono solo in alta montagna e in precario equilibrio, un altro
aspetto peculiare delle sfaccettate Lofoten. Non ce n’è, queste isole hanno
davvero qualcosa di speciale. Cespugli di splendidi fiori molto simili ad azalee
spuntano ogni tanto da qualche avvallamento nel terreno, insieme ad arbusti
dalle foglie rosse ed arancioni che costeggiano intere parti di sentiero. A
volte intralciano anche un po’ il cammino con i loro rami tesi che rimbalzano
all'indietro colpendo il successivo escursionista se non sta alla distanza di
sicurezza adeguata. Ogni tanto qualche buca piuttosto profonda in mezzo al
sentiero mi fa sussultare proprio mentre sto per posarci il piede sopra:
nascosta dai lunghi fili d’erba che si piegano su di essa come a proteggerne
l’entrata, metterci il piede sopra significherebbe sprofondare con buona parte
della mia statura, quasi sicuramente insozzandomi di fango creato dai
torrentelli che ogni tanto si sentono scorrere. Questo succede più di una
volta, ma dopo la prima sto molto più attento ed evito agevolmente le
successive buche. L'unico rumore è quello del vento oceanico e delle risacche
che non producono mai due volte lo stesso suono in milioni di anni, in un avanti
e indietro che è sempre stato e sempre sarà: per il resto tutto tace. Sentirsi
così profondamente in contatto con la natura è un'esperienza bellissima ed
estremamente gratificante, che purtroppo oggi capita raramente di vivere
appieno. Siamo completamente soli: non si sente nessun fastidioso vociare,
nessun commento inutile, nessun cicaleccio sovrabbondante. Di fronte a noi
qualche isoletta ancora più piccola, costituita unicamente da rocce coperta da
muschi e licheni, stavolta completamente disabitata e visibile in ogni sua
parte, fa la sua bella figura in mezzo al mare, indisturbata dalla presenza
umana.
Proseguendo lungo la costa della collina,
sbarrata dalle rocce e impossibile da percorrere ulteriormente, il sentiero muta
bruscamente in roccioso e tortuoso, virando verso l’alto, decisamente ripido:
più volte perdiamo la strada e finiamo dentro i cespugli spinosi, che
scricchiolano sotto i nostri piedi come il vetro sottile di lampadine infrante
in mille pezzi, facendoci sprofondare in un equilibrio costantemente instabile
fino all'ultima salita. Dobbiamo salire per dei gradini scavati nella roccia
molto faticosi da superare, che creano delle piccole grotte dove un esploratore
in difficoltà potrebbe passare una soddisfacente notte al riparo. Finalmente in
cima la visuale si riapre sulla vallata sottostante: il paese appare così
piccolo e insignificante da lassù, ancora più di prima. Una bianchissima
spiaggia sulla destra unisce come un ponte naturale l'isola su cui poggiamo i
piedi con un'altra più piccola, sulla quale spiccano due solitarie casette
bianche, apparentemente ben tenute e per nulla diroccate come ci si potrebbe
aspettare. Sullo sfondo vi è una lunga catena di montagne quasi esclusivamente
rocciose, che solo in pochi punti si apre per consentirci la vista del mare che
si estende oltre, ed è sovrastata da nuvoloni grigi che però non riversano
nemmeno una goccia d’acqua. Una breve sosta sul crinale, per poi ridiscendere
per un sentiero ancora più difficile, fatto di continui salti tra una roccia e
quella sottostante, abbastanza bassi da poterli superare con un balzo e
abbastanza alti da farsi male ai piedi atterrando con tutto il peso in una volta
sola. Scivolando ed incespicando raggiungiamo di nuovo il sentiero battuto,
fiancheggiato dall’onnipresente vegetazione del sottobosco. Un grande sollievo
per i nostri piedi imprigionati dentro delle scarpe ormai sempre più consumate,
le mie tralaltro sono completamente inadatte alle camminate su questo tipo di
terreno, essendo fatte di tela flessibile e dotate di suola troppo bassa. Il
giro dura poche ore, ma è molto intenso: i luoghi deserti e silenziosi come
questo sono un toccasana per me. Anche questo è un altro posticino candidato ai
miei giorni di pensionamento, che ora per fortuna sono ancora molto lontani.
I gatti
Abbiamo ancora diverse ore da passare a
Skrova, prima che l'unico traghetto disponibile venga a recuperarci intorno alle
sette e mezza, per cui dobbiamo inventarci qualcosa da fare, a parte mangiare le
vivande della piccola Coop. Ritornando in piazza trovo un bellissimo ma non
molto socievole esemplare di gatto delle foreste norvegesi puro al 100%,
talmente peloso da sembrare un peluche fuori misura. In un impeto di
sconsiderato ottimismo lo sollevo, esponendomi al rischio di graffiate, ma la
bestiola sembra starsene tranquilla. Pesa parecchio! Davide mi scatta una foto
mentre lo tengo saldamente tra le braccia, e un attimo dopo che la foto è stata
impressa sul rullino il gatto si libera dalla presa con una mossa improvvisa e
scappa. Questo si chiama tempismo!
Ad un’altra estremità dell’isola
troviamo solamente quello che sembra un faro ma poi si rivela un centro di
controllo per i cavi dell'alta tensione, che qui scorrono in parte appesi ai
tralicci e in parte a terra, ben isolati in mezzo al sentiero battuto che poco
prima abbiamo percorso. Lungo la strada non resisto al fascino di uno scivolo e
di un'altalena, tra la benevola disapprovazione del mio compare che si rifiuta
categoricamente di salirci. Tornando dopo poco nella piazza principale, in cui
qualche essere umano come noi stavolta c'è, ci sediamo involontariamente a
fianco di un nido di vespe, della cui presenza però ci accorgiamo dopo svariati
minuti, quando dei bambini incoscienti iniziano a bombardarlo con dei sassolini.
Gli insetti visibilmente innervositi cominciano ad uscire uno dopo l’altro
vorticando rabbiosamente attorno al nido, abbiamo paura che possano prendersela
con noi. Stiamo per sbaraccare e spostarci da un'altra parte, ma le vespe si
calmano presto, e possiamo continuare le nostre partite di briscola senza danni.
Quando siamo stanchi di trafficare con cuori e picche, facciamo un giro anche
nell’ultima parte del paese, seguendo la costa: vuota e smorta anche questa
zona (che novità!), sembra proprio un villaggio abbandonato da Far West
americano, se non fosse per dei simpaticissimi gattini di pochi mesi che non
hanno paura di noi e hanno solo voglia di giocare un po’. Si fanno anche
prendere in braccio, sono veramente teneri, come tutti i cuccioli di qualsiasi
animale. Quando iniziano a rincorrersi tra di loro infilandosi nelle siepi e
nelle pallide staccionate delle case, li lasciamo divertire e proseguiamo per il
polveroso viale, trovando macchine parcheggiate vecchie come minimo di trenta o
quarant'anni, più dei grossi blocchi di cemento e travi di ferro abbandonati
sulla riva. Probabilmente sono destinati alla costruzione o alla riparazione
delle navi baleniere, che partendo da qui uccidono ogni anno centinaia e
centinaia di questi esemplari tingendo di rosso gli oceani e rischiando di
causarne l'estinzione, indifferenti alle pressioni internazionali.
Ormai un po’ stufi di girare per quelle
stradine deserte, ce ne torniamo in piazza, per essere pronti all’arrivo del
traghetto. Chissà se ancora una volta sarà vuoto. In piazza assistiamo a delle
animate lotte di territorio ingaggiate da altri tre felini autoctoni, che si
rincorrono e si punzecchiano come dei bambini per decidere chi tra loro avrà il
dominio di quella zona. Ci divertiamo ad osservarli mentre si scrutano
prudentemente dalle loro posizioni di guardia, ogni tanto facendo qualche
piccolo scatto per poi muoversi in tutt’altra direzione, da veri tattici di
guerra. Ancora una volta, i gatti sono gli animali più belli ed affascinanti
del mondo.
Strano essere
Finalmente vediamo in lontananza una piccola
nave arrivare: i pochi turisti si avvicinano tutti al molo, noi inclusi, e
sentiamo ancora una volta frasi pronunciate in italiano, stavolta in puro
dialetto napoletano. È una vera persecuzione. Dal traghetto, lentamente
accostatosi al molo, scendono stavolta parecchie persone, che probabilmente sono
di ritorno da Skutvika. Se all'andata avevamo l'imbarazzo della scelta per
sederci, al ritorno i posti sono pochi e preziosi, e per le nostre gambe stanche
ora sono assolutamente necessari. Da cui ce ne accaparriamo velocemente due,
custodendoli gelosamente fino all'arrivo a Svolvær. Appena sbarcati facciamo la
spesa per i giorni successivi in un grande magazzino, dato che non vedremo più
per qualche giorno un ostello o un locale dove mangiare. Arriviamo proprio
mentre stanno chiudendo, riusciamo a fare la spesa al volo. Mi metto a cercare
febbrilmente le bustine di stoccafisso, presto usciremo dal Paese e
probabilmente non ne troverò più, è l’ultima occasione che mi si presenta
di provare questo tipicissimo prodotto. Per quanto giro il supermercato, non le
trovo: tuttalpiù veniamo più volte in contatto con un essere umano di dubbia
provenienza, coi capelli neri lunghi che paiono sott’olio, i vestiti
stracciati e una bottiglia vuota in mano, che si aggira per il supermercato
sbuffando e facendo strani versi a chiunque involontariamente gli si pari
davanti. Sembra che sia convinto di essere su un altro pianeta
dall’espressione che ha negli occhi pericolosamente infossati, dimostra
settant’anni ma forse non raggiunge nemmeno i cinquanta. Mi inquieta un po’,
continuando ad andare avanti e indietro proprio a fianco a me, anche se dopo i
primi versi che mi ha buttato in faccia sembra non curarsi più della mia
presenza. Affrettandomi a finire la spesa per liberarmi il prima possibile del
curioso personaggio, all'ultimo riesco a trovare le bustine di stoccafisso!
Appena pagato dobbiamo subito uscire in fretta e furia: incalzati dagli
inflessibili commessi che non possono ritardare nemmeno di un minuto a chiudere
l’ipermercato, finiamo sotto la pioggia che guarda caso inizia anche lei a
cadere proprio in questo momento. Dello strano personaggio fortunatamente non
v’è più alcuna traccia. Il ritorno con addosso i kee-way e le borse della
spesa da tutte le parti è lungo e noioso, ma termina anche lui e possiamo
finalmente dormire la nostra ultima notte nel nostro buco di ostello. Per cena
tento di mangiare lo stoccafisso così come l’ho comprato, peccato che non
riesco nemmeno a staccarne un pezzettino minuscolo da quanto è duro! Ha la
consistenza di un pezzo di legno. Solo una volta a casa scoprirò che andava
cucinato a dovere prima di poter essere commestibile. Ora si dorme: domani si
riparte alla volta di Narvik, uscendo definitivamente dalle lande norvegesi per
non più ritornarvi. Lande che ci hanno regalato grandissime emozioni e degli
splendidi ricordi che ci porteremo dentro per sempre.
Addio
Norvegia!
Ci attende una giornata intera in movimento,
per raggiungere il nostro punto di riferimento in Svezia, la cittadina di Luleå.
Anche in questo caso non abbiamo informazioni di alcun tipo su di essa, né
tantomeno su questo fantomatico ostello ivi presente, che non riusciamo a
contattare per telefono e del quale non conosciamo nemmeno l'indirizzo. Dovremo
andare un po’ alla cieca, sperando in un pullman notturno che ci porti
immediatamente in Finlandia. Se va tutto male, dormiremo in stazione, sempre
sperando di trovarla aperta.
La mattina ci alziamo fin troppo presto,
abbandonando con soddisfazione il puzzolente ostello, per prendere il bus che ci
riporterà sul continente fino a Narvik, distante qualche centinaio di
chilometri. Essendo domenica, non c'è assolutamente nessuno in giro nè niente
di aperto, nemmeno il più grande dei supermercati. La luce è già forte, ma la
cittadina dorme ancora, sembra proprio che non si voglia svegliare. Le uniche
cose che si vedono muoversi sono le cartacce per terra che si spostano di
qualche centimetro sospinte dal vento, due solitarie automobili cariche di
persone che passano lentissime ed incerte lungo il larghissimo vialone per poi
scomparire, e null'altro. Mentre aspettiamo, camminando su e giù per il
marciapiede della nostra fermata, cerchiamo di distogliere i nostri pensieri
dalla preoccupazione per la nottata che ci attende, ma l'attesa è lunga e i
pensieri sono difficili da controllare. Non siamo nemmeno sicuri di riuscire a
prendere la nostra coincidenza una volta a Narvik, anche se sappiamo bene che
sia i bus che i treni scandinavi sono spesso in perfetto orario. La malinconia
per il dover lasciare la Norvegia si fa sentire molto forte, e ci accorgiamo di
aver avanzato più di trecento corone che non abbiamo idea di come spendere. Una
vera seccatura poichè nè in Svezia nè in Finlandia le accetteranno più,
costringendoci a cambiarle con tassi di interesse assolutamente imprevedibili.
L’autobus arriva finalmente a prelevarci, dopo che abbiamo per un attimo
pensato di non vederlo più arrivare. Avendo scoperto giusto il giorno prima che
il biglietto interrail ci garantisce lo sconto del 50% sugli autobus delle
Lofoten, stavolta paghiamo considerevolmente meno. Un peccato non averlo
scoperto prima quando dovevamo arrivare a Svolvær, ma pur sempre meglio tardi
che mai. Ci mettiamo comodi per il lungo tragitto che ci aspetta: arriveremo più
o meno per le due e mezza. Il paesaggio della parte più a nord delle Lofoten
non è più nulla di particolare: bello da vedere sì, ma tutto sommato
abbastanza piatto, quasi continentale. Le montagne sono molto simili a quelle
nostrane, ricoperte di vegetazione ormai quasi completamente, vi sono pochi
tratti sull'acqua degni di nota, e tanti anonimi svincoli stradali.
Continuamente sballottati in mezzo a tutte queste curve, passiamo il tempo
ancora una volta con un po’ di sana musica nelle orecchie, fedele compagna che
non tradisce mai.
Narvik
Dopo sei ore di pullman siamo di nuovo nella
Norvegia continentale. I ponti che uniscono le Lofoten alla terraferma e ci
permettono di non dover più prendere mezzi navali sono relativamente recenti:
quando mio padre decenni fa era qui non esisteva niente di tutto ciò.
L’ultima striscia di asfalto e cemento sospeso che ci unisce alla terraferma
è lunghissima, il ponte appare molto moderno. La cittadina di Narvik è ancora
oggi relativamente importante, famosa per essere stata pesantemente bombardata
dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale per accaparrarsi il
ferro ivi prodotto, tanto caro all'industria bellica nazista. Nonostante tutta
questa storia alle sue spalle, la sua stazione è letteralmente un buco:
piccolissima, deserta e ridotta al minimo indispensabile. Le serrande della
biglietteria sono chiuse e non c'è nulla che presagisca che si debbano aprire
nel pomeriggio, probabilmente a causa della chiusura domenicale. Ma a chi arriva
e deve partire proprio quel giorno nessuno ci pensa? E se non avesse il
biglietto già pronto? Fortunatamente il nostro fidato cartoncino dell'interrail
è pienamente valevole per un treno come quello diretto a Luleå, che non
necessita di prenotazione anticipata non essendo particolarmente importante nè
con i posti preventivamente assegnati. Il tabellone per le partenze è
decisamente mal progettato: mostra gli orari in modo un po’ confuso, per poi
lasciare il posto a minuti e minuti di informazioni pubblicitarie che non
servono a nessuno, costringendo chi sia arrivato proprio in quel momento ad una
lunga attesa per sapere quando arriverà il suo treno. Siamo comunque in orario,
possiamo metterci comodi ed addirittura usufruire dei bagni senza pagare nemmeno
una corona, una vera rarità qui in Norvegia. Crollano tutte le speranze di
riuscire a spendere almeno una parte del denaro locale residuo: dentro e fuori
dalla stazione non c'è assolutamente nulla, nemmeno uno straccio di chiosco che
venda giornali o caramelle, niente. L'unica cosa in cui troviamo da spendere
soldi è un telefono pubblico, che tentiamo di utilizzare per chiamare
nuovamente l'ectoplasmico ostello di Luleå, ma ancora una volta il numero non
è funzionante e il telefono per giunta ci mangia le venti corone che gli
abbiamo regalato per farci fare la telefonata. Non è la prima volta che il
telefono pubblico ci mangia i soldi, e iniziamo ad essere stufi. Farsi fregare
da una macchina non è esattamente il modo migliore di buttare via i risparmi,
da cui accantoniamo per sempre i telefoni pubblici, fidandoci solo del
cellulare.
Mentre mi guardo intorno seduto su una delle
panche all'interno, un viaggiatore confuso dall'ambiguo tabellone che facciamo
tutti fatica a interpretare si avvicina timidamente per chiedermi qualche
informazione su come potrà arrivare a Stoccolma in giornata. Dopo aver
decifrato le partenze purtroppo sono costretto ad informarlo che il suo treno è
già partito la mattina, e che dovrà accontentarsi di fare tappa intermedia un
po’ più su. Dalla sua espressione capisco che c’è chi sta peggio di noi in
quanto a spostamenti, ma non siamo comunque molto più fortunati di lui: abbiamo
sì il treno pronto, ma niente di più, nessuna informazione sulla destinazione
e tantomeno certezze. Davide trova un elenco telefonico della zona abbandonato
sul bancone, e gli balena l'idea di cercare lì la nostra introvabile signora
Laila: scorrendo le pagine piene zeppe di nomi di abitanti di tutte le Lofoten
incontriamo due omonimie esatte, una di lei e una del marito. Le comunico ai
genitori a casa, ma si rivelano abitanti di Narvik che non hanno nulla a che
fare con le persone che stiamo cercando.
Le speranze di trovarli, distrutte e
ridestate tante volte, crollano ora definitivamente.
Svezia
Il treno che arriva poco dopo ha le carrozze
specificatamente divise per destinazione. Alcune si staccheranno a metà strada
e proseguiranno in un'altra direzione: una sola di esse ferma a Luleå, qualche
altro centinaio di chilometri più a est. Per raggiungerla ripasseremo di nuovo
dal Circolo Polare Artico, abbandonando le terre del sole perenne per non
tornarvi più. Prendiamo posto liberamente sulla carrozza, il controllore valida
i nostri biglietti stupendosi che non parliamo svedese (non si nota che siamo
italiani?), e possiamo finalmente dare l'ultimo vero saluto alla Norvegia. Dopo
una mezzoretta dalla partenza la voce del capotreno amplificata
dall’altoparlante ci informa che abbiamo oltrepassato il confine e stiamo
entriamo nella ben più vasta Svezia. Qui il paesaggio è decisamente diverso da
quello a cui siamo ormai abituati. I fiordi e le maestose montagne onnipresenti
lasciano spazio a delle interminabili foreste di conifere alternate a betulle
nane, talmente regolari che sembrano una piantagione più che un bosco. Ogni
tanto qualche grossa montagna rocciosa si intravede, raramente qualche palude e
fiumiciattolo, nel complesso è tutto decisamente monotono. Vediamo altri due
arcobaleni, affascinanti come sempre, in qualunque posto e condizione li si
osservi. Che sia anche questo un presagio di quanto di buono ci aspetta in
territorio svedese?
Nella sterminata campagna che attraversiamo
stanno girando stancamente delle pale eoliche, con un variopinto tramonto sullo
sfondo che non può non emozionare anche il più insensibile dei viaggiatori.
Per vederlo dobbiamo girarci continuamente, ma a costo di farmi venire il
torcicollo non posso perdermi lo spettacolo. Stento a credere che quel gioco di
colori sia dovuto unicamente al pulviscolo atmosferico che devia i raggi solari
tingendo di rosso e arancione il cielo. Riconosco che è l’espressione palese
di una potenza nascosta ed onnipresente, che non siamo in grado di indagare ma
che lancia segnali così inequivocabili da non poter essere ignorati.
Incrociamo un'industria di legname, anche
qui come in tutta la Scandinavia particolarmente grandi e diffuse, essendo il
commercio del legname una delle principali forme di sostentamento e di creazione
di posti di lavoro. Centinaia di tronchi grezzi ammassati assieme, in attesa di
essere lavorati e trasformati ora in una sedia, ora in una scarpiera, ora in una
scrivania. Probabilmente abbiamo tutti in casa qualcosa che proviene dalle
foreste nordiche, dato l'enorme sfruttamento delle zone boschive. Treni merci
interminabili solcano lentamente le rotaie in direzione opposta alla nostra, ci
divertiamo a contare il numero dei vagoni, il più lungo ne ha ben sessantotto,
di forma triangolare che mi ricorda molto i classici vagoni per il trasporto del
carbone. La disarmante ma affascinante monotonia del paesaggio rallenta
l'incedere del tempo, nonostante stiamo sfrecciando molto velocemente sulle
rotaie. Il mistero del tempo, così uniforme per un osservatore insensibile alle
vicende umane e così mutevole quando vissuto nella dimensione dell'anima, è un
altro che temo non verrà mai compreso.
Luleå
Alle undici, ora del nostro arrivo, c'è
ancora una discreta luce. Prima rivelazione poco incoraggiante è che la
stazione dei treni è irrimediabilmente chiusa. Dobbiamo scendere e fare il giro
per uscire immediatamente dal perimetro della stazione, prima che chiudano anche
i cancelli. La poca gente che è scesa insieme a noi dalla carrozza si allontana
in tutte le direzioni, disperdendosi nelle strade. Rimaniamo solo noi due,
probabilmente gli unici senza una sistemazione sicura. La nostra prima priorità
è in ogni caso quella di trovare un autobus notturno che ci porti subito ad
Haparanda, al limite tra la Svezia e la Finlandia: un buon colpo di fortuna ci
permetterebbe di percorrere più strada possibile in meno tempo, e non meno
importante, di avere un posto comodo e al caldo su cui dormire. Purtroppo
apprendiamo subito che anche la stazione dei bus ha le porte bloccate da robuste
serrature e riaprirà solo la mattina seguente alle sei e mezza. È tutta
illuminata all'interno con le sue panche di legno vermiglie, stranamente divise
dal bracciolo sulla due terzi invece che a metà, ci sono delle verdissime
piante ornamentali che fanno la loro bella figura e i tabelloni interni sono
quasi sgombri da informazioni. Quello esterno alla stazione segna solo
pochissimi autobus, per giunta in arrivo e non in partenza da essa, ognuno a
mezz’ora circa di distanza dall'altro. Mentre aspettiamo che l'automezzo
arrivi così da chiedere informazioni all'autista sulle partenze imminenti o
alla peggio su un eventuale ostello o albergo a buon prezzo nelle vicinanze,
comincio a preparare la panca per la notte in stazione ormai più che probabile.
Allestisco solo un posto, dovendo uno di noi rimanere sveglio a turno per fare
la guardia: nonostante la stazione non appaia come una zona malfamata e abbiamo
addirittura la stazione della polizia dall'altra parte della strada a non più
di trenta metri da noi, è meglio essere prudenti. Stendo asciugamani, giacche,
vestiti inutilizzati e qualsiasi cosa che possa rendere più morbida la panca,
ma con scarsi risultati: sdraiandomici sto scomodissimo, il braccio sinistro non
ha spazio vitale e per stare minimamente comodo dovrei tagliarmelo via. Tutte le
panche sono conformate così, da cui anche cambiandola non otterrei
miglioramenti. Oltretutto i dolori nelle zone di appoggio non tardano a farsi
sentire dopo appena qualche minuto. Passano più volte sulla strada un paio di
sbandati a bordo di un rumorosissimo motorino, poco distanti da noi. Urlano ed
aprono il gas completamente, facendo un baccano infernale. Li maledico
apertamente per avermi ridestato mentre stavo forse trovando la posizione giusta
per addormentarmi, ma per fortuna svaniscono anche loro per le strade della città,
senza più ritornare. Mentre decido di rinunciare al mio proposito di dormire su
quell'asse di legno, arriva il primo autobus: Davide corre subito a chiedere
informazioni sulle tratte notturne, lo seguo con lo sguardo speranzoso ma non
troppo. L’autista non dispone di tutti gli orari degli autobus internazionali,
da cui ci invita ad aspettare il prossimo: è quasi certo che in
quell’autobus, proveniente da più lontano, vi siano. Così aspettiamo altri
venti minuti, meditando possibili soluzioni su posti alternativi per dormire, ma
non trovando nessuna opzione soddisfacente: le chiese a quest'ora sono tutte
chiuse dalle loro enormi serrature, nonostante all'origine della loro storia
fossero state concepite anche come rifugi per dei cristiani senzatetto in
difficoltà, che sarebbero stati accolti a braccia aperte nella casa di Dio. La
stazione stessa è ben chiusa e protetta da sistemi di allarme efficientissimi,
bagni pubblici aperti zero, insomma il nulla. La temperatura non sembra nemmeno
troppo bassa, pensiamo di poter resistere tranquillamente per una notte fuori,
magari divertendoci anche in quella situazione mai vissuta e per questo anche un
po’ intrigante. Ma ci sbagliamo…
Aiuola
Il secondo ed ultimo autista arriva col suo
mezzo e ci informa che il prossimo bus per Haparanda parte l’indomani alle
otto e mezza di mattina, prima non c’è assolutamente nulla. Ci guardiamo
pensando la stessa cosa: siamo nella palta fino al collo. Prima di sparire
definitivamente insieme al suo bus ormai vuoto, l’autista ci consiglia un
albergo poco distante dove tentare di trovare una sistemazione per la notte.
Nisba: le porte sono sbarrate, si può entrare solo digitando un codice sulla
tastiera a muro, che logicamente non conosciamo. Così ritorniamo verso la
stazione passando attraverso una collinetta erbosa con qualche albero sulla
sommità, poco distante dalla stazione e dall'adiacente negozio di dolciumi,
illuminato solo all’interno da una flebile luce di guardia. Decidiamo di usare
quella piana erbosa come giaciglio improvvisato per la notte. È decisamente più
comoda di una panca di legno, se non altro ci si può sdraiare liberamente senza
impedimenti agli arti e ci possiamo girare senza cadere. Il freddo inizia ad
aumentare, perciò ci copriamo con tutti i vestiti che abbiamo a disposizione,
incluso il kee-way. Degli asciugamani stesi sull'erba fradicia di condensa
fungono da materasso per non bagnarsi completamente e per stare un po’ più
comodi, gli zaini circondano il punto in cui poggia la testa così da isolare il
più possibile dal vento, i piedi sono infilati in un sacchetto di plastica per
ridurre al minimo la dispersione del calore. Abbiamo da due a tre strati di
pantaloni addosso, e pure abbiamo freddo. Tocca a me tentare di dormire per
primo, ma non se ne parla proprio di addormentarsi: il poco sonno residuo ora mi
è passato completamente, sono nella fase in cui si darebbe qualsiasi cosa per
scivolare nel sonno ma il corpo non collabora. Capendo che di questo passo non
ci riuscirò mai, cedo volentieri il mio posto a Davide e vado a farmi un giro
nella stradina sottostante, in realtà una pista ciclabile. Dalla nostra
posizione sopraelevata possiamo vedere tutti gli edifici attorno, tutti con le
luci rigorosamente spente, tranne la stazione. Quell'ambiente riscaldato ed
illuminato è terribilmente invitante, ma assolutamente inaccessibile. Solo per
un attimo una persona si avvicina alle pesanti porte per controllarle: è un
addetto alla vigilanza, che dopo aver controllato che gli allarmi siano in
funzione riparte senza più farsi vedere. Gli unici esseri umani che rimangono
in zona sono un paio di tassisti, che nella loro macchina riscaldata stanno
fermi per qualche minuto prima di ricevere una chiamata e ripartire, sparendo
anche loro dalla nostra vista.
Stella cadente
La rossastra luce del sole, fioca ma
costante, si intravede sopra l'enorme centro commerciale torreggiante davanti a
noi, come un'alba dormiente che non si risveglia mai. Un altro momento
decisamente magico: nonostante la situazione sia piuttosto disagevole, per un
attimo le percezioni sgradevoli passano in secondo piano osservando nuovamente
quei ben conosciuti colori. È la notte di San Lorenzo: sarebbe veramente un bel
colpo riuscire a vedere una stella cadente. Così rivolgo gli occhi al cielo:
grazie al cielo in buona parte limpido vedo le lontanissime stelle che a milioni
di anni luce da noi bruciano ed esplodono in una frazione di secondo con una
forza inimmaginabile, creando tutta la materia che ci sta componendo ora.
Osservandole mi pare che si muovano, mentre in realtà sono ingannato dal loro
costante tremolio e dal freddo che sento, il quale altera un po’ le mie
percezioni. Il mistero che racchiudono queste stelle così infinitamente lontane
ed immense mi fa ancora una volta riflettere e rimango ad osservarle a lungo.
Proprio mentre sto desistendo per la troppa immobilità e i dolori al collo,
finalmente vedo una stella cadente! È velocissima, percorre circa metà cielo
in meno di un secondo, per poi sparire in un lampo, così come è apparsa. Il
meteorite si è completamente vaporizzato al contatto con la rovente atmosfera
terrestre, lasciandomi un piccolo regalo che mi allieta per qualche secondo la
difficile permanenza nella morsa del freddo.
Notte gelida
La situazione, in un silenzio completo,
potrebbe apparire addirittura invidiabile, ma il freddo inizia a farsi davvero
intenso: dopo le due di notte i minuti sembrano ore, ogni tanto controllo
l'orologio pensando che sia passato parecchio tempo ormai, quando in realtà le
lancette si sono spostate avanti solo di una decina di minuti. La lentezza del
passare del tempo ora è davvero scoraggiante. Il freddo diventa sempre più
penetrante: è sì estate, ma ci troviamo pur sempre in un paese della Svezia
settentrionale, appena sotto il Circolo Polare Artico. Ogni tanto passano delle
persone in bicicletta sulla pista apposita proprio davanti alla nostra aiuola,
coperti la metà di noi ma per niente sofferenti. Cosa ci facciano in giro per
il parco in bici alle due di notte passate, non riesco veramente a spiegarmelo.
Forse hanno le percezioni del freddo simili a quelle della piccola statua di
bronzo che in mezzo all’erba del parco si regge tranquilla sulle gambe,
indifferente a tutto.
Sono costretto a camminare avanti e indietro
senza sosta, saltellando per non congelarmi i piedi, che stanno già perdendo
buona parte della sensibilità. Tiro fino in cima la cerniera lampo della
giacca, alitando nel colletto per riscaldarmi la zona delle giugulari. Ottengo
come unico risultato quello di infradiciare la giacca di vapore acqueo, senza
per questo sentire alcun beneficio. Davide si sveglia dopo aver dormito circa
tre quarti d'ora, ormai sono le tre e tocca a me cercare di dormire, anche perchè
non ne posso più di stare in piedi. Le poche panchine presenti sono
completamente fradice e non posso di certo sedermici. Mi sdraio al suo posto,
cercando di dormire il prima possibile per sottrarre i miei sensi a
quell'ambiente freddo. Mi accorgo di tremare come una foglia, cerco di
sistemarmi in modo da sentire meno freddo, piano piano mi calmo e riesco a
prendere sonno, o almeno così pare. Forse ho dormito venti minuti in tutto, ma
è una stima ottimistica. Alle tre e mezza mi sveglio, con i sensi ottusi e
faticando a capire se mi sia realmente addormentato o no. In questi venti minuti
scarsi il freddo si è fatto insopportabile: stare fermi è ora impossibile.
Guardo nuovamente il cielo, in corrispondenza della decisa sfumatura rosata
all'orizzonte, sperando di vedere il sole comparire. È un inganno: la luce non
prelude all'alba, rimane sempre beffardamente uguale e solo accennata, senza
riscaldare minimamente l'atmosfera. Prendiamo insieme a vagare senza meta,
cercando di riscaldarci con ben pochi risultati. Il tempo si è enormemente
dilatato e passa con una lentezza ancora più insostenibile di prima. Darei
qualsiasi cosa per poter entrare in un ambiente riscaldato. Ci aggiriamo per le
strade della città, cercando qualche locale aperto dove poterci rifugiare, ma
non c'è niente di niente. Tutti i negozi sono perfettamente chiusi dai loro
lucchetti, alcuni hanno le luci interne di guardia ancora accese, altri sono
completamente bui. Sulle mura di alcune case ci sono dei bocchettoni a muro, che
sputano fuori aria forse calda: proviamo a scaldarci col getto d’aria, che però
è fredda e non ci è di nessun aiuto. L'unico posto aperto che incontriamo è
un hotel, nel quale però è meglio non provare ad entrare, ci caccerebbero
probabilmente subito scambiandoci per vagabondi o ubriachi. E anche entrando,
cosa avremmo potuto fare? Pagare profumatamente una camera per una notte, solo
per stare lì tre ore? Decisamente è meglio rinunciare, anche perchè l'uomo
con la camicia bianca che sta dietro il bancone sembra guardarci molto
sospettosamente. Dobbiamo cavarcela da soli fino alle sei e mezza. I sei o sette
strati di vestiti che portiamo addosso sembrano non riscaldarci affatto, è
quasi come non averli: in questo momento la giacca piumino che ho lasciato a
casa mi farebbe molto comodo. I minuti però passano, lentamente ma passano: noi
non ce ne accorgiamo, ma piano piano arrivano le quattro, poi le quattro e un
quarto, poi le quattro e tre quarti, fino ai primi tenui accenni di un'alba, che
qui avviene molto presto. Dopo ore e ore passate così, intorno alle cinque la
prima luminosità del sole ci investe con i suoi benefici raggi. Ci sembra di
rinascere. Non ho mai amato l'amico astro come ora!
Dopo la prima alba, mentre il sole sale
lentissimamente nel cielo, ricominciamo a scaldarci efficacemente. Il sangue
riprende a circolare nelle arterie periferiche con decrescente difficoltà, la
mente si risveglia dall'ottundimento. Piano piano i nostri corpi tornano in
temperatura, immobili di fronte alla luce per assorbire tutto il calore
possibile, spostandoci solo per essere investiti meglio dai raggi quando salendo
incontrano delle fronde di alberi vicini che li attenuano un po’. Non serve più
la camminata forzata per non fare la fine dello stoccafisso che giace quasi
intonso nella tasca inferiore del mio zainetto, chiuso con lo scotch. Dopo non
molto però delle perfide nuvole nerastre, come mandate da un diavoletto
dispettoso, oscurano completamente il sole, riportandoci in un attimo al gelo:
pochissimi secondi e ricominciamo ad avere freddo esattamente come prima.
Ritorniamo quindi a camminare per le vie della cittadina, maledicendo le nubi.
Quando vediamo i vetri delle automobili parcheggiate lungo la strada che sono
completamente coperti di ghiaccio, capiamo che stanotte deve aver fatto proprio
freddo! Con una lentezza esasperante arrivano le sei di mattina: ancora solo una
mezz’ora e potremo finalmente entrare nella stazione, per rimetterci in sesto
e successivamente prendere il nostro autobus che arriverà dopo altre due ore.
Il sole improvvisamente rifà capolino, illuminando un tratto di strada del
piazzale dei bus, verso il quale ci spostiamo immediatamente. Ancora una volta
ringraziamo in silenzio la nostra stella. I minuti passano ora un po’ più in
fretta, finchè finalmente una donna, coi capelli raccolti e vestita solo di una
giacchetta leggera, si avvicina ad un entrata secondaria del negozietto di
dolciumi, entrando per non uscirne più. Deve per forza essere la commessa che
prepara il negozio per aprirlo: enorme il sollievo quando, dopo aver armeggiato
un po’ all'interno e acceso qualche luce in più, la vediamo uscire dalla
porta d'ingresso per sistemare i quotidiani nuovi sui supporti, muovendosi in
fretta per non stare troppo fuori al freddo che noi stiamo subendo da ore.
Vorrei entrare immediatamente, ma è meglio aspettare ancora qualche minuto
finchè non avrà finito di sistemare il negozio, come mi fa notare il mio
compagno. Aspettare sessanta secondi in più ormai non fa molta differenza.
Appena possiamo spingiamo finalmente quella porta ed entriamo anche noi, primi
intirizziti clienti della giornata, con lo stomaco vuoto da troppe ore ed ormai
anch’esso in ribellione.
Ci dirigiamo immediatamente verso la
macchinetta del caffè self – service, proprio davanti a noi: due cappuccini
bollenti col croissant di contorno vengono immediatamente pagati con la carta di
credito fortunatamente accettata, e consumati avidamente. Una colazione banale
per qualcuno che si è svegliato nel suo letto al caldo, ma per noi la più
soddisfacente mai mangiata! Il liquido caldissimo scende giù nello stomaco
bruciando piacevolmente al suo passaggio nella gola e nell'esofago, rimettendoci
in sesto poco alla volta, mentre l'indaffarata ma gentile commessa continua a
sistemare il negozio, indifferente alle nostre vicende. Di sicuro non ha la
minima idea della notte che abbiamo appena passato. Ma non ha nemmeno idea di
quanto la stiamo benedicendo e ringraziando per averci aperto quella porta,
nonostante sia solamente il suo dovere. Attingiamo dei biscotti dallo zaino,
come supplemento "fai da te" alla colazione comprata per riempire il
più possibile i nostri stomaci in sommossa. Dopodichè ci sediamo su quelle
panche che abbiamo visto per tutta la notte da dietro i vetri, finalmente a noi
accessibili. Stravaccati sul legno rosso, nel caldo ambiente della piccola
stazione, il gelo è ormai un ricordo lontano.
Malessere
Mi sto quasi addormentando sulla strana
panca su cui mi sono sdraiato per cercare di recuperare un po’ di sonno
arretrato, sono in dormiveglia profondissimo: se mi dicessero qualcosa sentirei
le parole ma probabilmente non intenderei niente. È quello stato di trance in
cui i pensieri e le immagini mentali si fondono con la realtà, in cui ti trovi
ad immaginare ed abbinare cose e situazioni assurde tra loro, senza alcuna
logica. Non è piacevole, preferirei un buon sonno invece che questo stato di
ottundimento che non dà riposo. Ci pensa però Davide a riscuotermi, quando è
il momento di prendere l'autobus: alle otto e venti passa finalmente questo
mezzo che ci porterà ad Haparanda, al limite del confine svedese, per poi
entrare in Finlandia dall'adiacente cittadina dal buffo nome di Tornio. Di
malavoglia abbandono il mio giaciglio ed usciamo nuovamente alla fredda aria di
Luleå.
Fuori non fa certo caldo, ma la temperatura
è decisamente più sopportabile di quella della notte che ormai ha
definitivamente finito di aggredirci. Il bus a due piani arriva a prenderci,
tardando però a posizionarsi correttamente nella sua fermata: in questo momento
odio profondamente l'autista che se la sta prendendo comoda, poichè il mio
intestino sta malissimo dopo tutto il freddo che ho preso e non riesco più a
trattenermi, gli spasmi non mi danno tregua. Prego con tutte le mie forze che su
quel bus ci sia un bagno, eventualità molto probabile essendo un mezzo
turistico decisamente grande. Il biglietto interrail ci fa salire gratis per cui
risparmio un po’ di tempo utile per raggiungere il gabinetto, che scopro
subito esserci. Sistemo frettolosamente le mie cose sul sedile e ci vado
immediatamente, trovandolo fortunatamente libero. Se il bus non fosse munito di
servizi, non so veramente come farei! Nelle due ore di strada che ci separano da
Tornio visito il capiente stanzino ben cinque volte, battendo quasi sempre la
testa contro le bassissime porte che separano uno scompartimento dall'altro, per
la troppa fretta di raggiungerlo. Non è solo il mio intestino a soffrire: non
mi sento per niente bene in generale, mi sale un po’ di febbricola e ho i
brividi, sento caldo e vorrei solamente essere in un qualsiasi letto a dormire.
Invece mi tocca cambiare due bus e poi prendere immediatamente un treno che
arriverà a destinazione solo in tarda serata. Non avendo vie d'uscita cerco di
riprendermi il più possibile, non posso permettermi il lusso di stare male. Il
mio impegno ha successo: evitando di addormentarmi e tenendomi sveglio
mentalmente, all'arrivo ad Haparanda sto quasi bene. Anche questa volta ho vinto
io contro il freddo e le piccole avversità del cammino.
Finlandia
Qui c'è da fare un cambio: dobbiamo
scendere dall'autobus ed attraversare a piedi la cittadina di Tornio, e con essa
anche il confine tra i due stati, prima di proseguire il viaggio con un altro
autobus diretto a Kemi. L'autista del bus da noi interpellato ci indica
vagamente la direzione da seguire, e subito cogliamo l'occasione di accodarci ad
un gruppo di persone munite di zaino e biglietto interrail che sembrano sapere
esattamente dove stiano andando. Marciamo con passo spedito verso questo piccolo
paese di frontiera, che possiamo già vedere chiaramente dalla nostra posizione
iniziale. Per fortuna ogni accenno di disturbo organico è appena cessato, e più
passa il tempo più recupero forze e salute. Sono nuovamente contento di essere
in marcia e soprattutto di stare per entrare in Finlandia. Il confine tra le due
nazioni ci è stato descritto come un ponte in mezzo al quale passa esattamente
la linea divisoria, e ci aspettiamo una degna e trionfia segnalazione. Niente di
tutto questo: entriamo a Tornio senza nemmeno accorgercene. I nostri euro tanto
a lungo conservati intatti nella parte più remota del portafogli ora finalmente
hanno acquistato valore, il ponte è un’anonima ed insignificante striscia di
pietra senza uno straccio di indicazione. Non abbiamo tempo di rimanere delusi,
il bus per Kemi parte tra pochi minuti e dobbiamo sbrigarci a prenderlo. Lo
raggiungiamo all'ultimo secondo: un altro colpo di fortuna sfacciata. Oltretutto
anche questo viaggio è gratis con l'interrail, sembra che le cose abbiano
ripreso a girare per il verso giusto.
Vediamo subito persone di fattura diversa da
come eravamo abituati a vedere solo qualche ora prima: i finlandesi, così
bianchi di pelle e platinati di capelli, sono davvero inconfondibili con gli
altri nordici. Anche la lingua finlandese, quasi per nulla influenzata dalla
cultura anglosassone, è assolutamente incomprensibile, al contrario del
norvegese o dello svedese che sono molto più abbordabili per chi conosce
l'inglese. L'autista dà il resto dei soldi ai pochi passeggeri saliti subito
dopo di noi, tramite una macchinetta ingegnosa: basta schiacciare dei pulsanti,
uno abbinato ad ogni calibro di moneta, tante volte quante monete se ne vogliono
prelevare, trovandosele direttamente in mano e del giusto valore. Un altro
esempio delle piccole migliorie che qui si vedono così spesso e che aiutano a
semplificare la vita. Il viaggio nel percorso misto tra urbano ed extraurbano
dura solo un'ora, ma non mancano le sorprese: ci accorgiamo subito che la guida
su strada in Finlandia segue regole diverse. In pratica non esistono gli incroci
con lo stop, chi viene da destra ha sempre e comunque la precedenza anche se
proviene da una strada secondaria. Per chi si avventura in macchina in questa
nazione e non è preparato, gli incidenti sono assicurati. Fortunatamente,
viaggiando in treno non si hanno problemi…le rotaie sono molto meno
interpretabili rispetto alle strisce d’asfalto.
Kemi è solo una breve tappa di passaggio
per approdare a Kuopio, la nostra vera destinazione situata nel cuore della
Finlandia. Tutto ciò che facciamo qui è camminare per centinaia e centinaia di
metri prima di trovare un supermercato in cui rifornirci di cibarie. Ci sono
negozi di ogni tipo, ma stranamente gli alimentari sembrano scarseggiare: ogni
negozio che ci pare possa vendere cibarie in realtà vende vernici, mobili,
ferramenta, vestiti, tutto meno che il cibo. Finalmente trovato il grosso
alimentari e riforniti di viveri a prezzi ridicoli grazie ai consistenti sconti
offerti dal supermercato tedesco, prendiamo il nostro treno per Kuopio. Anche
questo viaggio è completamente gratuito per noi che mostriamo questo biglietto
stampigliato con caratteri antichi come si trovavano nelle ormai dismesse
macchine da scrivere, e finalmente ci possiamo rilassare avendo davanti una
sferragliata di diverse ore, senza soste nè cambi.
Foreste
Il paesaggio finlandese è quanto di più
monotono mi sia capitato di vedere in vita mia: foreste di abeti rossi e
betulle, e null'altro. Così sterminate da parere infinite, per ore e ore mai un
cambiamento, se non per qualche raro lago (nella regione centro-settentrionale
non se ne trovano poi così tanti, sono quasi tutti concentrati a sud-est). Il
legname di questi alberi è adatto a produrre fogli di carta e a costruire
mobili e abitazioni, ma la coltura intensiva a cui è soggetto rappresenta un
pericolo per l'ambiente: coltivare sempre e solo una o due specie di alberi
porta a sconvolgimenti anche gravi dell'ecosistema, che ha bisogno di
biodiversità spiccata per garantirsi la sopravvivenza. Le industrie cartiere
finlandesi inquinano i fiumi e i quasi duecentomila laghi della nazione,
rendendoli tra i più sporchi dell'intera Europa nonostante la loro apparente
estrema purezza. Forniscono pur sempre lavoro ad un enorme parte della
popolazione finlandese, e non potrebbe essere altrimenti con i tre quarti del
territorio coperti da boschi, rendendo però la situazione un dilemma: come fare
per continuare una produzione soddisfacente che sostenti adeguatamente i circa
cinque milioni di abitanti, ma che sia contemporaneamente sostenibile per
l'ambiente? Noi della questione ambientale vediamo solo il risvolto
paesaggistico: una noia mortale, nonostante tutto quel verde sia piacevole da
osservare rispetto ad anonime colate di cemento e sabbia. Una noia strana, a metà
tra l’ammirato e l’apatico, per questo paesaggio che potrebbe far impazzire,
se visto per giorni e giorni consecutivi sempre uguale.
Solo rarissimamente le foreste si aprono per
lasciare spazio a qualche pianura, o a quattro timorose case raggruppate assieme
come per non essere inghiottite nel nulla se osassero separarsi, o a un
industria di legname o una cartiera. Ci chiediamo seriamente cosa succederebbe
se il treno si guastasse in mezzo a queste sconfinate distese di niente, ma
preferiamo non pensarci una volta immaginato quanto dovremmo aspettare prima che
qualcuno ci soccorra, nonostante immaginiamo che i soccorsi finlandesi siano
efficienti e preparati a queste eventualità. Sui nostri sedili foderati di blu
caschiamo dal sonno e dalla noia, stanchi morti. Tutto ciò che desideriamo ora
è un letto vero su cui stravaccarsi senza più muoversi per una giornata
intera.
Ultimo sforzo
In qualche modo passa anche questo
estenuante viaggio e giungiamo alla stazione di Kuopio. È di nuovo il momento
di drizzare le antenne e darsi da fare per trovare l'ostello, che pare essere
situato in cima ad una collina, raggiungibile solo a piedi non essendoci mezzi
pubblici che servono la zona. Al primo tentativo sbagliamo strada, imprecando,
al secondo l'azzecchiamo ma abbiamo davanti due chilometri di salita, di cui uno
e mezzo decisamente ripido che sembra non finire mai. Per di più, una densa
nebbia rende impossibile capire quanta strada rimanga effettivamente da
percorrere. Gli zaini pesanti addosso ci costringono a sudare copiosamente e a
fermarci spesso per riportare i battiti del nostro cuore alla normalità e
lasciar smaltire l'acido lattico agli affaticati muscoli delle gambe. Ogni volta
che pensiamo che la curva che abbiamo davanti sia l'ultima, scopriamo che c'è
ancora un po’ di strada da fare, è una tortura vista tutta la stanchezza che
abbiamo addosso. Non pensavo davvero che due chilometri potessero essere così
lunghi! Oltretutto la reception ha un orario di chiusura, dobbiamo muoverci o
rischiamo di rimanere chiusi fuori.
Pezzati di sudore da capo a piedi, con la gola riarsa, finalmente arriviamo in cima, giusto mezz’ora prima del tempo limite. Finalmente possiamo avere le nostre chiavi e riposarci, sempre che prima si riesca ad aprire quella dannata porta della camera: la chiave si incastra nella toppa, non gira. Ormai siamo a un passo dalla salvezza ma dobbiamo tornare indietro a chiedere un passepartout per entrare, idea che ci riempie di indolenza ma sembra che non ci sia alternativa, la porta non ne vuole proprio sapere di aprirsi. Con un gesto di rabbia giro la chiave più violentemente, giusto un attimo prima di iniziare ad andarcene, e come per magia la serratura finalmente scatta e la porta si apre, mostrandoci una bella sorpresa: la camera è doppia! Nessuno che ci possa dare fastidio, il bagno in camera con doccia incorporata, siamo logicamente felici. Una bella lavata è proprio quello che ci vuole per far scivolare via la stanchezza e il sudore che ormai non sopportiamo più. Dopo la doccia ci sentiamo meravigliosamente bene, mangiamo con notevole appetito le vivande procurateci al supermercato, facendo il bis più volte (con memorabile scena di apertura della scatoletta di tonno priva di apertura a strappo, usando prima coltello, poi coltellino svizzero e infine forbicine per le unghie finalmente con successo). Dopo non molto ci addormentiamo, recuperando le forze perdute in previsione della giornata intensa che sarebbe seguita: avremmo provato la famosa Jätkänkämppä, la sauna tradizionale finlandese più grande del mondo. Potremo usufruirne grazie all'ennesima fortunata coincidenza: è aperta solo due giorni alla settimana, martedì e venerdì, e casualmente domani sarà proprio martedì. Questione di destino che, nonostante tutto quello che si può dire e non dire, esiste eccome.
Torre
panoramica
Un’ottima dormita ci rigenera nel corpo e
nello spirito, siamo di nuovo pronti a tutto. La colazione a buffet è inclusa
nel prezzo, da cui ci alziamo di buon ora per approfittarne prima che il grosso
venga saccheggiato impunemente dagli altri affamati clienti. C'è veramente di
tutto: approfittiamo in modo indegno, mangiando da scoppiare. Finalmente una
colazione decente e sostanziosa, dopo giorni e giorni a mangiare schifezze dal
molto approssimativo valore nutrizionale. Toast con la marmellata di frutti di
bosco, croissant, corn flakes immersi nello yogurt, caffelatte e succo di
frutta, insomma ogni ben di Dio. Usciamo con la pancia piena e il sorriso
stampato sul volto, prepariamo velocemente i nostri pratici zainetti per uscire,
e saliamo per goderci una breve panoramica sulla grossa torre a poche decine di
metri dall'ostello. La sera prima nemmeno l’abbiamo vista, tanto era nascosta
dalla fitta nebbia. La vista da lassù è ottima: c'è molto vento da cui non
rimaniamo a lungo, ma possiamo ammirare finalmente i famosi laghi finlandesi
visti nell'insieme. Sono tutti vicini gli uni agli altri con qualche sperduta
conifera che cresce negli isolotti al centro di alcuni di essi, un paesaggio
assolutamente peculiare. Nella zona di Kuopio i laghi sono estremamente
numerosi: molti hanno descritto la vista che si ha dalla torre su cui noi ora ci
troviamo come la migliore possibile per avere un quadro d'insieme dell’intera
nazione. Foreste e laghi, d’inverno completamente trasformati in neve e
ghiaccio, oltre alle onnipresenti saune, addirittura una ogni otto abitanti.
Questa è la Finlandia.
Tutto esaurito
Discesi dalla torre, torniamo qualche minuto
in ostello per organizzarci bene e soprattutto prenotare gli ostelli di Helsinki
e Stoccolma, le nostre ultime due tappe. E' una parola: ci siamo svegliati
decisamente tardi a prenotare, causa anche gli ultimi giorni decisamente
stressanti. La nostra Lonely Planet finlandese ci dà una scelta di cinque
ostelli nel centro di Helsinki: ci permettiamo perfino di valutare pregi e
difetti di ognuno, stilando una lista di quali provare per primi e quali per
ultimi, mettendo in cima quelli con la colazione inclusa e in fondo quelli più
lontani e con meno agevolazioni. Telefoniamo al primo ostello: è pieno.
Ripieghiamo sul secondo, che è pieno anche lui. Il terzo e il quarto, che fino
a poco prima erano le scelte di ripiego se proprio non ci fosse stato
alternativa, diventano le nostre ultime speranze, ma anche loro sono
inesorabilmente "fully booked".
Capiamo che non possiamo permetterci molta
scelta: mano a mano che chiamiamo anche quelli minori, segnati sull’utile
carta ostelli donataci da Pavel, ci sentiamo rispondere che sono tutti pieni
anche loro per i prossimi due giorni. Ci riduciamo a sperare in un qualsiasi
buco che abbia una branda di qualche genere e quattro mura attorno: ne chiamiamo
almeno una ventina, sempre senza successo. Davide è ormai nauseato dalla solita
frase che è costretto a ripetere ossessivamente ad ogni chiamata "Hi, we're
two guys and we're looking for two beds for two nights...". Spendiamo
settanta euro di telefonate in poche decine di minuti. Ormai disperati, tutto
quello che otteniamo è una sistemazione a Stoccolma un po’ disagevole per il
primo giorno, meno per i successivi due, mentre per Helsinki rimane tutto in
sospeso. Esaurita la lista, non ci resta che chiamare il centro di assistenza
per il turismo a Helsinki. Ci vogliono decine di tentativi per azzeccare il
numero giusto: una volta manca lo zero, una volta manca il prefisso, una volta
ci vogliono due zeri e non uno, un’altra volta ancora gli operatori non
parlano inglese, o addirittura componendo il prefisso finlandese ci risponde
gente che parla in italiano chiedendo con fare seccato chi siamo e cosa
vogliamo. Composto finalmente il numero giusto, apprendiamo che gli ostelli sono
tutti prenotati e che dovremo soggiornare in albergo, prontamente prenotato ad
un prezzo equo. Anche questa è andata.
Kuopio
Rinfrancati dall'aver risolto il problema,
è giunto il momento di visitare finalmente il centro di Kuopio, in attesa di
raggiungere la sauna che aprirà solo alle cinque del pomeriggio. La cittadina
è piena di vita: la piazza del mercato centrale è un fermento di bancarelle
che vendono di tutto, dai ribes e lamponi alle magliette con la bandiera
finlandese, fino alle coloratissime matrioske cinesi. Il mercato coperto,
Kauppahalli, è ancora più ricco di prodotti, specialmente culinari: sono
irresistibilmente attratto da una barretta di cioccolato al mirtillo, mangiata
subito dopo in un impeto di curiosità, semplicemente squisita! Ovunque
abbondano i negozi e i distributori automatici di caffè, la bevanda preferita
dei finlandesi: con un consumo medio di quattordici chilogrammi annuali, pari a
circa nove tazze giornaliere, si collocano come i primi estimatori al mondo di
questa bevanda. Divertenti le tradizioni nordiche quando si viene invitati a
casa di qualcuno in Finlandia: il caffè va rifiutato per tre volte, accettando
poi di berne solamente mezza tazza alla quarta offerta, e finendo poi con il
berne quantità spropositate.
Dopo il mercato cerchiamo un posto dove
riposarci e troviamo un parco che contiene al suo interno un inquietante
cimitero militare, ognuno con le lastre di pietra levigata incise con nomi e
cognomi degli sventurati. Ognuna ha il suo mazzo di vistosi fiori rossi, a
perenne ricordo di una morte assurda ed insensata. Un cimitero militare è la
lampante dimostrazione di una stupidità immensa che ogni volta che mi viene
messa davanti stento a comprendere e mi viene solo da rigettare, ma che
purtroppo è ineliminabile, fa parte di noi. Quando siamo stanchi di osservare
il triste monumento e di farci assalire dalle vespe che hanno ricominciato a
tormentarci, stavolta coadiuvate da dei fastidiosissimi moschini che in
Finlandia abbondano d'estate, prendiamo l'autobus per la zona dove si trova la
nostra tanto declamata sauna.
Jätkänkämppä
L'autobus ci abbandona davanti ad un
sentiero sterrato che si inoltra nel bosco proprio di fianco ad un lago: lo
imbocchiamo senza remore, curiosi di scoprire le dimensioni della sauna “più
grande del mondo”. Per me è una cosa completamente nuova, sono un
“esordiente totale”, e farla per la prima volta proprio qui è un'idea
elettrizzante. Le temperature che si trovano in questi forni di calore secco
variano dagli ottanta fino a quasi cento gradi. Questa infatti è una Savu-sauna,
letteralmente sauna di fumo: la camera rovente viene scaldata ventiquattro ore
prima dell'uso per essere alla temperatura giusta quando viene aperta al
pubblico, e il calore è prodotto dalla combustione della legna e non dal vapore
acqueo che si forma gettando acqua sulle pietre roventi, come succede nelle
saune tradizionali. L’intera costruzione è situata immediatamente adiacente
al lago, permettendo dei veloci tuffi ai temerari che volessero provarli. I
finlandesi questi tuffi li fanno anche in inverno, rompendo il ghiaccio che si
forma sulla superficie del lago, per non perdersi nemmeno una possibilità di
dare un po’ di salutare shock termico al loro corpo: la sauna è l'elemento
caratterizzante la loro cultura, usata per curare qualsiasi malattia o
malessere. Dal banale raffreddore fino alle patologie più serie, nulla è
escluso. Contrariamente a ciò che si può pensare, la sauna non è usata per
tentare approcci con l'altro sesso, ma solo per meditare un po’ e depurarsi il
fisico e l'anima.
Dopo una serie di bivi in mezzo alle foreste
popolate da libellule e altri insetti enormi, appare questa costruzione di
legno, delle dimensioni di un cottage estivo medio. C’è un ristorante tipico
dall'altro lato che serve cibo solo in corrispondenza dell'apertura della sauna,
e la capanna dei taglialegna che periodicamente danno una dimostrazione della
loro abilità, sfasciando tronchi a colpi d'ascia sicuri e precisi come sanno
fare i popoli che vivono di legname dai loro albori. L'atmosfera lacustre è
peculiare: i giunchi che spuntano ovunque dall'acqua ondeggiano leggermente con
il vento, mentre gli alberi lasciano intravedere solo una piccola porzione di
lago, in realtà piuttosto vasto, come si può apprezzare bene una volta sulla
riva. Qualche tronco è immerso per metà nell’acqua, abbandonato a marcire:
forse non è legno buono da lavorare. Dei rimasugli di legname stanno bruciando
proprio di fronte all'acqua, producendo dei gran sbuffi di fumo che il vento
spinge nella nostra direzione, facendoci tossire a più non posso. Siamo
costretti a spostarci e a ripararci dietro gli edifici finchè il fuoco non sarà
spento completamente. Le passerelle di legname in mezzo ai boschetti portano a
dei piccoli rifugi e capannine in cui certamente non si può abitare, ma che
servono solo per i bivacchi, o almeno così era in passato.
La sauna aprirà di lì a un paio d'ore,
lasciandoci il tempo di mangiare un panino con della succulenta carne di alce in
scatola comprata al supermercato, e di metabolizzare il tutto sufficientemente
per poter entrare senza rischio di pericolosi blocchi digestivi. Mentre stiamo
aspettando arriva un gruppo numeroso di italiani, tutti muniti di asciugamano,
che entrano immediatamente discorrendo sui benefici delle saune e sulle
differenze tra quelle secche e umide. Dopo aver deciso arbitrariamente che la
nostra digestione è durata a sufficienza, entriamo anche noi prima che la sauna
si riempia: la capacità teorica è di sessanta posti, che possono arrivare
anche a centotrenta se piena fino a scoppiare, ma è meglio non rischiare: la
gente inizia ad arrivare a frotte. Il gentilissimo e sorridente gestore dagli
enormi occhi azzurri ci ricorda che possiamo usare la student card, casomai ne
avessimo una, per ottenere uno sconto sul biglietto: un’altra dimostrazione di
onestà, sarebbe potuto stare tranquillamente zitto e incassare di più.
Depositati gli zainetti e ogni cosa di valore nel ripostiglio, affidandoli
direttamente alle mani di lui senza timore di frodi, entriamo nello spogliatoio.
Diversi uomini nudi o quasi si stanno asciugando e rivestendo senza fretta.
Inizialmente credo che quella stanza sia già la sauna, sentendo un gran calore
umidiccio, ma capisco subito che è solo lo spogliatoio. Rimaniamo in costume,
anche se i finlandesi non ne vedono di buon occhio l'utilizzo perchè il calore
intenso potrebbe degradarlo liberando molecole tossiche, oltre a impedire ai
tessuti sottostanti di traspirare normalmente. Per sicurezza chiediamo
espressamente al gestore se sia consentito usarlo, indicandoglielo a gesti data
la nostra ignoranza nella traduzione della parola "costume" in
inglese, e la risposta è affermativa.
Una volta pronti e muniti di due
asciugamani, entriamo in un locale un po’ più caldo, con delle docce a muro.
Nemmeno quella è la sauna! Vedo una porta sul lato aprirsi e qualcuno entrare
coperto solo da un asciugamano legato attorno alla vita, allorchè capisco che
la camera del calore è lì dietro. Non ho idea di cosa mi stia aspettando in
quella fornace, da cui entro con decisione. Non appena mi rendo conto della
temperatura interna, rimango scioccato. L'ambiente è incandescente, quasi
insopportabile: il muro di calore mi investe in pieno e sento quasi subito i
battiti del mio cuore accelerare convulsamente. Mi siedo, camminando lentamente
per non peggiorare le cose, su una delle tre file di panche di legno. Evito
accuratamente quelle della fila più in alto, ricordandomi tutt'a un tratto che
il calore tende a salire verso l'alto. Dopo nemmeno una ventina di secondi sento
già la pelle, che fino ad un attimo prima era asciutta, riempirsi di sudore
ovunque: nei capelli, tra le dita, sulla pancia, sui polpacci, una sudata
generalizzata. È una sensazione mai provata prima, credo di sentirmi male ma è
solo l'emozione, in men che non si dica stiamo tutti e due letteralmente
nuotando nel nostro sudore. Respiriamo mano a mano sempre più normalmente
grazie alla natura secca di quel calore che non opprime i polmoni, ancora un
po’ frastornati da questo ambiente così ostile ma tutto sommato anche
piacevole. I (pochi) finlandesi ivi presenti, ligi alla tradizione, prelevano
l'acqua bollente da delle ciotole metalliche, usando dei mestoli sparsi per le
panche anch'esse roventi, e la lanciano sul braciere producendo getti di vapore
sfrigolante che vanno ad aumentare ancora di più la temperatura. Le dimensioni
della stanza quadrata, che è realmente la più grande del mondo, non superano i
cinque metri di lato, per due metri abbondanti di altezza: alla faccia della
grandezza! Ma non c’è trucco: le classiche saune finlandesi che si trovano
nelle case sono grandi più o meno come un’utilitaria.
Tuffo nel lago
Presto la temperatura e le condizioni della
nostra pelle ormai completamente impiastricciata si fanno insopportabili,
sentiamo il bisogno di uscire da quella fornace che ci sta consumando.
Traballando sulle gambe usciamo lentamente dalla camera infuocata, e appena
fuori dalla porta il sollievo è quasi immediato. Non osiamo fare subito il
tuffo nel lago preferendo come prima volta una "semplice" doccia
gelata. In qualsiasi altro momento una cascata d'acqua addosso a quella
temperatura ci bloccherebbe il respiro istantaneamente, ma adesso è quanto di
più rigenerante ci possa essere: il getto d’acqua, freddo che più freddo non
si può, sulla pelle caldissima sembra quasi tiepido. Dopo un paio di minuti di
doccia, gradualmente spostata su temperature più canoniche, decidiamo di
rientrare: è assolutamente da rifare! Il ritorno nell'altoforno è meno
traumatico adesso che la nostra pelle è più umida, sarà l'acqua che ci è
rimasta addosso ad evaporare per prima, tenendoci un po’ più freschi.
Rimaniamo dentro qualche minuto di più, non più con la lingua paralizzata
dallo shock e dall'arsura: stavolta conversiamo quasi normalmente anche se non
c'è molto da dire, preferiamo concentrarci sulle sensazioni fisiche. Il
prolungamento del tempo passato lì dentro ha ora una finalità precisa: tra
poco proveremo il tuffo nel lago, dobbiamo accumulare molto più calore. Usciamo
dopo cinque minuti circa, sulla passerella di legno all'aperto. Avvertendo a
malapena il vento sferzante, camminiamo il più velocemente possibile verso il
molo di legno. Davide si tuffa a peso morto, con una gran spanciata: il tempo di
rendersi conto della temperatura del lago e subito strabuzza gli occhi,
terrorizzato, uscendo il più velocemente possibile. L’acqua deve essere
proprio fredda!
Non sapendo nuotare io mi devo immergere
gradualmente, scendendo i gradini al limite del ponticello. Arrivo con l’acqua
alla gola, è un altro shock! L’acqua è decisamente fredda anche se
infinitamente meno ora che ho assorbito tutto quel calore. Di certo quando non
ero ancora entrato in sauna mai e poi mai mi sarei buttato nel lago così!
Uscendo dall'acqua non abbiamo nemmeno troppo freddo, ci copriamo solamente lo
stomaco con l'asciugamano per evitare una congestione e subito torniamo dentro,
per rifarlo ancora quattro volte tra caldo e freddo! Le ultime due volte Davide
si tuffa in acqua correndo a più non posso, imprecando a denti non troppo
stretti contro chi involontariamente intralcia il percorso fino al ponticello.
Riesce comunque a buttarsi abbastanza velocemente, per amplificare ancora di più
l’effetto shock dell’acqua fredda. È come una droga, invita a rifarla
ancora e ancora: piacevolmente rilassante, estremamente salutare. Dopo un certo
tempo avvertiamo un po’ di stanchezza da tutto quello strapazzamento, i
polpastrelli delle dita si sono raggrinziti tantissimo, completamente macerati
nell'acqua e nel sudore. Da cui decidiamo di finirla lì e di farci l'ultima
doccia per rimetterci in sesto prima di andarcene.
Relax
Dieci minuti dopo siamo di nuovo vestiti e
privi di qualsiasi stanchezza o malessere fisico residuo: i benefici della sauna
sono davvero consistenti, ci si sente proprio un'altra persona, come nuovi. Per
coronare al meglio la giornata, ci concediamo un bel boccale di birra contornata
da degli ottimi cracker sulle panchine fuori dal cottage. Guardando la gente in
costume che si tuffa nel lago, senza essere più parte di loro, ci torna in
mente quello che pensavamo fino ad un’ora prima: sono pazzi ad andare in giro
nudi con questo freddo! Ci improvvisiamo poi guide turistiche quando una
famiglia italiana viene a chiederci informazioni su come funzioni la sauna, e
siamo molto contenti di poterli aiutare, questo shock termico ci ha messo
particolarmente di buon umore. Siamo pienamente soddisfatti: anche questa è
andata, e siamo sopravvissuti ancora una volta. Lasciamo questa scena dopo aver
assistito alla divertente scena di un pescatore che arriva svuotando
rumorosamente degli interi torrenti d'acqua dai suoi stivali, tra le risate
generali. È tempo di risalire sul bus e tornare al nostro ostello, domani
partiremo ancora da qui, alla volta della capitale di questa affascinante
regione.
Verso Helsinki
Sono io il primo ad alzarsi dal letto, alle
sei e tre quarti, due minuti prima che suoni la sveglia all'ora programmata.
Ormai ho sviluppato una sorta di orologio biologico tarato sulle frequenze del
viaggio, che mi fa spesso ridestare all'ora giusta senza quasi bisogno di
puntare alcuna sveglia. Una velocissima colazione ancora una volta gratuita, poi
riprendiamo sulle spalle i pesanti zaini, sempre più carichi di biglietti
timbrati e scontrini dei negozi tutti accuratamente conservati per non perdere
nemmeno un pezzettino di ricordi, e scendiamo per l'ultima volta da quella
collina. Il peso degli zaini ci tira in giù molto velocemente e siamo costretti
spesso a rallentare volontariamente per non sfracellarci gli alluci dentro le
scarpe. Io sono fermamente intenzionato a fare l'autostop se solo passa
un'automobile: non è un metodo perfettamente sicuro, ma avendolo già fatto una
volta in vita mia quando ero poco più che bambino ed essendone uscito
perfettamente indenne, non avrei problemi a rifarlo. Non passa però anima viva
su una macchina, se non in senso contrario al nostro, e la strada ce la facciamo
tutta a piedi anche stavolta. Il treno è munito di una carrozza a due piani in
cui abbiamo prenotato i nostri posti: scopriamo solo una volta a bordo che ci
toccano i posti adiacenti all'area attrezzata per i bambini, dai piccoli ai
piccolissimi. Risultato: cinque ore di viaggio tra urla, risatine, pianti
inconsolabili, versi e sbrodolii, madri disperate che non sanno più come far
stare zitti i loro pargoli. Il resto del treno è pieno zeppo di altri posti
vuoti per sederci che non possiamo usare, ma sopportiamo tutto senza lamentarci.
Non possiamo trovare molta distrazione nel paesaggio: anche andando al sud le
cose non migliorano di molto, è sempre tutto estremamente lineare ed uniforme.
C’è solo qualche lago in più, che osserviamo dal nostro finestrino con
decrescente interesse.
Non scendiamo direttamente alla stazione
centrale di Helsinki, bensì alla fermata prima: il nostro albergo, un po’
fuori zona, si trova proprio in corrispondenza della penultima sosta. Nella
stazione in cui arriviamo ci sono indicazioni per ogni luogo meno che per dove
dobbiamo andare noi, i bigliettai non parlano inglese (o almeno così affermano
vivacemente) e non ne vogliono sapere di ascoltarci. Non siamo abituati a questo
trattamento e rimaniamo un po’ delusi, ma almeno ci rispondono indicando
sbrigativamente una direzione col dito quando insistiamo per dirgli almeno il
nome dell'albergo dove siamo diretti. Decisamente scortesi, ma non è detto che
i nordici debbano per forza essere gente educata e gentile, ogni cesto ha la sua
mela marcia. Camminando in quella direzione finiamo in uno strano quartiere,
fatto di sopraelevazioni di cemento intervallate da sprazzi di verde, in cui si
alternano enormi edifici commerciali e più modeste palazzine residenziali, ed
anche una biblioteca per soddisfare la voglia di lettura del popolo con il più
alto tasso di libri e quotidiani letti nell'intera Europa. Dopo un po’ di
peregrinazioni e di informazioni chieste ai passanti, giungiamo al nostro
mastodontico residence, in una zona decisamente periferica.
L’albergo delle
meraviglie
E' decisamente un’oasi nel deserto
rispetto agli ostelli in cui siamo abituati ad alloggiare: lussuoso,
pulitissimo, decorato in ogni modo possibile. E dire che è il più economico
della zona. Veniamo trattati con gentilezza estrema dalla bionda receptionist,
che ci illustra ogni singolo dettaglio di funzionamento dell’hotel. La nostra
camera, all'ottavo piano, è stratosferica. Tanto per dare un’idea, è munita
di comodità esagerate come lo stirapantaloni (!), un intero servizio di
bicchieri, frigobar con ogni genere possibile e immaginabile di superalcolico
(ma a prezzi ovviamente esagerati), televisione con il messaggio di benvenuto
"Dear Mr Davide" e le istruzioni visualizzate per informarsi sulle
funzioni e servizi alberghieri, il ferro e l'asse da stiro, una presa per il
modem addirittura allungabile, asciugacapelli, bustine di cappuccino già pronte
da miscelare con l’acqua fatta bollire direttamente in camera con la
macchinetta apposita, luci che si accendono e si spengono automaticamente
inserendo la carta magnetica nella fessura, e tantissimo altro ancora. Il tutto
a poco più di quaranta euro a notte. Paragonato agli alberghi italiani, che per
la stessa cifra offrono un terzo di tutto ciò, è lo specchio di una nazione
veramente ricca ed evoluta, attenta alla qualità dei servizi per i suo
cittadini.
Helsinki
La capitale della Finlandia è una città
famosa per le sue molteplici influenze culturali e la sua variegatezza. Si
parlano indifferentemente due lingue ufficiali eppur così dissimili, il
finlandese e lo svedese, e si notano chiaramente le influenze russe, data la
grande vicinanza col territorio sovietico e la lunga storia di battaglie e
collaborazioni che li accomuna. Appena usciti dall'affollata stazione centrale,
vediamo subito una città molto animata, mille volte più di Oslo: c’è gente
di ogni nazionalità, edifici di ogni tipo di architettura, generalmente non
molto elevati. Il sistema di trasporti pubblici e di regolamentazione del
traffico è ottimo: Helsinki è tralaltro l'unica città finlandese a fare uso
di metropolitane e tram. Dopo una breve sosta ad un fast food la nostra prima
tappa è il conosciuto Kauppatori, il mercato del pesce all’aperto: passiamo
solo davanti alle sue bancarelle arancione brillante, promettendoci di
rivisitarlo in seguito, tirando dritto per vedere subito la famosa chiesa
luterana, il cosiddetto Duomo di Helsinki situato in piazza del Senato,
accoppiato alla statua di Alessandro II di Russia che si staglia fiero in mezzo
alla piazza sul suo cavallo anch'esso di pietra. La chiesa è molto sopraelevata
e domina tutta la città, con queste scale interminabili su cui siedono
costantemente orde informi di turisti, l'enorme cupola centrale, le pareti
bianchissime sia all'esterno che all'interno, così perfettamente levigate e
candide da sembrare di ghiaccio. È la prima chiesa totalmente priva di
affreschi che vedo. Ha il suo fascino, è veramente imponente. La zona è invasa
dai visitatori, italiani in primis, per cui ci spostiamo presto in un'altra area
più tranquilla, a vedere una vera meraviglia di architettura e gusto artistico:
la Uspenskin Katedraali, chiesa ortodossa dall'inconfondibile stile russo. Ha le
murate rossastre e le classicissime cupole d'oro a cipolla, di cui due su un
lato appena sostituite che brillano decisamente più delle altre. Magnifica
all'esterno e soprattutto all'interno, che riusciamo a vedere non più di un
minuto prima che chiudesse. Ammiriamo tutti i quadri che tappezzano la parete,
anch'essi riccamente decorati e dorati, e finiamo con uno sguardo fugace rivolto
all'altissima cupola, in parte coperta da uno sfarzosissimo lampadario dalle
mille candele.
Riprendendo a girare per le vie del centro,
ci viene l'idea di comprarci qualcosa di alcolico, per festeggiare degnamente
almeno una serata con una buona bottiglia: l'idea è subito accolta, ma dobbiamo
stare attenti a come fare. Anche in Finlandia gli alcolici non sono ben visti
dalla polizia, e si vendono solo in negozi appositi (nonostante ciò non riduca
di molto il problema dell’alcolismo anche qui molto sentito). Veniamo a
conoscenza di un negozio di alcolici non molto lontano da dove ci troviamo, e lo
puntiamo speditamente: l'età necessaria l’abbiamo superata, nessun
impedimento. In quel negozio c'è ogni tipo di alcolico esistente al mondo, vini
provenienti da ogni angolo del pianeta, Italia inclusa, si arriva perfino
all'Australia. Individuo quasi subito una solitaria bottiglia di vermouth rosso
a buon mercato, in un angolino di uno scaffale e coperta da un leggerissimo velo
di polvere, a testimoniare il tempo che ha passato lì senza che nessuno la
prendesse in considerazione. Insisto per comprarla, snobbando il ben più
gustoso ma costosissimo Martini che campeggia in bella vista poco più sopra,
perfettamente pulito. Alla fine ho la meglio: l’impolverato ma onesto vermouth
sarà il nostro festeggiamento della serata, quando torneremo all’ovile.
Sotto la pioggia che inizia a cadere leggera
arriviamo ad un imponente chiesa tedesca, purtroppo chiusa. E' un vizio dei
nordici quello di aprire le chiese solo per pochissime ore al giorno, non
riusciamo veramente a capire il perchè. Un po’ scornati proseguiamo arrivando
ad un'altra chiesa (sono veramente tante qui!), dedicata a San Giovanni: ricorda
un po’ Notre Dame di Parigi per le sue due torri identiche sulla parte
frontale, enormemente alte. Anch'essa è di stile luterano, è la chiesa in
pietra più grande della Finlandia. Magnifica all'interno e all'esterno, specie
nelle vetrate colorate, la mia parte preferita di ogni chiesa: hanno un che di
celestiale, che non può fare a meno ogni volta di lasciarmi senza fiato, come
quando visitai la Sainte Chapelle, una piccola cappella gotica nel centro di
Parigi quasi interamente composta da vetrate coloratissime e celestiali.
Dopo questa meraviglia tocca ad un'altra chiesetta luterana dall'altra parte della città, completamente incastonata nella roccia: dopo una lunghissima camminata per raggiungerla, fortunatamente la troviamo ancora aperta. Il sacerdote, con il suo lungo abito talare verde, sta celebrando messa. La roccia forma un cerchio tutto attorno alle panche e all'altare, con l'organo incastrato in un'altura sulla sinistra. Il tetto ramato è sostenuto da dei fitti piloni di acciaio su tutta la circonferenza, con un effetto di contrasto tra l'antico e il moderno davvero sorprendente. Ascoltiamo un po’ il prete finlandese mentre declama i passi del Vangelo nella sua lingua così incomprensibile, per poi ritornare sui nostri passi fino all’albergo.
Il vermouth
Soddisfatti dalla giornata molto produttiva,
escogitiamo ogni sistema possibile per rendere la pantofolaia serata divertente:
in un lampo di genio, cerchiamo di connettere il lettore Mp3 alla televisione,
sperando che siano compatibili, ma non è munita di presa adatta. Così
ripieghiamo mettendo gli auricolari a volume massimo e incollandoli con lo
scotch agli angoli della televisione, rivolti verso di noi e verso l'alto per
sentire il più possibile, cose che solo due malati di mente si possono
inventare. Apriamo la bottiglia soddisfatti, vuotandola lentamente bicchierino
dopo bicchierino, in allegria. I momenti più divertenti si verificano quando
Davide fa una capriola sul letto e io gli intimo di smetterla di fare quei
"trabaglioni", parola completamente senza senso, non so assolutamente
cosa avessi voluto dire, mi è uscita proprio spontanea. Altro momento da risate
assicurate è quando tento di versare altro vermouth nel bicchiere, inclinando
sempre di più la bottiglia fino quasi a metterla in verticale, col vino che non
ne vuole sapere di uscire, finchè mi accorgo di non aver tolto il tappo. Ci
addormentiamo di lì a poco, dopo esserci raccontati vecchie storie di liceo e
di vita vissuta, tutte ricordate con grande nostalgia e un velo di tristezza, ma
che ancora oggi ci fanno sorridere come allora. Davide si addormenta dopo di me,
con la pancia all'aria esposta al freddo, svegliandosi solo verso le quattro
causa una vescica tesissima. Si renderà conto solo allora di aver lasciato
tutte le luci accese. Io non mi accorgo di nulla dormendo come un sasso fino
alla mattina successiva.
Helsinki
Un po’ rimbambiti e assonnati, con la
schiena indolenzita dai morbidissimi letti d'albergo tanto invitanti quanto
dannosi per la colonna vertebrale, ritardiamo la colazione per riprenderci un
po’ dagli effetti dell’alcol. Approfittiamo comunque di quanto ci viene
offerto dal generoso buffet, logicamente molto più ricco di quello seppur
abbondante nell'ultimo ostello a Kuopio: ci sono perfino le uova e il bacon per
qualche eventuale inglese in vacanza, cibarie che ovviamente noi stiamo male
solo a guardare. Ci accontentiamo di qualche croissant con caffelatte, per poi
ripartire alla volta di Helsinki, oggi sarà un'altra dura giornata di turismo
culturale. La prima attrazione del giorno è il museo di arte moderna, che a me
non ha mai interessato molto ma non possiamo escludere dalla lista: ad Helsinki
i posti da visitare non sono poi moltissimi. Dentro non c'è granchè: i soliti
panni sporchi stesi e venduti come opere d'arte, forme bizzarre o quadri
monocromatici, lattine di colore tremendamente arrugginite ed ammassate tutte
assieme a simboleggiare il lavoro dell'artista. La classica frase che viene da
pensare quando si assiste a tali opere è "Ma queste potrei farle anch'io,
anzi meglio di loro!", e nonostante quello che dicano gli esperti in
materia sui significati nascosti che celano, sono convinto che sia la pura e
semplice verità. Ma questa è solo una mia considerazione personale: certe
opere sono anche affascinanti, a volte inquietanti. Una su tutte il video di un
gruppo di bambini, probabilmente in qualche zona dell'Est europeo devastata
dalla guerra, che prendono letteralmente a mazzate una vecchia automobile,
trasformata in giocattolo da sfascio in mezzo alla strada. I genitori assistono
a metà tra il divertito e l'indifferente, fino all'arrivo della polizia che
mette fine al "gioco". Non so se il video sia autentico o costruito ad
arte, ma nel caso fosse vero sarebbe veramente disturbante, simbolo di violenza
e degrado a livelli preoccupanti.
Decisamente più ricco ed interessante il
secondo museo, dedicato alla storia di Helsinki e della Finlandia in generale,
dalla preistoria fino ai giorni nostri: dai chopper scheggiati dell'età della
pietra, alle sfavillanti cotte di maglia medioevali, fino alle coloratissime e
ormai dismesse markke finlandesi, la valuta abbandonata da qualche anno in
favore dell'euro e ormai esposta in museo come una rarità. Terminata la
lunghissima visita, optiamo per qualcosa di più classico: un giretto di piacere
al mercato del pesce, vero cuore di Helsinki, affacciata direttamente sul Golfo
di Finlandia. Si tratta del centro nevralgico della città: nelle vicinanze si
trovano quasi tutti gli attracchi per i battelli che visitano le isolette
circostanti, molto numerose e ricche di interessanti attrazioni turistiche. Una
pista ciclabile l’attraversa completamente, nelle intersezioni ci sono i
soliti semaforini e addirittura vediamo un comico cartello di pericolo recante
due bici che si stanno per scontrare, invitando i ciclisti a rallentare nel
punto di intersezione tra le due corsie: quando mai in Italia troviamo
segnalazioni e semafori costruiti apposta per i ciclisti, costretti il più
delle volte a improbabili percorsi sui cigli della strada mentre le auto
rischiano costantemente di travolgerli? Nelle bancarelle si vende ogni tipo di
cibaria e souvenir, tra cui gli ottimi kalakukko: li compriamo senza sapere che
sono un piatto tipico finlandese. Lo scopriamo poco dopo: si tratta di squisiti
panini di segale imbottiti di salmone e verdure miste, da servire caldi o freddi
a seconda dei gusti del consumatore, e che ci sbafiamo con enorme soddisfazione
dal primo all'ultimo boccone, sotto le tende arancioni che ci riparano anche dal
sole veramente noioso. Dopo numerosi pranzi e cene in ristoranti indegni di
questo nome che servono cibo spazzatura, veloce ed a buon mercato quanto si
vuole, ma decisamente poco sani, questo è un piacevole diversivo: con lo
stomaco non troppo pieno date le piccole dimensioni dei panini, ma pienamente
soddisfatti, ci prepariamo per la visita alla storica isola di Suomenlinna, a
pochi minuti di traghetto da dove ci troviamo: un arcipelago di sei isole,
anch'essa protetta dall'Unesco ed inserita nei Patrimoni dell'umanità.
Nella zona sono presenti molte attrazioni
come la fortezza e il sottomarino della seconda guerra mondiale, ora trasformato
in attrazione turistica. Al nostro arrivo l'isola non è invasa da turisti, c'è
un vento freddo e un'aria di pioggia che si sta preparando a cadere. Camminando
lungo le strade ghiaiose e ciottolate circondate da mura, sbuchiamo in un campo
da calcio vuoto con tanto di pallone dove ci divertiamo a suon di tiri liberi,
ma dopo poco ci stanchiamo ed iniziamo la visita vera e propria. A poca distanza
infatti c'è il museo principale dell'isolotto, dedicato alla fortezza. Una
volta scoperto però che pagando una cospicua cifra per entrare avremmo solo
visto un video che illustra tutta la storia dell'isola, optiamo per visitarla di
nostra iniziativa. Lungo le stradine ciottolate si respira l'atmosfera delle
guerre del Settecento, quando la Svezia, onde evitare di subire l'ondata
dell'espansionismo russo, mise in mezzo la Finlandia a fare da tappo,
fortificando pesantemente l'isola. I bastioni sono ormai ricoperti in gran parte
d’erba, che la ripara quasi completamente dagli sguardi provenienti dal cielo,
rendendo la fortezza quasi indistinguibile dalla vegetazione. In centro svetta
fiera ed altissima la bandiera finlandese, come a simboleggiare l’eterna
indipendenza rivendicata da questo piccolo e coraggioso Stato.
Il sottomarino
L'attrazione più interessante che vediamo a
Suomenlinna è però il vecchio sottomarino, l'unico rimasto della flotta
finlandese dai tempi della guerra. Esternamente è verniciato di rosso e bianco,
un po’ sbiadito dai suoi anni di servizio sott’acqua. E’ completamente
emerso ed incastrato in modo apparentemente precario su degli scogli costieri,
che reggono in pochi punti quasi tutto il suo peso. Con due euro ci guadagniamo
una visita in questo minuscolo ambiente vitale che ai tempi scendeva chilometri
sott’acqua, tra la paura dei marinai che potevano da un momento all’altro
vedere quell’angusto barattolo di lamiera riempirsi d’acqua e fiamme dopo
una silurata. L’interno è stupefacente: la poca luce artificiale non permette
di vedere nel dettaglio tutti i particolari, ma ciò che si vede è già
sufficiente per capire di trovarsi in un miracolo di ingegneria. Ogni centimetro
quadrato di parete è percorso da tubi di acciaio ognuno col relativo manometro
per la pressione, si intersecano tutti in un labirinto intricatissimo. Il
passaggio centrale è strettissimo e si fa fatica a passarci, nonostante siamo
praticamente gli unici visitatori del momento. Un’estremità ospita i vecchi
siluri, finalmente inoffensivi. I marinai non potevano vedere i siluri nemici
che puntavano spediti contro il proprio sottomarino: potevano solo sentirne i
boati, sperando di essere stati mancati. In caso contrario, sarebbero stati guai
grossi: non riesco ad immaginare la forza di volontà e lo spirito di
adattamento che dovevano possedere questi uomini, per non impazzire
sott’acqua. Le cuccette dei marinai, ormai senza materassi né coperte, sono
anch’esse terribilmente anguste: non v’è nemmeno lo spazio per girarsi,
dovevano essere di una scomodità unica. Ringrazio chi di dovere di non essere
nato in quegli anni di insensata e sanguinosa guerra.
Doppio arcobaleno
Usciti con molta difficoltà dal portellone
posteriore, ci troviamo sotto una pioggia intermittente ed estremamente
fastidiosa, peggiorata dal vento che la fa scorrere praticamente di lato. Il
battello senza tetto ci riporta indietro verso la terraferma, mentre
fortunatamente spunta un accenno di sole. Vediamo durante la traversata alcune
isolette di pochissimi metri quadrati con una sola casetta al centro, tutte
munite del proprio personale attracco per le barche. Ci fanno sorridere: chi mai
vivrà in quel fazzoletto di terra in mezzo al mare, che sembra quasi una di
quelle isole microscopiche con l'unica palma da cocco centrale tipicamente
associate ai naufraghi da messaggio in bottiglia? Mentre ci immaginiamo le
possibili risposte, attracchiamo e ricominciamo i nostri giri, da viaggiatori
instancabili (o quasi) quali siamo, trovandoci di fronte ad un fenomeno
eccezionale: un doppio arcobaleno sullo sfondo della chiesa ortodossa, il primo
prepotentemente visibile, il secondo tenue ed appena accennato, entrambi che
formano un arco sopra le bellissime guglie d'oro. Piove con il sole che splende,
è un momento davvero particolare che ancora una volta mi fa sentire fiero di
essere lì. Approfittiamo della schiarita che comincia a diventare definitiva
per riposarci un po’ seduti di fronte al porto: osserviamo attentamente le
navi attraccate con i ristoranti all'aperto sui ponti, le grosse gomene tutte
avvolte attorno alle bitte per evitare che i battelli scappino via sospinti
dalla continua brezza, e in lontananza le enormi navi da crociera, mosse dalle
loro centinaia di resistenti motori diesel che le sospingeranno lungo i mari per
giorni interi. Recuperate sufficientemente le forze dopo la stancante giornata,
ripassiamo nella piazza del Senato per raggiungere la stazione centrale,
intercettando un'esibizione di canto con centinaia di persone in piedi sulle
scale ognuna col suo leggìo. Dopo averle ascoltate per un po’, insieme a
tutti i turisti che affollano la piazza e si sono fermati come noi per assistere
allo spettacolo, riprendiamo la via dell'albergo, dove troviamo un'altra
sorpresa: i nostri vestiti, lasciati stropicciati e ammassati irregolarmente sui
letti anch'essi sfatti, sono ora perfettamente stirati e piegati, sui letti di
nuovo perfettamente lindi e senza nemmeno una piega. Un servizio decisamente
diverso a quello a cui siamo abituati da qualche settimana, e che rischia di
viziarci un po’ troppo! Un bel bagno nella spaziosa vasca per eliminare tutta
la sporcizia e la stanchezza residua, e poi subito tra le braccia di Morfeo,
preparandosi all'ultimo giorno da passare nella capitale.
Lo
zoo
Questa
volta la sveglia suona un po’ più tardi, non avendo scadenze precise da
rispettare la mattina, così possiamo dormire un po’ più del solito. I dolori
al rachide dovuti all'eccessiva morbidezza dei materassi
sono ancora presenti, ma attenuati rispetto alla scorsa
mattina, ci stiamo già abituando. Liberi stavolta da qualsiasi effetto
collaterale di bevande alcoliche, possiamo finalmente permetterci una
pantagruelica colazione, in cui torniamo a riempire il piatto più e più volte
di qualsiasi cibaria presente sui tavoli, incuranti degli effetti di riflesso
che probabilmente comporteranno sul nostro intestino. Il caffè viene erogato
dalle macchinette in quantità esagerata per come siamo abituati: l'equivalente
di una moka da tre qui vale per una persona sola come prima colazione, per cui
sono costretto a buttarne via gran parte per poterlo diluire: non è possibile
farsene dare di meno dalle macchinette tarate apposta per elargire quelle
quantità e non di meno. La cameriera si stupisce del mio gesto, non riesce a
credere che si possa buttare via del caffè, ma mi lascia fare senza obiettare.
Una volta pieni da scoppiare come delle enormi larve superalimentate, da far
fatica ad alzarsi dalla sedia, barcolliamo lentamente verso la camera per
recuperare tutto il necessario per la giornata. Questa mattinata la passeremo
allo zoo su un'altra isoletta vicina a Suomenlinna. Un legnoso battello percorre
in poco più di un quarto d'ora il tratto di mare che ci separa dagli animali.
Il controllore vende i biglietti direttamente sul traghetto, di vario colore a
seconda della fascia di età, comprendenti traversata e ingresso. Un timido
scoiattolo che corre qua e là velocissimo in preda all'agitazione, scomparendo
infine in cima ad un albero, ci dà il benvenuto sulla stradina che conduce alle
gabbie dei grandi felini. Il leone è in siesta pomeridiana, così come la
tigre, che a malapena apre gli occhi sentendoci arrivare, ancora pesantemente
assonnata. I ghepardi sono un po’ più attivi ma si muovono in modo artefatto,
ripetendo gli stessi movimenti ossessivamente, probabilmente molto sofferenti
per la loro condizione di prigionia. Un simpatico gatto selvatico sta dormendo
appollaiato in cima ad un albero, con l'espressione beata che hanno tutti i
gatti durante il sonno. Ce n'è per tutti i gusti: le alci con le loro
ramificate corna, i cammelli dal morso e dallo sputo facile, le povere gazzelle
costrette in poche decine di metri quadri di spazio, dove non possono certamente
correre con tutta la velocità di cui sono capaci nella savana. I canguri con le
loro zampette anteriori così corte che usano solo per raccogliere il cibo, e la
loro buffa andatura saltellante così caratteristica. Gli emù, grossi uccelli
molto simili agli struzzi ma dal piumaggio molto più scuro, che ci guardano con
un'espressione bellicosa, decisamente ostile. I vanitosi pavoni, in stato di
sorprendente semilibertà, che davanti a noi non si sprecano a fare la loro
ruota, riservata unicamente ad impressionare gli esemplari femminili. Gli
scortesi lama, notoriamente di carattere difficile, che scappano non appena ci
vedono arrivare. Gli enormi bisonti, dal peso che può raggiungere la
tonnellata, intenti a masticare tranquillamente la loro paglia, con quella parte
anteriore così enorme in confronto a quella posteriore, e le possenti corna che
ucciderebbero qualsiasi essere umano osasse sfidarli. Particolarmente divertente
il branco di babbuini dal sedere rosso e prominente, estremamente agili
nell'arrampicarsi su qualsiasi appiglio trovino. Il loro urlo è lancinante e
stridente, a volte iniziano tutti insieme a gridare senza alcun apparente
motivo. Uno di loro si porta dietro un pezzo di legno per minuti e minuti
credendo di aver trovato un tesoro, per poi lanciarlo a terra spezzandolo.
Rimaniamo a guardarli per diverso tempo, specie quando la porticina metallica si
apre e gli permette di entrare nella giungla artificiale, dove amano darsi la
caccia gridando come ossessi e rotolando sulle reti appositamente studiate per
le loro acrobazie. All'interno, in gabbie di vetro, troviamo gli animali
amazzonici ed africani: gli orribili scarabei ammassati a centinaia, grossi come
una noce se non di più, che farebbero scappare terrorizzato anche il più
coraggioso degli esploratori. I serpenti boa, in grado di stritolare un uomo in
pochi secondi, ma fortunatamente inoffensivi e anche piuttosto pigri dietro i
vetri. Poi una serie innumerevole di animali marini, ragni, crostacei ed
echinodermi, purtroppo non c'è più tempo e dobbiamo scappare a prendere il
traghetto per il ritorno.
La
nave
Dei
fotografi che ci mostrano tutti e trentadue i loro denti in un sorriso radioso
ci invitano a farci fotografare poco prima di salire, è impossibile rifiutare
dato che hanno messo le macchine fotografiche in posizione strategica;
probabilmente tutto ciò serve ad avere un qualcosa di identificativo nel caso
qualcuno si perda o abbia dei problemi di qualche genere. Due pagliacci vestiti
nei modi più strani ci accolgono salutandoci calorosamente, e finalmente
riusciamo ad accedere al settimo piano, quello dell'imbarco. Subito ci guardiamo
intorno increduli di ciò che vediamo da ogni lato: centri commerciali
mastodontici, l'insegna di un casinò in fondo al corridoio, degli ascensori con
la parete trasparente in cui vediamo le persone salire e scendere da ogni dove,
uomini sui trampoli a far divertire i bambini. Per la gioia degli amanti del
gioco d’azzardo, c’è una quantità smisurata di videopoker e macchinette
ripiene di monetine in bilico sul bordo magnetizzato e protetto dall'
Intelligent Crash, che cadranno solamente quando verranno spinte da sufficienti
altre monete inserite una dopo l'altra da chi pensa di essere abbastanza abile e
fortunato. Un ottimo modo per perdere i propri soldi! Mentre camminiamo, un mimo
vestito di bianco e nero luccicante e con la faccia pittata degli stessi colori
intercetta la camminata di Davide, piazzandosi dietro di lui e seguendo ogni suo
movimento, in modo insistente e piuttosto irritante. Il nostro eroe per un po’
fa finta di niente sperando che il buffo personaggio molli la presa, ma non
sembra proprio che se ne voglia andare…così riesce a liberarsene simulando un
impatto contro una ringhiera e piegandosi in due, da cui il mimo per seguire
quella posizione avrebbe creato situazioni imbarazzanti! Congratulandosi per la
trovata, il pagliaccio finalmente lo lascia in pace e va ad importunare qualcun
altro. La nostra cabina è al quinto piano, il più basso a cui si trovino le
cuccette: si trova in fondo ad un dedalo inestricabile di corridoi tutti uguali
in cui si rischia seriamente di perdersi, ma almeno le indicazioni sono chiare,
e la troviamo velocemente. E' un buco senza finestre, con due letti a castello e
pochissimo spazio vitale, ma ci accontentiamo volentieri. Sempre meglio che
dover dormire sul ponte come avremmo dovuto fare se avessimo scelto l'altra
compagnia, tralaltro pagando il viaggio senza cabina addirittura di più.
Un
australiano dai spiccati lineamenti orientali entra con noi, rivelando di essere
il nostro compagno di stanza: è molto discreto e non dà mai fastidio, così
come noi non ne diamo a lui. Non vogliamo rimanere troppo a lungo in quel
container claustrofobico, la nave è troppo grande e piena di sorprese per non
essere esplorata da cima a fondo. Il panorama che si ammira dal dodicesimo e
ultimo piano, ovvero il ponte protetto quasi ovunque da ringhiere ricurve che
impediscono agli aspiranti suicidi di buttarsi di sotto, è eccezionale: vediamo
buona parte delle insignificanti isole che riempiono la baia di Helsinki,
incluse quelle a casa singola, davvero buffe. Il settimo piano invece è dotato
di ogni comodità e negozio possibile e immaginabile: c’è perfino un negozio
"tax free" in cui non si paga l'IVA sui prodotti, istituito apposta
per i turisti. Lì si possono comprare merci a metà prezzo o anche meno, come
le bottiglie di vodka pura da due litri fatte pagare come quelle da 70
centilitri che vediamo nei nostri supermercati. I pacchetti di caramelle sono
come minimo da mezzo chilo l'uno, sempre a prezzi stracciati. Cediamo al peccato
di gola comprando una confezione di dieci barrette al cioccolato al caramello,
ad un prezzo mai visto prima. Il massimo dell’esagerazione si raggiunge con i
chupa chups da 180 grammi, praticamente delle clave. Ma non è certo finita qui:
nella nave ci sono uffici di cambio soldi, negozi di vestiti d'alta moda,
ristoranti costosissimi. Notiamo anche una bacheca sulla quale sono appese tutte
le foto che ci sono state fatte alla partenza: troviamo anche le nostre! Le
preleviamo subito senza informarci se fossero a pagamento o meno, vedendo che
così fan tutti. Il piatto forte però arriva soltanto alla sera: non possiamo
certo perderci una serata al casinò che campeggia in bella vista in fondo al
corridoio con la sua grossa insegna luccicante.
Gioco
d’azzardo
Il
notevole fascino del gioco d’azzardo fa sì che sia molto difficile smettere
di giocare una volta iniziato: di venti centesimi in venti centesimi, alla
coloratissima macchinetta del videopoker, ci promettiamo ogni volta un tetto
massimo di spesa oltre il quale non andare. Tale tetto viene però ridefinito
continuamente, schiacciato dall'eccitazione e dalla voglia di rischiare di più.
Ci rendiamo conto di quanto sia pericoloso lasciarsi tentare da questo tipo di
giochi, se già con pochi centesimi di euro è difficile darsi un freno. Avendo
conosciuto personalmente gente che si è rovinata col gioco d'azzardo, l'effetto
che mi fa è ancora più forte. Dall'altra parte della sala, due croupier stanno
decidendo le sorti di accaniti giocatori, soprattutto giapponesi, al black jack
e alla roulette. Le loro dita sciolte manipolano abilmente le carte distribuite
una alla volta e lentamente scoperte sotto gli occhi ansiosi di chi ha puntato.
I soldi giocati sono appena stati fatti sparire, talvolta per sempre,
inghiottiti in apposite buche nel tavolo verde. La pallina lanciata senza
sbavature in direzione contraria al senso di rotazione della roulette decreterà
presto se i portafogli dei giocatori si alleggeriranno o appesantiranno a fine
serata, in un tiro della sorte completamente imprevedibile e per questo
estremamente tentatore. Banconote da dieci, venti, cinquanta euro passano
continuamente sotto il nostro naso fin nelle mani dei croupier, dall'espressione
di ghiaccio completamente indifferente a tutto quel movimento di soldi e a
quella febbre del gioco. È affascinante guardare queste scene di tensione
silente, esplosa talvolta in contenuti gesti di stizza e di rammarico per le
centinaia di euro appena buttate via, talvolta in gioiosi abbracci per le
cospicue vincite ottenute. Nessuno purtroppo sta giocando al poker con le vere
carte, a cui avremmo assistito molto volentieri, da cui torniamo ad aggirarci
nei dintorni delle macchinette in cerca d’avventura. Un videopoker vuoto da
qualche minuto attira la nostra attenzione: ha un bottone rosso lucente, che
normalmente è spento. Schiacciamo quello che è il pulsante di recupero ora
illuminato, solo per curiosità, e magicamente scendono cinque monete da un
euro. Ci guardiamo increduli: com'è possibile che le abbiano lasciate lì? Le
prendiamo mettendole in tasca senza dare nell'occhio e passiamo alla macchinetta
successiva, anche lei col pulsante di ritorno del credito stranamente
illuminato: altri tre euro guadagnati senza sforzo. Da quel momento in poi non
facciamo altro che aggirarci come avvoltoi tra le slot machine, cercando qualche
monetina dimenticata da poter puntare. Approfittiamo di quell'insperata vincita
per giocarcene una parte, stabilendo però un tetto massimo invalicabile da non
superare per nessun motivo, stavolta rispettato. A volte puntando venti
centesimi, altre volte quaranta, si perdono un po’ di soldi e poi se ne
riguadagnano il triplo, per poi perderne il quadruplo. Un andatura altalenante
che ogni volta che sembra stia per finire in realtà ricomincia in modo del
tutto inaspettato, vincendo cinque volte tanto dopo che l'ultima monetina utile
è stata puntata. Come era prevedibile, in finale perdiamo tutto quello che
abbiamo deciso di puntare, ma riusciamo ancora a recuperare altri due o tre
euro, lasciati direttamente nel piatto metallico sotto le macchine da qualche
distratto utente che si è dimenticato di riprendersi i suoi spiccioli.
La
mezzanotte è passata da un po’, e si vedono le prime scene di palese
ubriachezza: un finlandese piuttosto pingue, con i capelli biondi a spazzola,
sta dormendo beatamente a sghimbescio sulla sua sedia. Il suo bicchiere di
Bailey's è ancora pieno fino all'orlo, e il suo compagno sta tentando
inutilmente di svegliarlo battendo sempre più forte col bicchiere sul tavolo,
senza però darsi troppa pena per il fallimento della missione. Il ragazzone
viene poi svegliato in qualche modo da altri finlandesi che scuotendolo e
incitandolo riescono perlomeno a farlo rimettere seduto dritto, ma non vorrei
essere tra quelli che poi tenteranno di farlo alzare. Altri individui poco
raccomandabili cominciano ad aggirarsi nei dintorni, da cui vista anche l'ora
tarda decidiamo di uscire dal casinò e tornarcene in cuccetta. All'entrata dei
nostri corridoi vediamo un altro finlandese collassato sul fondo delle scale,
completamente ubriaco, poi un altro in piedi con la faccia rossa come un
peperone e l'espressione stranita che ci fissa dall'imboccatura del nostro
corridoio. Prudentemente deviamo per la strada più lunga, per evitare di
passargli davanti. Riusciamo a raggiungere la nostra camera senza essere
aggrediti da ubriachi vaganti, la banda magnetica fa un po’ di bizze prima di
consentirci di entrare, ma alla fine pulendola bene con i fazzoletti la tessera
fa il suo dovere e siamo finalmente al sicuro.
Stoccolma
E' impossibile capire che ore sono, se non
si esce da quella cabina o non si ha un orologio: la totale assenza di finestre
è un po’ fuorviante, potrebbero tranquillamente essere le quattro di mattina
come le due di pomeriggio col sole altissimo nel cielo, e non ce ne accorgeremmo
ugualmente. In piena notte mi sveglio sentendo degli strani rumori: tendo
l’orecchio per capire cosa siano quegli scricchiolii e quei suoni di paratie
che paiono aprirsi e chiudersi. La nave sembra essersi fermata: scopro ora che a
metà notte la nave effettua questo scalo alle isole Åland, poste a metà tra
Helsinki e Stoccolma. Guardo l’orologio: sono più o meno le tre. Mi
riaddormento subito dopo, senza più preoccuparmi dei rumori della nave. Alle
otto ci svegliamo tutti e due con la sveglia che suona insistentemente, e presto
ci leviamo dalle piccole ma comode brande per fare una veloce colazione prima di
scendere dalla nave, che di lì a poco sarà a destinazione. Una volta mandato
giù qualche biscotto e due sorsi di succo, la nostra abituale ed ormai odiosa
colazione, facciamo un'altra veloce ispezione nella zona del casinò, sperando
che sia ancora aperto per raccogliere i frutti di un'intera notte di gente che
ha lasciato monetine nei videopoker. Come immaginato, è tutto chiuso. Nelle
macchinette sul largo corridoio centrale però rinveniamo ancora qualche
centesimo, subito giocato e logicamente subito perso, prima di veder campeggiare
la scritta "Fuori servizio", annunciata da un rumore tremendo della
macchinetta stessa. Probabilmente si sono dimenticati di spegnerla la sera
prima, dato che è l’unica funzionante. Soddisfatti di quest'ultimo raid
mattutino, recuperiamo tutti i bagagli e ci apprestiamo a seguire la marea di
gente che si sta ammassando alle uscite, tutti in attesa di visitare questa città
così famosa e lungamente descritta come una splendida capitale nordica.
L’australiano nostro compagno di stanza ci saluta augurandoci buona fortuna,
ricambiamo e lo vediamo sparire lungo una rampa di scale.
Prima che possiamo rendercene conto la nave
ha già attraccato al porto di Stoccolma: siamo tornati in Svezia. Ripercorriamo
i corridoi sospesi velocemente per raggiungere la nostra metrò, la famosa
Tunnelsbana. Molto decorata e ricca di vetrine con esposizioni artistiche, un
misto tra una metropolitana e un museo! Il tunnel però non ci esalta, in quanto
l'arrivo è piuttosto caotico e stressante: la città e in particolare la metrò
sono affollatissime, fa abbastanza caldo e intercettiamo continuamente
passeggini che ci sbarrano la strada e ci rallentano pesantemente incastrandosi
dappertutto, specialmente ai girellini della metropolitana. Chiedendoci come sia
possibile che tutta questa gente abbia così tanti figli piccoli e se li porti
sempre in giro, prendiamo il primo treno diretto alla zona del centro storico,
famosa per la sua densità di edifici antichi e dall'indiscutibile fascino.
L'isoletta di Gamla Stan, il vero nucleo centrale della città risalente al
Medioevo, è colma di edifici sontuosi come la chiesa mortuaria di Riddarholmen,
la cui svettante ed appuntita guglia di ferro tocca la ragguardevole altezza di
novanta metri. Lastricata internamente di pietre tombali che ospitano i resti di
tutti i re svedesi fino all'epoca contemporanea e con stampigliati sulle pareti
tutti gli stemmi e trofei dei cavalieri dell'ordine dei Serafini, dà proprio
l'idea di un luogo di eterno riposo. Poi viene la monolitica Residenza Reale,
l'edificio più importante e rappresentativo di Stoccolma. È la vecchia
abitazione dei re, che però vediamo solo dall'esterno, giallognola e squadrata.
La città ha alle spalle una grande storia, e questo quartiere ne è la
dimostrazione. Una carrozza trainata da cavalli che sta passando proprio in quel
momento in mezzo alla piazza contribuisce ad aumentare l'aria di medioevo che
aleggia densa attorno a noi.
Ammirati da questo quartiere così
particolare, proseguiamo la nostra visita verso il gigantesco municipio, con
un'alta torre che domina il mare appena adiacente. Riusciamo a salire in cima
dopo un'ora intera di coda, estenuante la lentezza con cui si susseguono i
turisti: si può entrare solo in pochissimi alla volta. Il panorama dalla cima
comprende tutta la città, ben visibile in tutta la sua grandezza di maggiore
capitale nordica, nonostante il tempo non sia esattamente soleggiato. Ci aspetta
poi la visita all’enorme Palazzo Reale, dove dei soldati vestiti di verdognolo
con gli stivali bianchi stanno pronunciando ordini in lingua incomprensibile,
comandando il cambio della guardia e marciando a passo sicuro mentre nutrite
schiere di turisti osservano curiose. L'ingresso dei quattro musei lì ospitati
è presieduto da una guardia solitaria, armata di fucile a baionetta, che ha
l’ordine di non muoversi nè parlare. Nonostante ciò un turista sta
intavolando con lui una specie di conversazione, nella quale però le
proporzioni sono fortemente sbilanciate: la guardia si limita a rispondere con
qualche parola seccata, trasgredendo agli ordini per la disperazione, mentre il
curioso e logorroico importuno non accenna proprio a smettere di fare domande.
Deve essere già particolarmente noioso stare ore e ore in piedi senza potersi
muovere, in balia di qualsiasi condizione atmosferica e senza nemmeno poter
andare al bagno, se poi si aggiungono anche le seccature dovute ai turisti, è
il colmo. L'interno del palazzo è magnifico: le stanze sono enormi, spaziose,
riccamente decorate con ogni genere di affresco e statue bronzee incastonate
negli spigoli delle pareti che sembrano tenersi alle due travi d’angolo. Ve ne
sono quattro, a formare un cerchio che abbraccia tutta la stanza. Tanta
ricchezza è impressionante, tutto questo sfavillare d'oro quasi abbaglia la
vista.
Nei sotterranei possiamo ammirare delle
corone e spade tempestate di diamanti e pietre preziose in ogni centimetro
quadrato, oggetti straordinari dall'altissimo pregio, che osserviamo senza
pronunciare parola. Finita la visita ai ricchissimi musei, è tempo di visitare
altri gioielli, come la cattedrale di Storkyrkan. I suoi colonnati sono in
mattone rosso a strisce biancastre che sorreggono le tre lunghe navate, mentre
spicca il maestoso altare argentato con la consueta e splendida vetrata colorata
circolare sulla cima. Perla finale è la complessa e finemente rifinita statua
rappresentante la lotta tra San Giorgio e il drago, terminatasi con la sconfitta
di quest'ultimo secondo la leggenda raccontata dai tempi delle Crociate, simbolo
dell'eterna lotta tra bene e male. Finisce qui la prima parte della scorpacciata
di storia e cultura locale che troviamo in questa affascinante città, per
occuparci di cose più banali, come cercare un posto dove poter mettere qualcosa
sotto i denti senza essere sorpresi dalla pioggia che continua ad andare e
venire, senza mai lasciare il cielo sgombro. A complicare le cose ci si mette
anche il vento freddo che spira dal mare, portando più nuvole invece di spazzar
via quelle presenti. L'unico posto tranquillo e riparato che ci viene in mente
per mangiare in santa pace è la stazione centrale dei treni, non avendo ancora
un ostello disponibile. Dovremo raggiungere il primo alloggio alla sera,
cambiando un treno e un bus, in una zona molto fuori Stoccolma. Tutto sperando
che il codice elettronico comunicatoci per telefono dal gestore, causa chiusura
della reception nel weekend, sia funzionante e ci permetta davvero di entrare.
Accantonata temporaneamente la preoccupazione e riempito lo stomaco, ripartiamo
per una visita nelle vie del centro, in particolare nel lunghissimo viale dei
negozi, dove se ne vedono davvero di ogni: prima tappa è il negozio di articoli
rock che subito puntiamo e setacciamo da cima a fondo con estremo interesse, per
trovare qualcosa che soddisfi la nostra più o meno forte “fede” metallica.
Poi tocca ai negozi di souvenir dove prendere le presine ricordo per la madre
rimasta a casa, fino ai negozi di vestiti ordinari e ai ristoranti tipici
italiani, da noi pesantemente snobbati visti i loro prezzi astronomici. Non
vogliamo certo spendere chissà quanti soldi per mangiare una banale pizza che
solo pochi giorni dopo avremmo potuto gustare di nuovo a metà prezzo in terra
d'origine. Per quanto riguarda il vestire, i pantaloni che abbiamo indosso ormai
da venti giorni sono più che sufficienti.
Le strette viuzze centrali, con qualche
guglia che spunta all'improvviso altissima da dietro un caseggiato che fino a
poco prima ne ha nascosto la vista, sono un piacere da percorrere, nonostante la
stanchezza delle gambe. Ci concediamo un altro momento di riposo sui gradini di
una statua nella piazza adiacente al golfo, dove dall'altro lato è ormeggiato
l'Af Chapman, il vecchio vascello a vela ormai trasformato in ostello. Non sarà
il nostro: avremmo dovuto prenotare come minimo due settimane prima per trovare
posto! Proseguendo troviamo un concerto rock in atto con una band che sta
suonando presumibilmente dei pezzi propri, dato che non conosco nessuna delle
canzoni che stanno suonando, e questo genere musicale lo mastico abbastanza
bene. Sono bravi, ma la gente è troppa e non c’è un posto dove poter stare
tranquilli, al che ci spostiamo in un’altra zona. A poche centinaia di metri
scopriamo che c’è l’Opera all’aperto, sotto un tendone, con l’orchestra
che intona il “Và pensiero”: perfino in Svezia sentiamo cantare italiano!
Il direttore d’orchestra si affanna con la sua bacchetta, piegandosi e
facendola volteggiare qua e là senza sosta mentre i musicisti, visibilmente
concentratissimi, eseguono i loro pezzi in modo magistrale. Applausi
scroscianti.
Tumba
Finita l’aria, proviamo a buttarci in
un’altra strada, decisamente affollata: un concerto di dimensioni enormemente
più grandi si sta preparando, non sappiamo chi dovrà suonare ma dall’aspetto
dei milioni di ragazzini che si sono riversati in strada possiamo capire che sarà
qualche plastificato idolo del pop o qualcosa di simile, che non ci attira per
niente. Spintonando e sbuffando riusciamo a liberarci dalla calca nella quale
imprudentemente ci siamo addentrati, e una volta faticosamente liberi
constatiamo che è tardi e ormai i musei sono tutti chiusi. Si sta facendo sera,
siamo stanchi e dobbiamo pensare a come raggiungere i nostri giacigli per la
notte: meglio muoversi, dovendo fare non poca strada. Alla stazione centrale non
viene accettato il biglietto interrail per la tratta fino a Tumba, dove si trova
il nostro alloggio, presumibilmente perchè non lo conoscono o perchè non hanno
ancora aderito all'iniziativa. Ci sembra strano e vorremmo protestare ma non
abbiamo molta scelta, dobbiamo fare i biglietti velocemente perchè tra pochi
minuti il treno partirà senza di noi. Sei euro per una tratta di venti minuti,
quando potevano essere gratuiti, sono seccanti, ma lasciamo correre. Tumba è un
altro paese un po’ come Luleå, sperduto nella campagna svedese, e del quale
non conosciamo nulla, se non poche informazioni confuse dateci per telefono
dagli ostellanti. Venti minuti di treno, col rosso tramonto visibile dai
finestrini di sinistra. Purtroppo le costruzioni su ogni lato della ferrovia non
ci permettono di apprezzarlo al meglio. Appena scesi possiamo subito vedere
l'autobus numero 708 che sta facendo il giro della piazza per posizionarsi sul
suo spazio, pronto a caricare i passeggeri: è uno di quelli che possiamo
prendere per arrivare in zona ostello. Un'altra corsa forsennata, per arrivare
giù mentre stanno salendo le ultime persone, per sentirci rispondere dal nero
autista, per giunta in italiano: "Qui non si fanno biglietti".
Scornati e maledicendo quell'autista così impietoso, anche se non è colpa sua
se non possiamo salire subito, ritorniamo sul sovrappassaggio per cercare un
punto che venda biglietti dei bus. Si comprano nello stesso punto da cui siamo
passati uscendo: anche qui l'interrail non ha alcun effetto per ridurci le
tariffe, e dobbiamo pagare l'esorbitante cifra di diciotto euro per un tragitto
di pullman della durata sì e no di un quarto d'ora.
Decisamente arrabbiati per la fregatura
presa, dato che con tutti quei soldi in più spesi avremmo potuto dormire in un
albergo per giunta in pieno centro, scendiamo con passo svelto per aspettare
l'autobus. Speriamo che come minimo quel biglietto valga anche per il ritorno,
dato che è stampato su entrambi i lati. L'autista che arriva venti minuti dopo
è molto più gentile e disponibile, timbra il biglietto in corrispondenza del
secondo riquadro (su sedici totali, ma noi non abbiamo assolutamente chiesto un
abbonamento!), e ci rassicura di essere sull'autobus giusto. La nostra fermata
è in un posto che definire isolato è un eufemismo: dobbiamo scendere in una
rientranza di un lunghissimo stradone dritto con alberi e campagne ad entrambi i
lati, e pochissimo altro, se non fosse per un enorme cartello che segnala un
ostello della gioventù sulla sinistra. Il simbolo della casetta e dell’abete
è inequivocabile. L'autista ci dà addirittura indicazioni su come arrivare, ci
profundiamo in ringraziamenti e ci mettiamo in cammino, ancora imprecando per la
situazione in cui ci siamo andati a cacciare. Di nuovo ci viene il dubbio: e se
per caso il codice, datoci sottoforma di indovinello calcistico dalla simpatica
ragazza che aveva preso la nostra telefonata, non sia valido per entrare? Meglio
non pensarci. Davide indovina subito il punto in cui tagliare a sinistra, e di lì
a poco scopriamo che l'ostello è parte di un camping molto ben organizzato e
composto da decine di edifici, tra cui ristoranti, parchi di divertimenti e
chissà cos'altro che non possiamo vedere bene data l'ora tarda. Seguendo le
indicazioni arriviamo ad una costruzione un po’ dismessa, ma tutto sommato di
aspetto invitante, con la fatidica tastiera sullo stipite della porta per
digitare il codice. Primo numero valido, secondo e terzo validi...quarto valido,
la serratura lampeggia di verde e possiamo entrare. Appesa nell’anticamera
notiamo subito una busta con scritto un sorprendente "Welcome!"
seguito dal mio nome. Tale busta contiene le chiavi della camera e le istruzioni
su come pagare, lasciando il mio numero di carta di credito, che verrà
registrato e utilizzato lunedì quando riaprirà la reception. In quale altro
Paese si fiderebbero a fare una cosa del genere? Chiunque potrebbe
tranquillamente lasciare fin dall'inizio un numero di telefono falso, dormire
abusivamente ed andarsene senza pagare! Ma evidentemente qui nessuno lo fa…
La camera è riservata per noi, ben
riscaldata e pulita, il che ci ripaga in piccola parte della scarpinata e
dell'esorbitante costo del biglietto che ancora non sappiamo se si duplichi per
il ritorno. Ci incoraggia il pensiero che probabilmente non lo dovremo rifare,
non esistendo quasi certamente nulla nelle vicinanze in cui si vendano
biglietti. Una veloce ottimizzazione dei bagagli e del cibo per potersene andare
quanto più velocemente possibile la mattina seguente, poi ci infiliamo sotto le
coperte. Io da incosciente mi copro solo col lenzuolo trascurando il piumone,
convinto che faccia già abbastanza caldo: grave errore di cui pagherò le
conseguenze, svegliandomi l’indomani con un incipit di raffreddore.
La
barca ostello
I terribili biscotti alla menta e cioccolato
comprati il giorno prima volano ancora incartati tra i rifiuti dopo pochissimi
morsi, sono immangiabili. Ce ne andiamo curandoci di non lasciare lì nulla, per
nessuna ragione al mondo vogliamo tornare in quel posto. Gli autobus, come
abbiamo avuto modo di vedere la sera prima, passano molto spesso anche la
domenica, per cui non ci preoccupiamo troppo degli orari. Ad aspettare il bus,
su quella fermata in mezzo al niente, siamo solo noi due, infastiditi da un
vento forte e continuo, e dall'attesa che comincia a farsi lunga. Abbiamo
pensato anche a come cavarcela nel caso in cui il nostro biglietto venisse
rifiutato: avremmo prima di tutto fatto gli gnorri, fingendo di aver ricevuto
informazioni sbagliate sulla sua validità, per poi tentare di impietosire
l'autista, al massimo sfoderando l'improbabile arma segreta: il qui
misconosciuto biglietto interrail. Per fortuna non è necessario niente di tutto
ciò: l'autista timbra il quarto spazio, lasciando il terzo inspiegabilmente
vuoto così come quello della scorsa sera ha lasciato vuoto il primo, e ci
lascia salire senza dire una parola. In tutto, la bellezza ventotto euro solo
per il trasporto. Un furto.
Ora è tempo del trasferimento bagagli al
nuovo ostello, stavolta non lontanissimo dal centro della città: dopo una
fermata di metrò arriviamo nella via in cui dovrebbe essere, ma il suo numero
civico non esiste. Un'indicazione lo dà sulla destra, dove non c'è
assolutamente nulla: si vede solo una vaga rimessa per auto con subito dopo
l'entrata di un parcheggio coperto. Piove, fa freddo e ci stiamo irritando
notevolmente per queste informazioni così fuorvianti. Dopo aver girato in lungo
e in largo cercando questa fantomatica via, ed aver raggiunto il colmo della
frustrazione, chiediamo aiuto ad un ragazzo che sta passando: dove diavolo è
questo Red Boat House? Risposta: esattamente dalla parte opposta che pensiamo!
Non abbiamo idea di che posto sia, dal nome possiamo intuire che abbia a che
fare con le barche, e una volta raggiunto dopo pochi minuti di camminata
scopriamo che è proprio una barca! Un vecchio battello da pesca abbastanza
grazioso, con la cassaforte dei bagagli in legno appena davanti al ponte di
collegamento, sulla quale cresce l'erba sul tetto come nel villaggio di Oslo.
Non sarà l’Af Chapman, ma è comunque una nave, quindi una cosa nuova! Solo
questo salva l’ostello dalla nomina di uno tra i peggiori visitati:
apparentemente carino fuori, ma dentro decisamente disagevole. Le scale per
scendere al piano inferiore, dove si trova la camera a noi assegnata, sono
ripidissime, strette e pericolosamente scricchiolanti. C'è un unico orinatoio
per tutta la nave, munito di lavandino, mentre l'altrettanto unica tazza, in un
altro bugigattolo, ne è invece priva. Che senso ha non metterlo proprio dove ce
n'è più bisogno? Sorvoliamo su questo dettaglio e parliamo delle docce,
praticamente aperte, l'unica privacy è data dalla tenda che si può tirare, ma
non esiste porta: di conseguenza, praticamente nessuno in quell'ostello fa la
doccia, tantomeno noi. La camera è l'apoteosi: due letti a castello in uno
spazio che definire claustrofobico è un complimento, chi dorme sopra non ha
nemmeno una scaletta per arrampicarsi ma solo un vago gradino completamente
liscio ed inclinato a 45° che risulta completamente inutile. Oltretutto, una
volta arrivato in cima lo sventurato può a malapena girarsi nel letto: lo
spazio tra materasso e soffitto è così ridotto che scendere diventa un
problema, non potendo gettare il peso in avanti. Per non parlare di quando
l’occupante tenta di sollevare il busto, può farlo al massimo per una ventina
di centimetri prima di battere il capo sull'irregolare soffitto intonacato in
modo a dir poco grezzo. Gli oblò sono microscopici, tenuti costantemente chiusi
dalla coppia di francesi che alloggia con noi: così facendo viene completamente
azzerato il ricircolo d'aria e peggiora notevolmente la situazione delle mie
cavità nasali, che tra non molto presenteranno il loro conto da pagare.
I musei
Sistemati gli zainoni negli unici vani della
piccolissima camera in cui riescono a passare, ce ne andiamo preparandoci ad una
intensa (e mentalmente faticosa) giornata di visite culturali: abbiamo ben tre
musei da visitare. Il National Museum, un altro di arte moderna e, dulcis in
fundo, il famoso museo del vascello denominato Vasa Museum. Il primo è il più
classico, dedicato a quadri ed oggetti di uso comune dal primo Novecento agli
anni Settanta, incluse delle macchine da scrivere che mi fanno venire una gran
voglia di usarle come facevo molti anni fa per stendere i miei primi timidi
pensieri da bambino decenne. Notevoli anche gli splendidi orologi intarsiati con
metalli preziosi di ogni forma e colore, una delizia per gli occhi. Il secondo
museo è un insieme di arte astratta e bizzarra ma che lascia intravedere
significati nascosti molto profondi, in particolare di un'opera che mi colpisce
moltissimo: un insieme di centinaia di foto di persone comuni, prese dalla
strada, appese sul muro a formare un collage. Sotto tutte queste fotografie,
altrettanti fogli di carta con stampata la descrizione di ognuna: c'è la
persona che ha appena perso l'aereo pagato profumatamente perchè le indicazioni
del centro turistico erano sbagliate, l'ex alcolista affidato agli assistenti
sociali che ogni mattina passano a recapitare la busta con il cibo senza suonare
il campanello perchè hanno paura di lui, l'uomo a cui hanno appena tolto il
rene sbagliato, la donna che ha appena perso il figlio in un incidente stradale,
lo studente a cui è stata rifiutata la tesi preparata in due faticosi anni, la
ragazza che ha scoperto solo dopo sposata di essere sterile, e così via per
centinaia di pietose situazioni tutte apparentemente slegate tra loro, ma con un
denominatore comune: l'impietosa varietà delle sofferenze che si possono
provare e soprattutto l'incomunicabilità della condizione umana, dove ognuno è
abbandonato a se stesso senza che il resto del mondo si curi di lui. Ognuno deve
portarsi il suo fardello in silenzio senza poter contare sull'altrui
comprensione, che non arriverà mai ad essere totale.
Il vascello
Il terzo ed ultimo museo contiene un'enorme
vascello del diciassettesimo secolo ancora quasi completamente intatto, lungo
almeno settanta metri. C’è da rimanere senza fiato ad osservare le sue statue
di legno incastonate a poppa, le reti su cui i marinai si arrampicavano per
arrivare in cima all'albero maestro a fare da vedette, i paurosi fori quadrati
sulle fiancate da cui i marinai nemici si vedevano spuntare le bombarde, nel
terrore più puro. Ci sono più di dieci piani su cui salire, da ognuno si vede
la nave in un’ angolazione diversa e sempre più suggestiva, finchè dalla
cima si può ammirare in tutta la sua stupenda grandezza. Come abbiano fatto a
trasportare questo mostro e rinchiuderlo entro quattro mura, è un vero mistero.
Ai lati ci sono tutte le rappresentazioni in miniatura della nave e delle sue
stanze, rendono abbastanza bene l’idea ma preferiamo osservare la nave vera e
propria. Non ci si può salire sopra per ovvi motivi, ma non è necessario:
dall’altro lato si può vedere il ponte a brevissima distanza, e ancora una
volta mi sembra di essere in una scena di Capitani Coraggiosi. Come il libro,
anche questa splendida nave davanti ai miei occhi riesce a farmi sognare per
qualche minuto.
Raffreddore
Le mie elucubrazioni mentali vengono
interrotte quando sento un saporaccio in fondo alla gola che so bene essere il
preludio di un raffreddore forte. Deve proprio scoppiare adesso, non può
ritardare di qualche giorno, accidenti? La sera torniamo a rintanarci prima
apposta, per evitare di ammalarmi troppo. Metto in atto appena arrivato in
ostello le mie misure preventive sempre molto efficaci per ridurre la potenza
del malanno incipiente o già conclamato: bere tantissima acqua per accelerare
lo smaltimento delle tossine e stimolare la circolazione nelle zone infiammate,
sopportando l'effetto fastidioso che ha sulla gola malata. In ogni caso è
meglio evitare il più possibile gli antinfiammatori come l'aspirina, ricchi di
effetti collaterali potenzialmente anche gravi, così come tutti i medicinali in
generale, che è sempre meglio scansare fino a quando proprio non se ne può più
fare a meno. La cura funziona: il naso inizia a colare un po’ meno e mi sento
fiducioso di poter stare bene domani. In qualche modo, nonostante il naso chiuso
e il continuo fastidio del soffiarselo, riesco a prendere sonno.
In un orario imprecisato attorno alle due di
notte mi sveglio col naso stavolta completamente chiuso, da non riuscire più a
respirare se non con la bocca, e questo fa crollare un po’ di miei propositi
per il giorno che viene. Rimango un po’ seduto per cercare di riaprirmi le
narici, con un discreto successo, finchè non riesco a riaddormentarmi. Alle sei
mi sveglio di nuovo, questa volta definitivamente. Maledico il virus che mi ha
ridotto in questo stato, e questa volta sto seduto più a lungo, per evitare che
il muco scenda per gravità verso la gola. Mi accorgo del caldo soffocante che
c'è nel nostro angusto ambiente: i due francesi hanno lasciato entrambi gli oblò
chiusi, con le tendine tirate che lasciano passare pochissima luce, vorrei
alzarmi per aprirli ma non voglio suscitare reazioni nel caso si svegliassero.
Posso resistere, inoltre quel calduccio mi fa bene, se non altro il naso non mi
cola. Mano a mano che sto seduto, ascoltando il rumore del respiro dei miei
compagni di stanza e cercando di aprirmi il naso il più possibile, mi torna un
po’ di sonno, ma non cedo alla tentazione di sdraiarmi di nuovo: se mi
riaddormentassi, all'ora della sveglia alle otto avrei il naso completamente
intasato e sarebbe una tortura andare in giro in quelle condizioni. Così
rimango seduto e mi immergo nei miei pensieri, che nelle due ore che passano
prima che Davide si svegli spaziano davvero dappertutto: mi rendo conto che
nonostante tutte le difficoltà io sono ancora lì, piegandomi ma non
spezzandomi. Mi sento strano, come sospeso in un'altro stato di coscienza, a metà
tra il sognante e il malinconico, ma con un enorme fondo di felicità che mi
pervade da capo a piedi nonostante le pietose condizioni del mio apparato
respiratorio. La vacanza ormai sta finendo, oggi è il nostro ultimo vero giorno
di interrail, è stato tutto splendido e denso di emozioni completamente nuove,
ma tra poco sarà tempo di tornarsene a casa e riprendere la vita normale, con i
suoi pro ed i suoi contro.
Perdendomi in questi pensieri il tempo passa
molto velocemente: alle otto, come previsto, il mio compare si è svegliato,
insultando vivacemente i vicini di letto per l’ambiente asfissiante da loro
creato. Abbandoniamo la fornace di caldo e sudore il più velocemente possibile.
Heavy metal
La pioggerellina, lieve ma costante, non ci
risparmia nemmeno oggi: le speranze di passare almeno l'ultimo giorno di visita
con il sole crollano definitivamente, una volta usciti all’aria aperta e dato
un occhio al cielo quasi interamente coperto da nuvoloni larghi e grigiastri.
Dopo una veloce colazione sulle scale di pietra vicino alla strada, ci
concediamo un rilassato un giro panoramico in una zona sopraelevata della città
da cui si vedono benissimo spuntare tutti gli edifici storici. Poco distante si
trova la chiesa di Santa Sofia: un grazioso luogo sacro con le panche disposte a
semicerchio attorno all'altare, dove assorbiamo un po’ di benefico calore e
approfittiamo per meditare ancora un po’ sulle nostre odierne sorti.
L’unica cosa che ci rimane da vedere di
Stoccolma è il Globen, dall’altra parte della città. Si tratta di
un’enorme costruzione sferica, bianca e reticolata, la più grande costruzione
a forma di globo del mondo intero. Ospita molti negozi al suo interno (circa
centocinquanta!), in un centro commerciale enorme che usiamo solo per mangiare i
nostri panini al formaggio spalmabile, individuata per pura fortuna un’unica
panchina libera. Nulla di più da vedere: tra tutti quei negozi non ce n’è
nemmeno uno di articoli rock o di qualcosa che ci possa stuzzicare la fantasia,
da cui ci rimane solamente da ripercorrere il vialone centrale, dove potremo
comprarci qualcosa che ci ricorderà per sempre questo viaggio. La scelta cade
sulle magliette che raffigurano le effigi delle nostre band metalliche
preferite, simbolo di appartenenza ad una cultura musicale così spesso
sottovalutata ma più vasta e nobile di quanto comunemente si creda. Una volta
individuate quelle giuste, ignorando beatamente il prezzo leggermente elevato,
finalmente ci togliamo anche quest’ultima soddisfazione. Curiosando un po’
nei vari negozi del viale troviamo in vendita veramente di tutto: è divertente
confrontare i prezzi e pensare a quante stupidate siano in vendita per non pochi
soldi, come le orribili statuette dei troll delle quali gli scaffali
fortunatamente non si svuotano mai dato che non le compra praticamente nessuno.
Ormai sufficientemente soddisfatti e stanchi da non voler strafare, ci liberiamo
da qualsiasi impegno per quel che resta della giornata, complice anche il mio
naso che sta ricominciando a colare violentemente sotto l'effetto del vento e
del freddo. Convinco Davide a tornare presto in ostello, non riesco più a
controllare le mie secrezioni, mi sento la febbre e sto consumando fazzoletti
uno dopo l'altro. Il calduccio mi cura nuovamente, fino a scivolare in un sonno
leggero.
L’indomani prendiamo il treno per
l’aeroporto di Arlanda, ormai la nostra odissea è finita. Ci rivediamo sul
prossimo treno, destinazione ignota.
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