NAMIBIA
Diario di viaggio 2004
di Adriano e Luisa
> Il viaggio in una riga
Cultura e Natura, tribù e deserti
> Itinerario
Milano Malpensa - Johannesburg - Windhoek - Namib Naukluft Park (Sossusvlei) - Swakopmund - Cape Cross - Damaraland (Twyfelfontein) - Kaokoland - Epupa Falls - Owamboland - Etosha National Park - Windhoek - Città del Capo - Francoforte _ Milano Malpensa
> Vettore aereo
South African Airlines per l'andata Milano Malpensa - Johannesburg - Windhoek e il ritorno Windhoek - Città del Capo - Francoforte - Milano Malpensa prenotati tramite gli amici di African Explorer
> Organizzazione
Guide Lonely Planet e Footprint + siti internet
In Namibia Wild Dog Safaris e il grande Udo
> Costo approssimativo (per persona)
Volo 880 euro + tour, campeggi e spostamenti 18.000 dollari namibiani (ca. 2.200 euro a sett. 04) = 3.080 euro totali
> Giudizio e sommario
Abbiamo percorso oltre 4.000 km in 17 giorni: la bellezza maestosa del deserto rosso e le indimenticabili esperienze con le tribù namibiane non ci hanno però fatto pesare il massacrante itinerario.
- Le dune rosse del Namib - Sossusvlei e Deadvlei
- La costa, Cape Cross e il Damaraland.
- Il Kaokoland e gli Himba
- L'Owamboland
- Il safari all'Etosha National Park
Partenza - Le ragioni di un viaggio
Perché la Namibia? E’ difficile spiegare le ragioni di un viaggio in una zona così inospitale e selvaggia.
Innanzitutto il desiderio di tornare in Africa per poter vedere gli animali vagare indisturbati nelle immense pianure. E poi la voglia di conoscere popolazioni affascinanti come gli Himba, che ancora oggi vivono incuranti dello sviluppo e dell’evoluzione del mondo circostante. Ma forse, più di tutto, ci ha spinto il desiderio di vedere con i nostri occhi deserti e spazi sconfinati, così affascinanti per noi europei, abituati a vivere in città sovraffollate.
Abbiamo quindi cercato di pianificare un viaggio “natura e cultura”, per poter realizzare le nostre aspirazioni – e illusioni - di piccoli esploratori. Avremmo voluto visitare tutta la Namibia, ma inevitabilmente abbiamo dovuto fare alcuni tagli. Ci siamo concentrati soprattutto sulla zona nord, al confine con l’Angola, dopo aver visitato il deserto del Sossusvlei e parte della costa.
Come di consueto abbiamo privilegiato un tour operator locale, contattato via e-mail, dopo una lunga e attenta scrematura tra quelli proposti dalle guida Lonely Planet e Footprint. Ci siamo appoggiati a Wild Dog (www.wilddog-safaris.com), gestito con grande efficienza, disponibilità e cortesia da Liz Kirby.
Malpensa-Windhoek
Partiamo il 22 settembre da Malpensa con un volo della South African Airlines: prima di arrviare a Windhoek, la capitale della Namibia, facciamo scalo a Johannesburg. Il volo dura circa 10 ore e arriviamo a destinazione il giorno successivo. All’aeroporto incontriamo Udo, la guida che ci accompagnerà durante il tour. E’ un nativo di origine tedesca di circa 50 anni. Sembra un nostalgico hippy; all’apparenza è un po’ taciturno, quasi burbero, ma ci dà subito un’impressione di affidabilità e competenza.
L’aeroporto è abbastanza distante dal centro della città. Durante la mezz’ora circa del tragitto abbiamo modo di osservare il paesaggio circostante. Windhoek si trova nel mezzo dell’altopiano centrale della Namibia, a circa 1.600 metri di altezza. E’ una piccola città ordinata e pulita, dall’aspetto tipicamente tedesco. La colonizzazione ha lasciato un segno profondo nell’architettura, nell’ordine e nella pulizia delle strade. Tutto pare lindo e preciso; non ci sembra nemmeno di essere in Africa.
Ma non appena entriamo in città ci rendiamo conto che forse non è tutto perfetto come sembra. Le villette sono tutte circondate da filo spinato; alcune hanno i fili dell’alta tensione (i cartelli indicano 220 volts) lungo il perimetro. Le finestre sono sbarrate da spesse inferriate, grossi lucchetti e pesanti catene chiudono i cancelli. I quartieri sono pattugliati da guardie private armate fino ai denti. Evidentemente all’ordine architettonico e urbanistico della città non corrisponde una pacifica convivenza fra gli abitanti.
Siamo perplessi. Udo ci raccomanda di fare molta attenzione a borse o portafogli, suggerendoci di non portare molti soldi né i documenti. Purtroppo la disoccupazione è molto elevata e le strade sono piene di sfaccendati.
Gironzoliamo intorno alla via principale, Indipendence Road, curiosando nei negozi di artigianato locale. Verso sera mangiamo in un tipico ristorante africano. Rientriamo presto alla Tamboti Guest House (Guesthouse Tamboti, P.O. Box 40377, Windhoek, Tel. +264-061-235515, Fax +264-061-259855). Il giorno successivo partiamo presto e vogliamo essere freschi e riposati. Ci attende un lungo viaggio.
Namib Naukluft Park - Sossusvlei
Si parte per la grande avventura. Non riusciamo a immaginarci come sarà il paesaggio. Abbiamo visto molte fotografie, soprattutto del deserto, ma non siamo sicuri di cosa ci aspetta.
Siamo molto carichi; Udo ci viene a prendere con il minibus e un trailer al seguito, carico di provviste e di tutto l’equipaggiamento per il campeggio.
La prima meta sarà il Namib Naukluft Park, dove si ergono le dune rosse di Sossusvlei. Lungo 1.200 km e largo 140 km, il Deserto del Namib è la più vasta area protetta dell’Africa ed è il più antico deserto del mondo, con un’età stimata intorno a 80 milioni di anni. Si estende lungo la fascia costiera della Namibia, tra le foci del fiume Kunene a nord e del fiume Orange a sud.
Per la straordinaria abbondanza di forme di vita animale e vegetale il Namib è chiamato “il deserto che vive” ed è lo scenario naturale di animali quali struzzi, antilopi, gazzelle e orici. Con un po’ di fortuna si possono vedere anche elefanti, leoni, giraffe e rinoceronti.
Appena lasciamo la città ci rendiamo conto delle distanze. Località che sulla mappa sembrano vicine sono in realtà lontane centinaia di chilometri. Le strade non sono asfaltate e la polvere e i sassi rallentano parecchio la marcia.
Attraversiamo il passo ????, da cui si gode una vista a 360° della valle sottostante: a perdita d’occhio piane alternate ad alture, deserto pietroso e cespugli di rovi. Le acacie crescono qua e là, a testimonianza di una corso d’acqua sotterraneo.
Solitaire
Ci fermiamo per rifocillarci in una località chiamata Solitaire, l’unica stazione di benzina disponibile nel raggio di chilometri. Il “villaggio” offre anche un lodge, un campeggio e un bar-ristorante-emporio. Sembra Baghdad Café. Il locale è una sorta di museo di modernariato: macchine per scrivere, calcolatrici, macchine per cucire e utensili vari sono esposti sul lungo bancone. Il gestore è un omaccione stile ZZ Top dall’aspetto burbero e minaccioso. In realtà è gentilissimo e cordiale con tutti. Udo ci consiglia di prendere un sandwich e la torta di mele. Ottima idea, il pane fatto in casa e il dolce sono strepitosi. Sazi e carichi di carburante riprendiamo la marcia lungo il deserto. Rocce e sassi si susseguono lungo la strada polverosa. Arriviamo nel pomeriggio al Sesriem Campsite, pulito e con piazzole perfettamente attrezzate. La zona sembra molto ventosa e fa abbastanza freddo. Poco prima del tramonto visitiamo il Sesriem Canyon, formato durante i secoli dall’erosione di un fiume attualmente secco. Udo spiega che l’acqua riprende a scorrere solo durante la stagione delle piogge, quando le precipitazioni sono abbondanti. Nella roccia è possibile vedere le diverse stratificazioni: granito, roccia lavica e ghiaia compattata. Percorriamo a piedi un tratto del letto del fiume dove mi imbatto in una vipera cornuta. E’ molto velenosa, anche se non mortale; se non curato tempestivamente, un suo morso può anche portare all’amputazione di un arto.
E’ il tramonto. Ci attardiamo ad ammirare il sole calare dietro le rocce. Purtroppo si alza un vento forte e gelido. Al campeggio ci rendiamo conto che il problema più grande è cucinare e mangiare all’aperto. Le folate alzano la sabbia; in un baleno ci ritroviamo impanati e il cibo insabbiato ci scricchiola sotto i denti. Come se non bastasse stiamo congelando. Ci vestiamo con tutto quello che abbiamo a disposizione, ma sembra che il freddo vento di Città del Capo non ci dia tregua. Come inizio non c’è male!
Nell’ombra scorgiamo alcune ombre che si aggirano fra le tende: sono gli sciacalli in cerca di avanzi di cibo. Fortunatamente Udo ci rassicura dicendoci che non sono pericolosi.
Sossusvlei e Deadvlei
Sveglia all’alba per la visita alle dune. Udo, che non ama i grupponi di turisti, pianifica un giro alternativo. Anziché andare subito alle dune rosse di Sossusvlei, sicuramente affollato già dalle prime ore del giorno, ci propone di visitare subito le Dune di Elim di fronte al campeggio. Grande idea. Udo ci scarica dal minibus e fa ritorno alla tenda. Noi ci ritroviamo completamente soli in mezzo al deserto. Pian piano sorge il sole e svanisce la foschia di umidità. I colori prendono corpo e le dune si stagliano contro il cielo blu. Sulla sabbia incontaminata spiccano le nostre impronte. Intorno a noi silenzio, sentiamo solo il rumore del vento. Assaporiamo il fascino della natura desolata. Affondando fino a metà gamba nella sabbia scaliamo le dune, cercando di raggiungere la cima. Quando crediamo di averla raggiunta scorgiamo altre dune ancora più alte.
Ritorniamo da soli al camping, camminando per circa un’ora nel bush. E’ incredibile come le distanze possano ingannare. Dall’alto delle dune il campeggio ci sembrava molto vicino, in realtà la camminata è abbastanza lunga, almeno 4 chilometri.
Nel pomeriggio visitiamo le dune di Sossusvlei. Dobbiamo percorrere in auto un tratto piuttosto lungo di strada male asfaltata attraverso il deserto roccioso. Pietre e montagne a perdita d’occhio e per chilometri nessun segno di vita. Il nostro minibus non è in grado di portarci fin sotto le dune; un furgoncino adatto al terreno sabbioso ci condurrà in una sorta di oasi. Qui proseguiamo a piedi e scaliamo una duna piuttosto alta. Il percorso più agevole e meno ripido è lungo la cresta, ma è comunque una grande fatica. Si affonda parecchio perchè la sabbia è fresca e gli scarponi, pieni di sabbia, diventano pesanti. Io ho un po’ paura perchè soffro di vertigini. Faticosamente guadagnamo la cima. Purtroppo si alza il vento e in breve ci ritroviamo sabbia dappertutto. Ma ne è valsa la pena. Il panorama è straordinario e inquietante allo stesso tempo: dune di sabbia tutto intorno a noi. Solo adesso ci rendiamo conto di cosa possa significare smarrirsi nel deserto: non ci sono riferimenti di alcun tipo e le distanze sono falsate. Nessuno di noi potrebbe mai cavarsela. Il sole del pomeriggio riscalda i colori, disegnando il profilo delle dune rosse contro il cielo di un azzurro intenso. Ammiriamo in silenzio lo spettacolo che la natura ci offre.
Seguendo un sentiero a malapena visibile, camminiamo verso la Deadvlei. E’ la valle della morte, un bianco lago prosciugato migliaia di anni fa in mezzo alle dune. Qua e là spuntano ancora gli alberi, ormai secchi e pietrificati. Il luogo è irreale e suggestivo, quasi magico. Non c’è nessuno, dune e sabbia tutto intorno, desolazione totale e sole a picco. Il silenzio è interrotto solo dal gracchiare di un corvo appollaiato su un ramo e il suo verso echeggia in tutta la valle.
Mi piace questo posto, mi dà una sensazione di tranquillità e pace nonostante la desolazione. Il contrasto cromatico – blu, rosso e bianco – mi appaga la vista.
Tempo di scattare qualche fotografia e si prosegue, la strada è ancora lunga. Per tornare al parcheggio dell’auto dobbiamo infatti percorrere circa 4 km in mezzo alle dune e ai pan, bianche distese di argilla e sali a chiazze. Abbiamo già camminato per 6 km; una bella scarpinata considerando anche la “passeggiata” del mattino nel bush e le dune scalate. Ho le gambe di piombo e ogni arrampicata mi mette a dura prova. Sono sfinita.
Swakopmund e la costa
Partenza all’alba, destinazione la costa. Dobbiamo percorrere molti chilometri. Abbandoniamo le dune sabbiose e procediamo lungo un deserto di pietra che sembra non finire mai. Intorno a noi solo polvere e sassi.
Ci stiamo avvicinando a un canyon e la strada si fa più stretta e a curve. A poco a poco anche il paesaggio cambia, le rocce sono più scure e aumentano i rilievi. Passiamo una sorta di valico dove le rocce mostrano orizzontalmente i segni della stratificazione e delle progressive accumulazioni di magma. Su queste colline grigio scure, quasi bruciate non cresce alcun tipo di vegetazione. E’ un paesaggio strano, arido, quasi lunare.
Improvvisamente il panorama cambia ancora. Il terreno diventa pianeggiante e ricoperto di pietre squadrate di colore scuro. Qua e là crescono alcuni alberi molto particolari; sono gli alberi faretra, i cui rami erano utilizzati dagli antichi Boscimani come contenitori per le frecce.
Ci avviciniamo alla costa e le rocce lasciano il posto al deserto sabbioso. Raggiungiamo il centro di Walvis Bay, una località di villeggiatura sul mare. E’ una cittadina molto piccola, solo poche file di case ordinate e troppo perfette tra l’oceano e il deserto. Fa un gran freddo e il mare è sporco. Facciamo un tratto a piedi per vedere i fenicotteri. Ma ciò che attrae la nostra attenzione sono in realtà le meduse, enormi e con tentacoli lunghissimi.
Swakopmund è poco distante. Finalmente dormiremo in un letto vero (alla Pension Rapmund Swakopmund P.O.Box 425 Tel. 641-2035). Sono molto curiosa di visitare questa cittadina, descritta da tutte le guide turistiche come una delle principali località di villeggiatura della Namibia. Che delusione! La città è costituita da sei blocchi di case divisi da un’unica strada principale. Gli edifici sono in stile tedesco; altro che Africa, ci sembra di essere nella Foresta Nera.
E’ domenica, quasi tutti i negozi sono chiusi e abbiamo l’impressione di trovarci in una città fantasma. L’oceano è grigio e tetro, inoltre fa un freddo terribile. Non riesco a capire come si possano trascorrere qui le proprie vacanze. Sarà la stagione, comunque rimpiango il sole caldo e il mare blu di Sanremo. Cerchiamo di fare un po’ di shopping: i negozi di artigianato offrono oggetti molto belli ma cari, ma chissà se ritroveremo questo genere di prodotti...
Cape Cross e il Damaraland
Di buon mattino ci spostiamo verso Cape Cross, la zona lungo la costa popolata da una vasta colonia di otarie. Il tragitto è abbastanza lungo e il paesaggio è triste e monotono. La costa è avvolta da una nebbia grigiastra. Incrociamo solo pochi centri abitati, strappati all’avanzare del deserto.
A Cape Cross la puzza delle otarie è orrenda. Non avrei mai pensato che questi simpatici animali potessero avere un odore così disgustoso. Udo spiega che questo non è niente, quando nascono i piccoli è ancora peggio. Molti cuccioli muoiono e imputridiscono sulla battigia. Restiamo a osservare le centinaia di foche sulla spiaggia e in acqua giusto il tempo necessario per scattare qualche foto e per impregnarci i vestiti con il loro odore nauseabondo.
Riprendiamo la marcia verso la nostra tappa successiva, il Damaraland. Dobbiamo percorrere circa 500 km di deserto. Siamo in mezzo al nulla, solo in lontananza scorgiamo alcune montagne. Per il resto nessun riferimento.
Procediamo verso la cittadina mineraria di Uis e a poco a poco il paesaggio cambia ancora. La desolazione lascia il posto ad arbusti e cespugli. A un incrocio ci fermiamo da due venditori ambulanti di pietre semipreziose, soprattutto cristalli, formatisi durante le varie fasi dell’evoluzione geologica di questa zona.
Continuiamo il tragitto verso una zona pianeggiante su cui si ergono strane formazioni rocciose. Sono una sorta di cumuli di rocce smussate di colore rossiccio, accentuato dalla luce del sole al tramonto. Sono le Burning Mountains, le montagne tipiche della zona di Twyfelfontein, il sito dove si trovano le pitture rupestri.
Invece di dormire in un campeggio attrezzato, Udo ci propone di trascorrere la notte in un vero villaggio Damara dove conosce alcune guide turistiche. Accettiamo ben contenti di poter scoprire come vive veramente la gente comune. All’interno del villaggio ci sono una ventina di capanne fatte di fango e paglia. Ognuna ha il proprio kraal, il cortile che circonda l’abitazione, delimitato da una steccionata fatta di rami intrecciati. Il kraal è considerato il focolare dell’abitazione, dove si svolge la vita della famiglia. Qui si cucina sul fuoco, si mangia, si chiacchiera e si gioca. Nel villaggio non c’è luce elettrica né acqua corrente. Ogni giorno un camion cisterna porta l’acqua, che le famiglie conservano in recipienti. Non ci sono toilette, per i propri bisogna ci si allontana semplicemente un po’ dalle capanne.
Gli abitanti del villaggio e gli amici di Udo ci accolgono con grande gioia; per loro è una festa averci come ospiti. Portiamo cibo per tutta la famiglia, si mangerà carne di kudu. Facciamo amicizia con i figli di Bernadette, la guida amica di Udo. Sono un ragazzino e una bambinetta, a cui si aggiunge in seguito un’amica. Sono bellissimi e di una tenerezza disarmante. Mi accarezzano i capelli perchè sono lisci. Adri fa loro gli aeroplanini di carta e si divertono un mondo. Impazziscono di gioia guardando il display della macchina fotografica digitale: adorano farsi fotografare e poi ammirarsi, come se fossero davanti a uno specchio.
I bambini tentano di insegnarci qualche parola nella loro lingua, ma è molto difficile. Parlano facendo strani schiocchi con la lingua contro il palato. Il risultato è un incomprensibile e buffo clic clac, impossibile da imitare.
Anche gli adulti sono gentili e curiosi di fare la nostra conoscenza. Si fanno in quattro per renderci felici e non riescono a capire perché abbiamo preferito rimanere con loro anzichè alloggiare in un confortevole lodge. L’atmosfera è gioiosa e amichevole, forse anche grazie agli alcoolici. Udo ci spiega che l’alcool è un problema serio da queste parti. I Damara, forse più di altre tribù, non sono ancora riusciti ad inserirsi nella “cultura occidentale”. Sono a metà strada tra la civilità e la cultura africana tribale, ma non hanno ancora trovato una collocazione precisa all’interno della società. Le donne sembrano le più provate da tutto ciò. Lavorano fuori casa come guide turistiche, inerpicandosi fra le rocce ripide sotto un sole cocente; lavorano in casa, dove puliscono, cucinano, lavano i panni e accudiscono i figli. E’ una vita dura, priva di ogni comodità. Ogni attività, anche la più semplice, è faticosa. E’ una fatica anche solo lavare le stoviglie a fine pasto. Le pentole sono nere a causa del fuoco della legna e bisogna strofinarle con forza per farle brillare; l’acqua deve essere presa al fiume (quando c’è) oppure deve essere versata dalle taniche (pesantissime); le stoviglie si lavano stando accovacciati per terra e dopo due piatti la schiena fa male. Tutto questo mentre gli uomini sono comodamente seduti e si fanno servire. Non è giusto giudicare le altre culture con i nostri pregiudizi, però alcuni comportamenti ci lasciano a dir poco perplessi.
Twyfelfontein
La giornata è dedicata alla visita di Twyfelfontein, la zona ricca di antiche pitture e incisioni rupestri, rimaste praticamente intatte da circa 5.000 anni. Lungo il tragitto ci fermiamo per visitare un piccolo canyon dove si trovano le Organ Pipes. Sono formazioni rocciose che ricordano le canne d’organo. Durante le ere geologiche si sono formate delle spaccature verticali nelle rocce e ancora oggi le pietre hanno una forma rettangolare di un colore rosso scuro, quasi ruggine.
Arrivati a Twyfelfontein ci inerpichiamo sulle rocce. Le incisioni sono rappresentazioni stilizzate di scene di caccia e di animali della savana. Accanto ai disegni di molti animali sono raffigurate anche le impronte delle zampe, in modo da poter riconoscere le tracce degli animali più pericolosi e temuti dai cacciatori di quel tempo.
Le scene sono abbastanza accurate nonostante le più antiche risalgano a quasi 6.000 anni fa. Ci sono addirittura raffigurazioni di foche e pinguini. Secondo alcuni studiosi gli autori delle incisioni (probabilmente gli antenati degli attuali boscimani) si sono spinti fino all’oceano, da qui distante più di 200 km!
Passeremo la serata al campeggio di Palmwag. E’ molto carino e piacevole, soprattutto dopo due giorni passati senza acqua e senza lavarsi. Accanto al camping c’è il letto secco di un fiume, da dove spesso passano gli elefanti per andare ad abbeverarsi nelle vicinanze. Di sera, attorno al fuoco, Udo ci racconta storie interessanti del suo passato. Per conto dell’esercito namibiano costruiva strade nel nord del paese, al confine con l’Angola e nella striscia di Caprivi. Per procedere con i lavori di pavimentazione, Udo e i suoi operai avevano creato pozzi e un sistema di canalizzazione dell’acqua. Alcuni boscimani, che non avevano mai visto un uomo bianco prima, lo consideravano il dio dell’acqua e quasi lo adoravano per aver reso disponibile un bene così prezioso. Sotto il cielo stellato ascoltiamo rapiti le sue avventure, circondati dai rumori della savana.
Il Kaokoland e gli Himba
Meta di oggi sarà un villaggio Himba nel Kaokoland, nel nord della Namibia. Ci ospiteranno alcuni amici di Udo. Anche in questo caso si tratta di un villaggio dove potremo vivere per una notte insieme agli indigeni.
Qui non solo non ci potremo lavare, ma ci sporcheremo. Gli appartenenti a questa tribù infatti si spalmano la pelle con un impasto di burro di capra, ematite rossa e cenere profumata. Tutto quello che toccano (noi compresi) assume un colore marrone/rossiccio. L’impasto è un cosmetico naturale in grado di proteggere la loro pelle dal sole e dagli insetti, rendendola morbida e idratata. Hanno un odore un po’ selvatico, quasi animalesco, forse dovuto anche alle pelli di capra usate come gonnellini.
Udo mi spiega il cerimoniale per presentarsi al villaggio. Purtroppo partiamo già svantaggiati: due uomini con una sola donna al seguito è segno di povertà e scarso potere da parte degli uomini. Dovrò consegnare personalmente i doni (2 cassette di mele, 3 bottiglie olio, lattine di sughi pronti, 20 chili di zucchero!!!) e servire il capovillaggio. Che bella vacanza, mi tocca pure fare la schiava del maschilista :)
Opuwo
Per raggiungere il villaggio attraversiamo le Etendeka Mountains lungo strade ripidissime. Aumenta la vegetazione: cespugli, alberi di mopane e baobab ci accompagnano lungo il percorso. Passiamo da Opuwo, la capitale del Kaokoland, dove acquistiamo le provviste e i doni da portare al villaggio. Il nome della città significa “la fine” ed indica l’ultimo posto “civilizzato” prima della desolazione del Kaokoland. Ancora oggi il territorio a nord della Namibia, lungo il confine con l’Angola, è considerato inospitale e selvaggio. Durante gli anni della Guerra Fredda la zona era frequentata solo dai militari, a formare una sorta di presidio in grado di controllare il pericoloso confine con l’Angola, paese sostenuto dall’Unione Sovietica. Oggi la situazione sta migliorando, ma il Kaokoland risente ancora di questo forzato isolamento.
Nel Kaokoland i centri abitati sono pochi, a caratterizzarlo sono soprattutto i villaggi degli Himba. Le strutture turistiche sono ancora in via di sviluppo perché pochi turisti si fermano da queste parti: si visitano gli Himba (arrivando in macchina o aereo privato) e poi si ritorna alle comodità del lodge o del campeggio.
A Opuwo incrociamo molte tribù: Himba, Herero, Owambo e profughi Timba dall’Angola. Alla stazione di servizio veniamo assaliti da ogni esponente di queste tribù che cerca di venderci qualsiasi cosa pur di ottenere qualche dollaro. Cerchiamo di comprare un po’ da tutti per non fare torto a nessuno. Udo ci conferma che sono molto poveri e i nostri acquisti possono fare una grande differenza per loro.
La città è un posto inquietante e abbiamo un po’ paura a girare da soli. Non ci sono bianchi; i neri che gironzolano, sia uomini che donne, hanno sguardi torvi e un’aria piuttosto minacciosa. Non sono particolarmente cortesi nei nostri confronti, anzi abbiamo l’impressione che tutti ci guardino storto. Entriamo in un bar, dove ordiniamo una Coca Cola e subito veniamo avvicinati da alcuni ragazzotti visibilmente ubriachi in cerca di soldi.
Inventano storie assurde e strappalacrime per racimolare qualche dollaro da giocare alle macchinette del poker elettronico! Siamo perplessi.
Facciamo la spesa in un supermercato. All’uscita del negozio incontriamo il father in law di Udo, l’amico dove alloggeremo durante la notte. E’ in paese con la figlia, una delle mogli e una loro amica. Diamo loro un passaggio fino al villaggio.
Stipiamo la loro mercanzia nel piccolo rimorchio e ci stringiamo nel minibus. Dobbiamo stendere sui sedili quella che era la nostra tovaglia, altrimenti l’impasto sul corpo delle donne sporcherebbe tutto. La situazione è abbastanza ridicola: dividiamo l’auto con “selvaggi” praticamente nudi che vivono come primitivi. Tentiamo di comunicare con loro, impresa molto ardua perchè parlano solo la lingua Himba. Fortunatamente Adri ha un piccolo manuale – giusto qualche frase di approccio per rompere il ghiaccio. Ci lanciamo nella conversazione e il risultato è esilarante. Le donne Himba ridono e si divertono nel sentire la nostra strana pronuncia. Ci conquistiamo definitivamente la loro simpatia dividendo con loro i nostri panini.
Il villaggio Himba
Arrivati al villaggio veniamo accolti dalle donne e dai bambini presenti. Ci fanno tutti una gran festa. Accompagnati dalle maestre visitiamo la scuola. I ragazzi fanno lezione nel pomeriggio perchè al mattino portano al pascolo gli animali. Una parte della scuola è allestita in una tenda. Gli Himba sono seminomadi, in questo modo la scuola li può seguire nei loro spostamenti. Accanto alla tenda c’è una struttura in muratura dove si svolgono le lezioni per i più piccoli. I ragazzi della scuola danzano e cantano per noi. Sono tutti molto belli e vanitosi. Amano posare per le fotografie e alcune ragazze sembrano fare a gara per mettersi in mostra, cercando però di nascondersi dagli sguardi severi degli adulti.
Le maestre ci spiegano i diversi significati delle acconciature e dei monili dei giovani presenti. Le femmine hanno i capelli divisi in due treccine che ricadono sulla fronte. Le donne adulte hanno i capelli lunghi divisi in treccine impastate con fango e ocra. Le ragazze già mestruate indossano sulla sommità del capo un pezzo di pelle di capra arricciata, come se fosse una cresta. I maschi portano i capelli pettinati in un’unica treccia sulla sommità del capo. Se sono sposati questa è raccolta in un cappuccio.
Tutti, fin da piccoli, indossano gonnellini per coprire le parti intime e collane fatte di grani metallici infilati nel cuoio. Le donne sposate portano una collana con una grossa conchiglia, gioiello prezioso donato dalla madre, oltre a pesanti bracciali e cavigliere di metallo e grossi pendenti sulla schiena. Udo ci spiega che gli Himba sono pacifici, l’aggressività non è nella loro natura (forse è per questo che hanno subito un vero e proprio genocidio in passato). In molti hanno tentato di “civilizzarli” ma senza risultato. Conoscono il mondo moderno ma preferiscono conservare le loro tradizioni, ignorando il progresso.
Giriamo per il villaggio e curiosiamo, per cercare di capire il loro modo di vivere e la loro religione, una sorta di animismo, legato al culto degli antenati. Ci spiegano come all’interno del villaggio vi sia una linea immaginaria che collega la capanna del capo con il fuoco sacro e che nessuno straniero può tagliare.
Il terreno sabbioso all’interno del kraal è ricoperto di sterco degli animali; continuamente calpestato è ridotto in una polvere sottilissima che si solleva non appena ci si muove.
E’ ora di cena. Le donne e i bambini si avvicinano e mangiamo tutti insieme intorno al fuoco. Nessuno chiede nulla, aspettano che siamo noi ad offrire loro un po’ di cibo. Cerchiamo di accontentare tutti. Chi riceve il piatto divide il contenuto con gli altri, soprattutto con i bambini più piccoli.
Alla spicciolata arrivano anche gli uomini adulti, belli e fieri. A malapena riusciamo a distinguere nell’oscurità i loro corpi alti e muscolosi. Le chiacchiere proseguono fino a tardi, ma noi ci ritiriamo dopo aver visto sorgere la luna. Lo spettacolo è emozionante; la simpatia e la cordialità degli Himba compensano i disagi che dobbiamo affrontare.
Le Epupa Falls e il fiume Kunene
La strada che conduce alle Epupa Falls è molto accidentata, lo sterrato pieno di buche ci costringe a procedere lentamente. Lungo il percorso c’è molta vegetazione, anche se costituita solo da alberi scheletrici. Arrivati in prossimità delle cascate percorriamo a piedi un sentiero per arrivare a una sorta di belvedere. Da qui si gode la vista completa del fiume e delle cascate. Finalmente dopo tanto deserto vediamo acqua in abbondanza e alberi verdi.
Il fiume Kunene scorre tra Angola e Namibia segnandone il confine. Lungo il suo corso cresce una striscia di vegetazione abbondante e rigogliosa, ma poco più in là c’è ancora il deserto. Nel punto delle cascate, con un salto di circa 60 metri, il corso del fiume si divide in una serie di canali che formano numerose pozze d’acqua tra le rocce.
Il governo namibiano, in collaborazione con l’Angola, sta progettando la costruzione di una gigantesca diga sul fiume. I risultati sono facilmente prevedibili. La costruzione della diga, fortemente voluta dal governo, porterebbe alla deviazione del fiume e alla definitiva scomparsa delle cascate (come già successo alle Ruacana Falls, dove sono rimaste solo rocce completamente asciutte). L’impatto ambientale sarebbe disastroso e rischierebbe di mettere in pericolo la sopravvivenza stessa delle popolazioni che vivono nella zona. Ovviamente il progetto ha suscitato accese polemiche e proteste, soprattutto da parte delle popolazioni Himba. Ma non hanno avuto ascolto. Anzi, nelle fila del governo c’è chi preme per una definitiva “civilizzazione” di queste popolazioni, infischiandosene dei loro diritti e dei tentativi di tutela da parte degli antropologi stranieri. Fortunatamente il progetto è rimasto fermo per anni, a causa della guerra civile in Angola. Con la fine delle ostilità, però, la costruzione della diga è tornata un tema attuale.
Owamboland
Abbandoniamo la zona fertile del fiume per spingerci verso Oshakati e i territori pianeggianti dell’Owamboland. La popolazione Owambo è la tribù più numerosa della Namibia e attualmente sono al potere.
Ci rendiamo subito conto che la cordialità e la gentilezza dei Damara e degli Himba sono un lontano ricordo. Ci sembrano tutti molto arroganti e presuntuosi. Siamo alla ricerca del ghiaccio, ma fanno finta di non capire quello che chiediamo loro. Pare che nessuno abbia voglia di aiutarci. Udo manifesta la sua insofferenza nei loro confronti. Ci spiega che si sentono potenti e credono di poter fare quello che vogliono, soprattutto con i bianchi.
Rassegnati andiamo in cerca del villaggio dove trascorreremo la notte. Fortunatamente incontriamo il capo distretto. E’ un signore anziano e ci stupisce con i suoi modi molto fini. Ci accoglie nel suo kraal, dove ci presenta un numero impressionante di figli, nipoti e pronipoti. Rinfrescati dalle bibite offerte dal capofamiglia ci dirigiamo verso il kraal della famiglia che ci ospiterà.
Anche questa è una famiglia molto numerosa e all’apparenza benestante. L’accoglienza è un po’ fredda. Come al solito portiamo cibo per tutti, ma nessuno mangia con noi. Hanno appena ammazzato una capra e si stanno abbondantemente rifocillando di carne. Non ci offrono nulla e ciò è molto strano in un paese dove anche i più poveri sono abituati a condividere con tutti il poco che hanno. E’ ancora più strano considerando il lavoro del nostro ospite. E’ assistente guida turistica e dovrebbe almeno conoscere un po’ di buone maniere.
Nessuno ci aiuta, anzi si dimostrano tutti indifferenti ai nostri preparativi per la cena. Il mattino dopo veniamo a sapere da Udo che ha dovuto pagare 200$ namibiani per l’ospitalità. Sorvoliamo sui commenti della nostra guida a riguardo degli Owambo e dell’attuale governo della Namibia.
Il lago Otjikoto e i Boscimani della Ombili Foundation
Otjikoto è l’unico lago naturale della Namibia: sul fondo si trovano ancora oggi le armi abbandonate dagli aerei tedeschi in fuga dopo la Prima Guerra Mondiale. Per acceder al sito si pagano pochi dollari e si ha la possibilità di visitare il piccolo zoo con coccodrilli e un discerto numero di uccelli. Da qui ripartiamo verso Roy's Camp direzione Rundu, passando per Grootfontein, una deliziosa cittadina circondata da una zona collinare dove si trovano numerosenumerose fattorie gestite da bianchi. Sono quasi tutte guest farms, organizzate per ospitare i turisti. Sono molto belle e colorate, circondate da giganteschi alberi di jacaranda in fiore.
Il campo è molto carino, caratterizzato da un meraviglioso ristorante e bar arredato con mobili fabbricati dal padrone con legno tamboti e corna di antilope. Per una serie di coincidenze negative non possiamo assistere alla dimostrazione dei Boscimani prevista: la famiglia di indigeni che se ne occupava se ne è andata senza preavviso il giorno prima; lo spettacolo di danze tradizionali e la spiegazione della loro cultura sono state quindi sospese. Siamo molto dispiaciuti soprattutto perché non potremo osservare i Boscimani mentre seguono le tracce degli animali o accendono il fuoco con i legnetti.
Decidiamo comunque di trascorrere la serata al Roy's Camp e alla sera avremo una piacevolissima sorpresa: durante la preparazione della cena si avvicineranno numerosi eland, grosse antilopi, e alcuni sciacalli.
I Boscimani della Ombili Foundation
Il mattino dopo riusciamo però a organizzare una visita Per il momento ci consoliamo con una visita alla Ombili Foundation, una missione laica nata con lo scopo di dare un aiuto ai Boscimani. Dopo l’indipendenza del 1990 e in seguito alla presa di potere da parte degli Owambo, i Boscimani sono stati cacciati dalle loro terre. Di fatto il governo si è completamente disinteressato della loro sorte. Una famiglia tedesca ha così deciso di aiutare circa 300 famiglie, accogliendole sulla loro terra e aiutandole a sopravvivere, facendole lavorare nella loro fattoria. Coltivano la terra e allevano gli animali, in questo modo la fondazione riesce ad essere autosufficiente e a provvedere al sostentamento di tutti gli ospiti. Ai bambini e ai ragazzi viene garantita l’istruzione scolastica.
Facciamo un giro per capire come sia organizzata la fondazione. E’ estremamente efficiente, chissà quali sforzi e quanto lavoro devono affrontare i volontari. Susanne, una delle responsabili, ci spiega come anche le cose più ovvie diventino un problema. Bisogna far capire ai bambini che a scuola si sta seduti, fermi e in silenzio ad ascoltare le spiegazioni, bisogna insegnare loro a tenere in mano le matite o a usare la toilette.
Alla fondazione ci suggeriscono di visitare la fattoria Muramba, dove uno studioso tedesco può organizzare per noi un tour guidato alla scoperta dei Boscimani. Purtroppo il soggiorno si rivela una delusione totale. Le spiegazioni del professore tedesco, prolisse e noiose, non ci dicono niente di più di ciò che abbiamo letto sulle guide turistiche.
Inoltre il professore ha un ego smisurato, si crede il più grande studioso di Boscimani e considera i turisti solo polli da spennare. Ci ritiene addirittura responsabili della futura ed inevitabile scomparsa della cultura San. E’ così pieno di sé che non riesco a fare a meno di discutere. Insomma, l’esperienza è da evitare.
Il safari all'Etosha National Park
Finalmente arriviamo all’Etosha National Park, una delle più grandi riserve naturali del mondo (22 mila kmq di estensione, con oltre 144 specie di mammiferi selvatici e 340 specie di uccelli). Il parco è caratterizzato dalla savana e dal pan, un immenso e piatto deserto salino.
Dopo aver sbrigato le formalità all’entrata di Namutoni, ci dirigiamo a una vicina pozza d’acqua dove gli animali si abbeverano. Vediamo dik dik, orici, kudu, giraffe, zebre ed elefanti, oltre a numerose antilopi. Le pozze d’acqua sono il luogo più pericoloso per gli animali: qui i predatori tendono gli agguati alle loro prede. Bere può costare la vita.
L’Etosha è diverso rispetto ai parchi che abbiamo visitato in Tanzania. Qui ci sono strade asfaltate e il perimetro del parco è recintato; non è quindi pericoloso girare nel camping, nemmeno di notte. Si può pernottare soltanto in uno dei tre campi all'interno dell'Etosha (Namutoni, Halali e Okaukujo) oppure in uno dei numerosi lodge fuori dal perimetro. Gli unici animali che si possono trovare all’interno del campo sono sciacalli, manguste e miriadi di uccelli.
Nel parco i campeggi sono gestiti direttamente dal governo e purtroppo si vede. Le strutture hanno un’aria trascurata, spesso i servizi sono rotti o poco puliti. Lo spettacolo degli animali ci ripaga però degli inconvenienti.
Di notte raggiungiamo a piedi le pozze d’acqua illuminate, dove vediamo numerosi elefanti, iene e rinoceronti.
E’ curioso notare la gerarchia esistente nel mondo animale. In presenza di una iena il rinoceronte fa il gradasso e la manda via per avere tutta l’acqua per sé. Ma all’arrivo degli elefanti il rinoceronte se ne va, intimorito dalla mole dei pachidermi.
Nei pressi del campo di Okaukuejo vediamo intere famiglie di elefanti, vicinissime all’auto. Siamo fortunati: verso il tramonto riusciamo a distinguere sdraiati nell’erba della savana leoni adulti con i propri cuccioli. Ci appostiamo a lungo, nella speranza che si alzino per andare a bere. Invano. Sembra che vogliano solo godersi il fresco della sera.
Ritorno a Windhoek
La vacanza è finita. Lasciamo l’Etosha Park con i suoi animali e le sue sterminate distese per dirigerci verso Okahandja, una cittadina sulla via del ritorno, dove riusciamo a effettuare alcuni acquisti presso il locale mercato artigiano. Si può contrattare abbastanza facilmente, con sconti dal prezzo di partenza fino al 60-70%. Molto gradito il baratto, soprattutto con magliette o scarpe sportive (Adidas piace molto...) Compriamo maschere tribali, statue e piatti in legno molto interessanti oltre a stoffe dipinte a mano: dovrebbero essere tipiche dello Zimbabwe e sono davvero belle. Finite le contrattazioni (e finiti soprattutto i soldi) ripartiamo per la capitale.
Arrivati a Windhoek ci godiamo gli agi della pensione Tamboti; dopo tanti giorni di campeggio e di villaggi indigeni anche la modesta ma comoda sistemazione ci sembra un lusso. Commossi salutiamo Udo (letteralmente distrutto dal tour) e gli chiediamo consigli per un ristorante facilmente raggiungibile: abbiamo solo la serata per fare un giretto a Windhoek e vivere l’ultima emozione del viaggio. Raccogliamo le informazioni e prestiamo molta attenzione ai suoi consigli: girare con pochi soldi in tasca, niente macchine fotografiche e tanto meno passaporti, carte di credito o biglietti aerei per il ritorno.
Raggiungiamo senza problemi il locale, ceniamo e ci incamminiamo a piedi verso la pensione, ripercorrendo le varie tappe del viaggio. Lasciamo il viale principale seguendo la strada dell’andata, quando casualmente incrociamo tre “coloured” balordi, abbastanza giovani e ubriachi. In un attimo ci troviamo circondati dal trio: ci gridano frasi in Afrikaans e non capiamo, ma l’intento è chiaro… farsi consegnare soldi e valori. In due mi mettono spalle al muro e iniziano a perquisirmi alla ricerca di portafogli o telefonini. La situazione è convulsa: inizio a gridare, Adri si libera di uno dei tre e mi viene ad aiutare quando ripenso ai consigli di Udo e tiro fuori dalla tasca 10 dollari americani per consegnarli ai rapinatori. Questi restano un attimo a verificare il bottino e riesco allora a districarmi dai due. “Scappa, scappa” mi grida Adri mentre mi raggiunge, ma uno dei teppisti torna alla carica. Sembra un film ma tutto è maledettamente vero: Adri mette mano all’inseparabile coltello svizzero e spiazza l’inseguitore. Riusciamo a prendere distacco e con il cuore in gola ci mettiamo in salvo.
Certo, l’alta tensione e il fino spinato alle recinzioni avrebbero dovuto insospettirci, comunque ce la siamo cavata: non avevamo niente di valore, nemmeno i documenti. Ci è andata bene. E’ incredibile: non ci è successo nulla nei luoghi più sperduti e inospitali (tranne qualche acciacco gastroenterico alla sottoscritta) mentre veniamo aggrediti soltanto nella grande e “civile” città...
Il viaggio ci ha lasciato particolarmente soddisfatti. La Namibia ha un paesaggio estremamente vario e interessante. Al di là delle bellezze naturali mi sono rimaste particolarmente nel cuore le diverse popolazioni che abbiamo incontrato, soprattutto gli Himba. Fiere delle loro tradizioni, cercano disperatamente di sopravvivere agli attacchi del modello occidentale, alcune si “curano” con l’alcool, altre più semplicemente vogliono solo essere lasciate in pace per poter continuare la loro vita.
Mi sento però confusa. Da un lato penso che lo sviluppo sia una tappa naturale nell’evoluzione di una popolazione; non abbiamo il diritto di intrometterci in questo processo di cambiamento.
D’altra parte è anche vero che il contatto con noi turisti stimola questo cambiamento: ci vedono e desiderano ciò che noi abbiamo e ciò che noi siamo. Avrà forse ragione il professore tedesco studioso dei Boscimani a ritenerci responsabili della scomparsa delle tradizioni e delle culture locali?
Adriano e Luisa adriano@iviaggidelcapo.it