"IL ROSSO E IL VERDE".
Diario di viaggio 2002
di Beatrice
04/08/2002
- Il viaggio, la strada del
Tizi’n’Tichka e
Telouèt.
COMINCIAMO BENE I. Siamo sul Boeing 747 che finalmente, dopo tanto aspettare, ci
porterà a Marrakech. Per ora comunque siamo ancora fermi, e da un’ora, causa
accuratissimo controllo anti-terrorismo sull’aereo israeliano che aspetta di
fianco al nostro. Giò è esattamente dalla parte opposta dell’aereo, io in
testa a sinistra e lei in coda a destra, fantastico. Almeno siamo entrambe
vicine al finestrino. Siamo state un po’ tonte al momento del check-in, fatto
sta che passerò il viaggio di fianco a questo bellissimo bimbo dagli occhi
grandi e scuri che si chiama Alessandro e non fa che accarezzarmi il braccio su
e giù, su e giù, su e giù. Di fianco a lui, la sua mamma che non fa che
dirgli “Sei ancora piccolino per accarezzare le ragazze!”. Dietro di noi, un
trio di ragazze che avranno più o meno la mia età, perfettamente assortite
–una mora, una bionda, una rossa.
COMINCIAMO BENE II. Dopo un atterraggio abbastanza difficoltoso (sembrava di
essere sul tappeto volante, tanto per entrare in atmosfera), siamo nel mini
aeroporto di Marrakech, più o meno tutti con lo stomaco in mano e in coda,
tanto per cambiare. È la quarta che ci spariamo oggi, dopo quella per il
check-in, quella per il bagaglio a mano e quella per i passaporti. Chissà se
avremo i bagagli, chissà se ci sarà la macchina. Se sì, allora sarà davvero
vacanza! Dimenticavo: PIOVE. Giò ha l’occhio pallato e si rifugia in un “No
comment”.
COMINCIAMO BENE III. Recuperata all’aeroporto la nostra Fiat Palio col vetro
bucato e senza aria condizionata, si parte: destinazione Telouèt. Mentre
percorriamo la splendida strada che si inerpica verso il Tizi’n’Tichka,
cominciamo a renderci conto dell’atmosfera che si respira qui. Anche in mezzo
alle montagne, le strade sono piene di gente a piedi o a dorso di mulo. Le donne
lavorano portando enormi fasci di erba o rami, gli uomini se ne stanno seduti
sulle rocce guardando all’infinito (chissà che cosa aspettano), i bambini
quasi si buttano sotto la macchina pur di venderti un geode o un fossile delle
montagne dell’Alto Atlante. Quando passiamo a mezzo metro da loro, ci urlano
nel finestrino qualcosa che non capiamo ma che ci fa sobbalzare. Se a tutto
questo aggiungiamo le buche e le pietre aguzze sulla carreggiata, i camion
anteguerra che sputano fumo nero e puzzolente, i pullman con il cofano aperto
per raffreddare il motore e i due incidenti che incontriamo lungo il percorso,
sembra di essere dentro uno di quei videogiochi dove la macchinina deve superare
degli ostacoli e guadagna o perde punti a seconda di quello che schiva o prende
in pieno. Mi metto a fischiettare un’ipotetica musichetta da Playstation: è
divertente… più per il navigatore che per l’autista, lo ammetto!
Comunque
tant’è, proseguiamo la gimkana fino a raggiungere la stradina per Telouèt
all’imbrunire. Andiamo avanti, avanti, avanti ma comincia a far buio e del
paese non c’è traccia: non l’avremo passato senza accorgercene? Fermiamo un
gruppo di donne per chiedere informazioni ma come risposta otteniamo solo
risolini e sguardi imbarazzati. Ovviamente non parlano francese, anzi forse non
parlano proprio. Con noi, almeno. Cominciamo ad intuire che per tutto il viaggio
non potremo avere a che fare con delle donne, almeno qui nei paesini del sud.
Continuiamo e poco dopo possiamo tirare un sospiro di sollievo: ecco una
piazzetta con delle botteghe, ecco qualche albergo, ecco Telouèt anche se non
c’è nessun cartello che lo indichi. Ci fermiamo nell’albergo di Ahmed
consigliato dalla nostra fida Routard. Visto che tutte le stanze sono già
occupate, ci mettono in una stanza nel palazzotto di fronte, che ci dicono
essere la famosa kasbah del Glaoui ma su cui nutro qualche dubbio: mi sembra un
po’ troppo piccolo per essere la residenza estiva di un pascià. La cena sotto
le tende berbere è piacevole, anche se accompagnata dall’assidua presenza del
padrone dell’albergo e del venditore di tappeti. Ma non sarà mica che per
tutto il viaggio non possiamo mangiare da sole eh? Siamo in montagna, l’aria
è frizzante e il silenzio è rotto soltanto dai richiami dei muezzin, che ci
ricordano che non c’è solo Telouèt qui intorno, anche se così non sembra.
Unica nota negativa della serata, un venditore di tappeti che si spaccia per un
tuareg accompagnatore di Avventure nel Mondo e ci intrattiene tutta sera con
barzellette e giochetti di abilità. E se volessimo andare a letto? Glielo
facciamo presente, e per tutta risposta quello insiste per portarci sulla
terrazza a vedere la Croce del Sud. Mentre ci incamminiamo, vediamo che dice
qualcosa a due suoi amici, che ci seguono. La situazione non ci piace affatto e
ci tiriamo indietro. È a quel punto che lui parte con una ramanzina che è come
uno schiaffo ma che ci apre gli occhi: “Ho parlato con voi tutta la sera perché
non siete studenti ma lavoratrici, quindi avete dei soldi”. Ci hai proprio
azzeccato! “Quello che mi interessa sono i vostri soldi, nient’altro: voglio
che veniate domani nel mio negozio.” Ed è allora che cominciamo a capire:
niente è disinteressato, qui. Qualunque consiglio, qualunque scatto, qualunque
parola si paga. Anche se non è richiesta. C’è la brutta sensazione che per
tutti qui noi siamo portafogli ambulanti, da svuotare il più possibile, e
magari anche un po’ stupidi. È triste, e difficile da accettare. Ti fa
diventare diffidente ogni volta che conosci qualcuno. Poi, il fatto che siamo
due donne e che siamo appena arrivate fanno impennare il nostro “potenziale
d’acquisto”, così tutti fanno a gara a starci addosso. E non ci possiamo
nascondere, basta la nostra faccia a dire tutto di noi. Ci aspettano tre
settimane dure, ma sarà un bell’esercizio per imparare a dire di no.
Soprattutto a casa.
La frase del giorno: “Les carottes sont déjà cuites” (il venditore di
tappeti)
05/08/2002 – Ait Ben Haddou, Ouarzazate, la Valle e le Gole del Dadès.
COME THELMA E LOUISE. La mattina comincia presto e con un’abbondante
colazione, immancabilmente sorvegliata dal padrone di casa che non ci abbandona
mai: “Moi Mohamed, vous Fatuma et Aicha!”. Veramente più che figlia e
moglie di Maometto noi ci sentivamo un po’ Thelma e Louise. Mentre mangio mi
guardo intorno e trovo conferma dei miei sospetti sulla kasbah: proprio qui di
fronte, a sovrastare il paese, ci sono delle rovine di terra rossa con una
tettoia di tegole di ceramica verde smeraldo, che hanno tutta l’aria di essere
state un grande palazzo, ben più degno di un pascià del casottino in cui
abbiamo dormito. Boh! In ogni caso, mi resterà questo dubbio. Saliamo sulla
Palio a cui cominciamo ad affezionarci e questa non parte. Riproviamo, e non
parte ancora. Attimo di panico. “Giò, non c’è lo starter?” “No”…
arriva un bimbo che avrà sì e no dieci anni e ci dice “Lo starter è in
basso alla destra del volante”… ehm, grazieeeeee…
Si
continua verso Ouarzazate, con sosta nello splendido ksar di Ait Ben Haddou, e
comincia a fare davvero caldo. Appena arrivate nel villaggio di fronte allo ksar,
un ragazzino ci si appiccica e comincia a farci da guida. Io divento
istantaneamente insofferente –ma è mai possibile che non si possa mai
muoversi da soli?- e mi diverto ad andare esattamente dove lui non dice. Finché,
ad un certo punto, scoppio e gli dico con tutta la gentilezza che la mia
irritazione mi permette “Vogliamo visitare lo ksar da sole, niente guide,
grazie”. Lui insiste ancora, sostenendo che non si può andare senza guida. Il
mio scandito “ON-NE-VEUT-PAS-DE-GUIDES”, finalmente, lo scoraggia. Non
passano cinque minuti che un altro tizio ci affianca silenziosamente, e
all’ennesimo “Pas de guides” risponde “Je suis berbère”...??? A parte
il fatto che i berberi dovrebbero essere persino biondi e questo è nero come la
pece, che cosa significa? Siamo costrette ad ignorarlo, per poi seminarlo poco
dopo giocando a nascondino nei vicoli dello ksar. Ce l’abbiamo fatta, ma che
fatica!
A Ouarzazate si respira un po’ aria di centro turistico, e per la prima volta
la cosa ci fa sentire sollevate. Ci fermiamo per cambiare i soldi, fare la spesa
nell’unico supermercato (se così si può chiamare) della città, pranzare e
riprenderci dal caldo che comincia a diventare soffocante. Quando mettiamo il
naso nel mercato, alla seconda bancarella siamo fermate da un bellissimo
venditore vestito di blu che ci illustra le proprietà di tutte le piramidi di
spezie esposte e che continuando a dire “Solo per guardare” riesce a farci
sentire in obbligo di comprare. Crediamo di essercela cavata con due pezzi di
indaco, ma l’intera faccenda si svela poco dopo, quando ci invita dietro al
suo banco -già, perché quello delle spezie era di un suo amico- per bere un tè
e vedere le foto del deserto. Ci racconta che si chiama Moustapha e che la sua
famiglia organizza escursioni sulle dune di M’hamid e ovviamente insiste perché
ne prenotiamo subito una. Rifiutiamo con la scusa –vera- che non sapremo
quando saremo a M’hamid. Allora Moustapha, vedendo che non attacca, fa uscire
dal cappello il piano B e ci chiede “Avete mai visto i ??? del deserto?”. E
basta con ‘sto deserto! Cos’è, la parola magica per intortarci? Mi sa di sì…
“No, cosa sono?”. Ed è a questo punto che il bel Moustapha cala l’asso:
argento, agate, ambre, il tutto sotto forma di gioielli. Scatole piene, che
riversa ai nostri piedi sperando di illuminarci. In effetti ci ritroviamo
incastrate in una contrattazione che sembra senza fine, ma due ore dopo, con un
colpo di coda degno dei migliori contrattatori, riusciamo a chiudere senza
comprare niente e perdendoci soltanto un blister di Aspirina, per di più usato.
Povero Moustapha, sei capitato male con noi!
Dopo Ouarzazate, il paesaggio si apre e diventa immenso. Sembra di essere in un
film: spazi vastissimi, ai lati montagne erose come un canyon e in mezzo la
strada, drittissima, ondulata dal caldo, e deserta. Tutto rosso, con qualche
arbusto scuro e i palmeti che esplodono, verdissimi, quando ormai cominci a
credere che sarà così fino al deserto. Ogni tanto attraversiamo delle porte
che indicano il passaggio ad un’altra provincia, alla cui ombra quasi
verticale si rifugiano veri venditori e finti autostoppisti. Giunte nella verde
Valle del Dadès, passiamo le sue cento kasbah, i suoi palmeti e i suoi paesi
tutti uguali e vediamo che sulle bancarelle è predominante il rosa: siamo nei
pressi della Valle delle Rose, dove però non possiamo andare con la nostra
piccola Palio. Perciò proseguiamo fino a Boumalne Dadès, dove ci fermiamo un
attimo nel modesto albergo “La Vallée des Oiseaux” per poi ripartire alla
volta delle Gole del Dadès. Ci inerpichiamo su per la stradina mooolto
sconnessa -povera Palio!- che attraversa la valle e restiamo affascinate dai
suoi colori: tutte le sfumature del rosso (dal rosa al malva) delle sue rocce e
il verde intensissimo del palmeto incuneato giù nel fondo, là dove scorre il
fiume. Per non parlare delle sue forme, che raggiungono il massimo
dell’espressione nelle “Pattes des singes”, le zampe di scimmia,
formazioni rocciose color ruggine dalla forma tondeggiante e dal fascino
incredibile. Giunte a metà, ci arrendiamo e decidiamo di tornare indietro, per
paura di perdere la marmitta che già fa rumori sinistri. Peccato, perché
leggendo più attentamente la guida una volta in albergo scopriamo che nelle
Gole del Dadès ci sarebbe da restare almeno un giorno. Pazienza, ormai è fatta
ma ci resterà il rimpianto.
La frase del giorno: “Eh! Les gazelles!” (tutti)
06/08/2002 – Il palmeto di Tinherir e le Gole del Todhra.
LE ULTIME PAROLE FAMOSE. Avevo detto che non ci sarei cascata, che sarei
diventata una iena, che avevo imparato a dire di no e bla bla bla. Bene. Ho
appena comprato un tappeto. Che, ovviamente, non volevo comprare. Quanto mi
sento stupida! Ma riprendiamo la storia dall’inizio. La notte nel piccolo
albergo di Boumalne Dadès non passa. Nel senso che dopo qualche ora di sonno ci
ritroviamo tutte e due sveglie con gli occhi sbarrati: sarà il caldo infernale?
Sarà l’ululare del vento che passa rasente la finestra ma si rifiuta di
entrare nella stanza? Sarà che sono le 4 del mattino e il muezzin sta chiamando
alla preghiera? Sarà forse che in piena notte pregano suonando i tamburi?
Saranno tutte queste cose, fatto sta che non riprendiamo più sonno.
Al mattino, dopo una doccia rinfrescante in compagnia di uno scarafaggio
gigante, un succo d’arancia che mi manda ko per una mezz’oretta e lo scambio
delle e-mail con Aziz il cameriere timido, partiamo determinate a scendere
finalmente dalla macchina: andremo a visitare il palmeto di Tinherir. Su
consiglio della Routard, entriamo in un grande albergo e chiediamo una guida
ufficiale. Di primo acchito alla reception ci sembrano un po’ strani e quasi
imbarazzati. Poi ci presentano Mohamed (un nome a caso), un tondo marocchino con
una djellaba bianca e un caldo sorriso senza incisivi. La nostra guida ci
conduce nel labirinto del palmeto e ci racconta un bel po’ di cose sul
Marocco: come distribuiscono l’acqua dei fiumi, come sono suddivise le
parcelle di terreno, su cosa si basa l’economia del paese, chi era il Glaoui e
così via. Scopriamo che in un palmeto ci sono più specie di alberi che in un
orto botanico, e che anche se l’albero appartiene al proprietario della
parcella in cui cresce, i frutti sono di tutti.
Poi il nostro amico sdentato ci promette di portarci all’interno di una kasbah,
anzi di più: nella casa di una famiglia berbera semi-nomade dove le donne
tessono i tappeti. Ed è qui che comincia l’arnaque: la parola “tappeti”
avrebbe dovuto insospettirci e invece noi avevamo le antenne calate, forse perché
la visita era stata davvero interessante, o forse perché Mohamed ci stava
simpatico, chissà. Fatto sta che entriamo in questa casa dalle pareti di terra
larghe un metro, saliamo le scale e veniamo accolte dal sorriso di una donna e
dagli occhi grandi della sua bambina. La donna parla solo berbero, ma si rivolge
a noi come se la capissimo perfettamente ed è Mohamed che traduce i suoi fiumi
di domande. Dire che sono studentessa -quindi squattrinata- e che il mio gazou
sta per raggiungermi a Fèz evidentemente non li scoraggia, perché in breve
veniamo trascinate nel vortice delle loro attenzioni e facciamo appena in tempo
ad insospettirci che ci ritroviamo con un bicchiere di tè alla menta in una
mano, un tatuaggio all’henné nell’altra e davanti… decine di tappeti di
ogni colore e dimensione, tutti –devo ammetterlo- molto belli, almeno ai miei
occhi di profana. Nel frattempo la scena ha cambiato comprimari: Mohamed se la
batte con la scusa che deve fare una telefonata e viene sostituito dal sedicente
fratello della donna, che più che l’interprete fa il venditore. Intontite
dall’incredibile quantità di tappeti e di parole, abbiamo la malaugurata idea
di parlare di prezzi… ed è qui che comincia un’estenuante contrattazione su
prima dieci, poi cinque, poi un solo tappeto. Giò ha il lampo di genio di dire
che non può spendere tanto perché “Mon papa ne veut pas que j’achète un
tapis”, suo papà non vuole: la lasciano in pace istantaneamente. E io, perché
non adduco la stessa scusa? Avvolta nelle spire della contrattazione sono come
un burattino nelle loro mani. L’unica cosa su cui riesco a essere inamovibile
è il prezzo da me proposto: essendo la metà esatta del loro, sono convinta che
non scenderanno così tanto e spero di cavarmela così. È qui che sbaglio,
perché dai 1500 dirham di partenza i due scendono a 1200, poi a 1100, poi 1000,
950, 900, 850, 800… e io imperterrita proseguo col mio “Je ne peux pas",
illudendomi che questo li dissuada. E proprio mentre tiro l’ultimo sospiro di
sollievo, proprio mentre sto per dire “L’ho scampata”, i due venditori
chiudono la trattativa con un “750, d’accord” e cominciano a piegare,
arrotolare, avvolgere, annodare. Tre secondi dopo –non esagero!- sto pagando,
con in mano un pacchettino cilindrico completo di artigianalissima maniglia che
contiene il Mio Nuovo Tappeto. E mentre Giò è presa da un attacco convulsivo
di riso e il rimaterializzato Mohamed ci riporta alla macchina, continuo a
chiedermi incredula come è stato possibile. Ho comprato un tappeto.
Esauste per la contrattazione, decidiamo di terminare la giornata nelle Gole del
Todhra. Lungo la strada notiamo un’aria da giorno di festa: tutte le donne
portano un velo di pizzo bianco, chissà perché. Il mistero si infittisce
quando, all’ingresso delle gole, la polizia ferma il traffico per far passare
un corteo di macchinoni scuri con bandierine sul cofano. Che fosse il re? Non lo
sapremo mai, ma la cosa perde di interesse quando alziamo lo sguardo per vedere
dove finiscono le due pareti di roccia che d’improvviso ci stringono:
meraviglia! Due falesie altissime e a strapiombo che fanno girare la testa
quando guardi in alto e, in mezzo, il fiume che le ha scavate, che in estate è
poco più largo di un ruscello di montagna. Oddio, con questo caldo le rive del
fiumiciattolo sono più affollate delle spiagge della riviera, ma pazienza:
passeremo la notte qui, all’Hotel “Les Roches”, per poter godere della
pace di questo posto quando la gente se ne sarà andata. La cosa, puntualmente,
avviene. Mai dormito così bene.
La frase del giorno: “Je vais passer un coup de fil” (Mohamed)
07/08/2002 – Le Gole dello Ziz, la Fonte Blu di Meski ed Erfoud.
IL DESERTO A TUTTI I COSTI. L’incanto delle gole continua fino al mattino, e
non ci dispiace allungare il tempo della colazione visto che questa si svolge
sulla terrazza dell’albergo con il brusìo dei numerosi ospiti stranieri in
primo piano e il rumore dell’acqua in sottofondo. Presa da un attacco di gola,
dopo neanche ventiquattr’ore rinnego il giuramento di non bere più succo
d’arancia e ne faccio fuori tre bicchieri -piccoli, però. Giò sibila “Se
poi stai male ti mollo per strada”. Per fortuna non accuso malesseri di alcun
genere, almeno per il momento, e posso dedicarmi all’osservazione dei nostri
colleghi turisti, tutti faccia bianca e pantaloncini corti. C’è una famiglia
padre-madre-figlia-genero, di indubbia nazionalità visto il rosa del giornale
che il papà sta leggendo, perfettamente intonato con i suoi fantastici
pantaloncini millerighe. C’è una giapponesina solitaria, che non saluta
neanche quando Ibrahim, l’intrattenitore dell’albergo, le dice “Konnichiwa”.
Più che taciturna, ha l’aria triste. E c’è il “Festival dei mostri”:
un gruppo che ci avevano detto essere di Avventure nel Mondo e che invece è
costituito da una ventina di personaggi di lingua francese e dall’aspetto
quantomeno bizzarro. La soddisfazione più grande ce la prendiamo con un finto
tuareg conosciuto la sera prima: questo ci propone soavemente di partire subito
con lui in 4x4 per andare all’Erg Chebbi e dormire nel suo albergo a Merzouga.
Al nostro “No grazie” però tutta la dolcezza sparisce e resta solo
un’insistenza vagamente aggressiva: “Il Marocco non è Marocco senza il
deserto, non sapete cosa vi perdete, andate nelle Gole dello Ziz? Ma non c’è
niente da vedere, ve ne pentirete!”. Lo lasciamo a bocca asciutta con un
“Monsieur, se ci pentiremo pazienza. Au revoir!” e partiamo baldanzose verso
le Gole dello Ziz.
Queste cominciano poco dopo la rettangolare Er-Rachidia, città squallidina e
per di più oggi resa opaca dalla foschia. In effetti c’è un gran caldo, e
l’aria non è limpida neanche nelle gole che si aprono davanti a noi in tutta
la loro maestosità. Se non fosse per i villaggi di terra e per i bambini che ci
inseguono con i cestini di frutta, ci crederemmo nella Monument Valley.
Affianchiamo il rigoglioso palmeto che segue il corso dello Ziz fino al Tunnel
del Legionario, di cui la Routard si gloria –questi francesi!- ma che in realtà
è un buco nella roccia lungo ben… quattro metri! Proseguiamo un paio di
chilometri fino a un paesino dove pare ci sia una sorgente termale, ci fermiamo,
ci chiediamo se fermarci sì o no poi arriva uno stuolo di false guide che in un
minuto ci circonda e in due secondi optiamo per il no. Voltiamo la macchina e
torniamo a Er-Rachidia con l’intenzione di fermarci a Meski, dove ci sarebbe
la famosa Fonte Blu, “vera e propria oasi di pace a due passi dal deserto”,
come recita la guida. Speriamo che sia vero.
E invece la Fonte Blu è soltanto una piscina dalle pareti gialle e dall’acqua
torbida dove fanno il bagno centinaia di bambini con costumi musulmani. Aiuto!
Ci guardiamo intorno: siamo le uniche straniere. Subito il padrone di un
negozietto di souvenir ci adocchia e ci invita a prendere un tè da lui, “Avec
ou sans sucre?”. Crediamo di liquidarlo con un “Dopo, dopo” e invece lui
resta seduto due ore, ripeto DUE ORE ad aspettarci senza perderci mai di vista.
La cosa ci innervosisce e ci spaventa pure un po’. Ci chiediamo come liberarci
di lui e troviamo la risposta seduta al bar: Lisa e Sergio, due italiani –lei
di Verona, lui di Milano- venuti fin qui in moto dall’Italia e diretti, guarda
caso, a Merzouga. Due piccioni con una fava: ci aiutano a liberarci del tipo
(quanto è più facile per un uomo!) e ci propongono di andare insieme a
Merzouga l’indomani. Intanto ci rendiamo conto di una cosa: quando vediamo
qualche straniero ci sentiamo un po’ più leggere. Brutto segno.
Comunque tant’è, giunte a Erfoud (praticamente una fabbrica di turisti
ricoperta da due dita di sabbia) ci regaliamo per una volta un albergo quattro
stelle che costa come tre notti in un due stelle qui e mezza notte in un due
stelle in Italia, ci facciamo un tuffo in piscina e ci godiamo il condizionatore
in camera. Già, perché l’aria quaggiù è rovente come il getto di un phon,
anche di sera: siamo nel deserto, e si sente. Prima di cena partecipiamo con i
nostri compagni ad interim all’ennesima contrattazione, stavolta per fissare
il prezzo dell’escursione nel deserto domani all’alba. Comincio a prenderci
gusto, e concludiamo soddisfatti: domattina, sveglia alle tre.
La frase del giorno: “Ora capisco perché qui le donne si vestono così”
(Lisa nel vento di sabbia)
08/08/2002 – L’Erg Chebbi, l’hammada rovente, la Valle del Draa e Zagora.
CHIUDETE IL FORNO! Il telefono della stanza mi butta giù dal letto all’ora
stabilita e l’unico pensiero di cui sono capace è “Chi me l’ha fatto
fare?!”. Le nostre guide –vere o false, ormai non importa più- vengono a
prenderci direttamente in albergo: il capo-gita non ha chiuso occhio per
partecipare a un matrimonio. Imbocchiamo la pista per Merzouga inscatolati in un
robusto fuoristrada dagli interni damascati e, seguiti dai fari di decine di
altri fuoristrada come noi (sembra il grande esodo estivo!) ci inoltriamo
nell’hammada verso la sabbia. Dopo un’oretta arriviamo un po’ ammaccati in
una specie di alberghetto ai piedi delle dune e il nostro amico ci presenta
immediatamente Il Cammelliere. Testardi, cercando di salvare quel poco che ci
resta dell’orgoglio di turisti fai-da-te, rifiutiamo in modo gentile ma
deciso. Allora ci dicono: “La Grande Dune est là”, tre chilometri a piedi
in quella direzione. Sarà, ma questa storia della grande duna non mi convince,
mi sembrano tutte piccoline confronto alla Dune de Pyla di Bordeaux. Quando il
cielo si schiarisce, mi rendo conto che siamo solo all’inizio dell’Erg
Chebbi e che il villaggio dove siamo probabilmente non è Merzouga ma quello
prima. Vedo anche l’ombra di una duna ben più alta verso sud: forse è quella
la Grande Duna, chissà. Certo abbiamo camminato, ma non abbiamo fatto né tre
chilometri in lunghezza né centocinquanta metri in altezza. Pazienza,
l’oceano di dune che mi sta dinnanzi può bastare, per stavolta. È davvero
immenso: peccato per il sole, che invece di sorgere e colorare la sabbia fa
capolino dalle nuvole pallido pallido quando ormai è già alto. Neanche la
sabbia si colora, ma il fascino del deserto ci prende e ce ne restiamo lì,
appollaiati sul crinale di una duna, a guardarlo senza dire una parola.
L’unico a rompere il silenzio è la nostra piccola guida non richiesta che,
dopo averci accompagnati con la scusa che ci saremmo sicuramente perduti in
questo fazzoletto di deserto a due passi dall’oasi, rompe l’incanto
proponendoci la sua mercanzia. Rifiutiamo ma premiamo la sua costanza con 10
dirham: poverino, doveva essere morto di sonno, se al nostro ritorno lo troviamo
accasciato su una roccia all’ombra di una palma! Ormai disincantata, tento di
fare una foto a un dromedario in sosta vicino al nostro campo base e mi sento
urlare: “10 euro pour la photo!”… tzè, figurati! Continuo imperterrita a
ritrarre il mio modello, che incurante di me continua a ruminare beatamente. Ma
ci sarà qualcuno che glieli dà veramente, i 10 euro? Il viaggio di ritorno è
decisamente veloce. Sarà perché dopo soltanto una manciata di chilometri ci
immettiamo su una strada asfaltata di cui ignoravamo l’esistenza? Sarà anche
vero che c’è solo una pista che arriva a Merzouga… ma il sospetto che ci si
possa avvicinare alle dune con i propri mezzi senza correre rischi è molto
forte. Se così fosse veramente –e si venisse a sapere- per Erfoud
significherebbe il tracollo economico, e Merzouga diventerebbe una metropoli.
Allora, sai cosa? Forse è meglio che le cose restino come sono.
Rientrati in albergo, notiamo con gioia che ci aspetta un’abbondante
colazione. Riempiamo ingordamente i nostri piatti, poi ne lasciamo metà ai
gatti che ci miagolano intorno, visto che alla quantità non corrisponde
altrettanta qualità. I gatti, sottili come segnalibri, ringraziano. La
mattinata finisce a letto per me e in piscina per gli altri, ma la pacchia dura
poco: dobbiamo lasciare l’albergo entro mezzogiorno, e proprio a quell’ora,
puntuali come orologi svizzeri, io e Giò salutiamo i nostri compagni
d’avventura e partiamo in direzione Valle del Draa. Malaugurata idea, quella
di viaggiare nelle ore più calde della giornata, e per di più nel nulla: per
240 chilometri la strada attraversa questo nero deserto di pietra che si chiama
hammada, e per 240 chilometri noi incontriamo solo quattro camion e tre
paeselli. Fa davvero caldo, ma crediamo di riuscire a sopportarlo. Anche quando
mettiamo la mano fuori dal finestrino e ci sembra che l’aria sia il getto di
un phon: ci saranno quasi cinquanta gradi. Quando finalmente entriamo nella
valle, non crediamo ai nostri occhi nel vedere un fiume vero, colmo d’acqua, e
non il suo letto rinsecchito. Ci fermiamo a recuperare le energie con una
Coca-Cola nel primo baretto a due passi dal fiume, dove siamo costrette a
scacciare le frotte di bambini che ci implorano di comprare un dromedario
intrecciato, di dar loro una bottiglietta vuota o il solito dirham. Mi si
stringe il cuore a dover essere così dura, ma cerco anche di mettere in pratica
il famigerato “turismo responsabile”: dare a questi bambini quello che
vogliono è abituarli a mendicare. L’assalto al turista, a tutti i costi.
Perché? Ci vedono arrivare con le nostre costose macchine fotografiche appese
al collo, e sanno che con il nostro denaro possiamo permetterci cose che loro
neanche si sognano. In Marocco, però: in Italia può capitare che quei soldi
non bastino per arrivare in fondo al mese. Ed è questo che non capiscono,
almeno finché non vengono a vivere in Europa.
Dopo l’hammada, i palmeti e le rosse pareti di roccia della Valle del Draa,
Zagora ci accoglie con il suo brulicare di gente e le sue bandiere rosse mosse
dal vento su un viale che sembra un lungomare ma che invece si affaccia sul
nulla del deserto. Fuggiamo inorridite dallo sporco del campeggio che avevamo
scelto per la notte –ma che cosa consiglia la Routard?- e ci rifugiamo
nell’albergo “La Palmeraie”, che promette piscina e aria condizionata.
Raccogliendo le nostre ultime forze entriamo nella hall con gli zainoni e,
mentre conveniamo “Finalmente un po’ di fresco”, l’occhio ci cade sul
termometro appeso al muro: segna trentotto gradi. Trentotto. All’ombra, al
chiuso, alle cinque del pomeriggio. E poco dopo, appena entrate nel cubicolo che
ci hanno dato per stanza, facciamo d’istinto quello che non avremmo mai dovuto
fare: apriamo le finestre. Sbagliato! L’aria si muove, ma è rovente: è stato
come accendere un forno. Richiudere le finestre a questo punto è diventato
impossibile, l’unica cosa che ci resta da fare è aspettare. Aspettare che
scenda la notte, aspettare che l’aria si rinfreschi. Se lo farà.
Nell’attesa mi sdraio sul letto: non mi sento molto bene. Per scrupolo mi
provo la febbre e quando leggo il termometro non credo ai miei occhi: segna 40.3
gradi! Più che febbre, è temperatura corporea, il caldo cioè viene da fuori,
non da dentro. Beh, sia come sia, mi assale una gran paura: è un colpo di
calore, e la guida della Lonely in questi casi consiglia il ricovero
ospedaliero. Voglio la mammaaa! Giò smette di parlare, si trasforma
istantaneamente in infermiera e si prodiga per tutte le cure del caso con
un’efficienza degna della migliore clinica svizzera. Proviamo a far scendere
la temperatura coprendomi con un asciugamano bagnato: sento le gambe friggere,
buon segno. Dopo mezz’ora il termometro segna 36.6, ma ahimé dopo un’altra
mezz’ora torna ad indicare febbre. Rapido consulto, si va all’ospedale. Non
so come faccio a tenermi in piedi, mi sembra di camminare dentro una nuvola e
liquido tutti quelli che ci fermano per strada con un “Je suis malade”.
Neanche questo, a volte, li fa desistere. Al pronto soccorso mi accoglie una
dottoressa giovane giovane che sembra un angelo ed è la prima donna senza velo
che vedo dall’inizio della vacanza. In un quarto d’ora mi diagnostica un
colpo di calore associato a un inizio di gastroenterite –ah sì? prevedo una
notte difficile-, mi fa una puntura prodigiosa ma dolorosissima, mi prescrive
antibiotico antipiretico gocce per la pressione e, soprattutto, mi
tranquillizza. Quando rientriamo in albergo la mia gastroenterite si è già
manifestata in mezzo alla piazza, ma sto molto meglio. Per fortuna la nostra
stanza è allagata per la rottura dello scarico: otteniamo finalmente una camera
con l’aria condizionata. Non chiuderemo occhio tutta notte per il rumore (fa
talmente caldo che si accende ogni quarto d’ora), ma almeno staremo
relativamente fresche.
La frase del giorno: “40.3” (il termometro)
09/08/2002 – Ouarzazate.
UN GIORNO IN LETARGO. È ancora notte quando la sveglia suona: secondo il piano
di emergenza, dobbiamo partire da Zagora prima dell’alba, per raggiungere le
fresche Cascate di Ozoud prima che il sole ci bruci. Le prime parole di Giò mi
gelano il sangue: “Bea, mi passi il Plasil?”. Subito, ma è troppo tardi:
gastroenterite anche per lei. Il pilota è più ko del co-pilota: a questo
punto, stiamo qui in trappola un altro giorno o partiamo cercando di arrivare a
Ouarzazate il prima possibile? Ouarzazate è la città più vicina a Zagora e
nei 160 chilometri che le separano non c’è niente: né alberghi, né
ospedali: ce la faremo? Sì, ce la faremo. E mentre ci alziamo ci accorgiamo che
Giò aveva sì puntato la sveglia alle cinque, ma che quella era regolata
sull’ora italiana e cioè ha suonato due ore prima: adesso sono le quattro e
mezza, ora marocchina. Beh, tanto meglio: praticamente non abbiamo dormito, ma
c’è fresco. Nella luce dell’alba abbandoniamo Zagora, appena addormentata
dopo i rumorosi festeggiamenti della notte –un altro matrimonio?-, giurando di
non rimetterci mai più piede. Sono le nove quando entriamo nella hall
dell’albergo “La Vallée” di Ouarzazate e chiediamo al silenzioso padrone
una camera fresca, libera subito. Quello ci guarda un po’ stupito, ci chiede
cinque minuti per il ménage poi ci porta in una stanza dal cui soffitto pende
un enorme e funzionante Ventilatore A Pale. Ringraziamo, chiudiamo la porta a
chiave e crolliamo in un sonno di piombo.
Da questo momento in poi, poche le cose da dire su una giornata passata
interamente a letto e conclusa con una telefonata lunga una scheda intera alla
mamma, una pocciatina in piscina dopo il tramonto e una cenetta fatta di una
mela due pere e un melone acerbo e perciò buttato. Dopo un giorno di sonno
siamo ancora esauste: comincia a farsi strada l’idea di un rientro anticipato.
La frase del giorno: “Mi passi il Plasil?” (Giò)
10/08/2002 – Verso Essaouira, Dar Kenavo.
BENVENUTI IN PARADISO. Macché Cascate di Ozoud! Dopo aver valutato tutti i pro
e i contro della faccenda mentre percorriamo la strada del Tizi’n’Tichka
all’incontrario, prendiamo la Decisione Definitiva: torneremo a casa con
Gianluca detto Il Biondo, e cioè il mio ragazzo che per fortuna dopo molti
tentennamenti aveva optato per una vacanza in Andalusia col suo amico Pippo.
Sempre se la cosa è fattibile, e sempre se accettano. Messaggino: accettano.
Appuntamento la sera del 14 al porto di Almerìa, il rientro sarà in macchina
con tappa a Barcellona. A questa prima decisione segue a ruota la seconda:
niente Cascate di Ozoud. Giunte a Marrakech, prendiamo la strada per Essaouira.
Mano
a mano che ci avviciniamo al mare, l’aria diventa sempre più fresca e la
terra sempre più chiara. Cominciamo a vedere i famosi alberi di argan e le
altrettanto famose capre arrampicate sopra. La strada prosegue drittissima,
passa in mezzo a due montagne dalla cima piatta poi comincia a scendere
dolcemente. Che emozione quando, dopo le solite tre o quattro ore di viaggio, ci
compare dinnanzi all’improvviso, signore e signori, l’Oceano. E,
placidamente adagiata al suo fianco, la bianca Essaouira avvolta da una leggera
foschia. È la prima volta che in Marocco vedo dei muri imbiancati: nell’Alto
Atlante tutte le case sono dello stesso colore della terra che le circonda, in
tutte le sue sfumature. Perfettamente mimetizzate. Anche Essaouira a dire la
verità è bianca come la sua terra e azzurra come il suo mare, però qui le
finestre e i muri sono dipinti con questi colori, mentre le case del sud
prendono i colori della terra perché SONO di terra.
Bando
alle ciance, dobbiamo trovare un posto in cui dormire. La Routard descrive un
posto che ci ispira parecchio: è a qualche chilometro dalla città e si chiama
“Dar Kenavo”. Che strano nome, non sa di Marocco. Ci compare
all’improvviso, dietro la curva, tra gli alberi di argan e sulle rive di un
“oued”, un torrente. Due case a patio bianche bianche, le immancabili
finestre azzurre e tutt’intorno un rettangolo verde intenso macchiato qua e là
da fiori multicolori e cinto da un muro, anch’esso bianco. Dar Kenavo. Se è
davvero esistito un paradiso terrestre, doveva essere così. Entriamo, già
rapite dalla magia di questo posto, e ci accoglie una signora dalla camicia
rossa e dai grandi occhi verdi, così chiari che verrebbe da tuffarsi. Secondo
la guida, dovrebbe essere la bretone Therèse. Siamo fortunate: c’è una
stanza libera, una famiglia è andata via prima del previsto. Il resto della
giornata è dedicato a ritemprare le nostre stanche membra: bagno in piscina,
sollazzo in giardino, partitella a briscola. Proprio le carte offrono a un
gruppetto di papà francesi l’occasione per fare conoscenza con noi. Si
mettono a scherzare, a farci giochetti di prestigio, a parlarci dell’Italia
(uno di loro ha i genitori italiani) e continuano a cena, presentandoci le loro
gelosissime mogli e i loro bimbi –ma quanti sono? In questo posto è facile
sentirsi come una grande famiglia temporanea. Sarà perché veniamo
dall’inferno che ci sembra un paradiso, o lo è davvero? La risposta arriva
con l’ora di cena, quando sentiamo una voce chiederci “Qu’est-ce que vous
voulez boire?”. Guardiamo il volto da cui proviene e… gulp. Quello che vuoi,
tesoro, basta che torni presto a portarcelo! È Sharif, il figlio di Therèse, e
ci manda in tilt: concordiamo che è uno dei ragazzi più affascinanti che
abbiamo mai conosciuto. Occhi scuri e brillanti, un ciuffo ribelle e un sorriso
accattivante che gli illumina il viso. Sorridi ancora, Sharif.
Scende la notte, e noi saliamo in terrazza per guardare le stelle, approfittando
del buio che ci circonda. Alziamo lo sguardo al cielo e, oh meraviglia! Che
cielo! Non ho mai visto così tante stelle. Uno dei papà francesi ci dice che
il cielo di Essaouira è il più stellato del mondo, grazie al vento che qui
soffia costantemente e rende l’aria limpida. Chissà se è vero, ma se non è
un paradiso questo…
La frase del giorno: “E se tornassimo a casa col Biondo?” (Bea)
11/08/2002
– Essaouira.
NON VOGLIO ANDAR VIA! Al risveglio ci aspetta una fantastica colazione nel
patio: insieme al tè e al caffè ci posano sul tavolo una serie di vasetti
colorati. Curiose come bambine, ci divertiamo ad alzarne i coperchi: in questo
la marmellata di fichi, in quello i riccioli di burro… e in quest’altro?
“Confiture de pomme et melon”, ci dice Sharif. Però, che buona: finisce
subito. Doccia, poi si parte per l’esplorazione di Essaouira. Col maglioncino,
perché il vento qui è freddo, forte e non dà tregua: abbiamo dormito col
pannetto! Arriviamo alla celebre spiaggia dei windsurf, parcheggiamo, scendiamo
dalla macchina… saliamo di nuovo e torniamo a Dar Kenavo: fa troppo freddo,
mettiamo i pantaloni lunghi e la giacca antivento.
Ciak seconda: arriviamo alla celebre spiaggia dei windsurf, parcheggiamo,
scendiamo dalla macchina, paghiamo il parcheggiatore, schiviamo un paio di
bambini e prendiamo la strada che conduce al porto, su cui si affacciano una
cinquantina di bancarelle numerate dove ti fanno scegliere il pesce e te lo
grigliano lì sul posto, in una nuvola di fumo. Subito siamo investite da un
turbine di voci e di odori: “Les gazelles, venez chez moi”, che odore di
bruciato! “C’est trop tot, après”, che puzza di pesce! “Numéro 24,
n’oubliez pas”, che fame! Proseguiamo per la cosiddetta sqala del porto,
dove terminano le bancarelle ma resta la puzza di pesce: proprio qui infatti,
tra le vecchie barche in secca e quelle in costruzione, tra ancore, reti e
grosse cime sono esposti in bella mostra calamari, sardine, dentici, orate e chi
più ne ha più ne metta. Il porto è uno spettacolo affascinante, un brulicare
di persone che parlano, gesticolano, arrotolano srotolano, spingono tirano
trascinano, caricano scaricano, montano smontano e persino dipingono. Quanto nei
paesi dell’interno gli uomini erano statici sopra le loro rocce o dentro i
loro negozietti, tanto nelle città ci sembrano operosi, sempre in movimento,
mai fermi. Parlo degli uomini, non delle donne: quelle, in Marocco, lavorano
continuamente e non parlano mai. Cominciamo a realizzare che si sta aprendo un
nuovo capitolo del viaggio: la prima parte era La Terra, con le sue pieghe, le
sue fenditure e le sue polveri. La seconda parte è La Gente e, senza nulla
togliere al fascino delle montagne e del deserto, mi piace molto di più. Perché
mi dà più stimoli, o perché è imprevedibile, o forse perché semplicemente
si muove. Rapita dai colori e dalla vita del porto, non faccio che scattare
foto.
Il pranzo è, immancabile, proprio in una delle bancarelle a righe –guarda
caso- bianche e blu. Ci servono vino bianco dentro una bottiglietta di Sprite e
ci tuffiamo su insalata e gamberetti senza pensare al rischio che corrono i
nostri intestini: è la prima volta che abbiamo fame da quando siamo state male.
Il pranzo si conclude con l’ottimo gelato di “Dolce freddo”, la gelateria
italiana –ma italiana davvero!- che è proprio nella piazzetta davanti al
porto e trasmette dalle casse una delle più belle canzoni di Vasco. Ci sediamo
e pensiamo che è un peccato dovercene andare tanto presto. Ma quando una
decisione è presa, non si torna indietro. Almeno, non per quest’anno. Passata
la malinconia, raccogliamo le nostre gambe ancora stanche dalla batosta di
Zagora e passiamo il pomeriggio in giro per la città, a caso, senza meta. È un
piacere perdersi nei vicoli della medina di Essaouira: ti puoi ritrovare allo
stesso modo in un negozio di tappeti, in una galleria d’arte o nel souq delle
spezie. Qui la gente è molto meno pressante di quella che abbiamo conosciuto
finora, perciò siamo invogliate a comprare e persino a contrattare: il bottino
della giornata è costituito da due sciarpe colorate, un paio di babouches
berbere, un paio di babouches arabe a righe e un vasetto dipinto a pesciolini da
cui Giò non riesce a staccare gli occhi. Soddisfatte dai nostri acquisti,
torniamo nel nostro piccolo paradiso privato e ci sta pure un bagno in piscina.
Sharif ci regala la musica della colonna sonora di Amélie alzando il volume al
massimo e riempiendo di note il patio. Chiudo gli occhi e ancora penso che non
vorrei andarmene. Assaporo i minuti cercando di farli diventare ore ma non c’è
nulla da fare, il tempo passa ed è già sera e siamo di nuovo al porto, prese
dal trip del pesce alla griglia –stasera calamari!
La serata si conclude a Dar Kenavo, con davanti un tè alla menta e di fianco
Aziz. Se Therèse è l’anima bretone di questo posto, Aziz ne è l’anima
berbera. Cioè l’altro padrone, marito (o ex marito?) di Therèse: finalmente
un vero berbero dagli occhi blu. È lui a svelarci il mistero del nome Dar
Kenavo: è la fusione di “dar”, che in berbero è casa, e “kenavo”, che
in bretone significa arrivederci. Quindi Dar Kenavo significa “La casa
dell’arrivederci”: non potevano trovare nome più indicato per questo posto
dalle due anime, che quando lo conosci ti fa solo desiderare di tornare.
Arrivederci, non Addio. E allora, arrivederci, Dar Kenavo, arrivederci,
Essaouira, arrivederci.
La frase del giorno: “Inch’Allah” (Aziz)
12/08/2002 – Marrakech, piazza Djemaa-El-Fna.
RITORNO ALL’INFERNO (ma non è poi così male). Sradicate a fatica da
Essaouira, salutati tutti –i Papà Francesi, Therèse, Aziz e Sharif- e
lanciato un ultimo sguardo a Dar Kenavo che scompare dietro la curva così come
ci era comparsa due giorni prima, siamo di nuovo in rotta per Marrakech. Ci
abbiamo sempre girato intorno, ci fermeremo gli ultimi giorni per conoscerla un
po’. Arriviamo nel primo pomeriggio, e la prima impressione è di essere state
rispedite all’inferno: fa il solito gran caldo e c’è la solita gran
confusione. Dov’è finita la pace di Essaouira? Code interminabili ai
semafori, macchine che ti tagliano la strada, motorini carichi di persone che
sfrecciano da ogni lato, carretti trainati da asini che ti si piantano davanti e
ti obbligano a inchiodare: sono divertenti le strade di Marrakech, sicuramente
uno spettacolo indimenticabile, ma che fatica quando ci sei in mezzo anche tu!
Giò sta per mandare tutti a quel paese e non vede l’ora di rendere la
macchina dove l’abbiamo presa. Calma, calma: prima dobbiamo trovare un
albergo, andare alla stazione dei treni, in quella degli autobus e in una
agenzia viaggi per prenotare il traghetto. Messa così sembra facile, solo che
gli alberghi sono tutti pieni, in stazione non c’è l’addetto alle
informazioni e agli sportelli c’è una coda di almeno mezz’ora,
nell’autostazione le scritte sono solo in arabo e non riusciamo a farci dare
indicazioni e nell’agenzia viaggi ci rispediscono in stazione perché
–dicono- non conoscono l’orario dei treni e non possono farci neanche il
biglietto per il traghetto. Fantastico. Ci sentiamo un po’ Asterix in una
delle sue dodici fatiche, quella in cui deve farsi dare il lasciapassare B38. Ci
facciamo forza e ricominciamo il giro: questa volta troviamo un albergo stile
ospedale a Guelìz e riusciamo a farci fare un biglietto del treno per Taourirt,
fantomatica cittadina del nord in cui troveremo un bellissimo autobus Supratours
che ci porterà (speriamo) dritte dritte a Nador, dal cui porto ci imbarcheremo
per Almerìa, Espana. In tutto, 12 ore di treno, 2 di autobus, 7 di traghetto.
Non male, considerato che per ora abbiamo solo un biglietto per Taourirt.
Ormai sono le cinque di sera e finalmente possiamo riconsegnare la macchina.
Ciao cara Palio, e grazie: ci hai portato per più di duemila chilometri senza
lamentarti mai! Ci facciamo lasciare dal taxi nella piazza Djemaa-El-Fna mentre
questa si sta cominciando a riempire della sua variegata fauna umana (e non
solo). L’atmosfera irreale della piazza fa sembrare normale qualunque cosa,
anche la più strana: i cavadenti con i loro trofei in esposizione, gli
alchimisti con le loro pelli di camaleonte rinsecchite, i marabutti pieni di
scodelle che suonano una specie di cornamusa, gli incantatori di serpenti che
ipnotizzano i cobra e provano -invano- a mettercene uno intorno al collo, le
tatuatrici di henné che si litigano le prossime due succulente clienti e cioè
noi. Tutt’intorno c’è un gran affaccendarsi di persone: stanno montando i
tavoli per la sera. Sì, perché ogni sera questa piazza si trasforma in un
enorme ristorante all’aperto, e noi non possiamo certo mancare!
Ma un’altra cosa non può mancare in ogni vacanza che si rispetti:
l’Immancabile Incontro. E puntualmente arriva, giusto per cena. Mentre
vaghiamo tra i tavoli stracolmi di polli spiedini pesci riso cous-cous e
quant’altro vedo una figura, avvolta nel fumo delle griglie. Macchina
fotografica al collo, lunghi capelli neri, lentiggini: questa l’ho già vista
da qualche parte. “Valeria!”. Ebbene sì, tocca a lei l’onore
dell’Immancabile Incontro della vacanza: Valeria, mia compagna di università.
È venuta in camper con un amico, ci sediamo a bere un tè alla menta e ci
passiamo informazioni sul Marocco e sull’Italia, i soliti discorsi su cosa fai
adesso, dove lavori eccetera. Sono ancora lì che penso quanto siano buffe
queste coincidenze quando Giò mi trascina al banco di Aicha e ordiniamo,
evidentemente non ancora stanche di pesce, calamari fritti. Con il buio la
piazza diventa ancora più magica: ci lasciamo intontire da una poltiglia di
suoni e ipnotizzare dall’ondeggiare di migliaia di lampadine, poi gambe in
spalla! e si torna in albergo. Mi piange il cuore a dover partire...
La frase del giorno: “Valeria!” (Bea)
13/08/2002 – Marrakech e la partenza.
ODISSEA ATTO PRIMO. L’ultimo giorno a Marrakech è dedicato alla visita della
città, o almeno di quanto riusciremo a vederne fino al treno delle 17.00 per
Casablanca. Dimentichiamo la notte semi-insonne per il classico binomio
caldo-schiamazzi notturni e riconsegniamo la chiave alla receptionist
dell’albergo, una donna austera dal velo nero ma dagli occhi buoni dietro agli
occhiali. Un tassista gentile ci raccoglie e ci porta al deposito bagagli della
stazione, caricando i nostri enormi zaini sul portapacchi del suo petit taxi. Ha
il tassametro, ma non lo accende e quando gli chiediamo quant’è la corsa ci
risponde: “Non importa, era un viaggio talmente corto… fate voi”. Ci sta
talmente simpatico che gli diamo i soliti 10 dirham, praticamente tanto quanto
avevamo pagato la sera prima per fare il doppio della strada, e con tariffa
notturna. Corsa e pure mancia, insomma. Alleggerite degli zaini, ci incamminiamo
con santa pazienza verso le Tombe Saadite, che sono praticamente dall’altra
parte della città. Ma il tragitto è piacevole, troviamo il tempo per la solita
abbondante colazione e per attraversare qualche quartiere un po’ meno
turistico. Dopo essere stata all’Alhambra, le Tombe Saadite mi deludono un
po’: non c’è molto da vedere, e il poco che c’è è trascurato e chiuso
al passaggio. Risultato: un buon quarto d’ora di coda per affacciarci da una
porta e vedere la famosa Sala delle Dodici Colonne, accompagnate da un
giapponese solitario che quando vede che non faccio neanche una foto per poco ha
un mancamento. Il flash falsa i colori, faccio prima a comprare una cartolina!
Il nostro nuovo amico ci intrattiene con il suo inglese dalla pronuncia
terribile e ci fa un sacco di domande sull’Italia. “Where
are you from?” “Parma”
“Parma! I know Parma!” “Nakata, eh?” “Nakata, Nakata!”. Non è la
prima volta che qui in Marocco ci dicono di conoscere Parma: se fuori
dall’Europa non possiamo essere famosi per il prosciutto, almeno lo siamo per
il calcio –finché dura! Dopo l’excursus calcistico si passa
all’interrogatorio sul tema “lavoro”: quante ore lavorate al giorno? E
alla settimana? Quando iniziate? Quando finite? Però fate la siesta… ah no?!?
Dai suoi occhi sbarrati capiamo che questa rivelazione getta lo scompiglio nella
sua geografia dei popoli, e lo tranquillizziamo scaricando il Luogo Comune
Siesta sui nostri cugini spagnoli –non ce ne vogliano!
Il nostro giro lampo a Marrakech passa per gli stretti vicoli della mellah,
l’ex quartiere ebraico, per poi penetrare sempre più nell’intrico della
medina cominciando dai negozi per arabi e terminando in quelli per turisti. La
differenza si nota dalle babouches: nei primi hanno la suola di pneumatici
usati, negli altri l’hanno di semplice gomma. Immagino che anche i prezzi
siano ben diversi, ma i pneumatici mi sembrano troppo duri e mi arrischio nelle
trattative solo in territorio turistico. Riesco a portarmi a casa due paia di
babouches al prezzo di uno, e il commerciante conclude chiedendomi “Vous etes
berbère?” perché, mi spiega, di solito i berberi contrattano molto. Lo
prendo come un complimento, e ci tuffiamo nel souq delle spezie. È qui che
faccio amicizia con uno dei tanti camaleonti che qui sono esposti nelle loro
gabbiette (gli stessi che poi ti vendono rinsecchiti come rimedio contro la
tosse). Che animale strano, con quegli occhi rotanti e quelle zampette
snodabili: mi sta istantaneamente simpatico. Il padrone coglie il mio interesse
e, prima che possa aprir bocca, mi ritrovo con il camaleonte in mano. Questo
sembra non accorgersene neanche, continua a muoversi al rallentatore e intanto,
impercettibilmente, le macchie bianche che ha sulla schiena prendono una
sfumatura rosata… o è solo un’impressione? Va bene, va bene, dobbiamo
andare. Saluto il mio piccolo amico, ringraziamo il padrone e lo fermiamo prima
che cominci a mostrarci le sue spezie perché tanto abbiamo finito i soldi. O
meglio: quelli che abbiamo sono per il viaggio e sono contati: non un dirham in
più, non uno in meno. Speriamo.
Mezz’ora dopo siamo nel nostro pulitissimo scompartimento da otto con l’aria
condizionata e aspettiamo di partire. Sperando che non salga nessun altro, ci
distendiamo sui morbidissimi sedili arancioni e Giò si dedica al controllo
degli strani bubboni che le sono venuti sulle gambe negli ultimi giorni. Punture
d’insetto? Intossicazione alimentare? Qualche ignota allergia? Boh! I bubboni
se ne andranno una settimana dopo così come sono arrivati. Ma torniamo sul
treno. Purtroppo le nostre speranze svaniscono pochi minuti dopo, quando
invadono il nostro territorio, nell’ordine: un giovane con la djellaba, un
uomo di mezza età, un signore sulla sessantina vestito all’europea e un
ragazzo francese completo di zaino. Intanto il treno comincia a muoversi
lentamente e a lasciare Marrakech. E noi con lui.
Inizialmente, il clima nel microcosmo dello scompartimento arancione oscilla tra
indifferenza e imbarazzo. Il primo a rompere il ghiaccio è il controllore, che
entra per convalidare i biglietti e per fornire informazioni. Basta una semplice
domanda sulla coincidenza per Fèz –è meglio cambiare a Casablanca o a
Rabat?- per accendere quello che poi non riusciremo più a spegnere: il Francese
Parlante, ovvero la nostra radio da viaggio. Che, a dire la verità, sceglie me
come ascoltatore preferito –praticamente un corso di francese intensivo e
personalizzato. Nella prima unité, lungo tragitto Marrakech-Casablanca, tutto
lo scompartimento è invitato a confrontarsi sul tema “Il Marocco e
l’Europa: analogie e differenze”. La faccenda si fa interessante: iniziamo
parlando di abbigliamento femminile e, inevitabile conseguenza, finiamo sulla
religione. Il giovane in djellaba mi sembra molto tradizionalista, nonostante
l’età: lo noto perché quando prende la parola io e Giò ci trasformiamo
istantaneamente in soprammobili. Non credo sia mai stato in Europa: è convinto
che anche per i cristiani, se sono praticanti, funzioni come per i musulmani:
“Ma il Papa non deve vestirsi in un certo modo?”. Certo, gli spieghiamo,
perché è un religioso. L’unica cosa che in Europa è richiesta ai laici è
che non siano troppo scoperti quando entrano in chiesa –e poi, ormai, chi ci
bada più? Per noi europei, dice il francese, la religione è diventata un fatto
privato. “Per me poi, ormai è solo una scusa per fare delle guerre”. Di
questi tempi non posso dargli torto, purtroppo. Il dibattito si fa teologico: si
parla di dogmi, di profeti e inevitabilmente di Gesù. È a questo punto che il
giovane in djellaba tira fuori dal cappello la domanda che ci spiazza: “Ma
voi… credete DAVVERO che Gesù sia il Figlio di Dio?”. Silenzio generale.
Quella è La Domanda, la cui risposta contiene da sola tutta l’essenza
dell’essere cristiani. O sì, o no. Io, gelata, non so rispondere. Neanche il
francese risponde a tono, ma per fortuna riesce a sviare il discorso con un
“Ormai in Europa ognuno ha il suo Dio”. Difficile da capire, in un paese che
fonda su un unico Allah persino le sue leggi. E invece è proprio dal signore
sulla sessantina seduto nell’angolo che viene la frase che fa tacere tutti:
“Che si chiami Allah, Dio o in qualunque altro modo, il messaggio è sempre lo
stesso: cerca sempre di fare il bene. È questo quello che conta, no?”. Dio ti
benedica!
La frase del giorno: “Croyez-vous que Jesus Christ est le Fils de Dieu?” (il
giovane in djellaba)
14/08/2002 – Il viaggio di ritorno.
LE COSE DA RICORDARE. Nel frattempo siamo arrivati a Casablanca ed è ora di
cambiare treno. Il francese parlante, che in realtà si chiama Olivier, viene
con noi e non perde occasione di farci compagnia con l’unité deux del corso
di francese, dal titolo “La mia vita”. E così veniamo a sapere che è nato
e cresciuto a Lione, quattro anni fa si è trasferito in Bretagna, fa
l’architetto ma non è laureato, ha lavorato tre mesi a Marrakech, sta andando
a Fèz poi salirà a Madrid, Malaga e infine andrà alle Canarie, in Marocco ha
fatto il nostro stesso giro ma a rate e in grand taxi, se in Francia non troverà
lavoro si iscriverà all’Università, un suo amico ha comprato una casa nella
Valle dell’Ourika e l’ha pagata 500 euro, una sua amica francese è tornata
in Francia ma è scappata di nuovo in Marocco, un suo cliente si è fatto fare
una villa che è la copia dell’Alhambra, i venditori del souq di Marrakech
hanno delle ville enormi nel palmeto, suo fratello gemello ha vissuto un anno a
Guadeloupe, ha fatto il bagno nelle Cascate di Ozoud ma è stato malissimo.
Eccetera eccetera eccetera: dopo tre ore così Giò ha capitolato e si è
tuffata nella lettura, io strabuzzo gli occhi per tenerli aperti e intanto mi
chiedo dove sarà il pulsante “off” per spegnerlo, gli altri occupanti dello
scompartimento –mamma papà e tre figlie- si chiedono come fare per
sopprimerlo. È già mezzanotte quando il nostro amico passa all’unité trois:
“La Bretagna”. Ora so tutto delle città, delle isole, delle spiagge, degli
scrittori, della musica e dei festival di questa amena regione di Francia.
Interessantissimo, giuro, ma io volevo dormire! Accolgo il cartello della
stazione di Fèz come se fosse un’oasi nel deserto: ciao Olivier, fai buon
viaggio e in bocca al lupo per tutto! Lo scompartimento si vuota: pregustiamo il
piacere di allungarci sui morbidi sedili arancioni e invece… in cinque minuti
siamo in nove, inscatolati come sardine. Ma dove vanno tutti, e a quest’ora
poi? Non so gli altri, ma una buona parte scende a Taourirt con noi, e come noi
ammaccata e col torcicollo a causa dei sedili senza poggiatesta.
Dobbiamo correre per non perdere il posto: siamo le prime della fila quando ci
rivolgiamo all’autista del pullman Supratours chiedendogli se il biglietto ce
lo fa lui. Ci aspettiamo che dica sì e invece ci chiede stupito “Come, non
avete il biglietto?”. Inutile dire che in stazione alle cinque e mezza del
mattino non c’è nessuno disposto a farcelo, nonostante la biglietteria sia
aperta. L’autista ci dice di aspettare, così noi perdiamo i grand taxi
diretti al porto e intanto lui riempie il pullman di suoi connazionali. Poi ci
guarda e dice: “Mi spiace, c’è solo un posto libero”. COME?!? Ma se poco
fa, mentre ci faceva aspettare davanti al portellone, ci aveva garantito che il
posto ci sarebbe stato! Viaggiamo sedute per terra, non c’è problema, ma la
prego, ci faccia salire! E lui, impassibile: “C’est interdit”. Ma se in
Marocco andate in motorino in quattro senza casco! Niente da fare: il fatto che
abbiamo un traghetto da prendere, che si siano sbagliati a farci il biglietto a
Marrakech, che siamo in un paese sperduto nel cuore del Rif non lo smuove, anzi:
detto quello che doveva dire, ci ignora completamente. Il disprezzo che
quest’uomo prova verso la donna e verso l’occidente si respira nell’aria e
lascia l’amaro in bocca. Non vorremmo dover ricordare il Marocco anche per
questo, ma come si fa a dimenticare?
Furibonde, andiamo alla stazione degli autobus. Mani nei capelli: in una piazza
polverosa ci sono due pullman in partenza che nessuno ci sa dire dove vanno e
tutt’intorno un viavai di facce losche, o almeno così ci sembrano dopo
l’esperienza appena vissuta. Qui non parlano francese, o non vogliono
parlarlo, fatto sta che ci esprimiamo a gesti e toponimi. Al nostro “Nador?”
rispondono “Nador, Nador!” indicando un pullman bianco dietro l’angolo.
Andiamo a vedere: a quanto dicono, dovrebbe partire fra cinque minuti e invece
sopra c’è soltanto una persona che sta pulendo i sedili. Ma cosa vuoi pulire,
questo pullman è da rottamare! Memori dei racconti di Olivier sulle stragi per
le strade marocchine, decidiamo di abbandonare l’idea del pullman e di cercare
un altro grand taxi. Ecco, proprio nella piazzetta di fronte c’è un taxi
parcheggiato con quattro uomini intorno che ci guardano e urlano “Nador, Nador!”.
Non conoscono che qualche parola di francese, ma ci fanno vedere 35 dirham e
capiamo che quello è il prezzo a persona, proprio come dice la Lonely.
Accettiamo, ci caricano gli zaini nel baule, ci fanno accomodare nell’enorme
Mercedes e… non partono! Solo dopo un po’ ci ricordiamo che i grand taxi
partono soltanto quando sono pieni. E infatti i nostri futuri compagni di
viaggio stanno cercando di trovare l’ultima persona, che arriva mezz’ora
dopo. Per fortuna, ora si può partire! Non ricordo nulla di quel viaggio, so
solo che eravamo stretti come sardine –tre davanti, quattro dietro- e che il
tassista era un pirata della strada. Io sono collassata sul sedile, mentre Giò
aveva troppa paura per prendere sonno e pregava Allah perché ci facesse
arrivare a Nador sane e salve, e così è stato.
A Nador, però: non al porto, che è quindici chilometri dopo. Abbiamo in tasca
gli ultimi 10 dirham quando cerchiamo un altro grand taxi per andare al porto.
Per fortuna il tassista è onesto, ci dà pure il resto e parte col taxi mezzo
vuoto: siamo quattro, e siamo donne. Proprio le due ragazze che salgono con noi
ci spiegano –in spagnolo- che a Nador c’è più gente che parla spagnolo che
francese, perché dista pochi chilometri da Melilla. Il tragitto è breve, e
veniamo scaricate non proprio dove volevamo, ma non abbiamo più soldi e ci
facciamo le ultime centinaia di metri a piedi. Arriviamo esauste alla sede della
Trasmediterranea e chiediamo due biglietti per il primo traghetto diretto ad
Almerìa. Il bigliettaio ci dice: “Quello di mezzanotte, quindi”. Sto
pensando che questa volta non reggerò il colpo quando, sorridendo, mi fa
“Scherzavo, parte alle 10!”. Se sapessi cos’hai rischiato rideresti
meno… ci fa promettere di tornare in Marocco l’anno prossimo e di passare di
lì.
Forse forse ce l’abbiamo fatta: abbiamo i biglietti, passiamo il controllo
passaporti, aspettiamo tre ore il traghetto che è ovviamente in ritardo di due
e finalmente, dico FINALMENTE, riusciamo a salire. Non senza aver fatto le
nostre ultime conquiste in terra marocchina: un poliziotto per me, un marinaio
per Giò. Arriveremo ad Almerìa dopo sette ore, e a casa dopo tre giorni. Ma il
resto del viaggio è un’altra storia.
Ed ecco, allora, le cose da ricordare: la pace di Telouèt, i lineamenti di
Moustapha, i colori delle Gole del Dadès, i richiami del muezzin, la gentilezza
di Aziz, lo strapiombo delle Gole del Todhra, l’oceano di dune dell’Erg
Chebbi, i gatti-segnalibro, Dar Kenavo il paradiso terrestre, il cielo notturno
di Essaouira, il sorriso di Sharif, le strade di Marrakech, Piazza Djemaa-El-Fna.
E torneremo per ricordarne di nuove, Inch’Allah!
La frase del giorno: “Ma che scarpe hai comprato?” (Gianluca)