Mali, un’altra realtà, un altro mondo.
Racconto di viaggio 2007
Ritornata
ormai da un po’ da questo viaggio mi ritrovo ogni tanto a ripercorrere quei
giorni, con il pensiero, con le foto, scrivendo. E mi pare impossibile che sia
già così lontano.
Temo
di perdere i ricordi, non solo i più intensi, ma tutti... perché… in fondo
non riesco a dire che ve ne siano alcuni più intensi di altri. L’intero
viaggio è un tutt’uno, un’unica intensa esperienza.
Per
questo scrivo, per la paura di dimenticare cosa è stato, per fissare le
emozioni che a distanza di tempo riaffiorano ancora forti
Già
mentre ero là tentavo di scrivere, ma credo di essere stata travolta da troppe
sensazioni che non ero capace di decodificare, alle quali non riuscivo a dare un
significato, così non sono stata in grado di fare altro che una cronaca.
Solo
una volta tornata mi sono resa conto di quanto siano state forti le sensazioni,
percepite contemporaneamente con i miei cinque sensi stimolati al massimo, in
uno stato di pressoché costante tensione verso l’esterno, nell’intento di
non perdere nulla di ciò che avevo intorno.
Per
la verità, ora che sono tornata, che cerco di fermarmi a scrivere di quei
giorni, ho come l’impressione di non essere riuscita a cogliere tutto.
D’altronde, forse non era possibile, considerato che era la mia prima volta
nell’Africa sub sahariana.
In
questa raffica di stimoli, forse ho fatto come fanno i bambini quando sono
talmente eccitati da non sapere a cosa dar retta.
Tutto
mi attraeva, ma, forse, non possedevo gli strumenti per dare attenzione a tutto
quello che mi circondava. Avrei voluto avere più tempo.
Abituata
alle sollecitazioni, per così dire, quadrate, forse anche prevedibili e neppure
troppo stimolanti della mia quotidianità, in Mali vivevo invece in uno stato di
semi eccitazione: mille stimoli, questa volta veri, improvvisi, attiravano la
mia attenzione, cosicché a volte non sapendo neppure io dove girarmi, mi
lasciavo un pò trascinare dall’onda degli eventi.
È
solo ora che, ripensandoci, credo che proprio questa sorta di stato euforico
potrebbe avermi fatto perdere qualcosa fra tutte le, per me incredibili, grandi
e innumerevoli novità a cui non ero capace di star dietro.
Per
timore di perdere qualcosa ero in una pressoché permanente attività, per di più
fortemente sollecitata dal popolo maliano, soprattutto dai suoi bambini, alle
cui richieste di attenzione non era possibile sottrarsi.
Ora
un po’ rimpiango di non aver cercato dei momenti per fermarmi, per sedermi a
terra ad osservare, solo ad aspettare di vedere cosa succedeva intorno a me.
Alla
fine, ciò a cui penso da quando sono tornata è: quando ripartirò per
l’Africa.
Vorrei
tornare là e ripetere l’esperienza, assaporare un’altra volta, in un altro
modo, quell’atmosfera.
Come
se ora avessi capito che servono altri strumenti per leggere quella realtà ed
io ho appena iniziato a capire quali sono, come devono essere usati, ma avessi
solo bisogno di tempo, di affinarli e impratichirmi con essi
Per
ora, le uniche cose che mi permettono di tornare in Mali sono appunto i ricordi,
le fotografie, scrivere e rileggere ciò che ho scritto.
In
Mali non c’è niente, ma forse proprio per questo c’è tutto. Per lo meno
tutto ciò che a me piace, che mi serve e che mi manca qui, nella mia
civilizzata città.
Ho
capito che in Africa è tutto più genuino: mancando a volte anche
l’essenziale, ciò che resta non è altro che la relazione umana. E per
costruirla non c’è bisogno di altro che dell’individuo, spoglio, senza
tutte le cianfrusaglie, le maschere che normalmente si porta dietro dalle nostre
parti.
In
Africa c’è poco da mascherarsi! Le uniche maschere che io ho visto erano
quelle dei Dogon.
E
se a volte ho avuto la percezione che anche loro avessero maschere, che fossero
meno veri, tentando un po’ di atteggiarsi in pose che non paiono spontanee,
che non appartengono loro, credo sia un po’ colpa di questo nostro mondo
occidentale che va in Africa per super vacanze e finisce per sconvolgere gli
equilibri. Infatti nei luoghi più remoti questo non succede, c’è solo la
curiosità di conoscere, di entrare in relazione.
E
poi c’è la mia pelle bianca. Perché, anche se si trattava di un viaggio in
cui lo spirito di adattamento era messo alla prova dall’assenza delle comodità
a cui siamo abituati, il mio essere lì con la mia pelle bianca, era sufficiente
a far pensare che stavo meglio di loro, molto meglio.
Ma
forse non si rendono neppure conto di quanto noi abbiamo più di loro, forse non
se lo immaginano neppure.
Per
la prima volta ho pensato a quanto il colore della pelle era un messaggio chiaro
ed inequivocabile della mia ricchezza, del mio benessere, quindi sufficiente a
distorcere qualsiasi comunicazione. È così che, per rendere più libera la
comunicazione, la relazione con la gente d’Africa, ho desiderato di essere
anche io di pelle nera. Pur sapendo che sarebbe stato comunque un imbroglio.
Così
come è per loro, neppure io posso rendermi conto di cosa significhi vivere in
uno dei paesi più poveri del mondo, in un posto dove non c’è nulla.
Io
al loro posto credo che sarei arrabbiata e triste, invece loro mi accolgono
anche con un “benvenuta in
Mali!”.
20.01.07
E
così un aereo mi catapulta in poche ore di volo in un tripudio di colori,
polvere, sorrisi, odori, rumori, suoni, ma anche silenzi, volti e incredibile
natura incontaminata.
Scalo
ad Algeri e si riparte con un aereo che sembra quasi un bus: dopo la fermata a
Bamako, la prossima sarà Dakar!
Durante
il viaggio si respira già un aria diversa, i visi che mi circondano non sono più
quelli a cui sono abituata. Non ci sono più così tanti “visi pallidi” e,
sarà l’aria di vacanza, sarà l’entusiasmo del viaggio, ma secondo me
l’uomo d’Africa è anche più sorridente.
Sfogliando
la rivista dell’Air Algerine mi soffermo a guardare la cartina del Mali. Il
ragazzo seduto accanto a me mi indica la sua città, Gao, e mi dice che una
volta arrivato a Bamako dovrà fare altre 15 ore di bus. Certo mi sorprende, ma
solo nei giorni seguenti, quando vedrò i bus della Brousse, potrò capire un
po’ meglio cosa significhi.
All’uscita
del piccolo aeroporto tanti occhi mi guardano nel buio, paiono mille. Sono come
una barriera schierata e, mentre avanziamo, la barriera umana si divide in due
formando un corridoio dentro il quale passiamo. Mi sento osservata, scrutata,
indossano tutti vestiti coloratissimi, ma i visi paiono seri e quasi mi
intimoriscono. I vissuti si ribaltano, perché è forse la prima volta che mi
sento in minoranza. Forse sperimento un pizzico di ciò che provano loro quando
vengono in Italia.
Ma
la curiosità supera immediatamente il timore. Da tanto l’ho desiderato e sono
contenta d’esser lì: non voglio altro che conoscere almeno un poco la loro
terra, le loro usanze, entrare in relazione con queste persone che stanno
dall’altra parte del mondo, provare a capire la loro vita così diversa, ma in
fondo con gli stessi bisogni della mia.
Vorrei
comunicare con loro, esprimere il mio entusiasmo per trovarmi in questo paese ed
invece, se mi fermo a riflettere, sono a disagio.
Non
conosco ancora nulla, ma nella mia testa affiorano sentimenti contrastanti.
Intuisco genuinità, contatto con la terra, libertà, lontananza dal superfluo e
provo ammirazione per questi aspetti, ma allo stesso tempo sento compassione per
la vita che in questa terra è priva anche di ciò che è essenziale. Mi chiedo
come fa questa gente a vivere qui, a trovare la forza per andare avanti senza
niente.
Nel
percorso tra l’aeroporto e l’albergo dove andremo a dormire ho un primo
assaggio del mondo africano. Per le strade di Bamako è notte, ma c’è una
gran vita, gente che cammina, che va in bicicletta o su sgangherati motorini,
che dorme o cucina per strada, altri sono fermi ad aspettare, chissà cosa.
La
mattina seguente non resisto e timidamente inizio ad aggirarmi sola per le vie
intorno all’albergo. Fra le prime cose che vedo c’è, ahimé, lo
stabilimento della Nestlè (il logo della multinazionale è diffusissimo e se si
vuole un caffè, a quanto pare, non c’è altra possibilità di scelta) e poco
lontano, sulla strada, un gruppetto di uomini, seduti a terra sta cucinando.
Mi
invitano a sedermi con loro e mi offrono del cibo. Pare carne, ma…hem…per colazione non è il massimo! Speriamo non si
siano offesi al mio rifiuto. Vorrei socializzare con loro, ma mi sento
inopportuna, mi pare d’entrare nell’intimità di una casa solo per
curiosare, non capisco invece che forse lì è normale.
Ma
non ho tempo di farmi troppe domande perché è ora di partire a bordo del
nostro sgangheratissimo pulmino, stracarico di noi passeggeri e di bagagli che,
legati sul tetto del mezzo, temiamo di perdere ad ogni curva.
Ci
accompagnano oltre all’autista, la guida dogon ed un personaggio misterioso,
dagli occhiali neri a fascia sempre sul naso, pressoché impassibile ad ogni
stimolo, che poi scopriremo avere la sola funzione di caricare e scaricare,
legare e slegare dal tetto del pulmino i nostri bagagli.
Bamako
brulica di gente e mezzi di trasporto di ogni sorta, mentre ai bordi delle
strade sono frequenti cucine improvvisate, donne chine sui fuochi dai cui
esalano fumi che si confondono con lo smog della città.
I
miei occhi e il mio cervello sono in un’attività quasi frenetica, ho la
faccia incollata al finestrino del pulmino, mi arrivano immagini e si producono
pensieri confusi, a volte sconnessi, non ho tempo di collegarli fra loro, non ho
tempo di elaborali. Le immagini e i rumori continuano a susseguirsi velocemente
e sono concentrata a immagazzinare tutto ciò che vedo, tutti gli stimoli che
arrivano, uno dietro all’altro.
Spero
di poter in seguito ritirare fuori tutto.
È
deserto, ma allo stesso tempo non lo è. Arbusti bassi si perdono
all’orizzonte e non se ne vede la fine.
Il
pulmino corre in mezzo alla brousse su una strada sterrata semidritta. Intorno
tutto è secco, brullo, il fondo un po’ pietroso e un po’ sabbioso. Il
colore è rossastro, a tratti pallido, a tratti più intenso. Gli arbusti,
spesso spinosi, affiorano bassi da questo suolo che pare essere troppo sterile
per qualsiasi altra cosa.
Alcune
zone di brousse, per un fenomeno di autocombustione, sono una distesa di fuoco
basso che, una volta spento, rende tutto nero.
Se
fossi sola avrei paura, perché non ci sono punti di riferimento, è tutto
uguale: solo cielo, terra e arbusti. E silenzio, interrotto solo dal passaggio
di qualche mezzo.
Ogni
tanto si incrociano carretti trainati da asini, camion, bus, e nei tratti di
strada, se così si può chiamare, più vicini alle città, si vedono anche
persone a piedi o in bicicletta.
L’autogrill
della brousse
Ogni
volta che si fa una sosta nei pressi dei villaggi, per far rifornimento di
carburante, per chiedere informazioni o per qualsiasi altro motivo, il nostro
pulmino viene circondato da donne, ma soprattutto bambine e ragazze bellissime,
dai vestiti colorati e dai capelli intrecciati.
Si
avvicinano ai finestrini per offrire per
pochi CFA i loro prodotti: vassoi tondi in bilico sul capo, su cui sono esposti
in bella mostra banane, arance, manghi, papaie, noccioline, barrette di
sesamo…altre vendono anche bibite fresche o addirittura ghiaccio, e ancora,
pesci secchi, frittelle di miglio dalle svariate sagome e spiedini, il tutto
appena cotto laggiù nell’angolo a terra!! A volte c’è la possibilità di
comprare anche qualche souvenir! Insomma, è come se fosse l’autogrill delle
piccole-grandi strade d’Africa!
La
fermata di ogni mezzo pare essere l’occasione per vendere e far su quattro
soldi. E così ad ogni sosta siamo circondati da queste faccette che offrono
tutto e chiedono qualsiasi cosa.
E
se anche non si vende nulla, per i bambini specialmente, è
l’occasione per chiedere ai turisti un cadeau, che può essere
qualsiasi cosa.
Può
essere cadeau ogni contenitore di plastica dura, anche una bottiglia di plastica
vuota, o meglio, il bidon, che tutti si affrettano a chiedere appena scoperto
quanti ve ne sono sotto i sedili.
Ma
non ce n’è mai abbastanza per accontentare tutti e il bidon regalo fatto a
uno, se va bene lascia scontento un altro, se va male è in grado di scatenare
una lite.
Ogni
tanto, nel percorrere la brousse, incrociamo anche dei bus, per così dire, di
linea, stracolmi di gente e bagagli, dentro l’abitacolo e spesso pure sul
tetto del bus stesso.
Sono
di varie dimensioni e chiaramente datati e, come il nostro pulmino, pure quelli
sono belli scassati. Ed anche quei passeggeri sono alle prese con il personale
dell’autogrill improvvisato.
Provo
ad identificarmi in questa gente, mi chiedo cosa possa significare davvero
vivere lì, aspettando un pulmino, o un qualsiasi mezzo ai bordi di una strada,
cosa provino, come vivono, cosa pensino di noi… ma non riesco a darmi una
risposta.
Loro,
dall’altra parte dei finestrini, guardano noi stipati dentro il pulmino, in
condizioni non proprio ideali, anzi, visibilmente provati dal viaggio, dal
caldo, dalla polvere, a volte affamati e assetati, spesso stremati dalla
stanchezza, dalle sedute sui minuscoli sedili che sobbalzano per nulla
ammortizzati sullo sterrato della brousse.
E
noi da dentro guardiamo loro che sono fuori, apparentemente belli freschi,
donne, ragazze e bambini, tutti bellissimi, colorati, sorridenti, vivaci, e pare
non patiscano nulla.
È
così che risulta evidente quanto i bisogni, anche i più pregnanti, possano
diventare relativi.
Il
mercato
Ogni
tanto, nel tentativo di far provvista di cibo, ci fermiamo in qualche villaggio
dove vediamo il mercato, o meglio, dove vediamo qualche bancarella. Ma ancora
una volta salta all’occhio la differenza con le nostre bancarelle sempre colme
di frutta e verdura dai colori più vivi e magari anche più innaturali che si
possano trovare.
Qui
non è così, le bancarelle espongono quattro melanzane striminzite, due arance
o due pomodori prosciugati, piccole banane, piccolissime angurie, cetrioli, poi
tuberi, tante radici di zenzero, peperoncini colorati, e olio, di non si sa che
cosa, contenuto in sacchetti di plastica chiusi in cima da un nodo.
Maciniamo
chilometri su chilometri di brousse, su una strada che non finisce più.
L’autista
sin dalla mattina ci aveva informato che avremmo dovuto percorrere tot
chilometri per tot ore, però non si sa come mai le ore passano, i chilometri
anche, ma non si arriva...ad un certo punto chiediamo spiegazioni…ma …che
domande ci vengono mai in mente! spiegazioni? Puah! …scopriremo che il tempo e
lo spazio sono dei concetti molto relativi in Africa, sicuramente non hanno lo
stesso significato che gli diamo noi.
È
già buio e non siamo ancora arrivati. Mi viene voglia di piantare la tenda in
un posto qualunque, nella brousse ma pare che ormai la meta sia davvero vicina.
Ci siamo quasi, il pulmino deve ancora attraversare un tratto di fiume con una
chiatta di cui per fortuna riusciamo a prendere l’ultima corsa della giornata.
Dietro e davanti a noi ci sono anche camioncini, carretti carichi venuti per il
mercato del lunedì già dalla sera prima.
Dormiamo
sul tetto terrazzato di questa specie di albergo fatto in banko. Due piani di
fango secco e paglia così instabile che, la sera, mentre sono sdraiata, posso
avvertire il tremolio prodotto dai passi di chiunque cammini, tanto da temere
che passaggio di qualcuno di un po’ più pesante possa far crollare
tutti di sotto.
Intorno
basse case, sempre tutte di banko dal color rossiccio.
La
mattina seguente, come ogni lunedì, lo spiazzo vicino alla moschea si riempie
improvvisamente come un formicaio. Gente che, per essere lì a vendere qualsiasi
cosa, ha percorso chissà quanta strada, è arrivata da chissà dove, come
abbiamo visto anche noi spesso dalla sera precedente, con piccoli o grandi
carretti carichi di merce.
L’atmosfera
è frenetica e ancora una volta io ho l’impressione di non aver le capacità
per assorbire, per cogliere tutto quanto mi circonda. Ci sono troppi stimoli e
non so più dove guardare.
Ancora
prima di colazione faccio un giretto intorno e vedo delle donne, spesso con un
fagotto-bambino legato sulla schiena, indaffaratissime a tirar fuori da grandi
sacchi e sistemare la merce in vendita.
Ho
con me alcuni dei vestitini per bambini portati dall’Italia e nel regalarli
vorrei tentare di comunicare loro qualcosa, ma mi rendo conto che non è
possibile poiché non parlano francese. Per di più ci sono un sacco di mamme e
non ce n’è neppure per tutte… La situazione mi spiazza, mi rendo conto di
non essere preparata e temo di commettere ingiustizie. Mi sento un po’ la
classica occidentale che distribuisce aiuti in modo poco razionale.
Un
ragazzino traduce per me ed alla fine mi dice che posso darli alla donna più
anziana che poi provvederà a distribuirli a chi sa può averne più bisogno.
Spero che non sia una megera che ne approfitterà, ma d’altronde mi pare
d’intuire che qui non ci siano poi molti livelli di povertà.
Continuo
ad aggirarmi tra la folla di questo mercato in cui è in vendita ogni sorta di
merce: verdura, pasta, miglio, pesce secco e pesce fresco (con mosche),
bestiame, spezie, stoffe, collane, perle, secchi di plastica, di latta,
callebasse, stoviglie, vestiti, stoffe …qui pare che tutto si possa vendere.
Così uguale ai nostri mercati, ma allo stesso tempo così diverso.
Intanto,
intorno al mercato la vita del villaggio continua: in alcuni angoli ci sono
donne che si alternano nel battere il miglio per farne farina, altre sono al
pozzo, con la fune tirano su l’acqua che poi trasportano dentro grandi secchi
di plastica colorata in bilico sul capo, in un altro spiazzo della strada gruppi
di bambini studiano il corano con le loro tavolette.
Tutto
è impressionatamente coloratissimo. Vorrei essere trasparente e guardarmi
intorno per assaporare tutto tranquillamente, invece una moltitudine di bambini
e ragazzi mi segue e ciascuno cerca a modo suo di attirare la mia attenzione.
Come posso non considerare anche loro?
Uno
dei bambini è particolarmente sveglio, parla un buon francese e si offre per
farmi da guida. Si chiamai Colado. Mi accompagna ovunque io desideri andare,
alle bancarelle dove mi fermo a
comprare fa da traduttore, come con l’anziano venditore di stoffe e con gli
altri commercianti che in genere non parlano francese. E poi porta il sacchetto
dei miei acquisti. Anche altri bambini ci seguono, ma come faccio a dare retta a
tutti?
Alla
fine gli regalo una macchinina, due monete e una piccola torcia.
I
villaggi Dogon
Immaginando
l’Africa, non pensavo di poter fare anche del trekking!
Dopo
aver attraversato un lungo tratto di brousse, man mano il panorama diventa meno
brullo e sempre più verde, compaiono alberi ed alcune verdissime coltivazioni.
Intorno
si fanno vedere le prime rocce, annuncio delle falesie a cui ci stiamo
avvicinando e, mentre osservo questo che pare un giardino roccioso, mi chiedo da
dove arriva l’acqua!
Camminiamo
fra le rocce che diventano sempre più alte, vanno dal un colore bruno, che a
tratti è più chiaro, al rosso, colore prevalente in tutte le sue sfumature,
talvolta tendenti all’ocra o al rosa. Fa caldo, ma non è insopportabile, è
secco.
Appena
cominciamo il trekking, dal villaggio vicino dei bimbi corrono verso di noi,
attirando la nostra attenzione con le loro vocine, ci circondano, due mi
prendono per mano e m’accompagnano per un tratto di strada, anche abbastanza
lungo. Non so se è davvero così, ma per me è come se mi facessero festa, come
fosse un benvenuto.
La
scena, che ora mi sorprende, si ripeterà e diventerà abituale nei giorni
seguenti, in ogni villaggio che incontreremo lungo il nostro cammino.
Io
non ho più nulla da dare a questi piccoli che chiedono un cadeau, una bic, ma
pare non essere un problema visto che paiono accontentarsi di prendermi per mano
e camminare silenziosamente al mio fianco per un tratto di strada, per poi dopo
un pò ritornare per la loro.
Tento
di parlare con loro, ma non è facile, conoscono solo qualche parolina francese
ed alla fine l’unica cosa che possiamo fare è guardarci negli occhi,
osservarci, scrutarci, sorriderci.
Mentre
cammino a piedi nudi su questa terra calda arrivo alla fine di una roccia e mi
rendo conto d’essere sull’orlo di una gola. Pian piano, scendiamo
addentrandoci tra le rocce che si innalzano sopra di noi e ai nostri fianchi.
Percorrendo
sentieri in discesa, attraversiamo la falesia dal di dentro, dentro una gola che
ci fa sbucare dall’altra parte dove si apre davanti a noi un panorama
bellissimo.
Ho
ancora negli occhi quell’immagine: le rocce alte a miei fianchi e di fronte a
me, che sono ancora in alto, un paesaggio spettacolare.
Le
rocce in mezzo alle quali cammino proseguono e costeggiano un’immensa pianura:
i tratti più vicini alla falesia sono coltivati e quindi verdissimi, ma
allontanandosi il terreno diventa sempre più sabbioso, una distesa di sabbia
color aragosta che diventa
a poco a poco un
mare ondulato di sabbia rossastra.
Percorriamo
sentieri a tratti sulle rocce, a tratti sul deserto, attraversando villaggi
arroccati sulla falesia o ai suoi piedi.
I
villaggi sono dedali di stradine che si snodano tra muretti a secco e di banko.
Al di la del muretto, spesso, c’è un cortile, dove una donna pesta il miglio,
un’altra stende i panni, cucina o bada a un bimbo.
I
bimbi, appena si accorgono della presenza di qualcuno che non è del posto
sbucano improvvisamente da dietro un muretto e, come se si passassero la parola,
in breve, da uno diventano dieci. Spesso svestiti o con pochi indumenti indosso,
a volte impolverati, sporchi di sabbia, ci vengono incontro e porgono la manina
con qualche parolina a noi sconosciuta.
Qua
e là sono sparse casupole tonde sormontate da tetti conici fatti di paglia:
sono i granai dei Dogon che paiono case degli gnomi.
E poi c’è la Toguna, la casa della parola, vicino alla quale troviamo spesso gli anziani del villaggio nei loro abiti tipici, dall’aspetto austero e fiero malgrado quel cappello di stoffa spessa con due punte che scendono ai lati e che a me fa un po’ sorridere.
Ci
danno la mano e accennano un sorriso o una parola, ma non si concedono troppo.
In
alto, nella parete della falesia, si vedono strani fori che paiono finestrelle,
e abbozzi di casette, un tempo dimore dei Tellem, vicini di casa dei Dogon dai
quali, si dice, sono stati cacciati.
Qua
e là incontriamo gente, ragazzi che a fine giornata ritornano da scuola dopo
aver percorso una decina di chilometri, uomini che pascolano, donne che
trasportano pensanti secchi d’acqua sul capo. Una donna ci guarda incuriosita
da dietro un muro e da dovunque continuano a sbucare bambini che ci vengono
incontro, ci circondano e ci prendono per mano, ci parlano e urlano per
salutarci.
La
presenza di moltitudini di bambini ci accompagna per tutto il viaggio.
Ricordo
con nostalgia le indimenticabili notti sui tetti, tentando di prendere sonno
guardando le stelle, ascoltando il silenzio o i rumori non familiari di questo
luogo che riempiono le mie orecchi e la mia testa. In lontananza sento suoni di
tamburi, ancora voci di bambini, di animali, non so più se sono reali, se li
sto sognando, se sono solo rimasti nelle mie orecchie dalla giornata appena
trascorsa.
La
sveglia all’alba è al suono del canto potentissimo di galli che, da un
villaggio all’altro, si chiamano e si rispondono. Sono ancora sdraiata nel mio
sacco a pelo e le rocce appena sopra la mia testa con la luce del sole che sta
sorgendo sono ancora più rosse. Pian piano si avverte che la vita
tutt’intorno si sta risvegliando.
Le
giornate che passano sono così immerse in sole potente che pare quasi
schiacciarci contro la sabbia, e poi rocce, villaggi e ancora bambini.
Un
giorno dietro l’altro saliamo e scendiamo da queste falesie, mentre più in
basso, sulla sabbia color rosa aragosta, i muli che tirano il carretto
sgangherato carico dei nostri bagagli.
Talvolta
anche noi ci ritroviamo a camminare sulla sabbia calda, ad attraversare tratti
di deserto per raggiungere la falesia che sta dalla parte opposta a noi.
La
falesia rimane sulla sinistra, alta roccia spoglia, rosa-arancio come la sabbia
che si distende alla nostra destra, con qualche arbusto che man mano si fa
sempre più rado per lasciar posto alle dune.
Attraverso
passaggi dentro la roccia ci inerpichiamo sempre più in alto, la percorriamo
nel suo interno ed alla fine ci ritroviamo sulla sommità della falesia.
Percorsi stretti e scoscesi, scalette e ponti di legno ci permettono di arrivare
in cima da dove il panorama è mozzafiato: sotto di noi si distinguono le
casette Dogon, poi la sabbia rossastra e, in lontananza, le dune.
La
falesia è alta e ampia, la percorriamo per un lungo tratto nella sua lunghezza
per poi, ridiscendendo dall’altro lato, ritrovarci in un altro villaggio Dogon
arroccato sulle rocce. Riprendiamo il cammino, lasciamo la falesia e siamo sulla
sabbia del deserto, facciamo incontri con persone che paiono venire da altri
mondi. Ma forse anche loro penseranno lo stesso di noi. Incrociamo un gruppo di
donne, in fila una dietro l’altra, dai vestiti colorati, con un grandi secchi,
pieni forse solo d’acqua, in bilico sulla testa. Spiccano sulla sabbia, sul
cielo e sulla roccia dietro loro. Le vedo allontanarsi e sparire
all’orizzonte.
Poco
dopo un’altra donna, con due bimbi piccoli che le camminano al fianco, sulla
schiena ne ha un terzo. Ma lei stessa è giovanissima. Ha solo una stoffa legata
sui fianchi, collane e orecchini colorati e tatuaggi che ci indicano la sua
appartenenza al gruppo dei peuls.
La
ragazza vuole comunicare qualcosa, ma non riusciamo a capire cosa vuole dirci e
la scena ha alla fine un che di comico.
Frughiamo
nel nostro zaino qualcosa da mangiare per lei e per i bambini, ma anche la cosa
per noi più banale, come una piccola confezione di marmellata, la lascia
sconcertata. La scatola stessa non le dice assolutamente nulla sul suo
contenuto, allora la apriamo insieme e lei in principio pensa che sia una crema
per la pelle. Le facciamo vedere che si mangia, ma la smorfia che le appare in
viso fa supporre che non sia di suo gusto.
Ai
bambini diamo una matita, ma anche loro non hanno idea di cosa si tratti, allora
con fogli alla mano diamo dimostrazione della magia di cui questi oggetti
appuntiti sono capaci: lasciare tracce scure sulla carta bianca! Quale fenomeno
inspiegabile! Però, penso tra me e me, sono nomadi e…forse non andranno mai a
scuola…
Ho
la macchina fotografica a portata di mano, ma non riesco neppure a chiedergliele
una foto perché mi pare di rendere artificiale un momento tanto naturale.
Continua
a tentare di dire, di spiegare qualcosa che non riusciamo a capire, penso che,
alla fine, forse anche questa donna è stata per così dire contaminata dal
turismo e probabilmente vuole solo una maglietta! Spero che non sia così, sta
tanto bene così com’è, con il suo drappo di stoffa colorata e i sui
tatuaggi. Comincerà a risentire anche lei di bisogni indotti?
In
ogni caso usciamo da questo incontro impressionate ed anche un po’ divertite.
Mi chiedo come lei lo ha vissuto…non mi pareva troppo colpita dall’averci
incontrato, quasi le succedesse frequentemente Rifletto sul fatto che mi è
parsa così intraprendente nei nostri confronti, che è stato difficile
comunicare, ma alla fine facile entrare in relazione.
Ho
come la sensazione che sia stata lei a gestire in certo qual modo l’incontro,
mentre noi l’abbiamo lasciata fare tentando di assecondare le sue richieste.
Invece
noi siamo rimaste affascinate, colpite dall’opportunità avuta di esser
entrate in relazione con una persona così diversa da noi, così lontana dal
nostro mondo, bella, solare e forse superiore alle nostre piccole o grandi
schiavitù.
Filosofeggiando
un po’, forse questo è il segreto: per aver tutto, non bisogna avere nulla.
Un
regalo inaspettato
I
miei sandali sono stati fortemente provati dai giorni di cammino fra i Dogon, la
pelle e la gomma della suola hanno evidentemente risentito del caldo e del
secco, cosi presentano delle crepe. Alla fine, prima di partire dall’ultimo
villaggio Dogon, decido di abbandonarli, di lasciarli al campement. D’altronde
non ha senso caricarsi di un peso inutile, mi farò bastare le infradito di
plastica e i massicci scarponcini e, visto il posto, ce n’è d’avanzo!
D’altronde, che dire…qui in bisogni sono davvero relativi.
Però
qualcuno pensa che io li abbia dimenticati e chiede ad alta voce di chi sono,
chi li abbia scordati.
Daniel,
un diciottenne che il giorno precedente ci aveva accompagnati per quasi tutto il
giorno, scherzando dice che sono suoi, ed io vedendo la scena lo assecondo, dico
che è vero, che i sandali sono suoi. A questa mia affermazione lui mi guarda
incredulo con gli occhi sgranati, pare non riesca a crederci. Gli faccio vedere
che però sono rotti, ma forse riuscirà ad aggiustarli in qualche modo.
In
Mali si ricicla e si riparata mille volte, prima di dichiarare inutilizzabile e
gettar via, così le cose che a noi non servono più, per loro, non solo servono
ancora, ma sono addirittura preziose a vedere lo stupore che ha colto Daniel.
Al
pozzo
A
fine giornata arriviamo ogni volta sempre più sporchi, i nostri vestiti
cambiano colore e prendono tinte vicine a quelle della sabbia.
Siamo
pieni di sabbia ovunque, ma io non mi sento poi così sporca, perché anche
questo diventa un concetto relativo in questa terra.
Arrivati
alla fine della giornata spesso cerchiamo il pozzo per lavare le due cose che,
asciugando nella notte, potremo indossare di nuovo la mattina successiva.
Sin
dalla prima volta mi rendo conto che i nostri lavaggi al pozzo possono
rappresentare un’opportunità di comunicare con le donne.
Tante
sono lì per fare anche loro il bucato, poi, finito di lavare, stendono la
biancheria sulle rocce calde e attendono che asciughi, mentre fanno quattro
chiacchiere.
Ci
osservano in silenzio, qualcuna chiede il sapone in regalo, così ne taglio un
pezzo del mio, perché una parte la devo tenere per il resto del viaggio.
Come
sempre sono molto colorate, eleganti anche in questa semplice e umile attività,
e spesso con un bambino fagotto legato sulla schiena.
Questi
toubab al pozzo sono l’attrazione del giorno e quindi…come dire…mi sento
un po’ osservata e mi chiedo a cosa pensano.
Serve
un secchio e per fortuna riusciamo sempre a trovarne uno nella casa dove
dormiamo,. Capisco che bisogna mettersi in coda e aspettare il proprio turno per
prendere l’acqua al pozzo con la pompa o con la corda, calando fino in fondo
un secchio di gomma.
Una
volta un paio di donne attivano la pompa per me e mi riempiono il secchio, forse
hanno intuito che avrei avuto difficoltà ad attivare quel marchingegno.
Si
insapona tutto, poi si riempie un altro secchio d’acqua e si sciacqua facendo
attenzione a non sprecarla. Non avrei il coraggio di prenderne un altro.
Mi
piace questo momento della giornata perché mi sembra di entrare nella loro
quotidianità e perché, pur venendo da mondi diversi, allo stesso modo ci
dedichiamo ad un’attività che in qualche modo accomunarci un po’, che ci
mette sullo stesso piano e ci rende un po’ più uguali.
Anche
se poi non si riesce a comunicare più di tanto, senza tante parole ci si scruta
reciprocamente: loro sono al centro della mia attenzione perché cerco di capire
come comportarmi, quali sono le regole del pozzo e noi, credo, siamo al centro
della loro attenzione perché chissà, forse non si immaginano che anche noi ci
dedichiamo a queste attività.
Timbuctu
Ancora
una volta ci ritroviamo a percorrere chilometri e chilometri di brousse;
destinazione Timbouctou.
Ogni
tanto la jeep si insabbia, allora è necessario scendere, caricare l’auto sul
lato non insabbiato mentre gli autisti sono al volante. Poi si riparte… e
ancora chilometri su chilometri di brousse.
L’autista
ha il taguelmoust di Tuareg, ma non so se lo è davvero. Corre come un matto
sulla pista che non è neppure troppo chiara, ma lui pare sicuro.
Un
po’ il timore mi prende quando vedo una jeep ribaltata, abbandonata a lato.
Poi
ancora brousse, arbusti, sabbia, pista di cui non si vede la fine.
A
volte, qua e là, compaiono in questo arido panorama, figure umane che camminano
al fianco di un asinello o alla guida i piccole carovane di asinelli carichi di
lastre di sale.
Pare
incredibile che queste persone riescano a restare, magari per giorni e giorni,
in solitudine e sotto il sole cocente.
Ogni
tanto ci è concessa una sosta, soprattutto per far riposare le nostre ossa
provate dai sobbalzi dell’auto i cui ammortizzatori funzionano ormai più
poco.
E
si riparte un’altra volta.
Anche
se si muore di caldo, si dall’inizio del viaggio ci rendiamo conto che
conviene non aprire i finestrini per non far entrare la polvere, ma alla fine,
nonostante questa precauzione, non solo l’auto è una serra, ma è anche colma
di fine sabbia rossiccia.
Così
pian piano, l’abitacolo dell’auto diventa tale quale fuori, o forse peggio
perché, una volta entrata, la polvere non esce più.
Velocemente
anche noi, come gli autisti, cerchiamo di riparaci dalla sabbia, si tenta di
coprirsi come si può con foulard, cappelli, occhiali e fazzoletti davanti al
viso, ma non c’è niente da fare: alla fine diventiamo dello stesso colore
della sabbia. Si attacca alla pelle in un modo così uniforme da sembrare
abbronzatura, ma un po’ innaturale visto assomigliamo a delle maschere. Ed
anche gli abiti hanno cambiato colore.
Manca
poco a Timbouctu, dobbiamo ancora attraversare
su una chiatta un tratto del fiume Niger e poi ci siamo. La presenza di tanta
acqua dopo tanta terra asciutta è rassicurante, è come se perfino gli occhi ne
traessero beneficio.
Mi
colpisce questo passaggio improvviso dall’asciutto del deserto, alle atmosfere
e ai panorami rigogliosi che costeggiano il Niger.
Anche
la traversata sulla chiatta è un momento pieno di colori, di gente, reso ancor
più bello dai colori del tramonto.
Ci
sono famiglie, donne, uomini e bambini e, poco lontano da me, un tuareg vestito
tutto di nero, dall’aria severa e con una grande spada legata a un fianco. Mi
piacerebbe parlargli, ma sta sulle sue. Tento di comunicare con qualche cenno a
cui lui risponde facendomi solo intendere che mi ha notato, non concede nulla di
più.
Più
avanti due donne con un bimbo piccolo, avrà forse un anno, indossano vestiti
bellissimi e appariscenti monili. Riescono a spiegarmi che stanno andando a un
matrimonio e, alla fine, le distanze fra noi si riducono un po’, al punto da
lasciarmi prendere in braccio il piccolo che però pare un po’ intimorito.
Finita
la traversata si rimonta sulle jeep, mancano ancora pochi chilometri e siamo
alla mitica Timbuctou. Sin dall’inizio si nota che è una grande città,
quando io invece mi aspettavo un villaggio ormai sperduto nel deserto. Molto
meno rigogliosa del passato, delle cui glorie ancora gode, è comunque rimasta
la più grande città del nord del paese, ma la sabbia pian piano avanza e la
rende parte del deserto.
Lato
negativo del luogo sono le vere e proprie aggressioni commerciali subite da
parte dei tuareg, o presunti tali, visto che essere tuareg pare essere un
affare. Sin dalla sera stessa ci invitano insistentemente a comprare, a
contrattare e non si riesce facilmente a toglierseli di torno per poter gustare
tutti gli altri aspetti della città.
Le
strade sono di sabbia e ventose. Ho ancora in mente le figure, uomini e donne
che camminano per le vie avvolti in vestiti leggeri svolazzanti alle folate di
vento che si sente passare in mezzo alle case basse a ricordarci che dopotutto
siamo in mezzo al deserto, poco lontano, appena fuori dalla città.
Nel
pomeriggio, a piedi, raggiungiamo le prime dune. Una moltitudine di sacchetti di
plastica sono disseminati sulla sabbia ai margini di Timbouctou e, oltre ai
tanti sacchetti, tante baracche vicino alle quali scorgiamo i movimenti delle
persone che vi abitano mentre dei bambini giocano a far capriole buttandosi
dalla cima di una duna.
Qui
i bimbi non sono così intraprendenti come altrove, non ci vengono incontro,
sono intimoriti dalla nostra presenza, a momenti pare anzi che abbiano proprio
paura. Non è facile avvicinarsi, con alcuni è impossibile. Alla fine una mamma
chiama l’unica bimba che ha avuto il coraggio di farlo.
È
praticamente impossibile muoversi senza accompagnatori indigeni e così la
passeggiata è in compagnia di due adolescenti. Uno dei due mi racconta di sé,
che è originario della Costa d’Avorio e che si è trasferito in Mali con la
famiglia, sta studiando alle scuole superiori ma non sa ancora cosa farà da
grande. Gli chiedo della spazzatura che circonda la città e lui mi spiega che non ci sono i mezzi per raccoglierla, per
mantenere l’ambiente pulito. Penso che in effetti non ce n’è neppure poi
molta, rispetto a quella che produciamo noi, perché qui non ci sono né così
tanti prodotti, né così tanti involucri che li racchiudono, però
evidentemente non c’è nessun tipo di organizzazione finalizzata alla raccolta
della spazzatura.
È
di nuovo il tramonto, il sole scende dietro l’orizzonte, le dune e tutto
intorno hanno un colore rosato e questo panorama ci strappa una foto.
Navigazione
e vita sul Niger
Partiamo
da Timbouctu per ritorniamo a sud del Mali navigando sul Niger.
Lasciamo
il deserto, luogo arido, che rende difficile la sopravvivenza di qualsiasi
essere vivente per trovarci all’improvviso immersi fra la rigogliosa vita che
si concentra intorno a questo immenso corso d’acqua.
Le
nostre giornate di navigazione iniziano quando è ancora buio e fa quasi freddo.
Qualcuno riesce a vedere ancora qualche stella cadente, mentre pian piano si fa
giorno, la luce e le attività tornano ad essere più intense.
L’atmosfera
tutt’intorno diviene luminosissima, resa tale dai riflessi del fiume che
riempie di bagliori e luci. Il silenzio prevale ed è interrotto solo dal rumore
della prua della pinassa che taglia l’acqua e da qualche voce in lontananza.
Pinasse
di varie dimensioni vanno e vengono, dalla più minuscola fatta di una sottile
striscia di legno, a quelle un po’ più grandi dalle fantastiche vele,
talvolta rappezzate a più colori e piene di vento che fanno un baffo agli
spinnaker del Mediterraneo.
Ci
sono pescatori solitari appollaiati sulla punta della loro pinassa che aspettano
di tirare su un pesce guardando pacifici l’ambiente che li circonda. E non si
sa se l’attività principale sia pescare o, influenzati dal calmo fluire del
fiume, godersi questo dolce far niente, l’inerzia, attività peraltro
abbastanza frequente in Africa.
Altri
sono invece più indaffarati, trafficano con le reti che tirate su dall’acqua
sono da sistemare, caricano, scaricano o, con una lunga pertica che tocca il
fondo, spingono l’imbarcazione.
Alcune
pinasse, non adibite alla pesca, sono più grandi e trasportano chiunque e
qualunque cosa, da esseri umani, alla pecora che sperimenta l’ebbrezza della
navigazione, fino al motorino che forse è più utile all’altra sponda.
Fra
queste, alcune sono davvero gigantesche e stracariche di gente, di fagotti pieni
di chissà cosa, di grandi sacchi forse colmi di miglio. Caricate sia dentro lo
scafo, sia sulla tettoia che le ricopre, danno l’impressione che da un momento
all’altro possano sprofondare: la linea di galleggiamento coincide
praticamente con il bordo della carena.
Sulle
rive si scorgono le basse case in fango, qualcuno che pascola gli animali e,
nelle vicinanze dei villaggi, talvolta si vedono gruppi di donne intente a
lavare se stesse, i figlioletti e i panni che indossano poi subito dopo. Questi
momenti, forse per loro occasione di socializzazione, sono un tripudio di colori
e di vociare di bimbi che vengono innaffiati dell’acqua dl Niger.
Ogni
tanto il nostro pinassiere attracca a riva per una sosta, sempre troppo breve.
Ci
fermiamo in alcuni villaggi adagiati sulle sponde del fiume e quasi ogni volta
la scena si ripete: appena la pinassa si accosta a riva, per il villaggio
sembriamo diventare l’attrazione del giorno, si avvicinano persone, ma
soprattutto bambini, tantissimi bambini colorati, sorridenti, curiosi, vocianti.
Inoltrandomi
fra le strette viuzze dei villaggi, che col passare dei giorni, scendendo a sud,
diventano anche ventose, spesso mi ritrovo ad essere inseguita da questa miriade
di bimbi.
Fanno
festa, battono le mani a ritmi diversi e armoniosi che creano musica insieme
alle loro voci e, nel farlo, muovono i loro corpi.
Si
avvicina la sera e il momento di attraccare per cercare un luogo dove montare la
tenda per la notte. Al tramonto tutto pare farsi ancor più lento, ma le attività
non si fermano neppure di notte.
Mi
guardo attorno e non capisco come mai la terra è secca anche qui, nonostante la
prorompente ricchezza d’acqua poco lontana.
È
un’altra volta il tramonto…all’orizzonte vedo il proseguire dello scorrere
del fiume e col calare del sole i colori si intensificano, tendenti al rosso,
pian piano divengono sempre più bruni, finché il buio arriva improvviso.
Ma
sorprendentemente la vita notturna sulle rive del fiume continua, è più lenta,
ma continua.
Dentro
la mia tenda avverto arrivare da fuori rumori, suoni, a volte del tutto
irriconoscibili, altre volte più legati all’uomo…scene incredibili come…
il passaggio di una carovana in viaggio, in parte per fiume, in parte via
terra..forse hanno scelto la notte perché è più fresco. Vorrei stare sveglia,
ma alla fine il sonno sopraggiunge… poi mi sveglio di nuovo, altri momenti
sono in dormiveglia…. Ma una notte non resisto, devo vedere a cosa corrisponde
ciò che sento…è anche musica, metto la testa fuori dalla tenda e una scena
incredibile si presenta ai miei occhi: un pinassiere spinge una stretta pinassa
con una lunga pertica accompagnando i movimenti al tempo di una musica
proveniente da un registratore che si alterna al suo stesso canto. Poco lontano
altri uomini governano pinasse altrettanto piccole e fanno da contro canto al
primo.
Mi
pare un sogno: il rumore della pertica in acqua, la musica del registratore, il
canto alternato di questi uomini, il fiume, il buio, la luna…. purtroppo tutto
finisce troppo presto.
Strade
polverose di Mopti, Bamako, tanti odori, gente, smog, colori, rumori
Mopti,
strade polverose, sterrate e anche quando sono asfaltate restano comunque molto
polverose. Tutto intorno è tendente sempre al rosso, colore che pare
riflettersi anche su ciò che rosso non è.
Il
Niger bagna questo grande paesone e qui le pinasse arrivano al grande porto
fluviale cariche di lastre di sale: vengono scaricate, tagliate, vendute e poi
ricaricate su altri mezzi per essere trasportate altrove.
La
zona del porto purtroppo è anche una discarica a cielo aperto ed allo stesso
tempo uno spazio di gioco per i bambini che la percorrono incuranti.
Le
rive del fiume non sono solo un attracco per le pinasse, sono anche un luogo di
vendita di qualsiasi cosa, praticamente un mercato, sono uno spazio dove
stendere ad asciugare i panni.
È
l’ora della preghiera e c’è fermento vicino alla moschea che in breve vede
le sue entrate riempirsi di uomini.
Bamako
E
per finire, ritorniamo nel traffico disordinato di Bamako
L’autista
del pulmino non è di Bamako e non conosce la strada che porta all’aereoporto,
credo che percorra le vie della capitale un po’ a casaccio, affidandosi al suo
intuito che però, haimé, non è sufficiente. Non fa caso neppure ai pochi
cartelli che si intravedono a qualche incrocio e che indicano la direzione visto
che, anzi, prende la direzione opposta provocando la nostra sollevazione.
Intuiamo
che l’altro ragazzo che per quasi tutto il viaggio è stato con noi (e che
abbiamo chiamato uomo mosca per gli occhiali neri a fascia sempre sul naso)
conosce forse un po’ di più la strada, ma se ne sta in fondo al pulmino in
silenzio. Che dire? Queste sono solo alcune delle contraddizioni dell’Africa.
Il
Mali, non so ancora bene perché, ma mi ha un po’ stregato. Sono tornata con
la sensazione di aver lasciato in sospeso qualcosa, come se dovessi tornare in
quella terra dove ho da concludere
qualcosa Magari non
necessariamente in Mali, ma comunque in terra d’Africa.
Bambini
del Mali, sorrisi e colori.
Sorridenti,
lasciano trasparire fierezza dai loro visi, talvolta sono cupi, seri o forse
sono solo tristi.
Denti
e occhietti bianchi risaltano sulla pelle color cioccolata, nasino sporco,
mosche sul viso e pance gonfie con ombelichi troppo prominenti. Ma quanti
sorrisi! ….cadeau…bic…comment tu t’appelle?
Che
accoglienza! Ti corrono incontro, salutano con la manina, te la porgono per
salutarti. Altri ti prendono per mano e ti accompagnano fin là, poi però
bisogna tornare indietro...ciao, ciao!
Mezzi
nudi o con vestiti sporchi, impolverati, stracciati, ma sempre dai vivi colori.
Piedi
nudi o infradito, sandaletti di plastica, a volte spaiati, a volte a proteggere
un solo piede, altre volte sono due sinistre, certo saranno scomodi, ma almeno
tutti e due i piedini sono protetti.
Treccine
minuscole compongono disegni sulle le testoline delle bimbe e terminano in
ciuffi su un lato della fronte, sulla nuca o sul davanti. Qualche testolina è
fasciata in foulard colorati, e poi orecchini, collanine e braccialetti di
perline colorate. Bimbi-zainetto: sui fianchi di bimbe ancora piccole si
intravedono piedini che spuntano da fagotti che tengono sulla schiena. Fasciati
in un drappo di stoffa colorata legato sul davanti delle sorelline poco più
grandi, sonnecchiano o con gli occhi sgranati osservano il mondo. Altri, troppo
grandi per stare dentro al drappo di stoffa e troppo piccoli per scorrazzare per
le vie come gli altri…a questa età ci si stanca ancora in fretta di stare in
piedi, e così, ecco la soluzione: a cavalluccio dei più grandi!
Si
va a scuola anche da queste parti! la cartella? una sacca di tela sfilacciata a
tracolla
forse
piena solo di un quaderno e una matita. Curiosità negli occhi che scrutano e
indicano quali cose incredibili ci saranno invece dentro i nostri zaini.
Salutano con la manina i visetti impolverati, tante vocine che dicono chissà
cosa o ripetono ogni nostro gesto quasi fossero scimmiette. Ridono forte. È
facile farli divertire e giocare con loro. Bel gioco spingere con un bastoncino
un copertone di bici o un cerchio di legno, correre e rotolarsi nella sabbia,
anche se ci sono tanti sacchetti di plastica e sporcizia. Piace mettersi in posa
per farsi fotografare, anche il più restio rimane coinvolto da questo gioco:
bisogna stare tutti dentro l’occhio di quello strano apparecchio, si sente lo
scatto e poi che divertimento rivedere sé e gli amici….ci sono anch’io,
c’è anche lui e l’altro.
Avrei
voluto restare di più a giocare, farmi piccola come loro e avere l’illusione
di potermi confondere, non più toubab.
Valeria