Mali, un’altra realtà, un altro mondo.

Racconto di viaggio 2007

di Valeria Colombera

 

Ritornata ormai da un po’ da questo viaggio mi ritrovo ogni tanto a ripercorrere quei giorni, con il pensiero, con le foto, scrivendo. E mi pare impossibile che sia già così lontano.

Temo di perdere i ricordi, non solo i più intensi, ma tutti... perché… in fondo non riesco a dire che ve ne siano alcuni più intensi di altri. L’intero viaggio è un tutt’uno, un’unica intensa esperienza.

Per questo scrivo, per la paura di dimenticare cosa è stato, per fissare le emozioni che a distanza di tempo riaffiorano ancora forti

Già mentre ero là tentavo di scrivere, ma credo di essere stata travolta da troppe sensazioni che non ero capace di decodificare, alle quali non riuscivo a dare un significato, così non sono stata in grado di fare altro che una cronaca.

Solo una volta tornata mi sono resa conto di quanto siano state forti le sensazioni, percepite contemporaneamente con i miei cinque sensi stimolati al massimo, in uno stato di pressoché costante tensione verso l’esterno, nell’intento di non perdere nulla di ciò che avevo intorno.

Per la verità, ora che sono tornata, che cerco di fermarmi a scrivere di quei giorni, ho come l’impressione di non essere riuscita a cogliere tutto. D’altronde, forse non era possibile, considerato che era la mia prima volta nell’Africa sub sahariana.

In questa raffica di stimoli, forse ho fatto come fanno i bambini quando sono talmente eccitati da non sapere a cosa dar retta.

Tutto mi attraeva, ma, forse, non possedevo gli strumenti per dare attenzione a tutto quello che mi circondava. Avrei voluto avere più tempo.

Abituata alle sollecitazioni, per così dire, quadrate, forse anche prevedibili e neppure troppo stimolanti della mia quotidianità, in Mali vivevo invece in uno stato di semi eccitazione: mille stimoli, questa volta veri, improvvisi, attiravano la mia attenzione, cosicché a volte non sapendo neppure io dove girarmi, mi lasciavo un pò trascinare dall’onda degli eventi.

È solo ora che, ripensandoci, credo che proprio questa sorta di stato euforico potrebbe avermi fatto perdere qualcosa fra tutte le, per me incredibili, grandi e innumerevoli novità a cui non ero capace di star dietro.

Per timore di perdere qualcosa ero in una pressoché permanente attività, per di più fortemente sollecitata dal popolo maliano, soprattutto dai suoi bambini, alle cui richieste di attenzione non era possibile sottrarsi.

Ora un po’ rimpiango di non aver cercato dei momenti per fermarmi, per sedermi a terra ad osservare, solo ad aspettare di vedere cosa succedeva intorno a me.

Alla fine, ciò a cui penso da quando sono tornata è: quando ripartirò per l’Africa.

Vorrei tornare là e ripetere l’esperienza, assaporare un’altra volta, in un altro modo, quell’atmosfera.

Come se ora avessi capito che servono altri strumenti per leggere quella realtà ed io ho appena iniziato a capire quali sono, come devono essere usati, ma avessi solo bisogno di tempo, di affinarli e impratichirmi con essi

Per ora, le uniche cose che mi permettono di tornare in Mali sono appunto i ricordi, le fotografie, scrivere e rileggere ciò che ho scritto.

 

In Mali non c’è niente, ma forse proprio per questo c’è tutto. Per lo meno tutto ciò che a me piace, che mi serve e che mi manca qui, nella mia civilizzata città.

Ho capito che in Africa è tutto più genuino: mancando a volte anche l’essenziale, ciò che resta non è altro che la relazione umana. E per costruirla non c’è bisogno di altro che dell’individuo, spoglio, senza tutte le cianfrusaglie, le maschere che normalmente si porta dietro dalle nostre parti.

In Africa c’è poco da mascherarsi! Le uniche maschere che io ho visto erano quelle dei Dogon.

E se a volte ho avuto la percezione che anche loro avessero maschere, che fossero meno veri, tentando un po’ di atteggiarsi in pose che non paiono spontanee, che non appartengono loro, credo sia un po’ colpa di questo nostro mondo occidentale che va in Africa per super vacanze e finisce per sconvolgere gli equilibri. Infatti nei luoghi più remoti questo non succede, c’è solo la curiosità di conoscere, di entrare in relazione.

E poi c’è la mia pelle bianca. Perché, anche se si trattava di un viaggio in cui lo spirito di adattamento era messo alla prova dall’assenza delle comodità a cui siamo abituati, il mio essere lì con la mia pelle bianca, era sufficiente a far pensare che stavo meglio di loro, molto meglio.

Ma forse non si rendono neppure conto di quanto noi abbiamo più di loro, forse non se lo immaginano neppure.

Per la prima volta ho pensato a quanto il colore della pelle era un messaggio chiaro ed inequivocabile della mia ricchezza, del mio benessere, quindi sufficiente a distorcere qualsiasi comunicazione. È così che, per rendere più libera la comunicazione, la relazione con la gente d’Africa, ho desiderato di essere anche io di pelle nera. Pur sapendo che sarebbe stato comunque un imbroglio.

Così come è per loro, neppure io posso rendermi conto di cosa significhi vivere in uno dei paesi più poveri del mondo, in un posto dove non c’è nulla.

Io al loro posto credo che sarei arrabbiata e triste, invece loro mi accolgono anche con un  “benvenuta in Mali!”.

 

20.01.07

E così un aereo mi catapulta in poche ore di volo in un tripudio di colori, polvere, sorrisi, odori, rumori, suoni, ma anche silenzi, volti e incredibile natura incontaminata.

Scalo ad Algeri e si riparte con un aereo che sembra quasi un bus: dopo la fermata a Bamako, la prossima sarà Dakar!

Durante il viaggio si respira già un aria diversa, i visi che mi circondano non sono più quelli a cui sono abituata. Non ci sono più così tanti “visi pallidi” e, sarà l’aria di vacanza, sarà l’entusiasmo del viaggio, ma secondo me l’uomo d’Africa è anche più sorridente.

Sfogliando la rivista dell’Air Algerine mi soffermo a guardare la cartina del Mali. Il ragazzo seduto accanto a me mi indica la sua città, Gao, e mi dice che una volta arrivato a Bamako dovrà fare altre 15 ore di bus. Certo mi sorprende, ma solo nei giorni seguenti, quando vedrò i bus della Brousse, potrò capire un po’ meglio cosa significhi.

All’uscita del piccolo aeroporto tanti occhi mi guardano nel buio, paiono mille. Sono come una barriera schierata e, mentre avanziamo, la barriera umana si divide in due formando un corridoio dentro il quale passiamo. Mi sento osservata, scrutata, indossano tutti vestiti coloratissimi, ma i visi paiono seri e quasi mi intimoriscono. I vissuti si ribaltano, perché è forse la prima volta che mi sento in minoranza. Forse sperimento un pizzico di ciò che provano loro quando vengono in Italia.

Ma la curiosità supera immediatamente il timore. Da tanto l’ho desiderato e sono contenta d’esser lì: non voglio altro che conoscere almeno un poco la loro terra, le loro usanze, entrare in relazione con queste persone che stanno dall’altra parte del mondo, provare a capire la loro vita così diversa, ma in fondo con gli stessi bisogni della mia.

Vorrei comunicare con loro, esprimere il mio entusiasmo per trovarmi in questo paese ed invece, se mi fermo a riflettere, sono a disagio.

Non conosco ancora nulla, ma nella mia testa affiorano sentimenti contrastanti. Intuisco genuinità, contatto con la terra, libertà, lontananza dal superfluo e provo ammirazione per questi aspetti, ma allo stesso tempo sento compassione per la vita che in questa terra è priva anche di ciò che è essenziale. Mi chiedo come fa questa gente a vivere qui, a trovare la forza per andare avanti senza niente.

Nel percorso tra l’aeroporto e l’albergo dove andremo a dormire ho un primo assaggio del mondo africano. Per le strade di Bamako è notte, ma c’è una gran vita, gente che cammina, che va in bicicletta o su sgangherati motorini, che dorme o cucina per strada, altri sono fermi ad aspettare, chissà cosa.

La mattina seguente non resisto e timidamente inizio ad aggirarmi sola per le vie intorno all’albergo. Fra le prime cose che vedo c’è, ahimé, lo stabilimento della Nestlè (il logo della multinazionale è diffusissimo e se si vuole un caffè, a quanto pare, non c’è altra possibilità di scelta) e poco lontano, sulla strada, un gruppetto di uomini, seduti a terra sta cucinando.

Mi invitano a sedermi con loro e mi offrono del cibo. Pare carne,  ma…hem…per colazione non è il massimo! Speriamo non si siano offesi al mio rifiuto. Vorrei socializzare con loro, ma mi sento inopportuna, mi pare d’entrare nell’intimità di una casa solo per curiosare, non capisco invece che forse lì è normale.

Ma non ho tempo di farmi troppe domande perché è ora di partire a bordo del nostro sgangheratissimo pulmino, stracarico di noi passeggeri e di bagagli che, legati sul tetto del mezzo, temiamo di perdere ad ogni curva.

Ci accompagnano oltre all’autista, la guida dogon ed un personaggio misterioso, dagli occhiali neri a fascia sempre sul naso, pressoché impassibile ad ogni stimolo, che poi scopriremo avere la sola funzione di caricare e scaricare, legare e slegare dal tetto del pulmino i nostri bagagli.

Bamako brulica di gente e mezzi di trasporto di ogni sorta, mentre ai bordi delle strade sono frequenti cucine improvvisate, donne chine sui fuochi dai cui esalano fumi che si confondono con lo smog della città.

I miei occhi e il mio cervello sono in un’attività quasi frenetica, ho la faccia incollata al finestrino del pulmino, mi arrivano immagini e si producono pensieri confusi, a volte sconnessi, non ho tempo di collegarli fra loro, non ho tempo di elaborali. Le immagini e i rumori continuano a susseguirsi velocemente e sono concentrata a immagazzinare tutto ciò che vedo, tutti gli stimoli che arrivano, uno dietro all’altro.

Spero di poter in seguito ritirare fuori  tutto.

 

La brousse

È deserto, ma allo stesso tempo non lo è. Arbusti bassi si perdono all’orizzonte e non se ne vede la fine.

Il pulmino corre in mezzo alla brousse su una strada sterrata semidritta. Intorno tutto è secco, brullo, il fondo un po’ pietroso e un po’ sabbioso. Il colore è rossastro, a tratti pallido, a tratti più intenso. Gli arbusti, spesso spinosi, affiorano bassi da questo suolo che pare essere troppo sterile per qualsiasi altra cosa.

Alcune zone di brousse, per un fenomeno di autocombustione, sono una distesa di fuoco basso che, una volta spento, rende tutto nero.

Se fossi sola avrei paura, perché non ci sono punti di riferimento, è tutto uguale: solo cielo, terra e arbusti. E silenzio, interrotto solo dal passaggio di qualche mezzo.

Ogni tanto si incrociano carretti trainati da asini, camion, bus, e nei tratti di strada, se così si può chiamare, più vicini alle città, si vedono anche persone a piedi o in bicicletta.

L’autogrill della brousse

Ogni volta che si fa una sosta nei pressi dei villaggi, per far rifornimento di carburante, per chiedere informazioni o per qualsiasi altro motivo, il nostro pulmino viene circondato da donne, ma soprattutto bambine e ragazze bellissime, dai vestiti colorati e dai capelli intrecciati.

Si avvicinano ai finestrini per offrire  per pochi CFA i loro prodotti: vassoi tondi in bilico sul capo, su cui sono esposti in bella mostra banane, arance, manghi, papaie, noccioline, barrette di sesamo…altre vendono anche bibite fresche o addirittura ghiaccio, e ancora, pesci secchi, frittelle di miglio dalle svariate sagome e spiedini, il tutto appena cotto laggiù nell’angolo a terra!! A volte c’è la possibilità di comprare anche qualche souvenir! Insomma, è come se fosse l’autogrill delle piccole-grandi strade d’Africa!

La fermata di ogni mezzo pare essere l’occasione per vendere e far su quattro soldi. E così ad ogni sosta siamo circondati da queste faccette che offrono tutto e chiedono qualsiasi cosa.

E se anche non si vende nulla, per i bambini specialmente, è  l’occasione per chiedere ai turisti un cadeau, che può essere qualsiasi cosa.

Può essere cadeau ogni contenitore di plastica dura, anche una bottiglia di plastica vuota, o meglio, il bidon, che tutti si affrettano a chiedere appena scoperto quanti ve ne sono sotto i sedili.

Ma non ce n’è mai abbastanza per accontentare tutti e il bidon regalo fatto a uno, se va bene lascia scontento un altro, se va male è in grado di scatenare una lite.

Ogni tanto, nel percorrere la brousse, incrociamo anche dei bus, per così dire, di linea, stracolmi di gente e bagagli, dentro l’abitacolo e spesso pure sul tetto del bus stesso.

Sono di varie dimensioni e chiaramente datati e, come il nostro pulmino, pure quelli sono belli scassati. Ed anche quei passeggeri sono alle prese con il personale dell’autogrill improvvisato.

Provo ad identificarmi in questa gente, mi chiedo cosa possa significare davvero vivere lì, aspettando un pulmino, o un qualsiasi mezzo ai bordi di una strada, cosa provino, come vivono, cosa pensino di noi… ma non riesco a darmi una risposta.

Loro, dall’altra parte dei finestrini, guardano noi stipati dentro il pulmino, in condizioni non proprio ideali, anzi, visibilmente provati dal viaggio, dal caldo, dalla polvere, a volte affamati e assetati, spesso stremati dalla stanchezza, dalle sedute sui minuscoli sedili che sobbalzano per nulla ammortizzati sullo sterrato della brousse.

E noi da dentro guardiamo loro che sono fuori, apparentemente belli freschi, donne, ragazze e bambini, tutti bellissimi, colorati, sorridenti, vivaci, e pare non patiscano nulla.

È così che risulta evidente quanto i bisogni, anche i più pregnanti, possano diventare relativi.

 

Il mercato

Ogni tanto, nel tentativo di far provvista di cibo, ci fermiamo in qualche villaggio dove vediamo il mercato, o meglio, dove vediamo qualche bancarella. Ma ancora una volta salta all’occhio la differenza con le nostre bancarelle sempre colme di frutta e verdura dai colori più vivi e magari anche più innaturali che si possano trovare.

Qui non è così, le bancarelle espongono quattro melanzane striminzite, due arance o due pomodori prosciugati, piccole banane, piccolissime angurie, cetrioli, poi tuberi, tante radici di zenzero, peperoncini colorati, e olio, di non si sa che cosa, contenuto in sacchetti di plastica chiusi in cima da un nodo.

 

Djenné

Maciniamo chilometri su chilometri di brousse, su una strada che non finisce più.

L’autista sin dalla mattina ci aveva informato che avremmo dovuto percorrere tot chilometri per tot ore, però non si sa come mai le ore passano, i chilometri anche, ma non si arriva...ad un certo punto chiediamo spiegazioni…ma …che domande ci vengono mai in mente! spiegazioni? Puah! …scopriremo che il tempo e lo spazio sono dei concetti molto relativi in Africa, sicuramente non hanno lo stesso significato che gli diamo noi.

È già buio e non siamo ancora arrivati. Mi viene voglia di piantare la tenda in un posto qualunque, nella brousse ma pare che ormai la meta sia davvero vicina. Ci siamo quasi, il pulmino deve ancora attraversare un tratto di fiume con una chiatta di cui per fortuna riusciamo a prendere l’ultima corsa della giornata. Dietro e davanti a noi ci sono anche camioncini, carretti carichi venuti per il mercato del lunedì già dalla sera prima.

Dormiamo sul tetto terrazzato di questa specie di albergo fatto in banko. Due piani di fango secco e paglia così instabile che, la sera, mentre sono sdraiata, posso avvertire il tremolio prodotto dai passi di chiunque cammini, tanto da temere  che passaggio di qualcuno di un po’ più pesante possa far crollare tutti di sotto.

Intorno basse case, sempre tutte di banko dal color rossiccio.

La mattina seguente, come ogni lunedì, lo spiazzo vicino alla moschea si riempie improvvisamente come un formicaio. Gente che, per essere lì a vendere qualsiasi cosa, ha percorso chissà quanta strada, è arrivata da chissà dove, come abbiamo visto anche noi spesso dalla sera precedente, con piccoli o grandi carretti carichi di merce.

L’atmosfera è frenetica e ancora una volta io ho l’impressione di non aver le capacità per assorbire, per cogliere tutto quanto mi circonda. Ci sono troppi stimoli e non so più dove guardare.

Ancora prima di colazione faccio un giretto intorno e vedo delle donne, spesso con un fagotto-bambino legato sulla schiena, indaffaratissime a tirar fuori da grandi sacchi e sistemare la merce in vendita.

Ho con me alcuni dei vestitini per bambini portati dall’Italia e nel regalarli vorrei tentare di comunicare loro qualcosa, ma mi rendo conto che non è possibile poiché non parlano francese. Per di più ci sono un sacco di mamme e non ce n’è neppure per tutte… La situazione mi spiazza, mi rendo conto di non essere preparata e temo di commettere ingiustizie. Mi sento un po’ la classica occidentale che distribuisce aiuti in modo poco razionale.

Un ragazzino traduce per me ed alla fine mi dice che posso darli alla donna più anziana che poi provvederà a distribuirli a chi sa può averne più bisogno. Spero che non sia una megera che ne approfitterà, ma d’altronde mi pare d’intuire che qui non ci siano poi molti livelli di povertà.

Continuo ad aggirarmi tra la folla di questo mercato in cui è in vendita ogni sorta di merce: verdura, pasta, miglio, pesce secco e pesce fresco (con mosche), bestiame, spezie, stoffe, collane, perle, secchi di plastica, di latta, callebasse, stoviglie, vestiti, stoffe …qui pare che tutto si possa vendere. Così uguale ai nostri mercati, ma allo stesso tempo così diverso.

Intanto, intorno al mercato la vita del villaggio continua: in alcuni angoli ci sono donne che si alternano nel battere il miglio per farne farina, altre sono al pozzo, con la fune tirano su l’acqua che poi trasportano dentro grandi secchi di plastica colorata in bilico sul capo, in un altro spiazzo della strada gruppi di bambini studiano il corano con le loro tavolette.

Tutto è impressionatamente coloratissimo. Vorrei essere trasparente e guardarmi intorno per assaporare tutto tranquillamente, invece una moltitudine di bambini e ragazzi mi segue e ciascuno cerca a modo suo di attirare la mia attenzione. Come posso non considerare anche loro?

Uno dei bambini è particolarmente sveglio, parla un buon francese e si offre per farmi da guida. Si chiamai Colado. Mi accompagna ovunque io desideri andare, alle bancarelle dove  mi fermo a comprare fa da traduttore, come con l’anziano venditore di stoffe e con gli altri commercianti che in genere non parlano francese. E poi porta il sacchetto dei miei acquisti. Anche altri bambini ci seguono, ma come faccio a dare retta a tutti?

Alla fine gli regalo una macchinina, due monete e una piccola torcia.

 

I villaggi Dogon

Immaginando l’Africa, non pensavo di poter fare anche del trekking!

Dopo aver attraversato un lungo tratto di brousse, man mano il panorama diventa meno brullo e sempre più verde, compaiono alberi ed alcune verdissime coltivazioni.

Intorno si fanno vedere le prime rocce, annuncio delle falesie a cui ci stiamo avvicinando e, mentre osservo questo che pare un giardino roccioso, mi chiedo da dove arriva l’acqua!

Camminiamo fra le rocce che diventano sempre più alte, vanno dal un colore bruno, che a tratti è più chiaro, al rosso, colore prevalente in tutte le sue sfumature, talvolta tendenti all’ocra o al rosa. Fa caldo, ma non è insopportabile, è secco.

Appena cominciamo il trekking, dal villaggio vicino dei bimbi corrono verso di noi, attirando la nostra attenzione con le loro vocine, ci circondano, due mi prendono per mano e m’accompagnano per un tratto di strada, anche abbastanza lungo. Non so se è davvero così, ma per me è come se mi facessero festa, come fosse un benvenuto.

La scena, che ora mi sorprende, si ripeterà e diventerà abituale nei giorni seguenti, in ogni villaggio che incontreremo lungo il nostro cammino.

Io non ho più nulla da dare a questi piccoli che chiedono un cadeau, una bic, ma pare non essere un problema visto che paiono accontentarsi di prendermi per mano e camminare silenziosamente al mio fianco per un tratto di strada, per poi dopo un pò ritornare per la loro.

Tento di parlare con loro, ma non è facile, conoscono solo qualche parolina francese ed alla fine l’unica cosa che possiamo fare è guardarci negli occhi, osservarci, scrutarci, sorriderci.

Mentre cammino a piedi nudi su questa terra calda arrivo alla fine di una roccia e mi rendo conto d’essere sull’orlo di una gola. Pian piano, scendiamo addentrandoci tra le rocce che si innalzano sopra di noi e ai nostri fianchi.

Percorrendo sentieri in discesa, attraversiamo la falesia dal di dentro, dentro una gola che ci fa sbucare dall’altra parte dove si apre davanti a noi un panorama bellissimo.

Ho ancora negli occhi quell’immagine: le rocce alte a miei fianchi e di fronte a me, che sono ancora in alto, un paesaggio spettacolare.

Le rocce in mezzo alle quali cammino proseguono e costeggiano un’immensa pianura: i tratti più vicini alla falesia sono coltivati e quindi verdissimi, ma allontanandosi il terreno diventa sempre più sabbioso, una distesa di sabbia color aragosta che diventa a poco a poco un mare ondulato di sabbia rossastra.

Percorriamo sentieri a tratti sulle rocce, a tratti sul deserto, attraversando villaggi arroccati sulla falesia o ai suoi piedi.

I villaggi sono dedali di stradine che si snodano tra muretti a secco e di banko. Al di la del muretto, spesso, c’è un cortile, dove una donna pesta il miglio, un’altra stende i panni, cucina o bada a un bimbo.

I bimbi, appena si accorgono della presenza di qualcuno che non è del posto sbucano improvvisamente da dietro un muretto e, come se si passassero la parola, in breve, da uno diventano dieci. Spesso svestiti o con pochi indumenti indosso, a volte impolverati, sporchi di sabbia, ci vengono incontro e porgono la manina con qualche parolina a noi sconosciuta.

Qua e là sono sparse casupole tonde sormontate da tetti conici fatti di paglia: sono i granai dei Dogon che paiono case degli gnomi.

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E poi c’è la Toguna, la casa della parola, vicino alla quale troviamo spesso gli anziani del villaggio nei loro abiti tipici, dall’aspetto austero e fiero malgrado quel cappello di stoffa spessa con due punte che scendono ai lati e che a me fa un po’ sorridere.

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Ci danno la mano e accennano un sorriso o una parola, ma non si concedono troppo.

In alto, nella parete della falesia, si vedono strani fori che paiono finestrelle, e abbozzi di casette, un tempo dimore dei Tellem, vicini di casa dei Dogon dai quali, si dice, sono stati cacciati.  

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Qua e là incontriamo gente, ragazzi che a fine giornata ritornano da scuola dopo aver percorso una decina di chilometri, uomini che pascolano, donne che trasportano pensanti secchi d’acqua sul capo. Una donna ci guarda incuriosita da dietro un muro e da dovunque continuano a sbucare bambini che ci vengono incontro, ci circondano e ci prendono per mano, ci parlano e urlano per salutarci.

La presenza di moltitudini di bambini ci accompagna per tutto il viaggio.

Ricordo con nostalgia le indimenticabili notti sui tetti, tentando di prendere sonno guardando le stelle, ascoltando il silenzio o i rumori non familiari di questo luogo che riempiono le mie orecchi e la mia testa. In lontananza sento suoni di tamburi, ancora voci di bambini, di animali, non so più se sono reali, se li sto sognando, se sono solo rimasti nelle mie orecchie dalla giornata appena trascorsa.

La sveglia all’alba è al suono del canto potentissimo di galli che, da un villaggio all’altro, si chiamano e si rispondono. Sono ancora sdraiata nel mio sacco a pelo e le rocce appena sopra la mia testa con la luce del sole che sta sorgendo sono ancora più rosse. Pian piano si avverte che la vita tutt’intorno si sta risvegliando.

Le giornate che passano sono così immerse in sole potente che pare quasi schiacciarci contro la sabbia, e poi rocce, villaggi e ancora bambini.

Un giorno dietro l’altro saliamo e scendiamo da queste falesie, mentre più in basso, sulla sabbia color rosa aragosta, i muli che tirano il carretto sgangherato carico dei nostri bagagli.

Talvolta anche noi ci ritroviamo a camminare sulla sabbia calda, ad attraversare tratti di deserto per raggiungere la falesia che sta dalla parte opposta a noi.

La falesia rimane sulla sinistra, alta roccia spoglia, rosa-arancio come la sabbia che si distende alla nostra destra, con qualche arbusto che man mano si fa sempre più rado per lasciar posto alle dune.

Attraverso passaggi dentro la roccia ci inerpichiamo sempre più in alto, la percorriamo nel suo interno ed alla fine ci ritroviamo sulla sommità della falesia. Percorsi stretti e scoscesi, scalette e ponti di legno ci permettono di arrivare in cima da dove il panorama è mozzafiato: sotto di noi si distinguono le casette Dogon, poi la sabbia rossastra e, in lontananza, le dune.

La falesia è alta e ampia, la percorriamo per un lungo tratto nella sua lunghezza per poi, ridiscendendo dall’altro lato, ritrovarci in un altro villaggio Dogon arroccato sulle rocce. Riprendiamo il cammino, lasciamo la falesia e siamo sulla sabbia del deserto, facciamo incontri con persone che paiono venire da altri mondi. Ma forse anche loro penseranno lo stesso di noi. Incrociamo un gruppo di donne, in fila una dietro l’altra, dai vestiti colorati, con un grandi secchi, pieni forse solo d’acqua, in bilico sulla testa. Spiccano sulla sabbia, sul cielo e sulla roccia dietro loro. Le vedo allontanarsi e sparire all’orizzonte.

Poco dopo un’altra donna, con due bimbi piccoli che le camminano al fianco, sulla schiena ne ha un terzo. Ma lei stessa è giovanissima. Ha solo una stoffa legata sui fianchi, collane e orecchini colorati e tatuaggi che ci indicano la sua appartenenza al gruppo dei peuls.

La ragazza vuole comunicare qualcosa, ma non riusciamo a capire cosa vuole dirci e la scena ha alla fine un che di comico.

Frughiamo nel nostro zaino qualcosa da mangiare per lei e per i bambini, ma anche la cosa per noi più banale, come una piccola confezione di marmellata, la lascia sconcertata. La scatola stessa non le dice assolutamente nulla sul suo contenuto, allora la apriamo insieme e lei in principio pensa che sia una crema per la pelle. Le facciamo vedere che si mangia, ma la smorfia che le appare in viso fa supporre che non sia di suo gusto.

Ai bambini diamo una matita, ma anche loro non hanno idea di cosa si tratti, allora con fogli alla mano diamo dimostrazione della magia di cui questi oggetti appuntiti sono capaci: lasciare tracce scure sulla carta bianca! Quale fenomeno inspiegabile! Però, penso tra me e me, sono nomadi e…forse non andranno mai a scuola…  

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Ho la macchina fotografica a portata di mano, ma non riesco neppure a chiedergliele una foto perché mi pare di rendere artificiale un momento tanto naturale.

Continua a tentare di dire, di spiegare qualcosa che non riusciamo a capire, penso che, alla fine, forse anche questa donna è stata per così dire contaminata dal turismo e probabilmente vuole solo una maglietta! Spero che non sia così, sta tanto bene così com’è, con il suo drappo di stoffa colorata e i sui tatuaggi. Comincerà a risentire anche lei di bisogni indotti?

In ogni caso usciamo da questo incontro impressionate ed anche un po’ divertite. Mi chiedo come lei lo ha vissuto…non mi pareva troppo colpita dall’averci incontrato, quasi le succedesse frequentemente Rifletto sul fatto che mi è parsa così intraprendente nei nostri confronti, che è stato difficile comunicare, ma alla fine facile entrare in relazione.

Ho come la sensazione che sia stata lei a gestire in certo qual modo l’incontro, mentre noi l’abbiamo lasciata fare tentando di assecondare le sue richieste.

Invece noi siamo rimaste affascinate, colpite dall’opportunità avuta di esser entrate in relazione con una persona così diversa da noi, così lontana dal nostro mondo, bella, solare e forse superiore alle nostre piccole o grandi schiavitù.

Filosofeggiando un po’, forse questo è il segreto: per aver tutto, non bisogna avere nulla.  

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Un regalo inaspettato

I miei sandali sono stati fortemente provati dai giorni di cammino fra i Dogon, la pelle e la gomma della suola hanno evidentemente risentito del caldo e del secco, cosi presentano delle crepe. Alla fine, prima di partire dall’ultimo villaggio Dogon, decido di abbandonarli, di lasciarli al campement. D’altronde non ha senso caricarsi di un peso inutile, mi farò bastare le infradito di plastica e i massicci scarponcini e, visto il posto, ce n’è d’avanzo! D’altronde, che dire…qui in bisogni sono davvero relativi.

Però qualcuno pensa che io li abbia dimenticati e chiede ad alta voce di chi sono, chi li abbia scordati.

Daniel, un diciottenne che il giorno precedente ci aveva accompagnati per quasi tutto il giorno, scherzando dice che sono suoi, ed io vedendo la scena lo assecondo, dico che è vero, che i sandali sono suoi. A questa mia affermazione lui mi guarda incredulo con gli occhi sgranati, pare non riesca a crederci. Gli faccio vedere che però sono rotti, ma forse riuscirà ad aggiustarli in qualche modo.

In Mali si ricicla e si riparata mille volte, prima di dichiarare inutilizzabile e gettar via, così le cose che a noi non servono più, per loro, non solo servono ancora, ma sono addirittura preziose a vedere lo stupore che ha colto Daniel.

 

Al pozzo

A fine giornata arriviamo ogni volta sempre più sporchi, i nostri vestiti cambiano colore e prendono tinte vicine a quelle della sabbia.

Siamo pieni di sabbia ovunque, ma io non mi sento poi così sporca, perché anche questo diventa un concetto relativo in questa terra.

Arrivati alla fine della giornata spesso cerchiamo il pozzo per lavare le due cose che, asciugando nella notte, potremo indossare di nuovo la mattina successiva.

Sin dalla prima volta mi rendo conto che i nostri lavaggi al pozzo possono rappresentare un’opportunità di comunicare con le donne.

Tante sono lì per fare anche loro il bucato, poi, finito di lavare, stendono la biancheria sulle rocce calde e attendono che asciughi, mentre fanno quattro chiacchiere.

Ci osservano in silenzio, qualcuna chiede il sapone in regalo, così ne taglio un pezzo del mio, perché una parte la devo tenere per il resto del viaggio.

Come sempre sono molto colorate, eleganti anche in questa semplice e umile attività, e spesso con un bambino fagotto legato sulla schiena.

Questi toubab al pozzo sono l’attrazione del giorno e quindi…come dire…mi sento un po’ osservata e mi chiedo a cosa pensano.

Serve un secchio e per fortuna riusciamo sempre a trovarne uno nella casa dove dormiamo,. Capisco che bisogna mettersi in coda e aspettare il proprio turno per prendere l’acqua al pozzo con la pompa o con la corda, calando fino in fondo un secchio di gomma.

Una volta un paio di donne attivano la pompa per me e mi riempiono il secchio, forse hanno intuito che avrei avuto difficoltà ad attivare quel marchingegno.

Si insapona tutto, poi si riempie un altro secchio d’acqua e si sciacqua facendo attenzione a non sprecarla. Non avrei il coraggio di prenderne un altro.

Mi piace questo momento della giornata perché mi sembra di entrare nella loro quotidianità e perché, pur venendo da mondi diversi, allo stesso modo ci dedichiamo ad un’attività che in qualche modo accomunarci un po’, che ci mette sullo stesso piano e ci rende un po’ più uguali.

Anche se poi non si riesce a comunicare più di tanto, senza tante parole ci si scruta reciprocamente: loro sono al centro della mia attenzione perché cerco di capire come comportarmi, quali sono le regole del pozzo e noi, credo, siamo al centro della loro attenzione perché chissà, forse non si immaginano che anche noi ci dedichiamo a queste attività.

 

Timbuctu

Ancora una volta ci ritroviamo a percorrere chilometri e chilometri di brousse; destinazione Timbouctou.

Ogni tanto la jeep si insabbia, allora è necessario scendere, caricare l’auto sul lato non insabbiato mentre gli autisti sono al volante. Poi si riparte… e ancora chilometri su chilometri di brousse.

L’autista ha il taguelmoust di Tuareg, ma non so se lo è davvero. Corre come un matto sulla pista che non è neppure troppo chiara, ma lui pare sicuro.

Un po’ il timore mi prende quando vedo una jeep ribaltata, abbandonata a lato.

Poi ancora brousse, arbusti, sabbia, pista di cui non si vede la fine. 

A volte, qua e là, compaiono in questo arido panorama, figure umane che camminano al fianco di un asinello o alla guida i piccole carovane di asinelli carichi di lastre di sale.

Pare incredibile che queste persone riescano a restare, magari per giorni e giorni, in solitudine e sotto il sole cocente.

Ogni tanto ci è concessa una sosta, soprattutto per far riposare le nostre ossa provate dai sobbalzi dell’auto i cui ammortizzatori funzionano ormai più poco.

E si riparte un’altra volta.

Anche se si muore di caldo, si dall’inizio del viaggio ci rendiamo conto che conviene non aprire i finestrini per non far entrare la polvere, ma alla fine, nonostante questa precauzione, non solo l’auto è una serra, ma è anche colma di fine sabbia rossiccia.

Così pian piano, l’abitacolo dell’auto diventa tale quale fuori, o forse peggio perché, una volta entrata, la polvere non esce più.

Velocemente anche noi, come gli autisti, cerchiamo di riparaci dalla sabbia, si tenta di coprirsi come si può con foulard, cappelli, occhiali e fazzoletti davanti al viso, ma non c’è niente da fare: alla fine diventiamo dello stesso colore della sabbia. Si attacca alla pelle in un modo così uniforme da sembrare abbronzatura, ma un po’ innaturale visto assomigliamo a delle maschere. Ed anche gli abiti hanno cambiato colore.

Manca poco a Timbouctu, dobbiamo ancora  attraversare su una chiatta un tratto del fiume Niger e poi ci siamo. La presenza di tanta acqua dopo tanta terra asciutta è rassicurante, è come se perfino gli occhi ne traessero beneficio.

Mi colpisce questo passaggio improvviso dall’asciutto del deserto, alle atmosfere e ai panorami rigogliosi che costeggiano il Niger.

Anche la traversata sulla chiatta è un momento pieno di colori, di gente, reso ancor più bello dai colori del tramonto.

Ci sono famiglie, donne, uomini e bambini e, poco lontano da me, un tuareg vestito tutto di nero, dall’aria severa e con una grande spada legata a un fianco. Mi piacerebbe parlargli, ma sta sulle sue. Tento di comunicare con qualche cenno a cui lui risponde facendomi solo intendere che mi ha notato, non concede nulla di più.

Più avanti due donne con un bimbo piccolo, avrà forse un anno, indossano vestiti bellissimi e appariscenti monili. Riescono a spiegarmi che stanno andando a un matrimonio e, alla fine, le distanze fra noi si riducono un po’, al punto da lasciarmi prendere in braccio il piccolo che però pare un po’ intimorito.

Finita la traversata si rimonta sulle jeep, mancano ancora pochi chilometri e siamo alla mitica Timbuctou. Sin dall’inizio si nota che è una grande città, quando io invece mi aspettavo un villaggio ormai sperduto nel deserto. Molto meno rigogliosa del passato, delle cui glorie ancora gode, è comunque rimasta la più grande città del nord del paese, ma la sabbia pian piano avanza e la rende parte del deserto.

Lato negativo del luogo sono le vere e proprie aggressioni commerciali subite da parte dei tuareg, o presunti tali, visto che essere tuareg pare essere un affare. Sin dalla sera stessa ci invitano insistentemente a comprare, a contrattare e non si riesce facilmente a toglierseli di torno per poter gustare tutti gli altri aspetti della città.

Le strade sono di sabbia e ventose. Ho ancora in mente le figure, uomini e donne che camminano per le vie avvolti in vestiti leggeri svolazzanti alle folate di vento che si sente passare in mezzo alle case basse a ricordarci che dopotutto siamo in mezzo al deserto, poco lontano, appena fuori dalla città.

Nel pomeriggio, a piedi, raggiungiamo le prime dune. Una moltitudine di sacchetti di plastica sono disseminati sulla sabbia ai margini di Timbouctou e, oltre ai tanti sacchetti, tante baracche vicino alle quali scorgiamo i movimenti delle persone che vi abitano mentre dei bambini giocano a far capriole buttandosi dalla cima di una duna.

Qui i bimbi non sono così intraprendenti come altrove, non ci vengono incontro, sono intimoriti dalla nostra presenza, a momenti pare anzi che abbiano proprio paura. Non è facile avvicinarsi, con alcuni è impossibile. Alla fine una mamma chiama l’unica bimba che ha avuto il coraggio di farlo.

È praticamente impossibile muoversi senza accompagnatori indigeni e così la passeggiata è in compagnia di due adolescenti. Uno dei due mi racconta di sé, che è originario della Costa d’Avorio e che si è trasferito in Mali con la famiglia, sta studiando alle scuole superiori ma non sa ancora cosa farà da grande. Gli chiedo della spazzatura che circonda la città e lui  mi spiega che non ci sono i mezzi per raccoglierla, per mantenere l’ambiente pulito. Penso che in effetti non ce n’è neppure poi molta, rispetto a quella che produciamo noi, perché qui non ci sono né così tanti prodotti, né così tanti involucri che li racchiudono, però evidentemente non c’è nessun tipo di organizzazione finalizzata alla raccolta della spazzatura.

È di nuovo il tramonto, il sole scende dietro l’orizzonte, le dune e tutto intorno hanno un colore rosato e questo panorama ci strappa una foto.

 

Navigazione e vita sul Niger

Partiamo da Timbouctu per ritorniamo a sud del Mali navigando sul Niger.

Lasciamo il deserto, luogo arido, che rende difficile la sopravvivenza di qualsiasi essere vivente per trovarci all’improvviso immersi fra la rigogliosa vita che si concentra intorno a questo immenso corso d’acqua.

Le nostre giornate di navigazione iniziano quando è ancora buio e fa quasi freddo. Qualcuno riesce a vedere ancora qualche stella cadente, mentre pian piano si fa giorno, la luce e le attività tornano ad essere più intense.

L’atmosfera tutt’intorno diviene luminosissima, resa tale dai riflessi del fiume che riempie di bagliori e luci. Il silenzio prevale ed è interrotto solo dal rumore della prua della pinassa che taglia l’acqua e da qualche voce in lontananza.

Pinasse di varie dimensioni vanno e vengono, dalla più minuscola fatta di una sottile striscia di legno, a quelle un po’ più grandi dalle fantastiche vele, talvolta rappezzate a più colori e piene di vento che fanno un baffo agli spinnaker del Mediterraneo.

Ci sono pescatori solitari appollaiati sulla punta della loro pinassa che aspettano di tirare su un pesce guardando pacifici l’ambiente che li circonda. E non si sa se l’attività principale sia pescare o, influenzati dal calmo fluire del fiume, godersi questo dolce far niente, l’inerzia, attività peraltro  abbastanza frequente in Africa.

Altri sono invece più indaffarati, trafficano con le reti che tirate su dall’acqua sono da sistemare, caricano, scaricano o, con una lunga pertica che tocca il fondo, spingono l’imbarcazione.

Alcune pinasse, non adibite alla pesca, sono più grandi e trasportano chiunque e qualunque cosa, da esseri umani, alla pecora che sperimenta l’ebbrezza della navigazione, fino al motorino che forse è più utile all’altra sponda.

Fra queste, alcune sono davvero gigantesche e stracariche di gente, di fagotti pieni di chissà cosa, di grandi sacchi forse colmi di miglio. Caricate sia dentro lo scafo, sia sulla tettoia che le ricopre, danno l’impressione che da un momento all’altro possano sprofondare: la linea di galleggiamento coincide praticamente con il bordo della carena.

Sulle rive si scorgono le basse case in fango, qualcuno che pascola gli animali e, nelle vicinanze dei villaggi, talvolta si vedono gruppi di donne intente a lavare se stesse, i figlioletti e i panni che indossano poi subito dopo. Questi momenti, forse per loro occasione di socializzazione, sono un tripudio di colori e di vociare di bimbi che vengono innaffiati dell’acqua dl Niger.

Ogni tanto il nostro pinassiere attracca a riva per una sosta, sempre troppo breve.

Ci fermiamo in alcuni villaggi adagiati sulle sponde del fiume e quasi ogni volta la scena si ripete: appena la pinassa si accosta a riva, per il villaggio sembriamo diventare l’attrazione del giorno, si avvicinano persone, ma soprattutto bambini, tantissimi bambini colorati, sorridenti, curiosi, vocianti.

Inoltrandomi fra le strette viuzze dei villaggi, che col passare dei giorni, scendendo a sud, diventano anche ventose, spesso mi ritrovo ad essere inseguita da questa miriade di bimbi.

Fanno festa, battono le mani a ritmi diversi e armoniosi che creano musica insieme alle loro voci e, nel farlo, muovono i loro corpi.

Si avvicina la sera e il momento di attraccare per cercare un luogo dove montare la tenda per la notte. Al tramonto tutto pare farsi ancor più lento, ma le attività non si fermano neppure di notte.

Mi guardo attorno e non capisco come mai la terra è secca anche qui, nonostante la prorompente ricchezza d’acqua poco lontana.

È un’altra volta il tramonto…all’orizzonte vedo il proseguire dello scorrere del fiume e col calare del sole i colori si intensificano, tendenti al rosso, pian piano divengono sempre più bruni, finché il buio arriva improvviso.

Ma sorprendentemente la vita notturna sulle rive del fiume continua, è più lenta, ma continua.

Dentro la mia tenda avverto arrivare da fuori rumori, suoni, a volte del tutto irriconoscibili, altre volte più legati all’uomo…scene incredibili come… il passaggio di una carovana in viaggio, in parte per fiume, in parte via terra..forse hanno scelto la notte perché è più fresco. Vorrei stare sveglia, ma alla fine il sonno sopraggiunge… poi mi sveglio di nuovo, altri momenti sono in dormiveglia…. Ma una notte non resisto, devo vedere a cosa corrisponde ciò che sento…è anche musica, metto la testa fuori dalla tenda e una scena incredibile si presenta ai miei occhi: un pinassiere spinge una stretta pinassa con una lunga pertica accompagnando i movimenti al tempo di una musica proveniente da un registratore che si alterna al suo stesso canto. Poco lontano altri uomini governano pinasse altrettanto piccole e fanno da contro canto al primo.

Mi pare un sogno: il rumore della pertica in acqua, la musica del registratore, il canto alternato di questi uomini, il fiume, il buio, la luna…. purtroppo tutto finisce troppo presto.

 

Strade polverose di Mopti, Bamako, tanti odori, gente, smog, colori, rumori

Mopti, strade polverose, sterrate e anche quando sono asfaltate restano comunque molto polverose. Tutto intorno è tendente sempre al rosso, colore che pare riflettersi anche su ciò che rosso non è.

Il Niger bagna questo grande paesone e qui le pinasse arrivano al grande porto fluviale cariche di lastre di sale: vengono scaricate, tagliate, vendute e poi ricaricate su altri mezzi per essere trasportate altrove.

La zona del porto purtroppo è anche una discarica a cielo aperto ed allo stesso tempo uno spazio di gioco per i bambini che la percorrono incuranti.

Le rive del fiume non sono solo un attracco per le pinasse, sono anche un luogo di vendita di qualsiasi cosa, praticamente un mercato, sono uno spazio dove stendere ad asciugare i panni.

È l’ora della preghiera e c’è fermento vicino alla moschea che in breve vede le sue entrate riempirsi di uomini.

 

Bamako

E per finire, ritorniamo nel traffico disordinato di Bamako

L’autista del pulmino non è di Bamako e non conosce la strada che porta all’aereoporto, credo che percorra le vie della capitale un po’ a casaccio, affidandosi al suo intuito che però, haimé, non è sufficiente. Non fa caso neppure ai pochi cartelli che si intravedono a qualche incrocio e che indicano la direzione visto che, anzi, prende la direzione opposta provocando la nostra sollevazione.

Intuiamo che l’altro ragazzo che per quasi tutto il viaggio è stato con noi (e che abbiamo chiamato uomo mosca per gli occhiali neri a fascia sempre sul naso) conosce forse un po’ di più la strada, ma se ne sta in fondo al pulmino in silenzio. Che dire? Queste sono solo alcune delle contraddizioni dell’Africa.

Il Mali, non so ancora bene perché, ma mi ha un po’ stregato. Sono tornata con la sensazione di aver lasciato in sospeso qualcosa, come se dovessi tornare in quella terra  dove ho da concludere qualcosa   Magari non necessariamente in Mali, ma comunque in terra d’Africa.

 

Bambini del Mali, sorrisi e colori.

Sorridenti, lasciano trasparire fierezza dai loro visi, talvolta sono cupi, seri o forse sono solo tristi.

Denti e occhietti bianchi risaltano sulla pelle color cioccolata, nasino sporco, mosche sul viso e pance gonfie con ombelichi troppo prominenti. Ma quanti sorrisi! ….cadeau…bic…comment tu t’appelle?

Che accoglienza! Ti corrono incontro, salutano con la manina, te la porgono per salutarti. Altri ti prendono per mano e ti accompagnano fin là, poi però bisogna tornare indietro...ciao, ciao!

Mezzi nudi o con vestiti sporchi, impolverati, stracciati, ma sempre dai vivi colori.

Piedi nudi o infradito, sandaletti di plastica, a volte spaiati, a volte a proteggere un solo piede, altre volte sono due sinistre, certo saranno scomodi, ma almeno tutti e due i piedini sono protetti.

Treccine minuscole compongono disegni sulle le testoline delle bimbe e terminano in ciuffi su un lato della fronte, sulla nuca o sul davanti. Qualche testolina è fasciata in foulard colorati, e poi orecchini, collanine e braccialetti di perline colorate. Bimbi-zainetto: sui fianchi di bimbe ancora piccole si intravedono piedini che spuntano da fagotti che tengono sulla schiena. Fasciati in un drappo di stoffa colorata legato sul davanti delle sorelline poco più grandi, sonnecchiano o con gli occhi sgranati osservano il mondo. Altri, troppo grandi per stare dentro al drappo di stoffa e troppo piccoli per scorrazzare per le vie come gli altri…a questa età ci si stanca ancora in fretta di stare in piedi, e così, ecco la soluzione: a cavalluccio dei più grandi!

Si va a scuola anche da queste parti! la cartella? una sacca di tela sfilacciata a tracolla

forse piena solo di un quaderno e una matita. Curiosità negli occhi che scrutano e indicano quali cose incredibili ci saranno invece dentro i nostri zaini. Salutano con la manina i visetti impolverati, tante vocine che dicono chissà cosa o ripetono ogni nostro gesto quasi fossero scimmiette. Ridono forte. È facile farli divertire e giocare con loro. Bel gioco spingere con un bastoncino un copertone di bici o un cerchio di legno, correre e rotolarsi nella sabbia, anche se ci sono tanti sacchetti di plastica e sporcizia. Piace mettersi in posa per farsi fotografare, anche il più restio rimane coinvolto da questo gioco: bisogna stare tutti dentro l’occhio di quello strano apparecchio, si sente lo scatto e poi che divertimento rivedere sé e gli amici….ci sono anch’io, c’è anche lui e l’altro.

Avrei voluto restare di più a giocare, farmi piccola come loro e avere l’illusione di potermi confondere, non più toubab.

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Valeria

vali.c@inwind.it 

 

 

 

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