Libia
– I tesori del deserto
Diario
di Viaggio 2005
Ogni viaggio è un pezzetto della nostra anima che ricomponiamo, alla ricerca dell’ultimo tassello che ci sveli il mistero della nostra esistenza. In ogni viaggio un sottile filo guida i nostri passi, si può partire con l’intimo desiderio di una meta da raggiungere, o ci si può aspettare di essere travolti lungo il cammino, con la semplice speranza di non rimanere delusi. Ad ogni viaggio cresce la nostra ansia di scoprire nuove meraviglie, di lasciarsi incantare da un cielo diverso in ogni luogo eppure sempre lo stesso, lungo sentieri polverosi percorsi infinite volte, dentro antiche rovine mute di un clamore passato, persi in una strada del mondo affollata di vita. E per quanti viaggi abbiate intrapreso, per quanti luoghi visitato, nulla vi può preparare a questa esperienza, perché il viaggio in Libia può divenire il percorso per la ricerca del significato più profondo del proprio io. Soli sulla vetta di un monte, immersi nell’assordante silenzio d’un infinito accecante, sferzati dal vento come spighe dorate in un campo di grano maturo, mentre il lento fluire del tempo muta la forma della vita spostando un granello di sabbia dopo l’altro, in un mare che di giorno risplende al sole e al tramonto si accende di tenui sfumature rosa fino a scomparire nel buio più profondo, lasciando negli occhi solo un ricordo di luce....Mai come in questo viaggio mi riesce difficile dipanare quel filo conduttore che segna il ricordo delle emozioni vissute, tante sono le cose che ancora oggi permeano la mente di vivide immagini in un indissolubile intreccio….I maestosi resti archeologici lasciati in eredità dai greci, dai romani, dai bizantini, un’autentica epopea storica da vivere d’un fiato attraverso tutti i luoghi di cui è punteggiata la costa mediterranea, senza dubbio i più affascinanti tra quelli che ho avuto modo di visitare nel Nord Africa….Le stupende atmosfere del deserto, in un continuo mutare dall'alba al tramonto di paesaggi, luci, colori….L’arte rupestre, misteriosa traccia di quei popoli che hanno abitato in epoche remote il Jebel Acacus, testimone muta dei cambiamenti climatici che hanno trasformato un’immensa foresta equatoriale, percorsa da grandi fiumi e popolata da una miriade di animali, in un arido deserto….La scoperta di un popolo ospitale che ci ha sempre manifestato, in ogni luogo dove ci siamo recati, il piacere di poterci incontrare….E tra tutto questo, il sentimento più forte, quella sensazione di contatto con la parte più intima di noi stessi che solo la solitudine del deserto ti sa regalare….Ho visto lo stupore tramutarsi in gioia, la gioia farsi lacrima, la lacrima brillare un solo istante prima di morire in un caldo abbraccio….Ho visto occhi serrati al mondo spalancarsi sull'infinitesimo, alla ricerca, dentro le oscurità dell'anima, della vera ragione del nostro esistere….”Gli uomini viaggiano per stupirsi degli oceani e dei monti, dei fiumi e delle stelle, e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi” ( Sant’Agostino ).
17 Maggio 2005
Genova
- Roma - Bengasi – Susa
Il viaggio ha inizio di buon mattino con il volo di trasferimento che da Genova mi porta a Roma, dove alle 13.00 è previsto il volo di linea della Libyan Aerlines, la compagnia di bandiera nazionale, per Bengasi. Il nostro programma, organizzato dal tour operator di Roma Time-Out, prevede la visita della Cirenaica, con i siti archeologici di Cirene, Apollonia, Qasr Libia e Tolmeita, quindi il trasferimento con volo interno a Tripoli per visitare il bellissimo sito di Leptis Magna. Successivamente di nuovo un volo interno verso la città di Sebha alle porte del Sahara, da dove ha inizio il tour in 4x4 che ci porterà nel Jebel Acacus, ad ammirare i paesaggi e le antiche incisioni rupestri custodite nel deserto. Sulla strada del ritorno visita dell'Erg Ubari e dei laghi della zona, quindi il ritorno a Tripoli, sempre in aereo, per visitare la città ed il sito di Sabratha prima del nostro rientro in Italia. Arriviamo a Bengasi in orario atterrando su quella che mi sembra essere l'unica pista del piccolo aeroporto. Su un lato fanno bella mostra di se vecchie carcasse di aerei militari recitante da piccoli muri intonacati di fresco, non si capisce bene se come forma di sicurezza o di abbellimento. Non c'è traccia di altri aerei oltre al nostro e a piccoli cargo di compagnie africane. Siamo alla fine del periodo di maggior afflusso turistico, ora che la Libia ha ufficialmente riaperto al turismo internazionale, ma come avremo modo di scoprire più avanti questo si rileverà un gran bel vantaggio perché ci permetterà di girare tranquillamente nel paese senza incontrare praticamente altri gruppi organizzati. E di godere inoltre di un periodo climatico stupendo, con temperature miti e cielo turchese lungo la costa mediterranea, dove normalmente in inverno e in primavera non è difficile incontrare giornate piovose, con un clima asciutto nel deserto, dove le temperature prossime ai 40° di giorno scenderanno gradatamente di sera senza provocare però il temuto sbalzo termico, e senza infine dover fare i conti con il famigerato ghibli, che quando spazza l’aria con i suoi venti può procurare più di un problema. In sostanza, vista l'esperienza diretta, è un periodo che mi sento di consigliare vivamente. All'arrivo, ore 15.00 locali, un'ora avanti rispetto all'Italia, la stessa quando da noi c'è l'ora legale, facciamo conoscenza con la nostra guida locale Ahmed, un ragazzo molto simpatico e gioviale dalla parlantina sciolta e dall’italiano fluente, che ci aiuta subito nel disbrigo delle formalità doganali e che ci accompagnerà per tutta la durata del viaggio. Insieme a lui c’è un altro ragazzo, praticamente il suo alter ego dato che mastica poco d’italiano e non è un gran chiacchierone, ma che soprattutto, come scopriremo in seguito, non è una guida bensì un poliziotto incaricato della nostra sicurezza. Più probabilmente a mio avviso, vista l'assenza di pericoli evidenti, per controllare che qualcuno del gruppo non commetta sciocchezze infilandosi in qualche guaio, come quei turisti tedeschi sorpresi anni fa alla partenza con il calco di un'incisione rupestre come souvenir !! (ma dico io ) Da allora non è più consentito girare da soli per il paese e anche in caso di viaggiatori indipendenti, al di fuori dei tour organizzati, oltre al visto è richiesto l'invito di un'agenzia turistica locale che faccia da garante. Appena fuori dall'aeroporto approfittiamo della presenza di un ufficio cambi per acquistare un po' di moneta locale, il dinaro ( inutile portarsi dei dollari visto che ormai l'euro è normalmente accettato anche qui ). E' difficile dire quanto convenga cambiare, in Libia attualmente non esistono circuiti internazionali per prelevare con i bancomat e le Carte di Credito sono ancora pressoché sconosciute, le spese più frequenti le incontrerete per approvvigionarvi di acqua da bere, circa 5 dinari al litro nei bar un po’ meno nei piccoli market, ( per il deserto normalmente viene fornita dal tour organizzatore ) e per poter usare la macchina fotografica o la telecamera, 5/10 dinari, nei siti archeologi e nei musei, ma considerate anche, come è stato per noi, che facilmente il vostro accompagnatore locale sarà in grado di cambiarvi della moneta allo stesso cambio praticato ufficialmente. Ricordate infine che in Italia il dinaro vale praticamente come i soldi del monopoli e che dovrete necessariamente riconvertirlo prima della partenza, per sicurezza tenete la ricevuta di cambio perché potrebbero richiedervela. Finalmente saliamo sul pulmann e partiamo alla volta di Susa, una piccola città fondata nel 1897 da un gruppo di profughi mussulmani in fuga da Creta, che sarà la nostra base per l'esplorazione della Cirenaica. Lasciata Bengasi ci inoltriamo nel Jebel Akhdar, zona delle Montagne Verdi, la catena montuosa più alta della Libia settentrionale, la quale dopo una prima parte arida, ad onor del nome, inizia a presentarsi con un susseguirsi di campi coltivati a grano, piantagioni di olivi, viti, mandorli e grandi appezzamenti di campi verdi dove pascolano tranquilli greggi di pecore, capre e perfino dromedari. Nei pressi della cittadina di Al-Bayda la strada inizia a salire. Siamo in vista del fiume Wadi al-Kuf che in questa zona crea una serie ininterrotta di belle gole e ripidi canyon, teatro negli anni a cavallo tra il 1920 e il 1930 di accanite battaglie tra i patrioti libici, guidati dal leggendario Omar al-Mukhtar, e gli occupanti italiani del maresciallo Badoglio. Superato un moderno ponte, costruito su un affluente del Wadi al-Kuf, la strada verso Susa inizia a scendere aprendosi in una bella valle con magnifiche vedute della costa. Sono ormai le 19.30 quando arriviamo all' El Manara, un moderno e confortevole albergo situato proprio nei pressi dell'ingresso del sito archeologico di Apollonia.
18 Maggio 2005 Cirene – Apollonia
Oggi dedicheremo la giornata alla
visita della Cirenaica, iniziando dal più importante sito archeologico della
zona, l'antica città greca di Cirene.
Cenni
Storici
Il mito sulla fondazione della città, come quasi tutti i miti dell'epoca, vede gli dei ed i comuni mortali avvinti e travolti dalle stesse umane passioni. In questo, si narra del rapimento d'amore di cui rimane soggiogato il dio Apollo allorché il suo sguardo ha modo di posarsi sulla leggiadra figura di Cirene, una ninfa amante della caccia, assorbita in quel momento in un'accanita lotta con un leone. Apollo incantato dalla bellezza e dalla forza della ninfa la ghermisce, trascinandola in volo sul suo carro dorato. Nel punto esatto in cui i due amanti atterrano, sulle coste libiche appunto, verrà successivamente edificata l'antica colonia greca. Più prosaicamente la storia racconta che la fondazione della città si deve a un piccolo gruppo di cittadini fuoriusciti da Thera, l'odierna Santorini, che spinti da motivi politici e demografici abbandonarono la loro isola nativa per trovare nuove terre fertili da colonizzare. La scelta del luogo, già abitato da tribù locali, si rivelò ben presto felice e dall'anno della fondazione, nel 631 a.C., la città cresce e si sviluppa rapidamente tanto da attirare cosi altri coloni dalla madre patria. Cirene raggiunge il suo massimo splendore politico e culturale nel IV sec. a.C., quando insieme ad altre quattro colonie della zona da origine alla famosa federazione greca conosciuta come Pentapoli, di cui assume il ruolo guida. Nel 331 a.C. anche la Pentapoli greca in terra libica rimane soggiogata sotto l'espansione dell'impero di Alessandro Magno perdendo cosi il suo status indipendente, che riacquisterà solo per un breve periodo, alla caduta di quest'ultimo, prima di passare sotto la dominazione dei faraoni egiziani della dinastia dei Tolomei e dei romani in seguito, i quali la ricevono in eredità nel 96 a.C. dal faraone Tolomeo Apione insieme a tutta la Cirenaica. La storia della città, divenuta nel frattempo un importante centro del grande impero romano pur riuscendo a mantenere intatta la sua originalità ellenica, assurge nuovamente alle cronache in seguito alla furiosa rivolta della comunità ebraica che tra il 115 e il 117 a.C. la distrugge mettendola a ferro e fuoco. Ricostruita per volere dell'imperatore Adriano la città assume una connotazione più marcatamente romana, anche se il periodo di rinnovata vitalità ha vita breve perché il declino istituzionale ed economico di cui cade vittima l'impero finirà per travolgere anche Cirene stessa, già duramente provata nel breve volgere di un secolo da due devastanti terremoti ( 262 e 365 d .C. ). Durante la successiva occupazione bizantina Cirene diviene un centro cristiano di minore importanza, perdendo cosi il suo primato regionale a favore della vicina città di Tolmeita, prima di cadere nel 693 d.C. sotto la spinta dell'avanzata islamica in Nord Africa.
Lungo la strada che dalla costa risale dolcemente la
valle si incontrano i resti delle antiche necropoli greche scavate direttamente
nella roccia e riutilizzate in seguito anche in epoca romana e bizantina. Di
certune rimangono tracce distinte nella specifica peculiarità della moda e dei
costumi del periodo in cui furono realizzate, alcune sembrano rappresentare dei
templi in miniatura ornati con piccole colonne scolpite e rappresentazioni di
divinità, altre sono caratterizzate da angusti locali attigui privi di decoro,
altre infine sono semplici sarcofagi ricavati direttamente sul luogo della
sepoltura. Prima di entrare nel sito archeologico ci fermiamo ad ammirare
dall'alto il tempio di Apollo, edificato come racconta la leggenda nel
punto esatto in cui il dio e la ninfa approdarono in terra di Libia. E' una
giornata limpida con un cielo terso e turchese come solo queste latitudine sanno
rendere, la temperatura è già discretamente alta, ma grazie all'aria secca ed
asciutta quasi non ci si fa caso. Appena varcato l'ingresso del sito
archeologico, la cui visita richiede non meno di 3 h circa, si incontra il
grande Gymnasium costruito dai greci nel II sec. a.C. ed utilizzato come
principale centro sportivo della città. La grande palestra centrale all'aperto
era circondata su ogni lato da una fila di colonne doriche che delimitavano un
corridoio coperto e chiuso su un lato da un alto muro. In epoca romana l'area fu
trasformata in un Foro dedicato alle discussioni politiche ed
all'amministrazione della giustizia con annesso un tribunale. Il maestoso
ingresso, ben visibile ancora oggi, era formato da quattro colonne doriche a
sorreggere l'architrave del tetto. Subito dietro il Gymnasium si trova un
piccolo Odeon dedicato al dio Apollo, costruito con granito di Assuan e
marmo di Baros in Grecia, utilizzato nel periodo ellenico per le
rappresentazioni teatrali. A fianco una pista di atletica, lo Xystos,
sfruttata dagli atleti per i loro allenamenti quotidiani. Sul lato
sud-occidentale del Gymnasium si trova invece la Skyrota, la via
principale della città di Cirene, ornata in un primo tratto denominato Portico
delle Erme da grandi statue raffiguranti le Cariatidi, immagini dei
semidei Ercole ed Ermete. Successivamente i romani prolungarono la strada fino a
raggiungere l'Agora, trasformandola cosi in un viale cerimoniale. Lungo la
Skyrota si trovano dapprima un altro piccolo Teatro costruito per gli spettacoli
musicali e successivamente l'imponente casa di Claudio Tiberio Giasone Magno,
personaggio influente e gran sacerdote del dio Apollo, risalente al II sec. d.C.
L'ingresso della casa era costituito da un grande cortile aperto che si apriva
direttamente sulla via principale. Utilizzato come empluvium per la raccolta
dell'acqua piovana era decorato con mosaici raffiguranti tra l'altro Arianna e
Dionisio ( attualmente asportati per una migliore conservazione). Sull'ingresso
si aprivano varie stanze interne tra cui una sala da pranzo estiva con il
pavimento in marmo, da cui l'ospite ed i suoi commensali potevano godere di una
magnifica veduta sulla vallata mentre banchettavano. Accanto a questa sala si
trova la stanza denominata della Quattro Stagioni, cosi denominata per via del
grande mosaico sul pavimento in cui una
fanciulla viene rappresentata ai quattro angoli abbigliata con i costumi
tipici delle stagioni dell'anno. Tra i resti archeologici, qui come in altri
punti del sito, si trovano le stilizzazioni scolpite di un'antica pianta oggi
scomparsa, il silphium, simile all'odierno finocchio selvatico che
all’epoca nasceva spontanea nella zona. Molto ricercata ed apprezzata
nell’antichità per
le sue virtù curative, speziali e afrodisiache, contribuì in maniera
determinate alle fortune di Cirene. Proseguendo lungo la Skyrota arriviamo all'Agorà,
la grande piazza pubblica vero fulcro della vita cittadina. Circondata da templi
ed altri edifici adibiti a funzioni civili poteva trasformarsi da semplice
mercato a luogo di ritrovo per assistere a cerimonie religiose e politiche.
Sulla destra si trova un Monumento Navale, restaurato di recente,
edificato dai Tolomei nel III sec. a.C. per celebrare una vittoriosa battaglia.
La statua rappresenta una Vittoria protesa sulla poppa di una nave alla base
della quale sono raffigurati due delfini e i tritoni di Nettuno. In fondo alla
piazza si trovano i resti del Santuario di Demetra e Kore, realizzato in
una non comune forma circolare ed abbellito con statue di divinità femminili
della fertilità sedute ed in piedi, quest'ultime aggiunte nel periodo romano.
Ogni anno vi si svolgeva un festa molto importante a cui partecipavano solo le
donne e che rievocava il mito di Demetra. All'interno e subito intorno all'Agorà
si trovano altri edifici, come il Tempio delle Basi Ottagonali o la
Tomba di Batto, il capo dei coloni greci che fondarono la colonia di Cirene,
ma il loro stato di conservazione non ottimale li rende poco interessanti e di
difficile individuazione. Dietro l'Agorà una strada costruita dai Bizantini
scende dalla cima della collina verso la zona sottostante del sito archeologico
caratterizzata dal grande Santuario di Apollo. Lungo la discesa si trovano
i resti delle antiche Terme di Artemide Diana risalenti al periodo greco,
scavate interamente nella roccia sono le uniche del genere mai ritrovate. Tra le
varie stanze, scarsamente illuminate da un'apertura praticata in alto, quella
che si è conservata meglio è il calidarium dove si notano ancora le vasche per
l'acqua calda e le piccole celle scavate nella parete che fungevano da deposito
per gli abiti. Alla fine della discesa si arriva nei pressi della Fontana
di Apollo, una sorgente naturale utilizzata in passato come complesso
termale conosciuto con il nome di Bagni di Paride. Il Santuario di
Apollo nei pressi è un insieme di più templi ed edifici religiosi, tra cui
il Tempio di Apollo vero e proprio, uno dei più antichi della colonia di
Cirene. Costruito nel VI sec. a.C. venne successivamente dotato di file di
colonne sui quattro lati a racchiudere l'originale spazio aperto che fungeva da
area sacra. Ricostruito nel IV sec. a.C. subì la completa distruzione durante
la rivolta ebraica, i resti visibili oggi risalgono al più recente periodo
romano del II sec. d.C. Di fronte al tempio si trova un grande altare
monumentale utilizzato per i sacrifici dedicati al dio e un bellissimo Nymphaeum,
fontana sacra, con due leoni ai lati. Su un lato del tempio di Apollo si trova
il Tempio di Artemide ritenuto più antico del santuario stesso. Da
qui parte il sentiero che conduce al grande Teatro di Cirene, edificato
dai greci nel VI sec. a.C. e modificato successivamente dai romani che lo
trasformarono in un anfiteatro, da qui si gode una magnifica vista verso il
mare. Purtroppo oggi appare piuttosto dimesso e molti dei livelli che un tempo
potevano ospitare circa mille spettatori sono crollati sotto il peso del tempo. Tornando
indietro verso l'uscita settentrionale del sito archeologico si incontrano le
antiche Terme Romane. Costruite nel I sec. d.C. sotto l'imperatore
Traiano furono successivamente restaurate dall'imperatore Adriano, come ricorda
una lapide che si trova in quello che era il frigidarium, dopo i danni provocati
dalla rivolta della comunità giudaica di Cirene. Quello che resta del complesso
termale, decorato con mosaici e colonne in marmo cipollino, comprende altri vani
come il tiepidarium ed il calidarium, ed uno che fungeva da spogliatoio in cui
fu rinvenuta la statua delle Tre Grazie conservata ora nel museo della
Jamahiriya di Tripoli. All'uscita dal sito ci rechiamo a pranzo in un vicino
complesso chiamato resort Cirene, dove la caratteristica sala da pranzo è stata
ricavata direttamente nella roccia, un modo per creare un ambiente isotermico
con una temperatura gradevole
rispetto alla calura esterna. Dopo il pranzo riprendiamo il pulmann per
spostarci più velocemente nella parte del sito, in cima alla collina, che
ospita il maestoso Tempio di Zeus. Il tempio è il monumento più
importante dell'antica Cirene, dedicato alla principale divinità del pantheon
greco superava in dimensioni lo stesso Partenone di Atene. Lungo il perimetro
esterno era circondato da una doppia fila di colonne cosi come all'interno del
santuario vero e proprio dove venivano celebrati i riti in onore del dio.
Distrutto come gran parte della città durante la rivolta ebraica venne
restaurato dall'imperatore Adriano nel 120 d.C., ma dovette subire un nuovo
rovescio a causa, questa volta, del terremoto che colpì tutta la zona nel 365
d.C. Quello che è possibile ammirare oggi si deve all'abile opera di restauro
condotta dall'equipe del prof. Stucchi dell'Università di Roma che ha
parzialmente ricostruito l'antico tempio, solo qui abbiamo la ventura di
imbatterci in un piccola comitiva di turisti francesi dopo aver praticamente
visitato il sito di Cirene in perfetta solitudine. Terminata la visita
dell'interessante sito di Cirene ritorniamo brevemente in albergo in attesa di
visitare il sito archeologico di Apollonia, il cui ingresso dista appena
poche decine di metri, sviluppandosi lungo un tratto di costa direttamente sul
mare.
Cenni Storici
La nascita di Apollonia avviene in un periodo successivo a quella di Cirene, con lo scopo dichiarato di dotare quest'ultima di un porto marittimo per favorirne gli scambi commerciali ed aumentarne cosi il prestigio e la prosperità. Apollonia rivesti questa funzione anche sotto il periodo della dominazione romana, fino a diventare per un breve periodo anche la sede del governatore della provincia. Il terribile terremoto che colpi la zona nel 365 d.C. causo gravissimi danni alla città ed al suo porto, che quasi scomparve inabissandosi nelle acque del mediterraneo, iniziando così a segnarne il declino nel periodo romano. Con l'avvento dei bizantini Apollonia recupero in parte la sua prosperità. I resti visibili oggi risalgono in maggioranza a quel periodo, V-VI sec. d.C., in cui vennero edificate cinque basiliche recuperando in parte marmi ed altri materiali dalla vicina Cirene, cosa che valse alla città l'appellativo di "città delle chiese". Con l'invasione islamica la città cade nuovamente in disgrazia e i suoi edifici spogliati sono utilizzati come materiale da costruzione per edificare, poco più a monte, una città per i profughi mussulmani in fuga dall'isola di Creta.
Appena dopo l'ingresso del sito archeologico si
incontra la basilica denominata Chiesa Occidentale in cui convivono
elementi tipici bizantini, colonne di marmo bianco, ed elementi greci prelevati
da Cirene, colonne di marmo verde cipollino. Nei pressi si trova un battistero
tipico dell'epoca, realizzato al livello del pavimento permetteva al battezzato,
scesi alcuni gradini, di immergersi quasi completamente in una vasca colma
d'acqua per uscirne poi purificato dal lato opposto. Questo tipo di battistero
era comunemente usato nei primi periodi del cristianesimo come simbiosi del
battesimo di Gesù nelle acqua del Giordano. Proseguendo lungo un sentiero si
arriva nella più grande e meglio conservata Chiesa Centrale, probabilmente
edificata in onore di San Marco. Anche questa basilica era adornata da
colonne in marmo verde cipollino sulle quali era scolpita una croce cristiana
che sormonta il globo di Atlante, a rappresentare l'universalità e il dominio
del nuovo credo. Poco fuori della chiesa si è conservata una sedia in pietra
utilizzata dal vescovo, sembra per trovare riposo dopo aver presieduto alle
funzioni liturgiche. Intorno alla chiesa si notano i resti di antiche terme del
periodo romano e bizantino, mentre più discosto si trova l'edificio che
ospitava il governatore bizantino. Proseguendo lungo il sentiero si arriva ad un
quartiere di case bizantine su cui si affaccia la Chiesa Orientale
edificata sui resti di un tempio greco, qui il marmo cipollino è utilizzato
anche per il pavimento ed i rivestimenti murali. Edificata nel V sec. d.C. era
la più grande della Cirenaica, con la navata centrale separata dalle quelle
laterali da due file di colonne. Di li a poco il sentiero si affaccia
direttamente sulla spiaggia, di fronte alla quale si trova l'isola di Hammam,
che prima del terremoto del 365 a.C. era unita alla costa nel punto in cui si
trovava l'antico porto, inabissatosi in seguito al disastro naturale. Lungo la
parete rocciosa si trovano alcune grotte utilizzate nell'antichità come
depositi e fornaci per la produzione di ceramiche e sfruttate oggi da gruppi di
giovani, rigorosamente solo uomini, per cuocere spiedini di carne su braci
improvvisate. Alla fine del sentiero si arriva direttamente sopra i resti del
grande Teatro Greco, che dopo il terremoto, come lo è oggi, è scivolato
in avanti venendosi a trovare proprio a ridosso del mare. Il teatro non venne
mai utilizzato dai bizantini perché ritenuto un luogo sacrilego, che
sfruttarono invece la collina sovrastante per farne una necropoli, come
testimoniano diversi sarcofagi. Terminata la visita del sito ne approfittiamo
per fare un bagno nella spiaggia sottostante, un tuffo e via data la temperatura
dell'acqua non proprio calda. Dopo la cena che consumiamo in albergo, per inciso
non aspettatevi molto dalla cucina libica perché è piuttosto monotona e
nemmeno lontana parente di quella stupenda marocchina, usciamo a fare un giro. Giro
che termina molto velocemente essendo Susa una piccola cittadina non ancora
abituata al turismo di massa, per fortuna, e che come il resto del paese non
offre molto per passare la serata. Personalmente spero che rimanga cosi il più
a lungo possibile. Allora per chiudere la giornata ci ritroviamo tutti con
la nostra guida Ahmed a bere un tè alla menta nell'unico bar aperto, proprio
dietro l'hotel, e a chiacchierare amabilmente, non senza qualche punta di
asprezza quando la conversazione scivola sulla condizione delle donne, sulle
differenze tra la nostra cultura e la loro.
19
Maggio 2005
Susa -
Qsar Libia - Tolmeita - Bengasi – Tripoli
Lasciamo di buon mattino la cittadina di Susa e
ripercorrendo la stessa strada dell'andata ritorniamo a Bengasi, dove ci attende
un volo interno con cui raggiungeremo Tripoli. Durante il tragitto il programma
prevede due soste per completare la visita della Cirenaica nella sua parte più
occidentale, una per ammirare gli stupefacenti mosaici bizantini di Qsar Libia
ed un'altra per visitare il sito archeologico dell'antica colonia greca di
Tolmeita. Qsar Libia è una piccola cittadina che assurge alla ribalta
della cronaca nel 1957, quando in seguito ai lavori di scavo di una diga vengono
riportati alla luce i resti di un’antica basilica bizantina. Cosa ancora più
stupefacente fu ritrovare il
pavimento della chiesa in ottimo stato di conservazione, cesellato
finemente da eleganti pannelli a mosaico raffiguranti soggetti religiosi e
mitologici. Arriviamo sul sito dopo aver percorso circa un'ora di strada da Susa,
nei pressi di quello che era un piccolo forte di presidio del periodo turco,
successivamente riutilizzato anche durante l'occupazione italiana. Appena dopo
l'ingresso un sentiero si fa largo tra i campi verso est per arrivare sul luogo
dove sorgeva la Chiesa bizantina, della struttura originale rimane
traccia nell'abside, nella navata centrale e nella sala posteriore che
accoglieva i fedeli dove sono stati rinvenuti i mosaici, come si intuisce dagli
spazi rimasti desolatamente vuoti dopo che quest'ultimi sono stati asportati per
collocarli nel vicino museo appositamente costruito. I resti della chiesa non
sono stati valorizzati e gli scavi sembrano ora abbandonati all'incuria del
tempo dopo alcune opere di sistemazione effettuate da archeologi inglesi, cosi
come affermato dalla guida, su cui ci sarebbe più d’un particolare da
obbiettare. Ma il vero tesoro sono i bellissimi mosaici custoditi ora nel
piccolo museo del sito, proprio di fronte all'ingresso di un'altra chiesa
bizantina utilizzata dagli italiani come alloggio per le truppe. In un miglior
stato di conservazione, ma nella quale non furono rinvenuti mosaici belli come
nella prima. I 50 pannelli sono della dimensione di circa mezzo metro quadrato e
dopo essere stati inseriti in un telaio di legno sono stati appesi alle pareti
dell’unica sala del museo, mentre sul pavimento è collocato il grande mosaico
che ricopriva la navata settentrionale della chiesa. I soggetti raffigurati nei
pannelli sono per lo più divinità precristiane, figure mitologiche e animali
di tutte le specie, tra i più significativi il pannello n° 3 che rappresenta
la città di Teodora ed il 28 che raffigura una basilica con la facciata ornata
da colonne. Ma il più importante da un punto di vista storico è il pannello n°
48 , una delle rarissime rappresentazioni del faro di Alessandria, con la figura
del dio Elio nudo che in cima al tetto regge nella mano destra una spada con la
punta rivolta verso il basso ed appoggiata sullo specchio di ferro del faro.
Uscendo dal museo si può salire sulle mura del vecchio forte da cui si gode una
bella vista sulla pianura circostante. Lasciata Qsar Libia riprendiamo la
strada per Bengasi, effettuando una deviazione verso la costa per visitare il
sito dell'antica colonia greca di Tolmeita fondata nel IV sec. a.C. La
città, una di quelle che formavano la famosa Pentapoli greca, ebbe un ruolo
rilevante anche durante il periodo romano prima di iniziare una lenta decadenza
con l'avvento delle invasioni arabe. Il cielo si è improvvisamente incupito e
per un breve momento lascia scivolare verso di noi una leggera pioggia, quasi il
preludio ad un temporale che non arriverà mai. Dall'ingresso del sito
archeologico, i cui reperti più interessanti risalgono al periodo che va dal I
al II sec. a.C., un breve sentiero conduce sul luogo dove sorgevano Tre archi
romani, il punto d'incontro tra il primo cardo e il decumano, le strade che
attraversavano la città seguendo la direzione dei quattro punti cardinali come
in tutti i tipici insediamenti romani. Proseguendo lungo il primo cardo
incontriamo dapprima l'antico Odeon greco, utilizzato per rappresentare
spettacoli musicali e successivamente trasformato dai romani in una piscina
all'aperto, e poco dopo, in leggera salita sulla collina, arriviamo nella grande
piazza dell'Agorà greca, divenuta poi il Foro Romano, le cui fondamenta
fungevano da enorme cisterna per la raccolta dell'acqua, come testimoniano le
numerose aperture che si trovano sulla sua superficie e che corrispondono a
pozzi sotterranei. In un angolo della piazza si trova una piccola scala
che scende nelle cisterne, destinate a raccogliere l'acqua proveniente da
sorgenti montane situate nella zona. Passando da una stanza ad un'altra, pur con
una scarsa illuminazione, si riesce a percepire la dimensione e l'importanza che
dovevano avere per la vita della città. Dall'agora si scendiamo verso
l'uscita del sito passando accanto alla bella Villa delle Colonne,
costruita da un facoltoso romano sul luogo dove sorgeva una più antica
costruzione andata distrutta durante la rivolta ebraica. Sul pavimento di una
stanza, sul lato meridionale, è collocato un bel mosaico con una raffigurazione
di una testa di medusa, mentre nell'adiacente stanza da pranzo si rilevano
ancora le tracce dell’originale rivestimento delle pareti, realizzato con
lastre di marmo. La villa disponeva anche di
una grande piscina rettangolare, al cui centro era posta una piccola
fontana raffigurante un animale, ora conservata nel piccolo museo del sito. Ed
è proprio nel museo che ci rechiamo dopo aver esplorato i resti del sito che
comprendono anche un Teatro greco ed un'altra costruzione patrizia
denominata Villa delle Quattro Stagioni, per via del grande mosaico che
vi è stato rinvenuto e che fa ora bella mostra di se nella sala centrale del
museo. Terminata la visita del museo, in cui sono esposti alcuni reperti
interessanti, riprendiamo la strada per Bengasi salutando cosi la Cirenaica e la
sua millenaria storia. Un volo interno ci attende per portarci a Tripoli, la
capitale. Oltre al nostro gruppo si imbarcano molte altre persone dato che
questo è il mezzo più veloce per spostarsi in Libia considerate le distanze, a
meno di non volersi sobbarcare molte ore di viaggio in pulmann, i 1024 Km tra
Bengasi e Tripoli vengono percorsi in circa 12 ore. Il risvolto della medaglia
è che i voli interni, oltre a essere sempre affollati, vanno prenotati con
largo anticipo,
potendo subire forti ritardi, se non addirittura cancellazioni dell'ultimo
momento. Tutto questo contribuisce a rendere un viaggio in Libia "un
tantino elastico" per le nostre brutte consuetudini da occidentali,
abituati a vivere con l'orologio che spacca il secondo e in perenne rincorsa
contro il tempo, che dovrebbe pur sempre rimanere una convenzione, ma in
perfetta armonia con la filosofia araba che tutto fa discendere dalla suprema
volontà divina. Per cui più che preoccuparsi delle piccole disavventure che
possono verificarsi, è meglio godere di quello che può regalare un imprevisto
improvviso. Durante il volo, per le strane bizzarrie del check-in, mi ritrovo
staccato dal resto del gruppo, isolato in mezzo a donne con il velo, bambini
smaniosi e uomini in volo per affari, ma questo mi da anche la possibilità di
rispolverare il mio scarso inglese scolastico e di chiacchierare amabilmente con
il mio vicino di posto, un simpatico ingegnere rappresentante di una
multinazionale tedesca specializzata in apparecchiature tecniche, giusto il
tempo di scoprire, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'orgoglio di appartenenza
di questo popolo che prima di essere arabo si sente profondamente libico.
Atterriamo in perfetto orario nel secondo aeroporto della capitale, è quasi
sera ormai e non ci resta che raggiungere il nostro albergo in attesa delle
nuove meraviglie che il fato ci sta preparando per il giorno successivo.
20
Maggio 2005
Tripoli
- Leptis Magna – Sebha
E' Venerdì, giornata sacra e di riposo per il mondo islamico, così su consiglio e organizzazione della nostra giovane guida Ahmed effettuiamo un cambiamento rispetto al programma originale che prevedeva per oggi la visita della città di Tripoli. Ci rechiamo dunque a visitare la stupenda città romana di Leptis Magna, posticipando la visita di Tripoli al ritorno dal giro nel deserto, in una giornata in cui sarà possibile vivere più pienamente la sua realtà quotidiana.
Cenni
Storici
Gli storici sono concordi nel far risalire le origini della città
al VII sec. a.C., ad opera di coloni fenici di Tiro, in fuga da una guerra
locale, e da coloni punici in uscita da Cartagine. Poche tracce rimangono di
questo periodo, in cui probabilmente la futura Leptis non assunse un ruolo
di particolare preminenza. Cosi alla caduta di Cartagine, come tutta la zona,
passo prima sotto l'influenza del regno di Numidia e successivamente a partire
dal 111 a.C. sotto quella romana, grazie ad un vero e proprio trattato di
amicizia e di alleanza tra i due popoli. Ma è con la salita al potere
dell'imperatore Augusto, a pochi anni ormai dall'avvento dell'era moderna che
vedeva la nascita di Cristo, che Leptis Magna inizia ad assumere un ruolo sempre
più importante all'interno del grande impero. In questo periodo si era già
formata una classe aristocratica profondamente legata alla cultura e al gusto
romano, ed è grazie a questa che
la città inizia a conformarsi sempre di più allo stile architettonico,
economico e commerciale delle altre grandi città romane, vengono cosi avviate
grandi opere e realizzati alcuni dei magnifici edifici arrivati fino ai nostri
giorni dopo sapienti restauri. Come ad esempio il mercato e il teatro edificati
grazie alla munificenza del nobile Annibale Rufo. Negli anni successivi, a parte
un breve periodo a cavallo della
prima meta del I ° secolo, quando cade in disgrazia e viene invasa dai
Garamanti (alleati della vicina città di Oea, l'odierna Tripoli ) come
rappresaglia per aver parteggiato per una fazione perdente in una delle tante
lotte intestine che periodicamente attraversavano l'impero, lo sviluppo della
città prosegue inarrestabile. Cosi durante il regno dell'imperatore Adriano (
117-138 d.C.) e ancora di più sotto quello di Settimio Severo, a cui diede i
natali, superata la crisi grazie alla prosperità delle sue attività agricole e
commerciali Leptis Magna continua ad ingrandirsi espandendo i suoi confini fino
ad inglobare interi tratti di costa. In questo periodo gli edifici pubblici e
privati vengono abbelliti con rivestimenti di marmo pregiato, mentre la
costruzione di un grande acquedotto, oltre a garantire una riserva idrica
costante, permetterà in seguito l'edificazione delle grandi terme note con il
nome di Terme di Adriano. All'inizio del III sec. d.C. con le riforme di
Diocleziano Leptis Magna viene elevata al rango di capitale della provincia
autonoma della Tripolitania, anche se la nomina resterà gloria di breve durata
perché una serie di sfortunati eventi naturali, ripetuti terremoti (disastroso
quello del 365 d.C. ) ed inondazioni, insieme all'ormai inesorabile declino di
tutto l'impero precipiteranno la città verso un periodo oscuro e decadente che
perdurerà fino all'avvento dei Bizantini nel VI sec. d.C. Del periodo bizantino
rimane traccia in un poderoso muro di cinta fatto edificare da Giustiniano I,
che non si rivelerà però sufficiente a fermare le successivi invasioni arabe,
a cui tuttavia Leptis riesce a sopravvivere fino al X sec. d.C., quando
abbandonata inizia a svanire lentamente sotto la sabbia fino alla successiva
riscoperta.
Uscendo da Tripoli seguiamo il litorale verso est,
la strada che costeggia il mare si dipana tra una fila ininterrotta di
stabilimenti balneari con piccole capanne di paglia da una parte e da
piantagioni di ulivi e altre coltivazioni tipiche dell'area mediterranea
dall'altra. Arrivati a Leptis Magna facciamo la conoscenza con la guida che ci
illustrerà il sito, uno dei fratelli del nostro giovane accompagnatore
Ahmed, una persona che lavora nel campo dell'archeologia, molta preparata e con
un’ottima padronanza della lingua. Ma prima di addentrarci nel sito vero e
proprio ci rechiamo a visitare il Museo, appena a lato della
biglietteria, dove sono conservati reperti storici ed oggetti d'arte e d'uso
comune rinvenuti durante gli scavi. Alcuni di questi sono di notevole
pregio artistico, come la statua di una donna velata in cui l'artista è
riuscito a rendere in maniera sorprendente la trasparenza del braccio nudo sotto
il manto di marmo. Complessivamente il museo si compone di ben 25 sale, per
un giro completo occorre circa un'ora abbondante, disposte in ordine cronologico
dalla preistoria fino ai giorni nostri, in cui ogni reperto è illustrato da una
didascalia in arabo ed inglese. In particolare nella sala 4 sono conservati i
fregi originali che ornavano l'arco di trionfo di Settimio Severo ed in cui
l'imperatore è raffigurato insieme a componenti della sua famiglia e a figure
mitologiche , nella sala 7 sono invece custodite molte belle statue, sempre del
periodo dei Severi, come la famosa donna velata ed un Marco Aurelio, Serapide, con
le sembianze del dio Esculapio. Salendo al primo piano la sala 14 ospita
oggetti d'uso commerciale, come le unita di misura utilizzate nelle operazioni
di compravendita del mercato, mentre nella sala 15 è invece conservato il
tesoro di Misrata, una collezione di più di 1000 monete di dubbia provenienza
risalenti al periodo tra il 294 e il 333 d.C., probabilmente il soldo di una
guarnigione della zona. Le sale 17 e 18 sono invece dedicate al tema della morte
ed ospitano una collezione di varie urne cinerarie in pietra calcarea ed
alabastro, per le persone più abbienti, in cui venivano conservate le ceneri
dopo la cremazione. La penultima sala raccoglie invece, con un gusto un po'
kitsch, una serie di regali, doni ufficiali e non, ricevuti da Gheddafi. Terminata
la visita del museo iniziamo quella del sito archeologico. Un breve sentiero
introduce all’interno dell'area proprio dove è situato lo stupendo Arco di
Settimio Severo, posto nel punto d'incontro tra la Via Trionfale,
il cardo, e la via decumana che attraversava la città lungo l'asse est-ovest.
L'arco risale al 203 d.C. e venne edificato per commemorare la visita
dell'imperatore Settimio Severo alla sua città natale. Quello che si può
ammirare oggi, realizzato anticamente in pietra calcarea e successivamente
rivestito di marmo, è un'abile ricostruzione del monumento originale, oggetto
ancor oggi di restauro. Quattro grandi piloni abbelliti sui lati da più piccole
colonne corinzie sorreggono un tetto a cupola. Sulle facciate esterne sono
scolpite in rilievo scene che illustrano la grandezza dell'imperatore e della
sua famiglia di origine, mentre in quelle interne sono rappresentate
campagne militari e vittorie ottenute dall'impero romano durante il suo regno.
Sul tetto sono collocati due grandi bassorilievi con varie scene tra cui una in
cui l'imperatore tiene per mano il figlio Caracalla, quasi un gossip d'epoca a
smentire le chiacchiere di dissidi interni per questioni di potere. Dall'arco
partiva verso nord la Via
Trionfale, l’arteria sulla quale si svolgevano le grandi parate cerimoniali,
sullo sfondo si intravedono i resti dell'Arco di Traiano. L'altra grande
strada cittadina, il decumano, attraversava invece l'arco per dirigersi, ad est
verso le grandi terme di Adriano, e ad ovest verso l'Arco di Antonino Pio, di
cui si scorgono i resti in lontananza. Sulle vie si può ammirare ancora
l’originale selciato romano. Imboccato il decumano ci avviamo a destra verso
le Terme di Adriano. Costruite nei primi anni del II sec. a.C. su volere
dell'imperatore, grazie anche all'abbondante disponibilità d'acqua
approvvigionata dal nuovo acquedotto, divennero ben presto uno dei punti
d'incontro più frequentati e luogo preferito di tutta la città. Accedendo
dalla palestra a pianta ellittica si è introdotti nel natatio, una sala
che serviva come ambiente d'ingresso, abbellito da una piscina all'aperto
circondata da colonne. Sul lato sinistro si trova invece una stanza adibita agli
incontri conviviali, con annesso un locale utilizzato per incontri di altro
genere, le latrine. Funzione che evidentemente i romani non si scandalizzavano
ad espletare in comune, probabilmente con l'unica discrezione di separare
la zone delle donne da quella degli uomini. Superato il natatio si accede al
grande frigidarium, la sala adibita all'ultima fase, quella fredda
appunto, del sistema termale romano che prevedeva un passaggio graduale da un
ambiente più caldo ad uno più freddo con tuffo finale in piscina. E' uno degli
ambienti più belli delle terme, una sala di 30 metri per 15 con il pavimento
rivestito di marmo ed il tetto sorretto da otto colonne di marmo cipollino e
decorato con mosaici dai colori vivaci. Lungo il suo lato più lungo si trovano
vari ambienti, utilizzati all’epoca come spogliatoi e saune, con al centro il tiepidarium,
la zona tiepida, che separava l'altro grande ambiente delle terme il calidarium,
dove veniva invece effettuato il bagno caldo. E' interessante vedere come il
pavimento rialzato di questa stanza nascondesse al suo interno una miriade di
nicchie dove si infilavano bambini o forse persone di bassa statura per porre le
braci ardenti prelevate dalla vicina fornace. Uscendo dalle terme di Adriano si
trova subito a destra il Nymphaeun o Tempio delle Ninfe che fa da sfondo
ad un grande piazza. Edificata all'epoca di Settimio Severo la fontana era
concepita come un teatro con file di colonne sovrapposte in marmo rosso e
cipollino ed abbellita da statue di marmo. Da qui parte la Via Colonnata,
una strada monumentale che collegava le Terme di Adriano con il porto. La
strada, riservata ad un uso pedonale, era fiancheggiata da numerose costruzioni
pubbliche e private tra cui il grande Foro dei Severi con annessa la Basilica.
Il nuovo foro edificato dalla dinastia dei Severi, una grande piazza pavimentata
con lastre di marmo di circa 100 metri per 60, era circondato da portici ad
arcate abbelliti da numerose effigi della Gorgone, rappresentazioni della Dea
della Vittoria, immagini della Medusa e di altre ninfe marine. Sul fondo della
piazza si ergeva maestoso il tempio dedicato all'imperatore divinizzato,
consuetudine romana che vedeva l'uomo imperatore assurgere al livello degli dei,
purtroppo oggi ne rimane traccia solo nella grande scalinata che conduce alla
piattaforma sacra da cui è possibile dominare tutta l'area del foro, la cui
edificazione segnò uno dei punti più alti dello splendore raggiunto dalla città. Accanto
al nuovo foro, sul lato nord-orientale, si trova la Basilica dei Severi.
L'edificio, la cui struttura architettonica richiama
alla mente quella di una basilica cristiana, era in realtà un palazzo di
giustizia. Iniziata durante il regno di Settimio Severo verrà ultimata solo nel
216 d.C. con quello del figlio Caracolla, lunga 92 metri per 42 di larghezza si
compone di una navata centrale, con due absidi semicircolari collocate alle
estremità, e di due navate laterali separate da file di colonne di granito
rosso. Le due absidi sono abbellite da spettacolari colonne scolpite interamente
in rilievo, con scene che raffigurano racconti mitologici e di storia romana.
Solo nel VI sec. d.C., per volere dell'imperatore bizantino Giustiniano, la
Basilica viene trasformata in una chiesa cristiana, riutilizzando allo scopo
l’abside sud-orientale. Terminata la visita usciamo dalla Basilica e ci
immettiamo in una via trasversale che incrocia la via Trionfale, la seguiamo in
direzione sud-ovest avviandoci cosi verso la zona del mercato. Passiamo accanto
al Tempio di Serapide, di cui rimane traccia in alcune colonne di marmo
cipollino e nella breve scala che conduceva all'interno dell’area sacra, e
superiamo la Porta Bizantina, nei cui pressi si trovano simboli fallici scolpiti
in rilevo che indicavano la direzione da seguire per raggiungere un lupanare.
Alle nostre spalle si intravedono il mare e la spiaggia di sabbia bianca, mentre
spostando lo sguardo sulla destra, appena al di sopra di una collina
verdeggiante, si possono vedere i resti del primo insediamento di Leptis,
risalente al periodo dell'imperatore Augusto, edificato sul sito di un più
antico insediamento punico. Il vecchio nucleo centrale di Leptis Magna,
abbandonato dopo la costruzione del nuovo foro che favorì lo spostamento del
baricentro della città verso l'interno, si componeva di un foro circondato su
tre lati da un portico e da numerosi edifici civili e religiosi. Nelle immediate
vicinanze infatti sono stati rinvenuti i resti di tre antichi Templi e di una
basilica successivamente riutilizzata dai bizantini come chiesa cristiana. I tre
templi erano dedicati a Liber Pater (II sec. d.C. ), ad Augusto e alla
città di Roma ( in pietra calcarea, 14-19 d.C.), ed a Ercole. Gli edifici
di questo primo nucleo abitativo non sono però in ottimo stato di conservazione
e nella nostra visita sono stati appena sfiorati. Arriviamo infine al Mercato,
uno dei luoghi più suggestivi ed affascinanti di tutto il sito di Leptis Magna,
costruito verso il 10 a.C. e successivamente ristrutturato sotto il regno di
Settimio Severo. Vi si respira un'atmosfera magica e camminando tra i suoi resti
sembra quasi di poter riascoltare le voci e i suoni che lo animavano un tempo. I
due padiglioni ottagonali di circa 20 mt. di diametro, abilmente ricostruiti
dagli archeologici, si stagliano con i riflessi della pietra calcarea su un
orizzonte blu cobalto creando un effetto d'insieme veramente suggestivo. Dal
materiale rinvenuto all’interno, come ad esempio unità di misura in pietra,
risulta che quello più settentrionale doveva essere adibito al commercio dei
tessuti, mentre l'altro era probabilmente utilizzato come mercato
ortofrutticolo. Tutt'intorno si trovano i resti di altri banchi con le piccole
basi in marmo destinate a sostenere il piano di lavoro. Dai delicati ornamenti
che rappresentano dei delfini si può intuire come alcuni fossero utilizzati per
il commercio del pesce. Nell'isolato ad ovest del mercato si trova il bellissimo
Teatro di Leptis Magna, uno dei più antichi dell'epoca romana, risalente
agli inizi dell'era moderna (1-2 d.C.) ed edificato sul luogo dove sorgeva una
necropoli punica ( V-VII sec. a.C. ). La ricostruzione rispecchia fedelmente la
struttura originale che si componeva di un palcoscenico con tre nicchie
circolari a cui successivamente, sotto il regno di Antonino Pio, venne aggiunto
un triplice ordine di colonne che lo circondava completamente. Una serie di
sculture e statue contribuivano a decorarlo ulteriormente creando certamente un
effetto stupefacente per gli spettatori seduti di fronte. Immediatamente sotto
il palcoscenico si trova l'ampio spazio dell'orchestra, con tutt'intorno una
prima fila di sedili riservati ai notabili della città. Una balaustra in
pietra, aggiunta sul finire del I sec. d.C., provvedeva a separare i posti
d'onore dai restanti sedili, che in file ordinate risalgono il versante della
collina. Dalla cima del teatro si gode una magnifica vista d'insieme sulla
costruzione stessa, mentre lo sguardo è libero di spaziare verso l'orizzonte,
dove il profilo del mare, che sfuma dal verde al blu intenso, si confonde in
lontananza con quello del cielo. Accanto al teatro si trova il Chalcidium,
una struttura monumentale del periodo di Augusto con un portico sopraelevato
affacciato sulla via Trionfale, al suo interno si trova un tempio dedicato alla
dea Venere e all'imperatore. Per terminare la visita della stupenda Leptis
Magna non ci rimane che vedere l'Anfiteatro e lo Stadio. I due edifici sono
raggiungibili a piedi, lungo un sentiero di circa 1 Km che parte dal porto,
oppure in auto, come facciamo noi, a circa a 2 Km ad est del parcheggio
principale del sito archeologico. L'Anfiteatro risalente al I sec. d.C.
si affaccia direttamente sul mare. Scavato interamente sul fianco di una
montagna poteva ospitare parecchie migliaia di spettatori, che qui si davano
convegno per assistere a spettacoli cruenti tra animali feroci e uomini.
Criminali e successivamente martiri cristiani condannati a morte certa,
spettacoli che erano il preludio ai combattimenti tra gladiatori. Uno stretto
passaggio consentiva l'accesso dall'Anfiteatro direttamente allo Stadio,
di cui non rimangono che poche tracce nelle fondamenta, dove si svolgevano le
gare dei cocchi trainati dai cavalli, uno tra gli spettacoli preferiti dai
romani. Da qui si può gettare uno sguardo verso quelli che sono i resti del
porto della città, che in seguito a errori di valutazione fini per insabbiarsi
ben presto tanto da divenire col tempo quasi inutilizzabile. Sono quasi le due
del pomeriggio quando lasciamo Leptis Magna, uno dei siti archeologici più
belli ed affascinanti che mi sia mai capitato di vedere, una perla che da sola
può valere tutto il viaggio. Durante il tragitto per rientrare a Tripoli ci
fermiamo a mangiare in un simpatico locale prima di dirigerci, data ormai l'ora,
direttamente all'aeroporto dove ci attende il volo delle 20.00 che ci porterà a
Sebha, la città alle porte del deserto utilizzata come base di partenza per le
escursioni nel mare sabbioso. Inizia cosi l'attesa per la partenza, un'attesa
che si fa via via sempre più snervante, mentre le lancette dell'orologio
scorrono inesorabilmente insieme alle mille voci che si accavallano frenetiche,
si parte non si parte..... Anche alla nostra giovane e brava guida Ahmed non
resta che allargare le braccia e alzare
gli occhi al cielo in cerca di un qualche sostegno divino o perlomeno, senza
voler disturbare troppo, del supporto di una qualche dea bendata, di quelle
invocate in tutte le epoche e a tutte le latitudini nel momento del bisogno. Nel
piccolo aeroporto di Tripoli non ci sono molte distrazioni con cui passare il
tempo e cosi esaurito il giro dei piccoli bazar e sbrigata l'incombenza delle
cartoline ci si ritrova a bivaccare sulle panchine in trepidante attesa di
notizie. E visto che ormai è arrivata l'ora di cena e che non è saggio
allontanarsi troppo dall'aeroporto arrivasse l’ordine di imbarco, il nostro
Ahmed ci porta tutti al self-service del piano superiore, non avrei neanche
pensato ce ne fosse uno, e dove, ad onor del vero, non si mangia affatto male.
Con il caffè arriva la notizia che ci rinfranca tutti, finalmente si parte !!!
E’ andata bene, solo 4 h di ritardo, perché, come ho già avuto modo di dire,
a volte i voli interni in Libia possono subire cancellazioni improvvise a cui
occorre sopperire con lunghe scarrozzate in pulmann, ma d'altra parte tutto
concorre a rendere un viaggio avventuroso ed è perfettamente inutile
prendersela troppo. Arriviamo all'aeroporto di Sebha che sono quasi le 2 di
notte e recuperati i bagagli ci imbarchiamo, divisi in gruppi da 4, sui
fuoristrada Toyota che ci attendono fuori, direzione albergo, doccia, letto,
nanna. E qui un cenno a parte merita l'albergo, normalmente utilizzato da
funzionari del governo, il meno comodo in assoluto di tutto il viaggio. Certo
non riporto questa nota a titolo di lamentela, come altre di cui ho già fatto
accenno o che seguiranno nel racconto, sono una persona che si adatta veramente
a tutto (beato militare), ma perché siate pronti e coscienti, venendo in Libia
in questi primi anni di apertura al turismo, a saper adattare le vostre esigenze
ai piccoli inconvenienti che potreste avere la ventura di incontrare, anche
perché, il viaggio, ne vale veramente la pena.
21
Maggio 2005
Sebha -
Germa - Ubari - Al Aweinat - Campo FAO35
Quella che affrontiamo oggi è una tappa di
avvicinamento al deserto, lo stupendo Jebel Acacus, che si rivelerà l'occasione
per familiarizzare gradatamente con il cambio di panorama e di clima che ci
attende passando dalla costa verso l'interno del paese e per conoscere meglio il
simpatico Alì ( pensavate che potesse chiamarsi diversamente ? ). Il provetto
autista della nostra Toyota 4x4, mezzo che ormai a tutti gli effetti ha
soppiantato l'uso del dromedario e recentemente quello dei più costosi Range
Rover, conosciuto la sera prima all'aeroporto e a cui per i prossimi 5 giorni
affideremo il nostro fondo schiena, che grazie soprattutto alla sua bravura
arriverà al termine senza troppi scossoni. Lasciamo Sebha con la nostra
piccola carovana, a cui si aggiunge una jeep di supporto, e ci immettiamo sulla
statale nazionale che da Tripoli, attraverso il Fezzan in direzione sud-ovest,
raggiunge la cittadina di Ghat al confine con l'Algeria. Dopo pochi chilometri
entriamo nel Wadi al-Hayat, la Valle del valore della vita, una zona resa
fertile dalla presenza di una falda freatica sotterranea, dove alle palme e ai
bassi arbusti si alternano appezzamenti coltivati. Attraversiamo cosi piccoli
villaggi sistemati a cavallo della strada, l'architettura è simile a
quella di altri paesi arabi del Nord-Africa, piccole case dal tetto piatto in
seconda fila dietro ad un susseguirsi di esercizi commerciali, officine, bar,
macellerie e generi vari, che si affacciano direttamente lungo la carreggiata.
Ad Ubari, una delle cittadine più grandi della zona, ci fermiamo per una
sosta. Durante i trasferimenti in jeep le soste si susseguiranno spesso,
ogni mezz'ora circa che si sia su strada asfaltata o in pieno deserto, per dar
modo agli autisti di riposare e a noi passeggeri di sgranchire un po' le gambe.
Ubari è una cittadina vivace, ultimo centro importante prima del deserto dove
fare acquisti ed approvvigionamenti, ma quello che salta subito agli occhi è la
quasi totale assenza di donne in giro, come del resto abbiamo già notato lungo
tutta la strada. Senza dubbio qui vige una consuetudine di usi e costumi più
tradizionale, a differenza delle grandi e piccole città del Nord, che vede la
donna relegata ad un ambito quasi esclusivamente domestico. Cosi in giro per
negozi ci sono solo uomini, come sono solo ragazzi gli utilizzatori di un
Internet Point da dove invio un ultimo saluto al mondo prima di lasciare la
cosiddetta civiltà. Appena dopo Ubari il panorama inizia a farsi più arido,
sulla destra ci accompagnano le dune del grande deserto sabbioso che prende il
nome dalla zona, mentre a sinistra ci fanno da cornice i contrafforti del
deserto roccioso del Msak Settafet, al centro la strada è un lungo
nastro d'asfalto nero che si dipana dritto per chilometri, quasi
che fosse stato messo li apposta a separare i due antichi contendenti,
con un effetto d'insieme veramente notevole. E' ormai ora di pranzo ed
approfittiamo di uno sparuto gruppo di arbusti, che sembra offrirci un po' di
riparo all'ombra, per montare il nostro bivacco. Ogni jeep è dotata di un
piccolo tavolino da campeggio con quattro sgabelli a corredo, e cosi in breve
unendoli formiamo una lunga tavolata. Nel frattempo i nostri autisti si
accomodano in disparte, seduti direttamente in terra, mentre alcuni di loro dopo
aver acceso un fuoco si preparano a cucinare qualcosa di locale, a noi tocca
invece il nostro bravo vassoio da turista confezionato e sigillato,….ho capito
preferiscono restare in disparte e non far vedere quello che mangiano per non
farci venire l'acquolina in bocca. A questo punto del viaggio qualcuno si starà
chiedendo, com'è andata in Libia con la famosa maledizione di Tutankamon da
viaggiatore ? Posso rispondere che a me è andata benissimo e che per quanto ho
potuto osservare l'igiene del cibo mi è sembrata sufficiente, ma devo anche
aggiungere al proposito che io seguo scrupolosamente le prescrizioni del caso,
che ricordo prevedono come prima regola l'uso di acqua esclusivamente
imbottigliata senza ghiaccio di alcun tipo, e a cui personalmente aggiungo
l'assenza di consumo di verdure crude, dolci e yogurt non confezionati, il tutto
associato all'assunzione regolare, a partire da una settimana prima e per tutta
la durata del viaggio, di fermenti lattici. Chiedete in farmacia perché
per questo viaggio ne ho trovato un tipo masticabile, cosi da evitare problemi
di temperatura, quelli liquidi devono essere conservati sotto una certa soglia
altrimenti perdono di efficacia, e di avere a disposizione liquidi per
assumerli. Devo aggiungere inoltre che alcuni compagni di viaggio, da qui in
avanti, hanno accusato malori e febbri riconducibili a problemi intestinali, ma
è pur vero che ogni fisico reagisce a suo modo e a volte non ci sono
accorgimenti che tengano considerando la presenza naturale di batteri a cui il
nostro organismo non è abituato. Ricordo che in Egitto, ad Assuan, un marinaio
che ci accompagnava a visitare il complesso sull'isola di File si sparò una
bella sorsata d'acqua direttamente dal Nilo, pensate cosa potrebbe succedere ad
un europeo che volesse osare tanto….Dopo il pranzo riprendiamo il cammino e
nel tardo pomeriggio arriviamo ad Al-Aweinat, l'ultimo contatto con il
mondo prima di addentrarci verso l'ignoto, una piccola cittadina che può
servire come base di partenza. Lungo la statale ci fermiamo brevemente nel
piccolo Aflaw Camp, un resort che offre ospitalità in piccoli cottage di fango
con i tetti di paglia e in cui si trova un'agenzia dell'Aflaw Tours, la cui sede
principale è a Tripoli, che organizza escursioni nel deserto a dorso di
dromedario o in fuoristrada. Lungo il ciglio della strada, appena fuori
dal Camp, stazionano piccoli commercianti che offrono oggetti di artigianato
Tuareg o dei paesi africani limitrofi. Collane, orecchini, bracciali, pendagli,
monili, piccoli coltelli, strumenti musicali, ecc... , come sempre in questi
casi valgono due regole, primo non stancarsi di contrattare sul prezzo ( è un
gioco che piace anche a loro ), senza però arrivare ad offrire miserie che
offendano e secondo comprare ciò che piace senza stare troppo a chiedersi
quanto argento od oro contenga la lega di cui sono fatti, in fondo sono oggetti
che valgono per il ricordo intrinseco che portano con se. E forse potrebbe
capitare anche a voi di vedervi proporre un baratto, io in cambio di un orologio
digitale in plastica, trovato nel 2004 in un ostello della Norvegia, del valore
presunto di poche decine di euro, ho avuto in cambio una croce Tuareg chiamata Croix
d'Agadez. E' uno degli oggetti tipici dell'artigiano, una croce stilizzata
che si trova in varie forme e che non ha nulla a che vedere con significati
cristiani rappresentando solo un potente talismano contro la sfortuna ed il
malocchio, per chi ci crede. D'altra parte nel deserto si può benissimo
fare a meno dell'orologio, ma non di un po' di fortuna se necessario e poi mi
piaceva l'idea che quell'oggetto trovato quasi a Capo Nord potesse andare a
finire in chissà quale piccolo villaggio africano. Terminati gli ultimi
acquisti, ma non mancheranno altre occasioni durante il viaggio, riprendiamo il
cammino lasciando poco dopo la strada asfaltata per imboccare una carrozzabile
sterrata in direzione est verso il deserto. Pochi chilometri e magicamente il
panorama si apre verso un orizzonte appena sfocato. Quella che prima sembrava
una pista sicura si trasforma ora in una raggiera di tracce confuse, un insieme
di segni antichi e recenti che virano in tutte le direzioni, quasi che
un'arcaica divinità messa a guardia dell'ingresso voglia saggiare la nostra
volontà di entrare in quel mondo sconosciuto. La carovana, che fino a poco
prima aveva viaggiato in ordine come seguendo un invisibile filo di lana, si
apre ora come il bocciolo di un fiore che dischiude i suoi petali ai primi raggi
del mattino. Ognuno sembra seguire un suo immaginario riferimento, in un
rincorrersi di linee attraverso uno spazio sconfinato dove l'unica cosa che si
muove sono le volute di polvere alzate dalle ruote che mordono la terra arsa. Ci
si incontra per un attimo per lasciarsi un secondo dopo, fissi verso una meta
comune, ma soli lungo il cammino, con lo sguardo perso fuori dal finestrino
verso un orizzonte che non si avvicina mai. Arriviamo al campo FAO35 verso le
19.30 dopo aver superato il problema dell'insabbiamento di una Toyota 4x4
rimasta intrappolata nel tentativo di superare di slancio una piccola duna. C'è
ancora luce e l'aria è fresca e piacevole, mentre ci sistemiamo nelle tende e
prendiamo confidenza con il campo quasi senza accorgersene inizia a scendere la
notte, con il buio profondo subito squarciato da una luna splendente prossima
alla sua massima ampiezza. Il campo FAO35 è uno dei tanti che vengono montati
nel deserto nel periodo in cui si effettuano le escursioni, noi siamo l'ultimo
gruppo della stagione ed alla nostra partenza verrà interamente smontato in
attesa che passi il gran caldo che si avvicina. Siamo fortunati il periodo
climatico è godibilissimo e nei giorni a venire avremo modo di apprezzare
giornate asciutte, in cui non ci si accorge quasi dei 40° all'ombra, e di notti
fresche dove basta un coperta leggera senza dover tirare fuori il sacco a pelo
portato inutilmente a prendere aria. Conviene comunque seguire l'esempio di chi
nel deserto ci vive ed indossare un abbigliamento adeguato, copricapo
(soprattutto per chi come me è ehm.....sprovvisto di protezione naturale),
pantaloni lunghi di cotone leggero e magliette estive sempre a maniche lunghe
(con le insolazioni non si scherza). Il Campo è molto carino ed ordinato,
sembra quasi di essere in un accampamento romano di qualche millennio fa.
Completamente circondato da una palizzata di canne è diviso in piccoli quartieri che ospitano due o tre tende, con
una zona comune per il bagno, dotata di lavandini all'aperto e cabine docce in
cui un solerte ragazzo vi predisporrà una sacca d'acqua tipo quelle che si
usano anche da noi nei campeggi, e una zona pranzo con la cucina e una grande
tenda dove si mangia tutti in comune. Ma ssssss….., ora si è fatto tardi, le
palpebre iniziano a farsi sempre più pesanti ed i pensieri sempre più lievi,
450 Km di strada nazionale, due orette di sterrato e i sali scendi su e giù
dalle dune hanno fiaccato le nostre resistenze oltre ogni limite,....e allora
basta allungare un po' la mano e tirare
la cordicella che pende giù dalla Luna. Click....e sogni d'oro.
22
Maggio 2005
Campo
FAO35 - Wadi Tashwinat - Dune di Iguidi Ouan Kasa - Campo FAO35
La prima notte nel deserto trascorre tranquilla,
solo nelle prime ore del mattino una brezza d'aria più fresca si infila sotto
la tenda, invitando a rimboccare meglio la coperta scivolata di lato, ma è una
sensazione che dura un attimo ed è già ora di alzarsi. Facce assonnate si
incamminano con gli asciugamani sulle spalle verso le docce, c'è una bella
atmosfera e mi sembra di rivivere i tempi d'oro del militare, non mancano
neanche i classici porta sapone, quelli che poi ti rimangono in mano sempre
bagnati e non sai mai come asciugarli. Colazione e via di nuovo sulle jeep
in cerca di altre avventure. La zona dove siamo acquartierati è all'interno di
una vasto altopiano che si incunea tra le grandi dune sabbiose di Iguidi Ouan
Kasa ad est ed i contrafforti e le falesie stratificate del massiccio del Jebel
Acacus (o Jabal Akakus a seconda della notazione usata), con picchi che
sfiorano i 1450 Mt., ad ovest. In circa 300 Km tra andata e ritorno
arriveremo ad esplorarne la parte più meridionale, risalendo le strette valli
che un tempo formavano i letti di un grande fiume preistorico e dei suoi
affluenti, il Wadi Tashwinat ( wadi significa appunto corso d'acqua in
secca, quando non ci sono le piogge ). E' una zona ricca di pitture e graffiti
rupestri, ma non mancherà occasione durante il viaggio di lasciarsi incantare
dai magnifici spettacoli che solo il genio della natura riesce a creare e che
avremo altresì modo di apprezzare in perfetta solitudine, non essendoci in giro
altre carovane di turisti. Questo è un motivo in più che avvalora la mia tesi,
di come cioè questo periodo dell'anno, sul finire della stagione turistica in
tarda primavera, possa offrire, oltre ad un clima godibilissimo, la possibilità
di esplorare le bellezze del paese senza troppa confusione. D'altra parte che
deserto sarebbe quello in cui fino a qualche settimana prima, a detta del nostro
accompagnatore Luigi della Time-Out, ci sarebbe voluto un vigile per dirigere il
traffico di jeep 4x4. Dichiarato dall'Unesco patrimonio dell'umanità per le sue
ricche testimonianze preistoriche, il Jebel Acacus è un massiccio composto da
gruppi di monoliti di basalto situato nel cuore del moderno Sahara, proprio al
confine tra Libia e Algeria. Visto da vicino si rivela come un intricato gioco
di profondi canyon, piccole valli e pareti scoscese in cui ogni forma di vita è
come sospesa in un limbo, quasi che la mano d'un antico alchimista abbia saputo
tramutare ogni goccia d'acqua in un granello di sabbia, sabbia che ondeggia e si
muove sinuosa dove una volta scorrevano fiumi tumultuosi. Eppure basta una
parvenza di pioggia per veder rifiorire qua e la un prato verde di piccoli fili
d'erba, nascosti dal tempo in attesa di tempi migliori. Lasciamo l'accampamento
e ci dirigiamo verso sud. Le jeep seguono piste già tracciate in un continuo
intercambiare alla ricerca di quella che provochi meno scossoni possibili. Si
naviga a vista attraverso un tavolato arido che spazia a perdita d'occhio,
costretti ad una velocità moderata che permette però di poter godere appieno
del panorama che lentamente scorre fuori. Dopo 40' minuti iniziamo a scorgere in
lontananza il profilo delle grandi dune di Iguidi Ouan Kasa, su quel limitare
dove il pietrisco s'infrange e cede d'improvviso il passo alla sabbia dorata che
mossa dal vento prende anima, cambiando forma e sostanza in uno sforzo di
conquista che sembra non placarsi mai. E' il deserto che inghiotte se stesso,
con uno stridore silenzioso che tramuta il tempo in un'entità infinitesima,
dove la vita si misura in passi che durano millenni. E' ormai trascorsa
un'ora e mezza da quando abbiamo lasciato il campo in direzione sud, ma è
praticamente impossibile fare un accenno più preciso del tragitto fin qui
percorso. Non esistendo mappe specifiche della zona, anche perché la natura
cambia spesso aspetto e i punti di riferimento conosciuti possono di volta in
volta sparire, l'unica cosa sensata è quella di affidarsi a delle guide
esperte, senza tentare inutili e pericolose sortite solitarie. In questo punto
il massiccio dell'Acacus incombe sempre più da vicino, fronteggiando con
fierezza il deserto che avanza da est. Entriamo cosi nella valle del Wadi
Tashwinat, a cavallo del 25° parallelo, non molto lontani dal Tropico del
Cancro, qui sabbia e roccia si incontrano fondendosi in un gioco di scenari
naturali molto suggestivi. Subito incontriamo due stupendi archi naturali, l'Arco
di Fanaluppe e l'Arco di Tankhaliga, per lo meno questi sono i nomi
indicati dalla nostra giovane guida Ahmed, perché spesso in Libia i luoghi
vengono indicati con più nomi diversi, rimanendo poi il grosso problema di
capire come si scrive quello che si sente pronunciare. Il primo ricorda una
grande testa d'elefante con la proboscide ben in evidenza, con la roccia che
sembra disegnare la tipica forma a placche della pelle dell'animale, il secondo,
invece, potrebbe richiamare alla memoria la facciata di un grande tempio antico
con le colonne scolpite, un’ipotesi ne accredita l’uso presso i Tuareg come
primitiva moschea. Continuando ad esplorare il Wadi Tashwinat ci mettiamo poi
alla ricerca delle misteriosi ed affascinanti pitture rupestri, che si trovano
in più punti alla base delle pareti rocciose, mute testimoni di un tempo
antico. Non abbiamo con noi una mappa precisa e come per altre cose vale la
conoscenza consolidata tramandata di generazione in generazione tra le
popolazioni del luogo.
Arte Rupestre del Sahara Libico
Ad oggi non si possiedono dati certi su quale misterioso popolo
abbia potuto realizzare, con cosi evidente cura e maestria artistica, le pitture
ed i graffiti che punteggiano tutto il deserto libico, tramandandoci cosi sulla
pietra il racconto di un mondo che non esiste più. Secondo le ipotesi più
accreditate le opere sono fatte risalire agli antenati degli attuali Tuareg o
all'antico popolo dei Garamanti, una tribù locale che ebbe significativi
contatti anche con il mondo romano, ma considerando la datazione posteriore di
alcune, rispetto alla presenza di questi popoli, potrebbe trattarsi, piuttosto,
della continuazione di una tradizione più antica. Le prime notizie sull'arte
rupestre, che in seguito dovrà rendere merito al sapiente lavoro
all'archeologia italiana, vengono riportate da due esploratori tedeschi,
Heinrich Barth e Gustav Nachtigal, che di ritorno da un viaggio nell'estate del
1850 ne informano l'opinione pubblica. Tale fu lo stupore della comunità
dell'epoca, nel trovarsi di fronte ad opere d'arte di cosi tale bellezza, che
sembrò impossibile all’inizio poterle attribuire a popolazioni preistoriche,
più facilmente considerate prive di una cultura di cosi elevato livello.
D'altra parte, quello che per gli europei si presentava come una scoperta
assoluta, per i Tuareg dell'epoca era una tradizione dei progenitori da
conservare con cura e rispetto.
Occorre cosi attendere ancora un secolo per vedere attribuita all'arte rupestre
del Sahara l'importanza storica ed artistica che merita. E' il 1955 quando il
prof. Mori, a capo di una spedizione inviata dall'università di Roma,
inizia un lavoro scientifico e sistematico sullo studio di quest'importante
eredità del passato, permettendo cosi di far luce sulla cultura e sugli usi e
costumi dei popoli che abitavano queste zone nei periodi che si spingono fino a
12.000 anni a.C. Giovandosi dell'imprescindibile supporto delle conoscenze delle
guide locali, in più campagne di ricerca, gli archeologi arrivano a catalogare
oltre un migliaio di siti solo nell'Acacus, attirando cosi l'attenzione della
comunità internazionale e dell'Unesco che dichiara la zona patrimonio
dell'umanità da conservare. Per meglio comprendere lo sviluppo che ha avuto
quest'arte nel tempo e come si sia evoluta in base ai continui cambiamenti del
contesto climatico gli studiosi hanno individuano dei periodi di
riferimento, caratterizzati ognuno da una tipologia di figure rappresentate e
tecniche ben specifiche. Ogni sito può cosi appartenere ad un periodo preciso
oppure contenere opere di più periodi, a seconda che venisse utilizzato dalle
popolazioni in tempi successivi.
Datazione
Periodo
Graffiti e Pitture esemplificative
10.000
- 6.000 a.C.
Periodo
della Grande Fauna, detto
anche periodo dei cacciatori o del Babalus antiqus, un tipo di bufalo ormai
estinto. E' caratterizzato da graffiti di grandi animali, soprattutto mammiferi,
realizzati con una precisione ed un'accuratezza che lascia stupefatti. Elefanti,
Giraffe, Rinoceronti, Bufali, Antilopi, Ippopotami, Coccodrilli, scolpiti nella
roccia probabilmente mediante una punta di pietra dura, tipo la quarzite, a sua
volta percossa da un'altra pietra. In questa fase l'uomo non ritrae se stesso,
ma si limita a rappresentare la natura che lo circonda.
8.000
- 6.000 a.C.
Periodo
delle Teste Rotonde,
caratterizzata da pitture rupestri in cui l'uomo inizia a rappresentare se
stesso. Nel primo periodo le figure sono per lo più rappresentate in modo
stilizzato con una testa antropomorfa di forma rotonda senza alcun tipo di
espressione, mentre in seguito l'arte si evolve realizzando figure più
complesse. Contraddistingue la fase evoluta del periodo in cui l'uomo si
dedicava alla caccia, alla pesca ed alla raccolta di frutti selvatici. In questo
periodo inizia l'uso del colore, che al di la della valenza artistica, assume un
significato simbolico, come per distinguere i sessi o l'uomo dagli animali.
Figura di riferimento non disponibile
5.500
- 2.000 a.C.
Periodo
Pastorale, l'uomo inizia a
diventare stanziale, dedicandosi all'agricoltura
e all'allevamento di animali addomesticati, mentre il clima gradatamente passa
da temperato ad arido. In una fase iniziale, denominata Pastorale Antica, si
trovano ancora scene di caccia a grandi animali, anche se ben presto i soggetti
cambiano iniziando a riflettere maggiormente la nuova realtà della vita
quotidiana, come il lavoro nei campi o la cura degli animali, insieme ad
eventi sociali che riguardano la comunità come le scene di guerra tra tribù
rivali. In questo periodo l'uomo inizia ad esprimere concetti come famiglia o
gruppo di appartenenza.
1.000
a.C. - 1 d.C.
Periodo
Cabalino, siamo agli albori
della storia moderna, si intensificano i rapporti commerciali con i popoli
vicini e con i conquistatori romani del Nord Africa. Nella pittura si
assiste alle prime rappresentazioni dei carri trainati da animali e di
uomini a cavallo, anche se complessivamente le figure umane perdono quella
ricchezza di definizione dei periodi precedenti. Sempre a questo periodo
appartengono le enigmatiche scritture in lingua tifinagh delle popolazioni
tuareg.
200
a.C. -
Periodo
Camelino, caratterizzato
dalle frequenti raffigurazioni di cammelli, animali che in breve sostituiscono
il cavallo nella vita quotidiana grazie alle migliori capacità di adattamento a
condizioni climatiche via via sempre più difficili.
Per chi fosse interessato ad approfondire
l'argomento consiglio il libro
LIBIA Arte Rupestre del Sahara di Giulia Castelli
Gattinara
Edito nella collana Percorsi e Culture dall'editrice POLARIS ( ISBN 88-86437-39-0
)
Con
brevi spostamenti in jeep percorriamo il letto arido del Wadi Tashwinat e dei
suoi affluenti localizzando numerosi siti dove i tesori dell'Arte Rupestre hanno
resistito all’incedere del tempo. Non esiste una suddivisione geografica delle
opere per i vari periodi e cosi in un'area relativamente ristretta si
possono ammirare giraffe ed elefanti del periodo della Grande Fauna, animali
addomesticati, scritte tuareg e scene di caccia e di guerra del periodo
Pastorale, insieme a uomini che cavalcano a dorso di dromedario del periodo
Camelino ed altri ancora, tra cui uno veramente originale ed enigmatico,
ritratto qui a fianco, che ha colpito in particolare la mia attenzione.
Nell'interpretazione degli esperti, a detta della nostra guida, rappresenta
l'espressione del senso della famiglia, in effetti anche ai nostri giorni il
gesto di allargare le braccia può essere l'espressione del senso di affetto e
di accoglienza verso qualcuno che ci è caro. Prima della sosta per il
pranzo ci rechiamo a far visita ad una famiglia tuareg, una delle poche rimaste,
che ancora preferisce vivere nel deserto nonostante le evidenti difficoltà
ambientali. Il patriarca è la guida che accompagnò il prof Mori per cinque
anni durante le prime spedizioni nel Jebel Acacus. Lo incontriamo sotto
un'apposita tenda adibita a riceve gli ospiti e sistemata a breve distanza dal
campo, dove risiede con i suoi congiunti, per proteggerne la privacy dalla
"normale" invadenza dei turisti. E' una persona un po' avanti con gli
anni, ma che trasmette ancora un grande senso carismatico, cosi tutte le nostre
guide ed autisti si affrettano a salutarlo con un gran senso di deferenza.
Probabilmente è uno degli ultimi depositari dei mille segreti di questi luoghi,
ultimamente soffre per un problema agli occhi mal sopportando la luce del sole
ed i flash delle macchine fotografiche, ma si presta di buon grado ad uscire
dalla tenda per posare per le classiche foto ricordo, un modo per raggranellare
anche qualche spicciolo. A detta del nostro accompagnatore è possibile a volte
acquistare qualche piccolo reperto, come punte di freccia o altro, che lui e la
sua famiglia trovano nella zona, ma io ci andrei cauto e mi accontenterei delle
foto ricordo, perché ho dei dubbi sul fatto che quel genere di reperti, che
comunque quel giorno non aveva, non sia soggetto a una qualche restrizioni di
legge. Il tempo di risalire in jeep ed ecco apparire un'autentica sorpresa,
un'opera tra le più belle incontrate, il graffito di un elefante eseguito nel
periodo delle Teste Rotonde. L'animale è tratteggiato con un'armonia e una
dovizia di particolari stupefacente, mentre la fluidità del movimento, con quel
suo incedere elegante, lascia letteralmente a bocca aperta. E' veramente
emozionante ritrovarsi cosi dal vivo di fronte ad un opera dell'ingegno umano
capace di trasmettere ancora, dopo quasi 10.000 anni, la passione con cui
l'autore l'ha creata. Penso che ben pochi artisti dei nostri giorni, con i mezzi
dell'epoca, sarebbero in grado di riprodurre un'opera di tale naturalezza. E'
arrivata l'ora del pranzo e dopo aver parcheggiato le jeep sotto un costone
roccioso, al riparo d'un filo d'ombra, prepariamo il bivacco. La jeep cucina ci
ha preceduto ed il tempo di sistemare tavolini e sgabelli in una lunga fila
ordinata che si mangia, anche questa volta i nostri autisti si cucinano a
parte, non riusciamo proprio a corromperli con le nostre delizie. Dopo il pranzo
e qualche minuto di meritato riposo riprendiamo la via del ritorno. Usciamo dal
Wadi Tashwinat lasciandoci alle spalle immagini suggestive che ancora brillano
nei nostri occhi, ma non è molto tardi e cosi ci concediamo un tuffo nelle
grandi dune sabbiose di Iguidi Ouan Kasa per provare l'ebbrezza del vero
deserto di sabbia. E' contento anche il nostro autista Alì che si diverte un
mondo a guidare la jeep sulle dune, un po' meno le mie due compagne di viaggio,
due simpatiche signore di Torino. Viste dal satellite le dune di Iguidi
Ouan Kasa appaiono come una sottile striscia di sabbia, avanguardia del Sahara
che incede inesorabilmente, incuneata tra i massicci del Jebel Acacus a ovest e
del Masak Mallat ad est. Quando ci sei sopra, invece, la prospettiva cambia
radicalmente e con gli occhi quasi non riesci a raggiungerne i confini, in un
orizzonte di morbide linee modellate dal vento che si specchia in lontananza sul
profilo di un cielo nitido. Con i piedi nudi, a bagno in quel mare impalpabile,
nessuno vorrebbe più staccarsi da quell'atmosfera fiabesca, ma la strada del
ritorno verso il campo Fao 35 è ancora lunga e su questi terreni le jeep non
possono tenere medie molto elevate, è bene avviarsi per evitare che il buio ci
sorprenda in viaggio. All'arrivo ci salutano leggere gocce di pioggia, quasi una
rarità da queste parti, che subito però lasciano il posto ad uno stupendo
arcobaleno che con le sue sfumature colorate si staglia proprio sopra le tende
del campo. E prima della doccia cosa di meglio di un tiepido tè alla menta
servito a regola d'arte in piccoli bicchierini di vetro, come prevede la più
pura tradizione araba, con il liquido ambrato che scivola dolcemente dall'alto
in modo da formare una leggera schiuma. Dopo una giornata di deserto è la
migliore bevanda che esista. Lo prepara un sorridente ragazzo del campo, vestito
di tutto punto con un tipico caffettano, che più tardi, dopo la cena e un
rapido cambio d'abito, ritroveremo anche nel ruolo di venditore di piccoli
oggetti di artigianato. Intanto quasi senza accorgercene è sceso il buio. Le
tenui luci del campo illuminano una serata tiepida, avvolta in un'atmosfera
ovattata e resa ancor più impalpabile da un cielo che, complice una luna quasi
al suo apice, è nero come la pece senza una stella che brilli lucente.
23
Maggio 2005
Campo
FAO35 - Adad - Awiss - Campo FAO35
Vincendo il dolce abbraccio di Morfeo, dopo un'altra notte
trascorsa tranquillamente, alle 6.00 antidiluviane sgattaiolo furtivo fuori
dalla tenda, con la macchina fotografica a tracolla pronto a gustarmi il sorgere
del sole. In un attimo sono fuori dal perimetro del campo mentre al suo interno
tutto ancora tace. Con la coda dell'occhio scorgo fugaci ombre che si dileguano
rapidamente, forse apparizioni d'un fantasma che aleggia da queste parti, o
forse qualcuno che come me si prepara ad assistere allo spettacolo che la natura
mette in scena dall'inizio della creazione. Ma non c'è tempo per fraternizzare
e cosi ognuno cerca il suo angolo nascosto dove confrontarsi con l'ignoto,
immersi in un silenzio irreale, soli, di fronte al mondo che si sveglia a nuova
vita. Chissà che miracolo deve essere sembrato ogni giorno agli occhi dei
nostri antichi antenati, noi che i miracoli siamo abituati a costruirceli.
Un'autista avvolto in una coperta dorme accanto al suo mezzo, come il suo antico
progenitore dormiva accanto al dromedario, forse l'unica cosa preziosa che
possedeva, per proteggerlo e scaldarsi; cambiano le tecnologie non la cultura di
un popolo. Mi arrampico a fatica su una collinetta dietro il campo
trascinando i piedi che affondano, tracce di animali segnano la sabbia lisciata
dal vento, li uno scorpione, li forse un cane del deserto, li i miei passi che
arrancano. La luce inizia ad inghiottire il buio della notte, ma non c'è nulla
di cruento nell'eterna lotta tra il giorno e la notte, sembra piuttosto il gioco
di due bambini che non si stanchino mai di rincorrersi e che per un solo istante
arrivano a sfiorarsi prima di perdersi nuovamente. Ci siamo, ora sono in cima
alla collina e dominando lo spazio che mi circonda, in un alternarsi di pianure
e creste rocciose, posso lasciare che il mio sguardo vaghi verso il chiarore che
monta. Il sole fa capolino dietro il mio orizzonte, prima in tono dimesso poi
via via sempre più deciso, accendendo cosi la sua sfera magica d'una livrea che
sfuma dal rosa, al porpora, al giallo intenso, come una lanterna di carta di
riso che avanza nel buio e si fa sempre più luminosa. Ecco, ora sfoggia tutto
il suo splendore, mentre si pavoneggia librandosi leggiadro verso l'alto, è in
questo momento che ti permette di guardarlo dritto in faccia, regalandoti per un
attimo un privilegio concesso solo agli dei. Ancora incantato dallo spettacolo
scendo rapidamente dalla collina, anche il campo si è risvegliato e la grande
tenda comune inizia ad affollarsi per la prima colazione. Il tempo di radunarsi
e si riparte con le jeep verso i contrafforti settentrionali del Jebel Acacus
per visitare la zona dell'Awiss e dei suoi wadi. L'escursione in
programma oggi prevede un tragitto meno lungo e cosi possiamo prendercela con più
calma, aiutati anche da una natura che con i mutevoli scenari invita a fermarsi
sovente. Tutta la zona è punteggiata da pinnacoli di roccia, sembra quasi
che la mano di un gigante si sia divertita a sistemare piccoli sassi in precario
equilibrio per vedere se rimanevano in piedi, e cosi sono rimasti, a formare
figure fantastiche in cui di volta in volta è facile scorgere il profilo di un
volto o la figura di un animale. Qui il deserto di sabbia sembra avanzare più
rapidamente e cosi in alcuni punti la roccia nera spunta dalla cima alle dune
come un annegato che tenti disperatamente di tenere la testa fuori dall'acqua,
ma la vita nonostante tutto ha saputo adattarsi, sviluppando tecniche e
strategie alternative per continuare a riprodursi, come dimostrano le piante e
gli arbusti spinosi che abbiamo incontrato, e poi basta una leggera pioggia per
vedere un prato verde venir fuori all'improvviso. Durante il tragitto
incontriamo due donne tuareg che procedono a piedi, forse fanno parte della
famiglia della guida del prof. Mori che abbiamo incontrato ieri, probabilmente
vanno incontro ad un gruppo di dromedari, con tre piccoli al seguito, che
incrociamo subito dopo in una piccola valle. In questa prima parte della
mattinata non incontriamo molti reperti rupestri, ma tra tutti spicca un
graffito del periodo pastorale che a detta della guida rappresenterebbe una
scena d'amore. Poco dopo la piccola valle, invece, incontriamo alcuni siti
con numerosi graffiti e pitture rupestri. La maggior parte di questi risale al
periodo pastorale che a sua volta viene considerato suddiviso in due periodi,
uno più antico quando vengono rappresentati i grandi animali come gli elefanti
e le giraffe, ed uno più recente quando invece sono raffigurate figure umane
insieme ai loro animali domestici come i bovini e gli ovini. Particolarmente
significativa e toccante è la scena che ritrae una coppia di sposi che si
tengono per mano, dipinta all'interno di un cerchio inciso nella pietra.
Numerose sono anche le pitture del periodi cabalino tra cui spicca, in bello
stile, quella di un uomo sopra un carro trainato da un bovino. Nella zona si
trovano anche pitture del più recente periodo camelino, ma sono realizzate con
tratti semplicistici e grezzi come tracciate da una mano infantile,
l'impressione che se ne ricava è che in questo periodo il gusto e la tecnica
precedenti fossero andati perduti. E’ da notare, tuttavia, come alcune di
queste opere siano considerate dagli esperti dei falsi d'epoca, riproduzioni cioè
più recenti, realizzate probabilmente dai tuareg di inizio secolo. Nel
tardo pomeriggio, mentre rientriamo verso il campo, ci fermiamo spesso lungo il
tragitto ad ammirare i panorami che la natura si è divertita a disegnare.
Pinnacoli dalle fogge più strane, sospesi in bilico a sfidare la forza di
gravita, pareti rocciose che sembrano castelli di sabbia bagnata, volti che
spuntano all'improvviso nel gioco di luci ed ombre, piccoli arbusti, sentinelle
isolate della vita che qui ancora non si dà pace, e dappertutto il manto dorato
del deserto che come una coperta di luce si insinua, ammanta ed avvolge ogni
cosa con il suo tocco lieve. Un ultimo salto e siamo fuori, è il momento
di fermarsi. Schierate le jeep sull'alto di una duna scendiamo a salutare come
si deve il Jebel Acacus, lasciandoci inebriare ancora per un attimo dai
suoi orizzonti senza confini, dai suoi silenzi carichi di atmosfera, dal suo
tocco lieve sotto i piedi, dai suoi colori carichi di luce, dalla quella magia
che ti penetra dentro con un impercettibile senso di malia che non andrà più
via. Tornati al campo c'è ancora il tempo di salire in cima alla collina
per assistere allo spettacolo del tramonto. Lentamente il deserto si addormenta,
cullato da una fresca brezza che come un rimedio spande su tutte le cose il suo
benefico effetto. "Ecco,
avanza il crepuscolo; il vecchio nemico, il sole, si tuffa finalmente nelle
brume violette dell'occidente. Ecco l'ora benedetta fra tutte, nel deserto. Il
tramonto."
(da "Il viaggiatore delle dune" di Théodore Monod).
24
Maggio 2005
Campo
FAO35 - Al Aweinat - Garama - Erg Ubari - Twiwa Camp
C'è aria di smobilitazione al campo. La nostra partenza coincide con il periodo di chiusura estiva della struttura, non perché qui se ne vadano tutti in ferie, ma perché ben presto le temperature diventeranno insopportabili, tali da sconsigliare a chiunque non del luogo di mettersi a girovagare a zonzo per il deserto. E cosi dopo di noi il Campo Fao 35 verrà completamente smontato e riposto in attesa della nuova stagione, che di solito riprende verso la fine del mese di Settembre. Certo l'atmosfera non poteva conciliarsi meglio con la malinconia di dover lasciare questi stupendi paesaggi e i suoi tesori, qualcuno aveva anche già imparato a farsi da solo il turbante arabo, un'operazione che richiede quasi il conseguimento di una laurea breve. Volgendo per un'ultima volta lo sguardo verso il Jebel Acacus riprendiamo la strada per Al Aweinat fino a ricongiungerci alla statale che collega Sebha a Ghat. Breve sosta di nuovo all'Aflaw Camp, il tempo di gustare un gelato e di fare rifornimento di oggetti d'artigianato dagli stessi venditori ambulanti incontrati all'andata ( si saranno mai mossi in attesa del nostro ritorno ? ). I prodotti in vendita sono gli stessi che potrete trovare in qualsiasi bottega della medina di Tripoli, più o meno allo stesso costo, ma volete mettere quanto più gusto c'è a sedersi per terra e a trattare animatamene con questi ragazzi per far scendere il prezzo. Riprendiamo la strada verso nord, non c'è molto traffico e cosi gli autisti decidono a piacimento quale corsia sia più opportuno utilizzare. Superata la cittadina di Ubari visitiamo un piccolo sito archeologico che si trova proprio sul margine della strada per Germa. Questo, come altri sparsi nella zona, era un luogo di sepoltura del popolo dei Garamanti, un'etnia autoctona di cui non si conoscono approfonditamente gli usi ed i costumi, ma verso la cui storia è rinato un certo interesse, grazie anche al personale appoggio del colonnello Gheddafi proteso negli ultimi tempi alla ricerca di un'identità storico culturale del popolo libico che possa esaltarne le radici africane oltre che arabe. All'interno del sito si trovano alcune tombe restaurate a forma di piramide, in cui il defunto veniva posto presumibilmente in posizione semi-eretta. Arrivati nella cittadina di Germa ci fermiamo a visitare il piccolo museo locale dove sono conservati alcuni reperti fossili rinvenuti nella zona insieme a foto e mappe delle pitture ed incisioni rupestri del deserto libico. Proseguendo ci rechiamo a Garama, l'antica capitale dello stato che i Garamanti trasferirono qui agli albori del I sec. d.C., al termine di un periodo contrassegnato da estenuanti guerre con i conquistatore romani. Il mutato rapporto, i romani non riuscendo a sottomettere la bellicosa popolazione finirono con lo stabilirne una vantaggiosa alleanza, permise ai Garamanti di raggiungere una fase di stabilità politica. Questo nuovo stato di cose diede l'avvio ad un periodo di rinnovato progresso che permise alla loro civiltà di raggiungere il suo apice; all'epoca i Garamanti controllavano le più importanti rotte carovaniere ed i principali commerci dell'area al punto da diventare uno dei più importanti partner economici di Roma in Nord Africa, che rifornivano tra l'altro di mandrie di cavalli, allevamento in cui eccellevano. Dell'antica città costruita in pietra e argilla non è rimasto molto, anche perché nei periodi successivi i popoli che hanno vissuto nella zona, Bizantini e Turchi, ne hanno in parte riadattato gli edifici per i loro usi. Appena superato l'ingresso del sito ci si trova nella grande piazza che era adibita al commercio dei cavalli e che fungeva da punto di partenza delle numerose carovane che trasportavano i prodotti locali. Su un lato si trova la casa in pietra arenaria di un ricco commerciante equino e subito dietro il quartiere islamico abitato nel periodo della dominazione turca. La parte più antica delle rovine si trova nel settore occidentale del sito, un dedalo di vicoli su cui si aprono piccole case con gli ambienti distribuiti su due piani e da cui si gode un bel panorama sui campi coltivati. Su tutto si erge una grande costruzione identificata come il palazzo del Garamanti, forse il centro del potere politico o religioso. Ma quello che più impressiona, visitando il sito, è che si ha la sensazione di trovarsi all'interno di una città pietrificata, dove tutto, dalle palme alle case, sembra essere imprigionato in un sortilegio. E' l'effetto della tecnica di conservazione utilizzata per preservare i fragili resti archeologici, una specie di vetrificazione che ha bloccato tutti i processi degenerativi. Terminata la visita di Garama ci avviamo verso l'ultima meta della giornata il Twiwa Camp dove trascorreremo la notte. Il Twiwa è un campo permanente in muratura, proprio a ridosso di uno dei punti d'accesso, nella parte meridionale, del maestoso Erg Ubari. Idehan, mare di sabbia in arabo, formato da dune dalla linea morbida ed ondulata costantemente modellale dal vento. Il tempo di sistemarsi e ci arrampichiamo sulla cresta delle prime dune, lottando con i piedi che affondano nella sabbia impalpabile, per godere del panorama che ci circonda e per assistere ancora una volta dello spettacolo del sole che tramonta. Gli ultimi raggi del sole che salutano il giorno ammantano tutto il paesaggio di un'atmosfera fiabesca, in un gioco di luce ed ombre in cui i riflessi purpurei si rincorrono sulle dune a disegnare figure fantastiche. E' ogni volta uno spettacolo diverso ed allo stesso modo emozionante, non ci sono parole che possano descriverlo, se non la contemplazione a cui invita il silenzio.
25
Maggio 2005
Twiwa
Camp - Erg Ubari - Laghi Gebraoun, Mavo,Umm al-Maa,Mandara - Sebha – Tripoli
Oggi
ci inoltriamo nell'Erg Ubari per visitare alcune oasi che il deserto custodisce
gelosamente al suo interno. Lasciato il campo ci fermiamo poco prima di entrare
nel deserto vero e proprio per diminuire la pressione dei pneumatici delle jeep
e facilitare cosi la guida sulla sabbia. Fino a pochi anni fa queste oasi di
verde, cresciute intorno a minuscoli laghi incantati, erano circondate da
piccoli nuclei abitativi il cui sostegno dipendeva quasi esclusivamente dalla
presenza dell'acqua. Ma negli ultimi tempi le precarie condizioni di vita prima
e la progressiva riduzione del livello dei laghi poi, alcuni dei quali ormai in
secca anche per via dell'abbassamento della falda freatica, hanno indotto il
governo ad accelerare il progetto di spostare queste persone in luoghi più
idonei. Cosi, ormai, i turisti sono diventati i frequentatori più assidui e
numerosi di queste straordinarie bellezze naturali, piccole chiazze d'azzurro
cadute dal cielo dentro un mare di sabbia dorata. Ricordatevi di portarvi dietro
il costume, perché il bagno nell'acqua salata dei laghi, sembra che il tasso di
salinità sia più alto di quello del Mar Morto, è un'esperienza sorprendente,
immersi in un orizzonte giallo acceso con il profilo delle dune che si staglia
in lontananza in un cielo terso. Accanto ai laghi più grandi si trovano alcuni
campi, ed altri sono in costruzione, dove è possibile trovare ospitalità per
la notte o anche solo per darsi una sciacquata dopo il bagno. Il primo che
visitiamo è il lago Gebraoun, uno dei più grandi che s'incontrano nel
Sahara; il nome significa letteralmente la Tomba di Aoun, un antico notabile
locale seppellito vicino al vecchio villaggio adagiato in posizione leggermente
rialzata sulla sponda occidentale, probabilmente anche lui un membro della tribù
Dawada, l'etnia che in maggioranza occupava la zona. Il villaggio, ormai in
stato di totale abbandono dopo che nel 1991 il governo ha trasferito i suoi
abitanti in un nuovo villaggio lungo la statale, crea insieme al lago un effetto
suggestivo, sembra quasi di trovarsi in un avamposto isolato della legione
straniera con quelle atmosfere tipiche d’un romanzo dell'ottocento. Appena
scendiamo dalle jeep non possiamo resistere dal tuffarci nella placide acque del
lago per provare l'ebbrezza di nuotare come sospesi in assenza di gravità
grazie all'elevato tasso di salinità, ai maschietti è consigliato evitare di
farsi la barba la mattina per non incorre nei bruciori provocati dal sale,
mentre in generale è preferibile anche non andare sott'acqua ed evitare il
contato con gli occhi.. Accanto al lago si trova il camping Lac du Repos dove c'è
un pozzo d'acqua che permette di darsi una sciacquata dopo il bagno per
togliersi un po’ di sale da dosso. Risaliti sulle jeep ci rechiamo
a visitare il lago Mavo, più piccolo del precedente, ma non per questo
meno pittoresco. Incastrato tra le dune e circondato da un piccolo palmeto offre
un altro scorcio panoramico veramente notevole, con i colori del cielo e della
sabbia che risaltano in un bel contrasto cromatico. Sulla sponda del lago
incontriamo un mercante tuareg che indossa uno sgargiante caffettano rosso, la
sua mercanzia è esposta su un telo direttamente sulla sabbia, particolarmente
belli sono alcuni coltelli caratteristici, in tutto simili agli originali
utilizzati dai tuareg, rifiniti in pelle naturale o pelle di serpente, non ho più
avuto modo di vederne di tale fattura. In seguito ci rechiamo a visitare il
lago Umm al-Maa, il cui nome significa Madre dell'acqua. Rispetto agli
altri ha una forma più allungata ed è circondato da una folta vegetazione,
alcuni ragazzi ci salutano mentre si godono il bagno giocando con un tronco di
palma galleggiante come novelli Tarzan. L'ultimo lago che visitiamo è il lago
Mandara. Qui ci si può facilmente rendere conto del progressivo ritiro
della falda sotterranea, dato che il lago è soggetto a frequenti periodi di
secca, come appunto durante la nostra visita in cui piccole pozze d'acqua
stagnavano tra la vegetazione del fondo. I resti delle case lungo le sponde
appartengono all'antico villaggio, ormai un fantasma, abbandonato nel 1991
durante l'esodo forzato deciso dal governo. Terminata la visita del laghi
dobbiamo a malincuore salutare l'Erg Ubari e il suo caldo respiro incantato per
far rientro a Sebha dove un ultimo volo locale ci riporterà in serata a
Tripoli. Lungo la strada per l'aeroporto ci fermiamo a visitare un resort, il
Fezzan Park, al cui interno è ospitato un piccolo zoo privato con alcuni degli
animali che appartengono alla fauna tipica della zona. Volpi e topi del deserto,
accanto a piccole antilopi, gazzelle e a quelli che sembrano essere dei mufloni,
con due simpatici e dispettosi struzzi che girano indisturbati, pronti a
ghermire tutto quello che gli viene a portata di becco. All'aeroporto di Sebha
lasciamo le jeep e salutiamo gli autisti che ci hanno accompagnato durante gli
ultimi 5 giorni di viaggio. Questa volta il volo interno non subisce intoppi e
come previsto, nel tardo pomeriggio, atterriamo a Tripoli. L'ultimo albergo del
nostro viaggio in Libia è un moderno hotel frequentato da uomini d'affari
locali e stranieri. E' situato nella parte nuova della città accanto ad alcuni
edifici di recente costruzione, tra cui spicca un complesso di cinque
grattacieli disposti in modo tale che solo guardandoli dal mare, mentre ci si
avvicina alla città, si riescono a vedere tutti insieme. Un segno di
distinzione o una bizzarria del progettista, ma comunque il simbolo del nuovo
senso di modernità a cui si ispira il regime, che di Tripoli ha fatto il suo
laboratorio. Cosi la vista dalla mia camera giù sulla strada, insieme alle luci
e ai rumori del traffico sostenuto, richiama alla mente assonanze più
occidentali che arabe, distanti mille anni dai silenzi del deserto che fino al
giorno prima avevano cullato i nostri sogni.
26
Maggio 2005
Tripoli
- Sabratha – Tripoli
Notte. Posso assicuravi che a Tripoli nel mese di Maggio non si muore di caldo, figurarsi di notte. Eppure qui nel nostro albergo, ma immagino anche negli altri di recente costruzione, sembra che abbiano una predilezione smisurata per l'aria condizionata, sparata ad una temperatura quasi glaciale e senza possibilità di controllo essendo centralizzata. Chiamare il portiere per lamentarsi? Più pratico seguire il consiglio di portarsi dietro, per ogni evenienza, un bel rotolo di scotch da pacchi, se non volete passare una mezz'oretta come me a cercare di rammendare al meglio il lavoro iniziata da qualcun'altro, nel tentativo di tappare con la carta le fessure della bocca infernale. Cosi dopo una notte piuttosto agitata, la sveglia, anche se anticipata, arriva come una liberazione. Lasciamo Tripoli di buon mattino e seguendo la costa ci dirigiamo verso occidente, per visitare l'antica città romana di Sabratha, uno dei siti archeologici più importanti della zona, che seppur meno appariscente di quello Leptis Magna offre comunque scorci molto interessanti, ospitando, tra l'altro, uno dei teatri più belli dell'antichità.
Cenni Storici
La città, il cui nome sembra derivare dal termine libico-berbero
utilizzato per indicare il "Mercato del grano", venne fondata nel IV
sec. a.C. da alcuni coloni punici provenienti da Cartagine, su un preesistente
insediamento locale. Abili mercanti e navigatori i coloni punici scelsero il
sito perché offriva un'insenatura naturale che ben si adattava ad un approdo
sicuro per le navi. Il primo nucleo urbano si presentava come una città
arroccata dall'aspetto chiuso e tortuoso, situazione che iniziò ben presto a
cambiare con l'arrivo dei coloni greci prima e di quelli romani più tardi. In
seguito ad un violento terremoto, che nel I sec. d.C. scuote la zona, la
ricostruzione e l'urbanizzazione della nuova città assumono sempre di più
connotati tipici dell'architettura romana. Nel I e II sec. d.C. Sabratha vive il
suo momento di massimo splendore, fino ad arrivare ad essere elevata al rango di
colonia. Ed è in questo periodo che vengono costruiti gli edifici
pubblici più importanti, come il magnifico teatro, giunti fino a noi. Con
l'arrivo del declino politico ed economico di Roma, nel III sec. d.C., inizia
anche l'inesorabile parabola discendente della città, a cui contribuisce in
modo determinante anche il disastroso terremoto del 365 d.C. Dalle rovine nasce
una nuova città, più piccola e dimessa, che non sarà più in grado di
assumere l’importanza d’un tempo. Con la conquista bizantina del 533 d.C, da
parte del generale Belisario, la città viene dotata di un cinta muraria
difensiva, che abbracciava però solo una parte dell'antica area urbana romana,
lasciando cosi all'abbandono quasi tutta la parte est della città. Con
l'avvento dell'Islam nel VII sec. d.C. la città scivola ancora di più
nell'oblio fino a scomparire, inghiottita dalla sabbia, appena un secolo più
tardi. Scomparsa agli occhi del mondo fino alla successiva riscoperta nei primi
anni del XX sec. grazie all'opera degli archeologi italiani.
Superato l'ingresso del sito archeologico, sulla
sinistra si trovano due piccoli musei che ospitano reperti del periodo punico e
romano, ma che non sono stati però oggetto di una nostra visita, un sentiero
conduce all'area visitabile raccordandosi direttamente con l'antica via romana
del Cardo, l'arteria che attraversava la città da nord a sud. In questa prima
parte il Cardo fiancheggiava vecchi quartieri residenziali, a questi fa da
sfondo la maestosa ricostruzione di un antico mausoleo punico, smantellato dai
bizantini per farne materiale da costruzione, conosciuto con il nome di Mausoleo
di Bes. La costruzione alta quasi 24 mt., con una base triangolare ed una
punta terminale a forma di piramide, è abbellita da sculture leonine e dalla
raffigurazione dei semidei Bes ed Ercole. Era presumibilmente il monumento
funebre che ornava una tomba del II sec. a.C., a cui con la sua mole imponente
assicurava sicuramente una qualche protezione spirituale. Proseguendo lungo il
Cardo si arriva presso la porta bizantina del VI sec. d.C. Questo era
all’epoca uno dei principali punti d'accesso alla città, dopo che i bizantini
costruirono un possente muro di cinta per racchiudere i quartieri che si
sviluppavano intorno all'antico foro romano ed porto commerciale. All'interno
di questa area si trovano i più importanti edifici pubblici e religiosi della
colonia romana di Sabratha. Poco dopo la porta si trovano sulla sinistra il
tempio dedicato ad una divinità non meglio identificata, mentre a destra è
collocato il Tempio di Antonino, dedicato all'imperatore divinizzato.
Salendo sulla piattaforma più alta si può godere di una bella vista d'insieme
sulle rovine. Davanti al tempio è posta una fontana sormontata da una statua
di Flavio Tullio, ormai senza più testa, costruita per onorare la memoria
del concittadino che a sue spese fece costruire l'acquedotto per approvvigionare
d'acqua la città. Di fronte al tempio di Antonino si trova la grande Basilica
di Apuleio di Madaura, in realtà l'edificio di forma ellittica venne
utilizzato come basilica cristiana solo in epoca bizantina, mentre nel periodo
romano era adibito a Palazzo di Giustizia. Il nome con cui ne è stato
tramandato il ricordo è quello di un famoso filosofo del I sec. d.C. che qui
venne processato con l'accusa di aver sposato, con l'inganno, un'anziana e ricca
vedova per carpirgli il patrimonio, la storia non può chiarire la verità del
caso, ma grazie all'eloquenza che profuse in sua difesa il filosofo fu
completamente scagionato. Con l'arrivo dei bizantini e con l'affermarsi della
nuova fede l'interno della basilica venne riadattato al nuovo uso, dividendo lo
spazio originale di 50 mt. per 25 in navate abbellite da colonne di marmo
cipollino. Appena dietro la basilica si trova il Battistero cruciforme
realizzato in pietra calcarea. Sul lato nord della basilica si apre il grande Foro
romano, punto d'incontro giornaliero e crocevia dei commerci, solo
successivamente dotato di un portico sostenuto da colonne di granito egiziano,
di cui alcune rimangono visibili ancora oggi. Ad est del foro si trovano due
templi, il Tempio di Serapide ed il Tempio di Giove. Il primo era
dedicato ad una divinità taumaturgica, conosciuta ed apprezzata nell'antichità
per le sue capacità di guarigione ed il cui culto era stato importato dal
vicino Egitto. Durante la nostra visita era al lavoro in questo tempio un equipe
di archeologi dell'università di Palermo, a dimostrazione del fatto di come i
siti archeologici della Libia abbiano ancora molti misteri da svelare. Il
secondo era invece dedicato alla triade capitolina formata da Giove, Giunone e
Minerva, culto caratteristico di ogni città romana. A nord del foro era invece
collocato il Senato dove avevano luogo i dibattiti che riguardavano il
governo della città. L'edificio era caratterizzato da un grande cortile
centrale nel cui perimetro trovavano posto, sistemati su un gradino rialzato, i
sedili utilizzati dai senatori durante le riunioni. Di fronte al foro infine,
sul lato est, era collocato il Tempio di Liber Pater, una divinità molto
venerata nell'Africa romana, seconda soltanto alla famosa triade divina. Uscendo
dal centro di Sabratha e proseguendo verso nord, in direzione del mare, si
possono visitare i resti dei quartieri che circondavano il porto, mentre
tornando indietro e continuando verso est è possibile ammirare le Terme sul
Mare, costruite in posizione spettacolare con terrazze aperte direttamente
sul mare ed abbellite da intarsiati mosaici ancora sul loro sito originale.
Dalla Terme sul Mare, in direzione sud, tutte le strade si raccordano all'antica
via Decumana, l'arteria che attraversava la città da est ad ovest. Seguendola
verso ovest si arriva in breve tempo nei pressi del Teatro, l'edificio più
sorprendete di tutto il sito archeologico e che da solo ne giustifica la visita.
Il Teatro venne iniziato nel 190 a.C. durante il regno di Commodo e
terminato, secondo alcuni, solo alcuni decenni più tardi sotto il regno
dell'imperatore Settimio Severo, originario dell'altra colonia romana quella di
Leptis Magna. Quello che è certo è che rimase attivo fino al 365 d.C., quando
insieme al resto della città fu gravemente danneggiato dal terremoto.
Trascorsero molti secoli di oblio prima che nel 1920, grazie all'attenta opera
di due archeologi italiani Giacomo Grandi e Giacomo Caputo, si ponesse mano alla
sua ricostruzione, permettendo cosi al teatro, che per le sue eccezionali misure
era all'epoca il più grande mai costruito in Africa, di tornare almeno in parte
al suo antico splendore. Quasi 95 mt. di diametro di auditorium con un
palcoscenico di 43 mt. di lunghezza per 9 di larghezza, a cui fa da sfondo un
triplice ordine di colonne che arriva fino ai 20 mt. di altezza e in cui erano
ricavate numerose nicchie destinate ad ospitare statue ed altre sculture. Ogni
particolare era abbellito da fregi, ornamenti floreali e bassorilievi che
raffiguravano figure mitologie, scene votive, insieme a rappresentazioni di
opere teatrali e di danza. Uno spettacolo d'insieme che ancora oggi lascia lo
spettatore a bocca aperta, come di certo dovevano esserlo le circa 5000 persone
che poteva contenere. Terminata la visita di Sabratha rientriamo a Tripoli e
come prima cosa ci rechiamo a visitare il Museo della Jamahiriya prima
che chiuda, infatti in certi giorni della settimana il museo osserva un orario
piuttosto ridotto che termina alle 13.00. Si trova su un lato della parte
nord-ovest della grande Piazza Verde, uno dei punti d'incontro più
frequentati della città, occupando una parte consistente dell'Assai al-Hamra,
il Castello di Tripoli chiamato anche Castello Rosso, antica sede del potere
politico in Tripolitania. Costruito con il contributo culturale dell'Unesco
concentra tutto l'arco storico della Libia, dal Neolitico fino ai giorni nostri,
distribuito in ordine cronologico all’interno di ampie sale divise su quattro
piani, raccordati tra loro da una grande scala elicoidale posta al centro della
struttura. La maggior parte delle opere, tra cui alcune di notevole pregio
artistico, risalgono al periodo greco e romano. Della collezione fanno parte
statue, frontoni, mosaici, bassorilievi ed oggetti della vita quotidiana, ma non
meno interessanti sono anche gli altri reperti, tra cui le riproduzioni, nella
galleria quattro, delle pitture e dei graffiti rupestri del Sahara, con cui è
possibile farsi un'idea dei tesori che il deserto custodisce dato che
probabilmente vi sarà difficile riuscire a vederli tutti dal vivo. Non
mancate infine di vistare la sezione moderna, dove una sala è dedicata al
periodo della resistenza libica all'occupazione Italina, mentre uno spazio più
significativo è dedicato al racconto della vita e delle opere del padre della
patria, il mitico colonnello. Ritratto qui in un campionario di tutte le
situazioni possibili, insieme ad una collezione di oggetti personali e ai regali
ricevuti durante le viste di stato. In uno spazio tutto suo, al pianterreno, è
collocato il Maggiolino verde della Volkswagen che il colonnello utilizzava per
gli spostamenti da Sebha, dove si trovava distaccato con il suo reparto
militare, a Tripoli. Sulla Piazza Verde si trova anche una delle porte
d'accesso alla parte antica della città, la Medina. Cosi, conclusa la visita
del museo, ci rechiamo a mangiare in uno dei ristoranti che si trovano al suo
interno, pronti al termine per un giro esplorativo della zona. Chi ha
avuto la ventura di visitare le splendide Città Imperiali del Marocco, come me,
potrà in parte rimanere deluso dall'inevitabile confronto perché la Medina
di Tripoli presenta un aspetto più dimesso, lontano dai clamori e dalla
frenesia piena di vita delle altre. Ma in questo, secondo me, risiede una delle
sue peculiarità più profonde che la rendono non meno interessante. Qui l'anima
araba presenta un sentire più intimo, più familiare, senza dubbio affabile, ma
meno invadente. Nessuno vi si avvicinerà cercando di procacciarvi un "buon
affare" o un "buon prodotto" e cosi potrete andarvene in giro a
curiosare liberamente in tutta tranquillità, all'interno di un ambiente che
istintivamente permette di sentirsi un po' meno stranieri. Dopo il pranzo
iniziamo a piedi il giro della Medina di Tripoli, entrando dalla porta che più
frequentemente veniva utilizzata in passato, subito a ridosso del Castello di
Assai al-Hamra nella Piazza Verde, e che immette direttamente nel Suq
al-Mushir. Appena dopo l'ingresso, con il suo arco in pietra, il Suq
costeggia il lato est della più grande moschea della medina, la moschea di
Ahmed Pasha Karamanli che risale ai primi decenni del XVIII sec.,
mentre più avanti già si intravede la Torre ottomana dell'orologio.
Come tutte le medine che si rispettino anche qui non esiste una pianta
urbanistica regolare, e il tempo si deve essere divertito più volte a mettere
mano all'intricato sistema di vicoli, che giocano a intersecarsi e a rincorrersi
come su un lavoro a maglia eseguito da una vecchina con qualche serio problema
di strabismo. Così è facile trovarsi a lavorare di gomiti per conquistare il
passo, come poter girare l'angolo e perdere l'equilibrio, in vicolo deserto,
senza più nessuno a cui appoggiarsi. E' il fascino che si ripete ogni volta,
quello di vagabondare dentro un autentico labirinto formato da muri intonacati,
stradine senza uscita, piccole botteghe aperte sulla strada, volti sorridenti,
banchetti messi in bilico ad ogni angolo, mentre piccoli occhi neri spiano ogni
tua mossa dietro le grate di una finestra socchiusa. E alla fine è quasi
impossibile ricordare il percorso esatto per trovare l'uscita, un po' come lo è
ritrovare il bandolo di una matassa finita tra le grinfie d'un gatto dispettoso.
Cosi al ritorno dal viaggio ci si affida alla memoria dei sensi, al ricordo dei
giochi di luce che si infilano in ogni pertugio possibile, chiusi tra le case
bianche e i tetti di lamierino che coprono i vicoli più bassi, ai colori che
sfidano le più ardite tavolozze cromatiche, ai profumi che vagano per l'aria
spinti da piramidi di spezie messe in bellavista accanto a succulenti montagne
di dolci da cui scivolano rivoli di miele denso, e a tutto quello che di ciò può
rimanere impresso in una foto ricordo. Perciò anche noi, con la nostra bella
fila allungata, ci incamminiamo come novelli pollicini dietro alla nostra guida,
che invece di sbriciolare molliche di pane ogni tanto ci lancia un'occhiata di
controllo. Ma alla fine si tratta solo di una questione di praticità, perché
come ho già avuto modo di sottolineare la sensazione è quella di poter girare
in tutta tranquillità. In questa zona della medina, attorno e subito dopo la
porta d'ingresso, sono concentrati tutti i Suq (bazar) più
caratteristici, che ancora oggi, seguendo antiche tradizioni, vedono riuniti in
piccoli quartieri contigui tutti gli artigiani o i commercianti dediti allo
stesso tipo di produzione o commercio che sia. Cosi passando da un vicolo
all'altro, svoltando a destra o a sinistra, si alternano file di piccole
botteghe d'oreficeria, forni per la produzione di pane e dolci, laboratori di
sartoria, negozi di stoffe e tappeti, piccole fucine per il lavoro del rame, il Suq
al-Ghizdir, i cui artigiani sono rinomati per la produzione delle mezzelune
usate come ornamento. Il tutto frammentato ed alternato dalla presenza di
numerose moschee grandi e piccole, con i minareti che svettano verso l'alto
offrendo cosi un ottimo punto di riferimento per orientarsi. A differenza di
altri paesi mussulmani in Libia le moschee non sono chiuse agli stranieri, anche
se in realtà sono aperte normalmente solo nei momenti di preghiera, durante i
quali comunque la visita non è certo indicata. Ma se volete visitarne qualcuna
basta che cerchiate informazioni sulla casa del custode, il miftah, il
quale non dovrebbe avere problemi a venirvi ad aprire, aspettandosi chiaramente
una piccola mancia. Noi abbiamo visitato la moschea di Gurgi, ed è stata
una sorpresa ed un piacere conversare in italiano con l'attuale miftah, un
simpatico libico un po' avanti con gli anni che ha ereditato il lavoro dal padre
e che ricorda ancora vivamente il periodo italiano, con le visite dei reali
d'Italia e dei notabili d'inizio secolo '900. La moschea di Gurgi
risale al periodo dell'occupazione turca del XIX sec. ed è situata nei
pressi della Sharia Hara Kebir, nella parte nord-ovest della medina. Non
è la più grande, ma senza dubbio è una delle più belle ed interessanti dal
punto di vista artistico, la sua sala da preghiera è riccamente adornata con
colonne di marmo italiano, ceramiche tunisine e decorazioni in legno del
Marocco. Ci sono due pulpiti, minbar, utilizzati da coloro che conducono
le preghiere per rivolgere il sermone ai fedeli, e la classica nicchia, mihrab,
che indica la direzione della mecca. Nei pressi della moschea si trova l'Arco
di Marco Aurelio, una delle poche vestigia rimaste dell'antica città romana
di Oea, l'attuale Tripoli. Costruito tra il 163 e il 164 a.C. costituiva il
punto d'incrocio tra il cardo ed il decumano, le principali arterie che
attraversavano la città seguendo le direttrici dei punti cardinali. La presenza
dell'arco indica l'importanza che aveva l'antica Oea all'interno della Tripolis
romana, seconda solo forse all'antica città di Leptis Magna. Le nicchie sulle
fiancate erano destinate ad ospitare le statue di Marco Aurelio stesso e di
altri personaggi importanti. La sopravvivenza dell'arco, quando tutto il resto
dell'antica Oea è stato smantellato e inglobato dai nuovi conquistatori, dato
che la città non venne mai completamente abbandonata pur attraversando periodi
di oblio, rimane un mistero. Una delle possibili spiegazioni viene fatta
risalire ad un'antica maledizione che avrebbe colpito chiunque avesse osato
toccare anche una sola pietra. Terminato il giro in medina ci ritroviamo nella
grande Piazza Verde, creata al termine della vittoriosa rivoluzione come luogo
di raduno di massa del nuovo regime. La piazza è animata da una attività molto
vivace, interi gruppi familiari si godono le ultime ore del pomeriggio
passeggiando o bevendo qualcosa in uno dei tanti bar che vi si affacciano, o
magari, perché no, gustando un profumato narghilè, mentre tutt'intorno il
traffico automobilistico scorre in maniera piuttosto sostenuta. Attraversata la
piazza, su cui sostano fotografi ambulanti in cerca di clienti, ci dirigiamo
verso la Sharia (via) 1° Settembre ( anniversario della rivoluzione ), per
visitare una libreria con interessanti pubblicazioni sull'arte e la cultura del
paese. Sulla via si apre anche la Galleria De Bono, retaggio del periodo
fascista con la sua caratteristica architettura, simboli compresi, dove ci
fermiamo per un caffè. Per rientrare in albergo alcuni di noi scelgono la
soluzione "a fette", come si dice a Roma, (attenzione
nell'attraversare le strade) percorrendo il lungomare, lo Sharia al-Corniche,
e dando cosi un'occhiata da vicino alla parte moderna di Tripoli e al suo porto.
La sera poi, con tutto il gruppo, andiamo a cena fuori, sia per provare a
mangiare un po' di pesce, dopo il pieno di pollo fatto negli alberghi, ma
soprattutto per salutare il simpaticissimo Ahmed che ci fatto da balia per tutto
il viaggio e festeggiarne cosi l'ottima riuscita.
27
Maggio 2005
Tripoli
– Roma – Genova
Ma quanti giorni sono passati dal nostro arrivo a
Bengasi, sembra trascorso un tempo infinito tanto ci siamo trovati bene, eppure
è già arrivato il momento di ripartire, il momento di tirare i primi bilanci,
che a caldo non sono solo positivi, sono stratosfericamente entusiasmanti. Quante
emozioni vissute, quanti incanti da mettere nell'album dei ricordi, e se avete
avuto la pazienza di arrivare fin qui penso che vi siate potuti fare un'idea
esauriente delle bellezze e delle magie che può regalare la Libia, e che fino a
pochi anni fa erano ancora precluse ai più. Per cui lasciatemi il tempo di dire
che su tutto rimarrà sempre vivo in me il ricordo di aver viaggiato e condiviso
la strada con un manipolo di compagni di viaggio veramente simpatici. Ma ora è
proprio il momento di partire e visto che il teletrasporto non l'hanno ancora
inventato bisognerà pur che prenda due aerei per tornare a casa. Cosi
sveglia all'alba per essere all'aeroporto di Tripoli con abbondante anticipo,
partenza per Roma e passo affrettato per prendere la coincidenza per Genova
visto il ritardo accumulato. Arrivo a Genova nel tardo pomeriggio e per la prima
volta, ce né sempre una in tutte le cose, assaporo il brivido di non veder
arrivare la mia valigia. Che si sia voluta trattenere qualche giorno di più
in Libia visto che ci siamo trovati cosi bene? Avete mai sentito una di quelle
tante storie...dove dopo aver compilato un mucchio di scartoffie puoi comunque
metterti l'anima in pace perché tanto la beneamata borsa non la rivedrai mai più. Io
sono stato più fortunato e dopo neanche un giro completo di lancette, il giorno
dopo, mi informano che la mia valigia è arrivata sana e salva dopo essere
rimasta attardata a Fiumicino durante il trasbordo dal volo internazionale al
volo interno. Probabilmente si era ormai abituata a quel gusto di vivere il
tempo con lentezza, tipico di quei paesi,...........e d'altra parte, avete mai
visto un arabo correre affrettandosi per qualcosa...........
Diario di Viaggio di Maurizio Fortunato – 2005
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Bibliografia e Fonti Storiche :
- Libia della Lonely Planet edita da EDT Aprile 2002
-
Libia Arte Rupestre
del Sahara di Giulia Castelli Gattinara, editrice Polaris
Maggio 2000