Repubblica del Kazakhstan la destinazione.
Racconto di viaggio 2006
di Lello Mascetti
Questa volta
non si tratta di alcunché di esotico o avventuroso (per lo meno non per come
intendo io i “miei” viaggi), adesso che ci penso non stiamo parlando neppure
di vacanza bensí del tanto vituperato lavoro! Poco male, da sempre la
professione mi concede grandi possibilitá in questo senso, e me le godo tutte!.
E’ la mia
prima volta in questo paese e, come tutte le prime volte che si rispettino, una
certa dose di agitazione (tipo quella che ti attanaglia alla vigilia di Natale o
al primo appuntamento con una bella ragazza) é immancabile e produce uno stress
positivo tutto sommato piacevole. Perché poi, mi chiedo? Dovrebbe essere tutto
programmato nei minimi particolari, imprevisti calcolati e nessuna possibilitá
di ‘’evasione’’ (questo poi é tutto da vedere...faró il punto della
situazione tra qualche giorno...).
Il motivo sta
tutto nel nome, Kazakhstan. Di primo acchito mi viene in mente una delle tante
ex-repubbliche sovietiche nei pressi della steppa siberiana, con la sua
instabilitá geo-politica, spazzata 4 mesi all’anno da venti gelidi e
temperature polari che mi fanno immaginare i suoi abitanti come esquimesi. Ci
vado vicino, ma solo in parte.
Il Kazakhstan
é una giovane repubblica nata poco piú di 10 anni fa sulle ceneri
dell’impero sovietico, governata oggi dai soliti equivoci
personaggi-smanettoni che spadroneggiano e dove il clientelismo, il nepotismo e
la corruzione (qui mi fermo) sono all’ordine del giorno. La sua capitale é
Astana, neonata anch’essa, giovane cittá-fantasma eretta nel nord del paese
sullo stile architettonico (piú che discutibile) di Brasilia, dove tutto é
finto, costruito di recente e che non lascia tracce storiche (presenti in gran
numero invece ad Almaty, la vecchia capitale che, si dice, sia un piccolo
gioiellino).
Per estensione
il Kazakhstan pare sia il nono paese al mondo; confina a sud con Turkmenistan,
Kyrgyzstan e Uzbekistan, a sud-est con la Cina e a nord/ovest con la Russia;
deve le sue risorse al sottosuolo, alla pesca e alla pastorizia e, dulcis in
fundo, si avvia a diventare, assieme a mamma Russia, la piú grande potenza
energetica mondiale, soppiantando nel giro di 10/15 anni i paesi mediorientali.
La culla di questo futuro boom si chiama Mar Caspio, zona nord, precisamente, un
immenso lago d’acqua dolce poco profondo dove anche il vicino Iran recupera
gli storioni per la produzione del famoso caviale Beluga. Io stesso, sotto
ricatto del parentado, mi sono visto recapitare per lo scorso Natale una
richiesta di caviale Beluga, alla quale ho risposto con una confezione di Veruga!
(spero tanto si sia trattato di un tarocco d’allevamento o magari di un
preparato industriale, visto lo sfruttamento senza regole di quelle acque).
La temperatura
varia dai +40 in estate ai -45 in inverno (dipende comunque dalle zone, viste le
diverse latitudini), in questi giorni non dovrebbe fare particolarmente freddo
(+2 - + 14), i fiumi ghiacciano e quando piove il fango cinge d’assedio
qualunque cosa, sedili dei taxi compresi. La popolazione è giovane e l’etnia
prevalente, su quella russa, è quella mongola/cinese; i tratti sono
inequivocabilmente asiatici, il Kazakho come lingua ha una sua dignitá e deriva
ovviamente dal russo. La religione dominante è un islam moderato, piú soft
rispetto a quello che si puó trovare magari in Turchia e pertanto meno
pervasivo ed evidente nella vita di tutti i giorni.
Il viaggio
inizia all’aeroporto Schiphol di Amsterdam (da me soprannominato Schifol),
dove ritiro il biglietto dell’Air Astana (ma chi la conosce!!!); check-in alle
macchinette automatiche della KLM e via verso il gate, non prima di aver
acquistato del cioccolato fondente 81% per i colleghi (pare che per i kazakhi il
cioccolato acquistato negli aeroporti rappresenti uno status symbol…mah!).
Imbarco puntuale, mi sorprende in positivo lo spazio tra il tuo sedile e quello
davanti nonché la mancanza del passeggero di mezzo tra il sedile di corridoio e
quello di finestrino.
Stranamente
l’aereo parte puntuale, il taxing da Schiphol è sempre fastidioso in quanto
lunghissimo (13 minuti buoni) ma sono giá in preda al primo abbiocco della
giornata. L’aeroporto di destinazione è Atyrau, situato sull’estrema
propaggine nord del Caspio, dove arriveremo dopo 4 ore e mezza di volo e dove ci
attenderá un fuso orario di 3 ore in piú rispetto all’Italia. L’aereo non
è poi cosí pieno ma si respira un’aria strana, simile a quella che ho
provato ai tempi (9 anni fa) del viaggio a Cuba…mi guardo attorno e vedo solo
uomini, di tutte le etá, in prevalenza americani con i berretti da baseball, la
camicia a quadri da boscaiolo e l’inconfondibile pancia sproporzionata.
Se non si
trattasse di lavoratori, penserei subito ad uno di quei charter da “turismo
sessuale”; le condizioni di vita in vaste zone kazakhe sono simili a quelle
cubane, la povertá talvolta degenera in una prostituzione dilagante e diventa
difficile non venire abbordati dalle ragazze locali.
Il pranzo non
è niente male (a parte il dolcetto alla cannella e canditi), mi addormento con
un pezzo di pollo ancora in bocca, sorridendo allo yankee di fianco che
pasteggia allegramente con un doppio Johnnie Walker…
ATYRAU
I balzelli
dell’aereo sulla pista mi svegliano dal torpore in cui sono caduto; ormai è
sera, sono le 20.09, atterriamo con solo 9 minuti di ritardo, quando tutto
intorno è buio. L’aeroporto di Atyrau non è altro che una baracca in
lontananza. Sulla scaletta ci attendono alcuni militari in divisa dal buffo
berretto, un po’ troppo largo in punta per non suscitare almeno un sorrisone.
Passeggeri
normali da una parte, dipendenti della mia azienda dall’altra, veniamo
smistati da un tizio che ci conduce ad una mini-baracca che funge da dogana e
controllo passaporti. I privilegi per chi opera da queste parti nel campo
petrolifero iniziano con questa procedura semplificata ma comunque estenuante
per la trafila burocratica cui siamo sottoposti: ad uno ad uno ci presentiamo
davanti allo sportello dell’ufficiale che controlla il passaporto, il visto,
la landing card compilata in aereo, ci scatta una foto digitale ed infine ci
indirizza ad un suo collega che ci porta in un’altra stanza dove il mio
sgomento non puó che aumentare.
I bagagli sono
infatti in mezzo al piazzale ancora impilati sul carrellino e ci tocca quindi
andarceli a cercare, con il picio-pacio (acquitrinio fangoso) per terra, indi
torniamo nella casupola giusto in tempo per compilare un form dove dichiarare
qualunque oggetto elettronico (macchine fotografiche, iPod, etc) e passare
infine ai raggi X i bagagli. Finalmente ci liberano e ci attende un’auto per
l’albergo.
Non ci sono
mezzi pubblici se non taxi, la cosa che colpisce di piú è la quantitá
incredibile di fango sulle strade e sui marciapiedi non asfaltati (se cosí si
possono chiamare per via della polvere che si deposita sulle strade non
asfaltate
BOLASHAK
Sabato mattina
una jeep ci porta ad un sito a 40 km a nord di Atyrau, rinominato di recente
Bolashak, il “futuro”, tanto per sottolineare una volta ancora
l’importanza prospettica dell’oro nero per questa economia ancora in via di
sviluppo ma dalle potenzialitá rilevanti. La strada appena fuori la cittá di
Atyrau è quanto di peggio abbia mai visto in vita mia, al cui confronto certi
postacci in Nicaragua o in Honduras sembrano autostrade americane, per via
essenzialmente della mancanza quasi assoluta di segnaletica affidabile e della
presenza constante di buche e sconnessioni gigantesche, che non consentono alla
lunga fila di macchine di proseguire se non a passo d’uomo; non c’è bisogno
di dire che l’asfalto per ora è solo una chimera.
Le cose
migliorano leggermente con il procedere verso il sito (che, ahimé, non ha nulla
di archeologico), ma solo perché gli enormi interessi in gioco hanno fatto si
che alcune infrastrutture siano state costruite secondi crismi funzionali ed in
tempi ridottissimi.
Si intravvede
il parallelismo perfetto dei binari che corrono in una steppa desolata dove
all’orizzonte la terra brulla bacia un cielo blu intenso dove alcuni
cirrocumuli lo riempiono, monotono ma stupendo. Ad un certo punto la
ferrovia si biforca verso destra, è il segnale che ci stiamo avvicinando alla
meta, le autovetture e gli autocarri convergono in fila indiana verso il posto
di blocco, il resto è solo un mostro di cemento e metallo brulicante di
migliaia di formichine umane, che cresce lento ma inesorabile in mezzo al nulla.
Il ritorno ad
Atyrau non ha niente di diverso dall’andata, il fango e le buche sono sempre
le stesse, cosí come il cielo e la steppa che fanno assomigliare questo
sperduto lembo di terra alle lande desolate ma stupende del mid-west americano.
Dopo cena,
rigorosamente in albergo, ci prepariamo per la serata in discoteca, i colleghi
vogliono portarci al Mayak. Un capitolo a parte meriterebbero le ragazze kazakhe
ma soprassiedo, grazie al cielo con noi ci saranno anche un paio di colleghe
italiane, eventuali assalti o tentazioni sono scongiurati.
Gli spostamenti
in cittá avvengono giocoforza con il taxi ed in gruppo, pena correre il
concreto rischio di essere aggrediti, anche in pieno giorno, da bande di
valorosi ragazzotti evidentemente dediti alla lotta e alla violenza; il loro
intento non è assolutamente quello di derubare, non è mai successo, bensí
quello di pestare a sangue, giusto per il gusto della violenza fine se stessa o, se proprio vogliamo ricercare una qualche giustificazione
razionale, per avversione e rivalsa sullo straniero benestante che viene visto
come il colonizzatore, punendolo per essersi avventurato in giro per la cittá
da solo, in spregio alla popolazione locale, che comunque prova acredine per la
disparitá sociale cui è sottoposto. Un discorso che si potrebbe allungare
all’infinito.
Il Mayak viene
immediatamente soprannominato Mayalak, mi rifiuto di spiegare il perché anche
se è facilmente immaginabile. L’ingresso costa 2000 tenghi (senza
consumazione), l’equivalente di 13 euro, una cifra non irrilevante per i
locali, il cui stipendio medio si aggira sui 450 dollari.
Il Mayak si
trova al primo piano di un edificio proprio sopra ad un pub frequentato, guarda
un po’, dai soliti inglesi (che non ritroveremo poi in discoteca). Fortuna (e
sfortuna) vuole che ad animare la serata ci sia uno spogliarello femminile ed
uno maschile, mentre la musica suonata mi è sconosciuta, a metá tra la nostra
house piú o meno ballabile e una ritmatissima techno olandese.
Mi rendo conto
che le bpm iniziano ad essere troppe per il mio fisico provato, divento quatto
quatto parte della tappezzeria e, da buon scrutatore curioso quale sono, mi
diverto a veder sfilare il fior fiore della gioventú locale (niente male, tutto
sommato, quella femminile) e ad analizzare le dinamiche in atto tra colleghi e
tra italiani e kazakhe, giusto per passare il tempo. Le etnie si mescolano senza
imbarazzi, ragazze dai tratti chiaramente russi con kazakhi dagli occhi quasi a
mandorla e altro ancora, percepisco peró nell’aria una certa strana tensione
che non mi piace, soprattutto perché in futuro non puó che esplodere… ma
solo l’indomani capiró il perché. Dai colleghi veniamo infatti a sapere che
in una raffineria a Tengiz, 300k a nord di Atyrau, la crescente insofferenza
verso lo straniero (che a paritá di qualifica guadagna piú del kazakho) si è
manifestata in tutta la sua virulenza e una rissa tra turchi e kazakhi ha
provocato un numero imprecisato di morti, ma le fonti ufficiali sono contraddittorie e tendono sempre a ridimensionare quanto accade in questo paese
(l’ereditá sovietica è ancora forte, nonostante siano trascorsi più di 10
anni dalla fondazione della Repubblica).
Scopro sulla
mia pelle che nelle discoteche kazakhe non è possibile bersi una birra in pista
(e per gli altri, neanche fumare), troppi sono infatti i rischi che le bottiglie
vengano usate come armi improprie, difatti vengo preso per un braccio ed
allontanato da un tizio neanche troppo energumeno che, senza tanti complimenti,
mi fa intendere che devo rimanere ai bordi della pista.
I prezzi delle
consumazioni sono abbastanza incomprensibili (a parte il cirillico), ci sono due
colonne di prezzi e non si capisce come vanno applicate, sta di fatto che
consegniamo alla barista una certa cifra spannometrica per la quale ci attendiamo
anche un corposo resto, ma di ritorno non riceviamo neanche un mezzo sorriso da
questa ragazza che evidentemente ignora tutto ció che la circonda.
Il ritorno a
casa avviene come al solito via taxi, rigorosamente ufficiale, la leggenda narra
che alcune persone siano state addirittura dirottate in luoghi isolati e
rapinate, ma questo avviene un po’ in tutte le parti del mondo quando si
accettano passaggi da sconosciuti…
BAUTINO
E’ domenica,
desidero con tutte le mie forze un lungo riposo in questo letto splendido, ma il
dovere chiama, oggi si vola di nuovo. La solita jeep ci accompagna in aeroporto,
dove ci imbarchiamo per ora di pranzo alla volta di Aktau, il secondo luogo piú
radioattivo del Kazakhstan, dove in tempi non troppo lontani i simpatici
sovietici scambiavano questa terra (ok, desolata) per il bersaglio dei loro
esperimenti nucleari, insieme con il lago d’Aral. In effetti il paesaggio è
ancora piú desolato e desolante di Atyrau, da queste parti pare proprio che la
civiltá sia passata, abbia dato un’occhiata frugale e abbia tirato dritto.
Durante il volo
noto con una punta d’emozione (e un malcelato disappunto, dettato più dalla
mia anima ambientalista che dalla scocciatura del dover sporgermi fin quasi ad
abbracciare il mio vicino di poltrona, un sonnecchiante ragazzone kazakho) una
costruzione cementificata in mezzo al Caspio, la traccia inequivocabile della
presenza dell’uomo e della sua sete di oro nero, cioè un’isola artificiale
a forma inequivocabilmente vulvica (ma questa volta non si tratta di una delle
solite deviazioni del mio cervello, e di ció mi compiaccio!).
Lo ammetto, la
mania italiota dei telefonini non ha eguali nel mondo civilizzato, ma da queste
parti l’inseparabile compagno trillante è davvero considerato uno
status-symbol, al punto che pare sia usanza esibirlo ed accenderlo, insieme agli
inevitabili bip-bip e suonerie varie, durante la fase d’atterraggio prima
ancora di toccare terra; una sinfonia che mi riempie di una tensione inusuale,
chissá come staranno impazzendo le strumentazioni di bordo!
Solita trafila
per i bagagli, tutti fuori dall’aeroporto e al segnale convenuto, tutti dentro
ancora a recuperare la valigia, stavolta senza l’omino che controlla la
corrispondenza tra valigia e contrassegno sul biglietto; facciamo comunella (cioè,
la mia collega veramente…) con un professore armeno di ritorno dall’universitá
di Almaty, il quale porta un vistoso cerotto sulla guancia, souvenir dei soliti
noti, cioè le bande codarde e vili di ragazzi locali che sbucano dai cespugli,
ti “corcano” e ti lasciano a terra sanguinante (questa volta peró a lui
hanno rubato portafoglio e cellulare…).
Dato il numero
alto di persone da portare a destinazione, stavolta ci mettono a disposizione la
solita jeep piú un pullmino da 15 posti, che occupiamo in 5, ansiosi di
ristabilire il clima da “gita delle medie” con tanto di cioccolatini,
macchine fotografiche e sguardi curiosi fuori dal finestrino (penso che a questo
punto manchi solamente la classica zingarata con l’esibizione delle chiappe
sul retro…ma il livello gerarchico della gente che mi circonda e la presenza
di un rappresentante del gentil sesso spazza via ogni pensiero goliardico).
Scatto qualche foto al nulla che ci circonda, la rotta ci porta verso nord,
destinazione Bautino, un altro paesello fantasma animato unicamente da una base
logistica che andremo a visitare. In questa occasione mi sembra proprio di
essere in vacanza, in una della mie vacanze, zaino in spalla e autobus scassati
in zone dove l’unico essere animato che si incontra è il guidatore di un
qualsiasi autocarro sceso a sgranchirsi le gambe e ad espletare le sue funzioni,
sicuro che nessun rombo di motore lo avrebbe mai disturbato! Invece no, turbiamo
la sua quiete e, nonostante sia praticamente circondato, lo imito in uno dei
gesti piú naturali e gratificanti, la pisciatina all’aria aperta con vista
sul panorama circostante.
Un tuffo al
cuore sta per causare il mio decesso anticipato, capisco che cosí non si puó
andare avanti e che una sana alimentazione, unita all’attivitá fisica, è
quantomai necessaria! Dopo lo spavento mi assale una tristezza esagerata nel
ricordare una persona che non fa piú parte della mia vita…una donna? no; un
parente? no; la causa del mio malessere è un cartello stradale che ci annuncia
l’entrata nel paesello…il nome del paesello è Fort Schevchenko. Non ci
posso credere, non faccio in tempo a fotografarlo, la rabbia del tradimento è
sempre tanta, forse superiore a quella che ti fa provare una donna…
Superato a
fatica lo sgomento mi butto a fotografare quanto di interessante viene offerto
allo spettatore interessato in transito: i cimiteri. Nel breve tratto di strada
che attraversa il paese ne conto almeno 3, molto simili tra loro, curati almeno
esternamente, quasi monumentali nella loro architettura che contrasta molto con
il nulla che li circonda.
Chi sono, cosa
vogliono questi qua? Giá mi vedo, assaliti e rapinati da una banda di tamarri
del luogo. La scampiamo per poco, la banda di ragazzotti che ci sbarra la strada
non riesce ad evitare che la jeep che ci precede li scarti sulla destra e che il
pullmino, dopo qualche incertezza che ci fa temere il peggio, la segua in una
mini-fuga a scartamento ridotto ma non per questo piacevole, anzi. Stum! Un
sasso colpisce il retro del pullimino, ci giriamo e i ragazzi sono lí che ci
urlano qualcosa; non sapró mai quali fossero le loro intenzioni, se cercavano
solo un passaggio per il paese successivo o se tentassero l’assalto alla
diligenza, sta di fatto che in 3 si distendono sulla carreggiata quale estremo
tentativo di impedire la circolazione dei veicoli (pochissimi, per la veritá),
mentre gli altri 4/5 scrutano l’orizzonte per avvistare la prossima preda.
Giungiamo a
Bautino, un minuscolo agglomerato di casupole bianche e basse, a metá tra le
dimore maldiviane e quelle greche, non c’è invece traccia di attivitá
commerciali, solo case. In fondo alla strada si staglia l’entrata recintata
della base, che si affaccia direttamente sul porto. Da quest’area partono le
innumerevoli navi che, come pendolari del mare, portano e riprendono i
lavoratori dell’isola artificiale, scaricano materiali e mezzi senza
interruzione, in qualunque condizioni climatica, anche d’inverno quanto
vengono rimpiazzate da piú moderne ed attrezzate rompighiaccio. La telecamera
virtuale ora si spegne, senza aver prima ripreso uno dei colleghi venir cazziato
dal kazakho di guardia che gli vuole impedire di fare le foto sotto il cartello
della base. “Che minchia vuole questo, non sa che lo licenzio domattina”,
sembra gesticolare il collega siciliano dall’aria a metá tra il divertito e
lo scocciato.
La giornata
volge al termine, passiamo in guardiola a riconsegnare il badge assieme agli
operai kazakhi che timbrano il cartellino e il pullmino ci porta ben 100 metri
oltre la base, in un albergo che di spettacolare ha i prezzi degli alcoolici e
la vista mozzafiato sul mare (che poi è un lago, il Caspio…). Corro fremente
in camera sperando che la buona sorte mi abbia fatto assegnare un appartamentino
vista mare, cosí in effetti è, non si vede nulla perché è tardi e mancano i
lampioni dei nostri lungomare ma si percepisce l’aria salmastra e si sente
chiaramente l’infrangersi delle onde sulla battigia. Che poesia…
Scendo per cena
giusto in tempo per diventare testimone (e spalla) di una delle scene piú
divertenti, l’ennesima parodia della stupiditá (o genialitá?) italiana. Sono
a tavola con un collega di lungo corso, il solito collega che ha un sacco di
storie interessanti sulle sue esperienze nei posti piú disagiati della terra,
quello che ne ha viste e passate di tutti i colori e che quindi è sempre il piú
spontaneo del gruppo; di fianco a noi sta cenando in solitudine una ragazza
locale, né bella né brutta (anzi no, proprio brutta adesso che ci penso
bene!), la cameriera viene al tavolo e si rivolge al mio collega chiedendo cosa
voglia da bere. Paolo (chiamiamolo cosí, diamo a questo mito un nome di
fantasia) sfoggia il suo russo impeccabile ed ordina una birra locale e una
pizza, cosa che replico io ma in inglese; peró Paolo, come parli bene il russo,
dove l’hai imparato? chiedo io. “Trombando”, reagisce lui, tirandosi su
dal tavolo con lo sguardo allupato e incattivito, quasi simulando un amplesso
con il tavolo, che tiene fermamente ai lati con le due mani. “e sai qual è
stata la prima parola che ho imparato?” fa lui – no, non lo so Paolo,
replico io - peró non dirla in russo che questa qui di fianco poi capisce,
dimmela in italiano! – Una voce fuori campo aggiunge “Si dai, dilla pure in
italiano, io lo capisco bene!” E’ la kazakha del tavolo di fianco che guarda
Paolo quasi schifata ma comunque leggermente divertita. Cala il silenzio, io mi
nascondo dietro al menú, Paolo tace (finalmente) per 10 secondi, dopodiché (io
sono sempre nascosto) rincara la dose “eh ma lo sa signorina che funziona
proprio cosí?”. Volevo morire, mi vergognavo da morire. Non so che faccia
abbia fatto la collega (laggiú ci sono solo colleghi!), mi sono imparato il
menu del ristorante a memoria, aspettando che questo tsunami si ritirasse. Ma
Paolo non è uomo che si lasci sfuggire le occasioni e cosí la supercazzola
continua. “Senta signorina (in italiano), siccome dovrebbero raggiungerci tra
qualche minuto un paio di colleghi, le spiace se si siedono al tavolo con
lei?” la kazakha accondiscende stupita, non sa cosa rispondere. La birra mi va
di traverso, inizio a tossire. Il vulcano-Paolo è inarrestabile: “Anzi,
signorina, perché non unisce il suo tavolo al nostro?” – e mentre pronuncia
questa frase senza senso, il buon Paolo inizia a tirare verso di sé il tavolo
della spaventatissima e sempre piú incredula collega kazakha. Tempo 20 secondi
che la collega, trangugiando una mole incredibile di cibo giusto per non dare
adito a dubbi al povero Paolo, si alza e si allontana, al che Paolo scoppia in
una fragorosa risata che la fa voltare ed esclamare qualcosa nella sua lingua;
dal tono sembra una bestemmia ma la sua faccia giá diceva tutto…
In fase di
atterraggio su Atyrau entra ancora in azione Paolo, quello che conosce il russo.
Questa volta la vittima sacrificale è un bambinello kazakho dai tratti molto
simili a quelli degli eschimesi, tanto bello quanto noioso e molesto per via
delle sue grida ininterrotte. Proprio mentre l’aereo tocca terra e il bambino
urla, Paolo caccia un urlo animalesco, un buhh! talmente strano e forte che il
primo a spaventarsi sono io, seduto al suo fianco, il secondo è il bambino e
poi a ruota tutto l’aereo che si gira verso di noi, alla ricerca di quello
strano animale (mi viene in mente una canzone di Vasco…). Il bambino
ovviamente si zittisce, il padre sta decidendo quale arma utilizzare per far
fuori Paolo, io non smetto piú di ridere (il bambino non ride e forse non riderá
piú, secondo me Paolo l’ha traumatizzato).
Come al solito,
appena atterrati ci attende il bus particular che ci porterá agli arrivi,
scoppio di nuovo a ridere quando il bus percorre si e no 20 metri, ma subito
comprendo il motivo di questo servizio e mi vergogno un po’…
Butto
l’occhio dentro la sala d’aspetto, in tv danno un film americano in lingua
originale, non ci sono sottotitoli in kazako, mi domando come possono capire i
dialoghi…La spiegazione è semplice, non c’è doppiaggio, c’è solo una
flebile voce fuoricampo che narra in kazakho gli avvenimenti, un racconto
surreale senza pathos, senza tono. Anche questa è arte d’arrangiarsi.
Sono trascorse
ormai parecchie settimane e del Kazakhstan non provo proprio alcuna nostalgia,
ma una collega burlona mi ha portato proprio stasera a vedere “Borat” al
cinema, una velata (ma non troppo) e divertentissima parodia della societá
americana vista con gli occhi di un kazakho (Borat appunto), tanto ingenuo
quanto cosí poco kazakho. Mi torna il sorriso, finalmente.