India
Una bella foto
Racconto di viaggio 2007
di
Lina Manca
Aeroporto
di Kajuraho ore 13,10 4 novembre
2007
Sveglia
alle 6,30 anche oggi, per la gita facoltativa al parco Ranch Fall. Partiamo in
11 con due fuoristrada. Il nostro autista si chiama Saled, ha vent’anni ed è
molto bello. La strada ha solo una striscia asfaltata al centro, ai lati terra
arsa e polvere; nessuno mostra l’intenzione di spostarsi al nostro passaggio,
in particolare le mucche, sempre
consapevoli della loro sacralità
Saled
guida in modo veloce e spericolato,
un po’ per necessità, un po’ perché, a mio avviso, fa parte del gioco
regalare un supplemento di emozioni al turista e divertirsi alle nostre spalle,
quando aggira gli ostacoli con una sterzata improvvisa e noi lanciamo gridolini
di spavento. Attraversiamo piccoli villaggi di campagna, le abitazioni sono
quelle che abbiamo imparato a conoscere: povere, piccole, sporche, senza
infissi. Gli uomini siedono annoiati davanti alle case. Le donne, accucciate ai
margini della strada, sfregano con la terra pentole e piatti di alluminio,
lavano i sari, fanno la fila ai pozzi; portano sul capo due brocche di un
metallo argentato, una sull’altra, di forma bombata, la più grande sotto, la
piccola sopra. Camminano sempre con passo regale, indossano i sari coloratissimi
con naturale eleganza. I bambini sono scheletrici, sporchi, scalzi e seminudi;
accorrono verso la nostra macchina a frotte.
Hanno
gli occhi e il sorriso di una luminosità e vivacità che mi disarmano sempre.
Man
mano che andiamo avanti alla campagna polverosa si
sostituisce una foresta di latifoglie e l’autista si ferma per
mostrarci la fauna del luogo, antilopi, scimmie macaco; le mucche camminano
placide qua e là. Sostiamo sopra un canyon profondo, le acque sono di un bel
verde azzurro. Ci spiegano che non piove da due anni, il livello dell’acqua è
basso e i coccodrilli, raffigurati nei cartelli come attrazione del parco, non
si vedono. Se ne intuisce la presenza dai cerchi nell’acqua sul fondo del canyon. Sempre in macchina arriviamo alle
cascate, poco spettacolari, per via della
siccità. Bello comunque il paesaggio, la gola con le pareti di roccia levigata
marron rossiccio e verdastra, le scimmie che si rincorrono in lontananza.
Riusciamo anche qui a fare piccoli acquisti in un mercatino allestito sui massi del belvedere, per catturare i pochi
turisti che si spingono fin là.
Sulla
via del ritorno, in un villaggio, una donna ci viene incontro con una cesta sul
capo e un bambino piccolissimo dentro. La donna ha un’età indefinibile, il
corpo minuto ed esile, il viso scarno e sciupato.
Mi
chiedo come ci vedano ogni volta
che si avvicinano a noi e sembrano attendere il nostro passaggio per tenderci la
mano. Quando le auto rallentano frotte di bambini le circondano e si aspettano
qualcosa, sorridono comunque pur rimanendo a mani vuote. Ho finito gli snacks ai
cereali.
Siamo
in attesa del volo per Varanasi. L’aeroporto è piccolo e squallido, ci
controllano scrupolosamente, aspettiamo l’imbarco insieme ad altri passeggeri,
quasi tutti turisti. Sulle pareti
sporche e scrostate molti poster con la scritta Incredible
India, che è uno slogan diffuso ormai dovunque, lo troviamo persino
stampato sulla Departure Card che dobbiamo compilare ogni volta che ci spostiamo
in aereo.
Mi
rincresce non aver avuto il tempo per scrivere, sono queste le prime pagine. Le
immagini e le emozioni si sono susseguite in sequenze rapide, ma non si sono
sovrapposte. Sono nitide e chiare negli occhi e nella mente. Devo dire che
finora ho trovato quel che mi aspettavo, niente mi ha colto impreparata. Tutto
è stato una conferma di ciò che avevo letto, visto nei films, sentito da chi
era stato in India. L’impatto è forte in tutti i sensi, nella bellezza e
nella tristezza.
Noi,
per proteggerci, mettiamo in campo i nostri meccanismi di difesa.
Quartu
Sant’Elena 4 dicembre 2007
Questo
scrivevo il 4 novembre in aeroporto, le uniche pagine, e mi dispiace, mi è mancato quel tempo solo mio, in cui fissavo
le impressioni con le parole
scritte. Ricordo nel mio viaggio in Giappone quanto era bello il momento in cui
io e Gabriella tiravamo fuori il nostro quadernetto in
silenzio, quasi sempre la sera,
dopo cena. Ma era un modo diverso di viaggiare, lì eravamo noi a stabilire i
ritmi e le pause, avevamo più tempo.
Qui
siamo stati “costretti” a troppe corse per captare e accogliere dentro di
noi il più possibile di questo paese davvero incredible,
non è un banale slogan.
Tornata
a casa mi sono sentita sospesa in un mondo senza spazio e senza tempo.
Come
sempre ho rivisto le foto e inevitabilmente ho ripercorso il viaggio. Ma le
impressioni a distanza diventano altre e mi rendo conto a posteriori che avrei
voluto fermarmi e cercare le
risposte, o fissare più immagini o, paradossalmente, liberarmi della macchina
fotografica, per una volta. So che non avrò mai il coraggio di farlo. La
ricerca della bella foto in molti momenti smorza l’impatto emotivo, e forse è
una difesa anche quella, un modo di prendere
le distanze di fronte a quel che ci si presenta davanti. Continuo a credere che
quando fra i nostri occhi e la realtà si frappone un obiettivo perdiamo
qualcosa. Quel riquadro nel quale si inserisce ciò che vogliamo conservare nel
tempo è frutto di una selezione
razionale alla quale noi diamo altri nomi e ci sentiamo anche un po’ artisti.
Sono consapevole che la rinuncia è difficile e
persino ingiusta perché è bello sorridere rivedendo immagini che ne evocano
mille altre, che ci rimandano alle impressioni estemporanee, ai commenti, agli
odori, ai rumori, al tempo, alle
attese.
E’
bello anche il momento della condivisione del racconto con chi ha vissuto da
lontano, magari con un pizzico di invidia, il
nostro viaggio e vuole vedere e sentire la nostra esperienza. E allora mi rendo
conto che chi guarda a volte è capace di vedere ciò che io, presa
dall’impegno per la bella foto, non ho visto.
E
così è successo che un pomeriggio alcuni amici si sono trovati davanti la foto
della donna col bambino nel cesto, di cui io sono molto orgogliosa perché non
è facile ottenere un bel risultato scattando al volo, senza il tempo per la
verifica e per un secondo scatto, un
privilegio a cui ci siamo abituati con la digitale. Riguardandola avevo
osservato altri particolari, i bracciali colorati immancabili anche nella povertà
più profonda, il sari arancione modesto ma elegante, i denti macchiati dal
betel, la collanina portafortuna, il
vestitino bello e pulito del bambino, il suo pianto. L’unico bambino che ho
visto piangere in India perché, come ci ha detto Paola, “qui
i bambini non piangono perché sanno
di non poter chiedere niente.” Guardando le foto di Giuliana ho potuto
notare che il bambino nelle prime foto è tranquillo. E lei aveva ripreso anche
i ragazzini più grandi che ci hanno seguito di corsa per un tratto con le mani
tese, le canottiere bucate, i piedi nudi.
Ma
il commento dei miei amici è stato un altro ”questo
bambino non ha le gambe, altrimenti sarebbe
saltato giù…” e io balbetto
“…ma che c’entra, sono ubbidienti, sono abituati a essere esibiti davanti ai
turisti…” ma a quel punto non sono convinta e continuo a fissare la
foto. “Non c’è spazio nel cesto per
le gambe, non è un bambino così
piccolo…” mi fa notare la
mia amica. Mi accorgo che ha ragione, il bambino ha una testa abbastanza grossa,
sproporzionata rispetto al busto e sembra che la parte inferiore del corpo non
ci sia affatto. Ma io non l’ho visto perché ero preoccupata di fare una
“bella foto” e non l’ho visto neppure quando l’ho riguardata e neppure
Giuliana ha espresso alcun dubbio.
E
ora mi sento sciocca e superficiale, la turista che ho sempre criticato, che va
in capo al mondo, manda le cartoline, torna casa con i souvenir e le foto, e non
ha “visto” niente. E mi pongo
mille domande inutili e stupide su quella donna e sul suo bambino, immagino i
moncherini, un mozzicone di gambe che non gli permetteranno mai di correre.
Mi
viene la pelle d’oca.
Cerco
di ricordare se le ho dato almeno qualche spicciolo, cerco di tacitarmi la
coscienza, come se
io fossi in grado di cambiarle la vita con poche rupie. Mi vergogno della mia
ricerca di emozioni, del bisogno di difendermi e di giustificarmi, ma mi
vergogno soprattutto del mio
sguardo distratto e superficiale. Sono bastate due settimane a farci abituare a
tutto? Le mani tese erano troppe e alla fine ci lasciavano indifferenti? E’
sufficiente una macchina fotografica a renderci miopi mentre rubiamo immagini a
vite reali, che per noi diventano colore locale?
So
che posso essere solo spettatrice inconsapevole, che mai potrei entrare nella
realtà di ogni giorno delle mille donne che ho visto. So che hanno una forza a
noi sconosciuta, anche loro non piangono, come i loro bambini sanno di non poter
chiedere niente, perché c’è un karma a cui nessuno può sottrarsi. E’ un concetto molto meno
pietoso del nostro destino, la nostra
rassegnazione di fronte alle sventure è ben poca cosa se rapportata alla serena
accettazione del dolore, che è principio basilare della loro esistenza.
Chi
era stato in India mi aveva avvertito, un divario così profondo fra il mio
superfluo e la loro povertà mi avrebbe fatto star male. Ci siamo abituati
a transitare nei nonluoghi: aeroporti, autostrade, negozi; sappiamo
essere utenti, passeggeri, clienti. Basta pagare
e rispettare regole semplici e ritroviamo dovunque le nostre sicurezze, ma
l’India è in grado di
destabilizzarci perché in ogni angolo trova spazio la
vita reale nelle sue tinte più smaglianti o più oscure, e le regole ci
sono sconosciute.
Lungi
da me i deliri di onnipotenza: non devo
sentirmi colpevole, ma non mi perdono di aver chiuso gli occhi.
Solo
ora scorgo la tristezza del sorriso di quella madre, solo ora mi appare come una
bambina vecchia che porta sul capo un bambino a metà, ma quando l’avevo
davanti ho visto solo la metà bella, quella che mi serviva per una foto
speciale da mostrare agli amici al ritorno da un viaggio meraviglioso.
Dicembre 2007 Lina Manca