TRA
MISTICISMO E DESERTI
I cieli azzurri della Giordania
Diario di viaggio 2003
by
Franco (omar_li@libero.it)
Programma:
1° giorno: Roma – Amman con volo di linea Air Jordanian. Sistemazione in albergo.
2° giorno: Amman – Castelli nel deserto. Intera giornata, 100 km. circa. Qsar al Kharanha, antico caravanserraglio fortificato; Qsar Amra, con insoliti
affreschi sulla religione;Qsar Al-Azraq, antica fortezza e quartier generale di Lawrence D’Arabia. Rientro ad Amman.
3° giorno: Amman – Jerash – Ajlun – Gadara. 50 km. circa . Jerash, antica città romana, detta la Pompei d’oriente. Ajlun, visita del castello del Saladino risalente al 1.184. Gadara, vista panoramica della valle del Giordano.
Rientro ad Amman.
4° giorno: Amman – Madaba – Monte Nebo – Kerak – Petra. 250 km. Madaba, città dei mosaici. Monte Nebo, tomba di Mosè (?), chiesa bizantina con importanti mosaici. Kerak, castello dei crociati. Petra, sistemazione in hotel.
5° giorno: Petra, intera giornata dedicata alla visita. Rientro in hotel.
6° giorno: Petra – Beida – Wadi Rum. 80 km. Beida, detta Piccola Petra, antico caravanserraglio rupestre. Wadi Rum, il deserto di Lawrence d’Arabia.
Rientro a Petra.
7° giorno: Petra – Mar Morto – Amman. 320 km. Mar Morto, la depressione più bassa e il lago più salato del mondo.
8° giorno: rientro in Italia.
* * *
Premessa:
ho deciso di riportare in apertura il
programma del viaggio perché il racconto sarà incentrato soprattutto su i due
luoghi del viaggio che non dimenticheremo mai, portandoli sempre con noi
nell’album fotografico delle nostre menti, con i colori e i contrasti che
nessuna foto, digitale, o tradizionale, potrà mai eguagliare, soprattutto
l’azzurro intenso del cielo di Petra e del Wadi Rum.
* * *
Il
viaggio:
… è il primo viaggio dove anche Mau viene con noi. Probabilmente anche lui è affascinato dalle leggende che circondano Petra e dalla bellezza delle foto del deserto di Lorence d’Arabia: il Wadi Rhum. Così, visto che viene Mau, si aggrega anche Claudio, il figlio dei nostri amici Gino e Maria.
La partenza è da Roma e decidiamo di andarci con il furgone che Gino usa per seguire le corse ciclistiche della sua squadra, con tanto di portabici e loghi degli sponsor su tutta la carrozzeria. Comunque è una scelta giusta, perché ci stiamo comodi in cinque ed i bagagli.
Lasciamo la macchina ad un parcheggio che ci era stato consigliato e la navetta ci porta all’aereoporto. Solite formalità, abbastanza spedite e ci imbarchiamo.
Atterriamo ad Amman in perfetto orario ed ad attenderci troviamo la guida e l’autista che ci accompagneranno. Oltre a noi cinque, ci sono altre due coppie di Roma, una coppia di giovani in viaggio di nozze e due ragazze. Veniamo accompagnati ad i rispettivi hotel e prendiamo appuntamento con la guida che parla perfettamente italiano, per l’indomani mattina.
Noi siamo alloggiati al Radisson ed i ragazzi, abituati a viaggiare più spartanamente, sono entusiasti della camera che è quasi una suite, con tanto di anticamera, divano e scrivania d’epoca. Ci cambiamo e scendiamo per la cena; l’ambiente è veramente carino e nella hall spicca un tabellone con su tutta una serie di targhette d’ottone lucido che riportano i nomi di illustri frequentatori, fra cui numerosi politici italiani, che vi hanno alloggiato in visite istituzionali.
Le
visite:
siamo, diciamo, non delusi, ma c’è come un’insoddisfazione, almeno in me e i ragazzi. I castelli nel deserto sono in realtà dei caravanserraglio, fortificati o meno, affrescati o meno. Città romane, con anfiteatri, decumani e cardi, colonnati più o meno ben conservati, non ci danno ancora quelle emozioni che cerchiamo. Così come i mosaici e gli immensi panorami che si offrono dal Monte Nebo.
Solo percorrendo la Strada del Re, da Amman a Petra, si aprono ai nostri occhi scenari grandiosi, aspro prologo di un deserto che aspettiamo da giorni. La strada ripercorre quella antica, dove le carovane andavano da nord a sud trasportando i loro preziosi carichi, salendo oltre i mille metri e ridiscendendo in vallate solcate da wadi asciutti, o, raramente, con un rigagnolo, ma in questo caso, una fascia di verde corre parallela alla poca acqua.
Abbiamo anche un brivido, quando a causa della costruzione di una diga, la strada da asfaltata è diventata sterrata e il nostro autista risale la salita, fino a novecento metri, mettendo diverse volte le ruote del pulman sul ciglio della strada rigorosamente priva di protezioni.
Dopo Kerak e dopo una pianure coltivata, risaliamo sui mille metri e arriviamo a Petra, quella moderna, nata per accogliere i turisti. Prendiamo alloggio a Marriot, niente male, anche questo.
Petra:
solo successivamente, rivedendo le foto ed i filmati, anche questi giorni ci riporteranno a momenti di bellezza e esperienze particolari, come aver visto gli artigiani di Mdaba, dove ci sono i sarti che possono farti un vestito in giornata con vecchie macchine da cucire a pedale Singer.
Prendiamo accordi con la guida e dei suoi conoscenti e subito dopo cena ci fanno salire su due auto dove l’odore più tenue è quello di capra…, ma ne vale la pena. Scendiamo dove inizia il deserto e, mentre i tre giordani che ci accompagnano preparano il fuoco per il tè, a noi non rimane che essere avvolti dal nero della notte e dalla coperta di stelle sopra di noi. Il cielo però non è nero, ma di un blu profondo e la via lattea non l’ho mai vista così. Quasi non c’è spazio tra stelle e stelle. E poi la prima stella cadente, la prima di decine e decine. Prendiamo il te, mentre il fuoco si consuma ed è ancora più notte. E ci sono ancora più stelle… Ci dispiace tornare in albergo.
mappa di Petra
Ma non c’è tempo per ricordare la notte, ora siamo dentro a questo budello scavato tra rocce alte anche più di cento metri. Il Siq. Peccato che per renderlo più accessibile e sicuro (se piove sulle montagne si può allagare improvvisamente) abbiano usato il cemento qua e là, non cercando per niente di mimetizzare le opere. Comunque, dopo aver percorso il primo tratto, fuori del Siq, a cavallo (se volete farlo, siate decisi, contrattate il prezzo subito e non lasciatevi prendere dalla ressa, vi vogliono tutti), ho aspettato gli altri e siamo entrati. E’ lungo: più o meno 800 metri. Siamo oltre metà mattina e il sole è alto. La luce scende dritta e a guardare il cielo, una sottile striscia delimitata dalle pareti della gola, l’azzurro ci abbaglia. Contrasta con il rosa e ocra delle rocce che in basso diventano scure per la penombra.
Osserviamo quanto i Nabatei prima e i Romani, poi, erano capaci con le opere irrigue, seguiamo un po’ distratti la voce della guida che ci indirizza a bassorilievi di dromedari nella roccia, ma in realtà siamo in aspettativa… Ad ogni curva, ogni volta che le pareti si stringono (in alcuni punti poco più di due metri), e poi si riallargano dietro una volta, rimaniamo in silenzio, è come un segnale, nessuno ne ha parlato, ma accade.
È un rosa che esplode e ci riempie gli occhi. Il Khaznat, il Tesoro. Emerge dalla penombra. In piena luce. È un’emozione che prende dentro ed è solo la prima. Ci prendiamo un po’ di tempo per le foto, per visitare, per scambiarci opinioni, poi proseguiamo ed abbiamo una sorpresa. Il Tesoro, monumento funebre alto 43 metri, è solo il primo mirabile esempio di arte nabatea, verso sinistra si apre un’ampia vallata.
È un susseguirsi di opere, monumenti, tombe, scavati nella roccia, con tonalità di rosa dal tenue all’acceso. Si respira il mistero di un popolo ancora oggi in parte sconosciuto. Saliamo antiche scale scolpite nell’arenaria, ripide e faticose, ma vale la pena di arrivare in stanze dove, forse, si svolgevano riti arcaici pieni di mistero. E dove, forse, esploratori tipo Indiana Jones, hanno rubato tesori fantastici.
Non mancano neppure momenti di rapporti umani e di socializzazione con un gestore di bar (sic), dove beviamo un tè amaro, perché lo zucchero sta in certi contenitori che probabilmente non vedono acqua dai tempi dei Nabatei!
Percorriamo la vallata, con l’anfiteatro romano, il foro, con la strada lastricata e le colonne, riempiendoci gli occhi di opere bellissime e una natura selvaggia e aspra. E poi pausa. Meritata. Con pranzo in un ristorante discreto e cibo buono.
Ma non è ancora finita: dopo pranzo saliamo il sentiero a gradini (dicono 800) che porta al Monastero (Deir), un tempio rupestre alto 50 metri e poi, salendo ancora, in cima alla montagna.
Il panorama è notevole: la vista spazia sul Wadi Araba fino alla valle del Giordano e, dicono, nei giorni senza foschia, fino ad Aqaba e al Sinai.
Ci sediamo sul bordo del dirupo che si apre davanti a noi e restiamo in contemplazione. Capisco come Petra fosse inespugnabile, protetta da queste montagne desertiche alle spalle e con il solo ingresso del Siq, facilmente difendibile. Solo la potenza Romana fu capace di piegarla. E capisco anche come sia stato difficile scoprirla.
Tornando indietro, io e Mau decidiamo di salire sopra il Monastero. Ci inerpichiamo per la parete di roccia, a volte incontriamo dei gradini, altre volte dobbiamo veramente arrampicarci, ma alla fine siamo sopra e ci sentiamo per un momento dei veri esploratori.
L’unica strada per tornare indietro è quella già fatta. Non possiamo non notare come i colori ora, nel pomeriggio, siano cambiati. Il rosa è più caldo, sfuma nell’ocra, rende tutto ancora una volta da vedere, da immagazzinare nella mente. Ripercorriamo il Siq e dentro e quasi imbrunire, solo uscendone ci rendiamo conto che c’è ancora il sole.
Prima di arrivare all’albergo, ci dividiamo. I ragazzi vanno al bagno turco che gestiscono quelli del tè di ieri sera, noi rientriamo e successivamente ci pentiremo; ci raccontano di quasi due ore di bagni, massaggi e trattamenti per 12 dollari, se pensiamo che in Italia un’ora in "hammam" costa dai 40 euro in su…
Ci riuniamo per la cena e restiamo a parlare per un po’. Poi a nanna, domani sveglia presto.
Beida:
Piccola Petra… Ci arriviamo per una strada tra deserto e montagne e insieme al fascino di un luogo che sembra rimasto fermo nel tempo, ci viene regalata un’esperienza umana di una dolcezza struggente. Gli abitanti del vicino villaggio sono bedu autentici, veri beduini che hanno si perso il nomadismo, ma non hanno perso il senso dell’ospitalità e di quanto l’ospite sia benvenuto. Ci sono bancarelle, ma nessuno ti disturba, ci sono molti bambini, ma nessuno chiede. Solo ti prendono per mano, è un gesto innocente e sarebbe grave scortesia rifiutare. Ogni bambino, maschi e femmine, immancabilmente scalzi, scelgono un visitatore e ti prendono per mano accompagnandoti per tutta la visita. Non vogliono niente, solo darti il benvenuto che si concretizza davanti al tempio meglio conservato, scavato nell’arenaria e bello come quelli di Petra. Ci mettiamo tutti in circolo, loro davanti a noi e iniziano un canto. Naturalmente non capiamo le parole, ma forse sono un’antica nenia che si tramandano. Poi ci fanno capire che dobbiamo cantare anche noi. Non sappiamo altro che intonare una canzone popolare, quel mazzolin di fiori… E quando finiamo, da dietro, si levano le note di un’antico strumento a corda, una specie di chitarra suonata con un archetto. E insieme al suono, la voce del vecchio capo villaggio. È un bene che Beida sia fuori dalle rotte del turismo più intenso… Nel tornare, la guida ci spiega che quei ragazzini sono scalzi non perché non abbiano scarpe, ma per una scelta di libertà. Già devono andare a scuola e non sono più nomadi, ma le scarpe proprio non le vogliono, le mettono solo a scuola.
Wadi
Rum:
fuori dal finestrino il paesaggio diventa sempre più aspro e la terra, la sabbia e le rocce sempre più rosse.
Scendiamo, ci sono costruzioni basse che funzionano da ristorante (sic) chiamato pomposamente rest house e containers e baracche e tende che formano un villaggio. Un muretto delimita l’agglomerato e al di là, nella sabbia, gruppi di dromedari, alcuni sellati, altri no. Qualche femmina con il piccolo (come tutti i cuccioli, fantastici). Più in là la caserma del Desert Camel Corps. Sulla strada che termina il suo asfalto direttamente nelle sabbie del deserto, una fila di pick-up fuoristrada che ci fanno preoccupare se sono i nostri. Tre sono proprio quelli su cui dobbiamo salire. Gli autisti sono esclusivamente beduini, per legge le guide devono essere bedu. Saliamo sui cassoni. Meglio stare in piedi, si prendono meno scosse e le coperte che sono sopra le panche laterali non invitano a sedersi. Però ci si abitua subito. I due massicci rocciosi, il Jebel Rum e il Jebel Umm’Ishrin, a destra e a sinistra, si alzano per quasi 800 metri e delimitano l’ingresso. Siamo a 900 metri sul livello del mare e il caldo è sopportabile, nonostante il sole implaccabile, soprattutto per la pochissima umidità. Il cielo azzurrissimo, contrasta con il rosso e l’orca della cima dei massicci. Gli autisti viaggiano spediti, ci divertiamo da matti, sembra di essere sull’ottovolante. Ci riempiamo gli occhi dei colori della sabbia e delle massicci rocciosi che aprono la valle e mi assale improvvisa nella mente la musica del film Lawrence d’Arabia e le immagini di Peter O’Toole che a cavallo del dromedario percorre lo stesso punto in cui siamo ora noi…
È la prima volta che vedo dal vivo un deserto. E questo è considerato uno dei più belli… Rimaniamo affascinati. Anche quando, scesi dai mezzi, ci addentriamo in un siq che fende un massiccio roccioso. Nella fenditura vediamo numerosi disegni rupestri e la roccia, rosso intenso, a picco del frontone, è come scolpita da vento, sembrano bassorilievi, o meglio incisioni di una lingua fantastica.
Non mancano neppure un po’ di brividi: al ritorno il fuoristrada dove sono io, si guasta diverse volte. L’autista diventa anche meccanico e bene o male, ogni volta ripartiamo.
Che dire della duna di sabbia rossa che scaliamo e della mandria di dromedari che corrono lontano? Solo che è durato troppo poco, che mi rimane la voglia di traversarlo tutto, quel deserto, magari correndo la maratona che si svolge a novembre…
Nel 2003 c’è stata l’ultima maratona del Wadi Rum, in seguito è
stata sospesa per motivi di sicurezza. Ma forse un giorno potrà essere di nuovo
un grande evento sportivo.
Rientriamo in hotel e finalmente possiamo dire che gli ultimi tre giorni ci hanno mostrato la Giordania che cercavamo. Ma non è ancora finita…
Mar
Morto:
400 metri sotto il livello del mare. Il punto più basso del pianeta. Un grado di salinità che non consente nessun tipo di vita nelle acque. Un caldo torrido e un’elevata umidità. Avvertiamo la calura ancora di più, essendo stati per diversi giorni sempre sugli ottocento/mille metri di altitudine, con clima molto secco. Ma il Mar Morto è anche terme, alberghi, piscine, fanghi, cure, talassoterapia…
La nostra è una toccata e fuga, il tempo di fare un bagno. È fantastico. Si galleggia in modo pazzesco, si riesce tranquillamente a leggere mentre si sta sdraiati sulla schiena e il busto e gli arti stanno completamente fuori. Ci facciamo ricoprire di fango e quando lo stare in acqua comincia a dare fastidio (dopo una mezz’ora sentiamo un frizzore sulla pelle) ci dedichiamo alle piscine. Dopo tanta sabbia e rocce desertiche, tutta quell’acqua è un vero divertimento. Rientriamo ad Amman e facciamo in tempo ad assistere ad un matrimonio arabo. Abiti scollati e niente velo per molte donne, la Giordania è molto moderata, anche se poi, nei balli, donne e uomini separati nella più classica tradizione araba.
Il
ritorno:
stiamo volando verso l’Italia ed io ho ancora negli occhi quell’azzurro intenso del cielo sopre Petra ed il Wadi Rum. Forse tornerò ancora qui, in Giordania e farò un viaggio come dico io…, dedicando molto più tempo a questi due luoghi, dormendo almeno una notte nel deserto sotto una tenda beduina, facendo il viaggiatore e non il turista. È un consiglio che mi sento di dare a chi volesse arrivare sin qui, insieme a quello di recarsi a Beida, magari portando dei quaderni e delle penne biro che fanno “clic”, farete felici i bambini.
Ed infine dedicate una giornata al Mar Morto, è un posto unico sulla Terra, 411 metri sotto il livello del mare. C’è solo qui od in Israele.
Franco (omar_li@libero.it)
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Letture
consigliate:
I sette pilastri della saggezza di Thomas E. Lawrence
Siti web:
www.ambamman.esteri.it/Ambasciata_Amman ambasciata italiana ad Amman
www.nbts.it/catalogo_cammellieri/giordania.htm