IL FRIULI VENEZIA
GIULIA
una felice riscoperta ...
Appunti di viaggio, 2004
Di
ritorno la scorsa estate dalla Croazia, mi sono fermata nel Friuli Venezia
Giulia, precisamente, ho soggiornato a Lignano Sabbiadoro e da lì mi sono
spostata. Ho riscoperto i sapori e i paesaggi antichi.
Incomincio a narrarvi Trieste, molto suggestiva con una delle piazze più belle
d’Italia...
Un po' di storia di TRIESTE...... (ritornata all’italia nel lontano 1954)
Sede di un Castelliere preistorico
e crocevia di popolazioni venete, istre, carniche e gallo-celtiche, l'antica
Tergeste fu, sin dall'antichità, un' importante centro di scambi commerciali.
Dopo aspre lotte, nelle quali il popolo degli Istri fu sconfitto dalle legioni
romane, la città entrò a far parte della "X Regio Venetia et Istria"
e nel 56 a. C., ai tempi di Cesare, venne elevata a Colonia romana. Nel 33 a.C.,
per volere del Console Ottaviano, fu cinta da solide mura, di cui rimane
soltanto la porta meridionale, il cosiddetto Arco di Riccardo. Durante il
periodo traianeo e fino alla caduta dell'Impero Romano visse un lungo periodo di
prosperità; fu data sistemazione alla zona del foro, fuori delle mura, in
prossimità del mare, sorse il teatro e lungo la riviera numerose ville mentre
ben tre acquedotti la rifornivano d'acqua. Il Cristianesimo, che penetrò
discretamente nella società dal II sec. d. C., ebbe molti martiri anche a
Trieste tra i quali Giusto, eletto patrono della città. Nel Medioevo fu
assoggettata da Goti, Longobardi, Bizantini e Franchi e nel X secolo Lotario III
la rese feudo vescovile. La città riscattò la sua libertà solo nel XII e XIII
sec., quando si costituì libero comune. Tra i sec. XIII e XIV dovette subire
frequenti atti di sottomissione alla Repubblica Veneta (terribile fu l'assedio -
saccheggio del 1368); negatogli l'aiuto dei signori italici, nel 1382 cercò la
protezione di Leopoldo III d'Asburgo, evento che segnò il destino politico di
Trieste per oltre cinquecento anni. Nel 1719 per merito della lungimirante
politica di Carlo VI fu dichiarata porto franco, istituto che conferì alla città
un ruolo economico e culturale di grande importanza. Tale situazione di
benessere fu ulteriormente sviluppata da Maria Teresa d'Austria che, concedendo
immunità e franchigie, richiamò mercanti ed imprenditori da tutta Europa. Dopo
l'invasione dei francesi tornò all'Impero austriaco che potenziò ulteriormente
il porto, le industrie e le società di navigazione. In seguito al lento ed
irreversibile declino dell'impero asburgico, il 3 novembre del 1918 Trieste passò
all'Italia. Dopo l'armistizio del 1943, Trieste e la Venezia Giulia costituirono
provincia a sé stante ma amministrata dal governo germanico. Dopo la
liberazione dalle truppe tedesche, la città subì l'occupazione delle truppe
Titine, per quaranta terribili giorni, finchè non passo sotto il controllo
degli alleati. Tornò finalmente Italiana solo il 26 ottobre 1954. Nel 1977 il
trattato di Osimo segnò definitivamente i confini con la Jugoslavia (Slovenia e
Croazia).
Oggi Trieste è al contempo il capoluogo della provincia meno estesa d' Italia
ed anche capoluogo della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Molti furono i fattori che, nel corso dei secoli, concorsero a donarle
quell'atmosfera così particolare e tanto cara ad alcuni tra i massimi nomi
della cultura internazionale come James Joyce, Sigmund Freud, Rainer Maria Rilke,
Giovanni Winckelmann, per non parlare dei suoi Umberto Saba, Scipio Slataper,
Italo Svevo.
Trieste è una città diversa dalle
altre e come tale dev'essere visitata in modo diverso. Se anche è ricca di
musei, ben forniti di opere d'arte antica e moderna, è solo girando per le sue
strade, sostando nelle sue piazze che si riesce a conoscerla veramente, ad
afferrare il significato di quell'aria strana, tormentosa - come la definì
Umberto Saba - che circola ovunque e la rende in ogni parte viva.
Le sue strade sono un succedersi ininterrotto di palazzi, per lo più
neoclassici, maestosi, severi eppure discreti, che le conferiscono un aspetto
simile a quello di tante altre città europee: Vienna, Budapest, Lubiana, e che
spesso, all'interno, nascondono splendidi arredamenti. Non si dimentichi che
nell'Ottocento il collezionismo triestino fu un fenomeno di singolare
importanza: i ricchi uomini d'affari, che giravano il mondo, avevano la
possibilità di acquistare gli oggetti più disparati, quelli che poi, in parte,
confluirono nelle ricchissime e varie collezioni dei musei.
Una passeggiata che partendo dalla stazione (punto d'arrivo anche per chi giunge
in macchina) tocchi le Rive, piazza Unità, Cavana, piazza della Borsa, il
Corso, piazza Goldoni e via Carducci, sarà sufficiente per entrare nello
spirito della città. Ciò fatto, si potrà salire a San Giusto e visitare
chiese e musei.
Partendo da piazza Libertà (o piazza della Stazione), si imbocca corso Cavour
(bello il Palazzo delle Assicurazioni Generali, del Geringer, 1881) e si giunge
al Canal Grande, scavato nel 1756 perché i velieri potessero scaricare le merci
fin dentro la città. Il canale infatti giungeva fino alla chiesa di S. Antonio
nuovo, mentre ora risulta interrato nell'ultimo tratto e, anche a causa del
ponte fisso che impedisce il passaggio di navi a vela, non può essere
frequentato che da piccole imbarcazioni.
Il canale, attraversato nel suo punto superiore da un ponte, detto Ponterosso,
che dà il nome alla zona, scenograficamente chiuso dalla chiesa di S. Antonio,
è fiancheggiato da bei palazzi, tra i quali il maggiore è quello che fa angolo
con Riva III Novembre: è il Palazzo Carciotti, ora sede della Capitaneria di
Porto, eretto su progetto di Matteo Pertsch e portato a termine nel 1806: molto
imponente e articolata la facciata, dominata al centro da sei grandi colonne che
si impostano sul rustico bugnato della parte inferiore e che terminano con una
balaustrata sormontata da sei statue (Minerva, la Fama, la Giustizia, Mercurio,
l'Abbondanza, Silvo, dello scultore A. Bosa), dietro la quale si alza su alto
tamburo una cupola rivestita di rame: molto bella la parte di rappresentanza
interna, soprattutto l'atrio, lo scalone adorno di statue e la sala circolare al
piano nobile.
Proseguendo, mentre sulla destra si costeggia il mare (bacino di S. Giusto), a
sinistra si ha l'Hotel de la Ville (arch. Giovanni Degasperi, 1839), oggi sede
bancaria, dove il Verdi compose la sinfonia dello Stiffelio, e poi la chiesa di
S. Nicolò dei Greci, piazzetta Tommaseo, con il celebre antico Caffè che fu
centro di fermenti patriottici ed è tuttora luogo frequentato da artisti, e,
dopo aver lasciato a destra il molo Audace, la grande piazza Unità, uno dei
punti più belli della città.
La sua attuale sistemazione, con la vista che spazia sul mare e sulla
affascinante costiera triestina, risale alla fine dell'Ottocento, quando vennero
completati i lavori di abbattimento degli edifici che creavano una strettoia
verso piazza della Borsa (la chiesa di S. Pietro, ad esempio, di cui venne
salvato il solo rosone, prima portato nei Musei civici e poi montato sulla
facciata della chiesa di S. Bartolomeo a Barcola, dove tuttora si trova) o di
quelli che impedivano l'accesso al mare; Teatro Vecchio, le Prigioni, e la
famosa locanda Grande nella quale l'8 giugno 1768 era stato assassinato il noto
archeologo tedesco Giovanni Gioacchino Winckelmann.
Oggi lo splendido, enorme rettangolo della piazza è delimitato perfettamente da
imponenti palazzi: in fondo, il Palazzo Comunale, la cui costruzione fu iniziata
nel 1872 su progetto dell'architetto triestino Giuseppe Bruni (1827- 1877): è
costituito da un corpo centrale aggettante, ornatissimo, sul quale si imposta la
Torre dell'Orologio, e da due ali di più semplice fattura.
Da notare il ricchissimo gioco di luci e di ombre creato dalla ben calibrata
disposizione dei vuoti e dei pieni. Sul lato nord est, il Palazzo Modello,
eretto nel 1870 al posto della chiesa di S. Pietro su modello dello stesso
Giuseppe Bruni (cui si deve anche l'idea della sistemazione urbanistica della
piazza); casa Stratti, che ospita il Caffé degli Specchi, uno dei più antichi
di Trieste, inaugurato nel 1839, oggi totalmente rimesso a nuovo; il Palazzo del
Governo, del viennese E. Artmann (1904) con facciata rivestita di pietre bianche
e mosaici e con un portico con loggia a tre arcate sporgente; sul lato opposto
della piazza, Palazzo Pitteri (1780, costruzione di Ulderico Moro) ed il Palazzo
del Lloyd Triestino del viennese E. von Ferstel (1880-1883), palazzo cioè della
più antica società di navigazione d'Italia ed una delle più antiche del
mondo.
Da piazza Unità si possono fare quattro passi tra le pittoresche vie di Cavana,
che è la caratteristica parte vecchia della città; oppure, raggiungere a
sinistra la vicinissima Piazza della Borsa, con l'imponente Palazzo della Borsa,
dal profondo pronao e dalle enormi statue allegoriche, dovuto all'architetto
marchigiano Antonio Mollari, vincitore del concorso bandito nel 1799 ed
incaricato del lavoro nel 1802; il salone del primo piano è affrescato da
Bernardino Bison.
Piazza Unità d'Italia
Poco distante da piazza della Borsa (dove va visto anche il grande Palazzo del
Tergesteo, con galleria, opera dell'arch. Buttazzoni, 1840, su disegno del
milanese Pizzola), è il Teatro Verdi (il primo teatro d'Italia intitolato a
Verdi) costruito su progetto del noto architetto veneziano Antonio Selva (autore
del Teatro La Fenice di Venezia) e con facciata (1801) del triestino di origine
tedesca Matteo Pertsch che ebbe a modello la Scala di Milano.
Si imbocca quindi il Corso Italia, detto anche semplicemente Corso, la maggior
arteria cittadina, dal passeggio e dal traffico sempre intensissimi,
fiancheggiato, anch'esso, da interessanti palazzi (tra cui, all'inizio, il
Palazzo neoclassico progettato dal Pertsch; la Casa Ananian di G. Polli, ecc.).
Si giunge quindi in Piazza Goldoni, nella quale più vie convergono e dalla
quale partono la Scala dei Giganti che porta a San Giusto e la Galleria
Sandrinelli, costruita nel 1904 e lunga 347 metri che, con il prolungamento
della galleria di S. Vito (1912, lunga 481 metri) consente di raggiungere
rapidamente la zona industriale.
Dalla piazza si giunge in Via Carducci, l'altra importante via cittadina,
costruita sul letto di un torrente completamente coperto nel 1850 (ed infatti si
chiamava via del Torrente). Alla fine del Settecento, un ponte gettato
all'altezza dei Portici di Chiozza segnava il limite della città, oltre il
quale iniziava la distesa degli orti. Via Carducci, con i suoi severi palazzi,
con la sua ampiezza, con gli alberi che la abbelliscono, con i bei viali che da
essa si dipartono (in particolare Viale XX Settembre, affettuosamente chiamato
Viale oppure Acquedotto, perché in origine vi passava l'acquedotto teresiano)
mostra a sufficienza l'impianto austriacheggiante che dominava la Trieste
ottocentesca.
Il Colle di San Giusto.
Il cuore di Trieste, oggi, si è spostato in basso, ma certamente la Trieste
antica è nata sul celebre colle, dal quale la vista spazia sulla città, sul
golfo, e lontano, sul Carso: là dove ancora rimangono i più significativi
monumenti, i più ricchi di storia e d'arte: la basilica romana, il castello, la
cattedrale di San Giusto.
Il sito fu abitato fin dall'epoca romana, come testimoniano, sul grande piazzale
del colle, i resti della basilica Forense del II secolo d.C., che doveva essere
lunga 88 metri e larga 23,50, a giudicare dalle colonne superstiti (anche se
solo limitatamente alle basi): due colonne sono state ricostruite in cotto con
frammenti originali.
Della lontana, primitiva origine del Castello rimangono numerosi ricordi
storici, così come delle sue molteplici distruzioni. Nel 1470 Federico III fece
iniziare la costruzione di quello che è l'attuale castello e stabilì che le
spese fossero sostenute dalla popolazione. La torre quadrata e l'edificio che
ospita il Museo appartengono proprio a questo periodo. In seguito i veneziani,
durante la loro breve occupazione del 1508, aggiunsero il bastione rotondo; gli
Austriaci, ripresa Trieste l'anno seguente, ultimarono il lavoro intrapreso e
fecero proseguire l'edificio sotto la direzione dell'architetto triestino
Gerolamo Decio. Ampliamenti si ebbero a metà del Cinquecento e soprattutto nel
primo decennio del Seicento, allorché il Castello, per opera di Pietro de Pomis,
venne ultimato, con l'inglobamento delle costruzioni federiciane in tre ampi
bastioni collegati con cortine.
Non ebbe però mai, il castello, funzioni militari (un po' come la fortezza di
Palmanova); divenuto nel 1930 di proprietà comunale, fu attrezzato a scopo
turistico (bellissima infatti è la passeggiata sulle mura che dà la possibilità
di godere di un ampio panorama sui tetti della città, sul mare e sulla
costiera, sul retrostante Carso), tanto che oggi nel suo capace cortile si
proiettano films e si tengono spettacoli teatrali.
Fu anche creato il Museo del Castello, che pur contando qualche pezzo d'arte
(una statua lignea di tipo friulano del XV secolo; una tela attribuita a Carlo
Loth, ca. 1630, con il Trionfo di Venezia, ecc.) si qualifica soprattutto per la
ricca raccolta di armi, molte delle quali provenienti da collezioni private;
armi da taglio, da botta, da fuoco, dal secolo XVII in poi, oltre a corni da
polvere e cartuccere: il tutto permette di seguire l'evoluzione storica delle
armi.
La Basilica di San Giusto.
È la cattedrale di Trieste ed è anche l'edificio più famoso della città, con
la sua facciata irregolare, il raffinato ricamo del rosone, il tozzo campanile.
Riassume in sé quasi duemila anni di storia; sul luogo, infatti, sorgeva già
nel I secolo d.C. un vasto propileo in pietra di Aurisina, con colonne
distribuite in due avancorpi collegati da una scalinata, sul tipo dell'altare di
Pergamo: da esso si accedeva ad un recinto sacro. Del propileo sono state
rinvenute cinque colonne che si vedono all'interno del campanile, parte della
trabeazione, che è murata nel campanile, la scalinata del loggiato e frammenti
vari. Era un edificio, a quanto si sa, unico nel suo genere in tutta l'Europa
romana.
Nel V secolo quivi sorse una basilica paleocristiana a tre navate, con pavimento
a mosaico, per la quale ci si servì in qualche misura anche delle strutture del
propileo; nel VI secolo, all'epoca del vescovo Frugifero, vennero apportate
delle modifiche alla zona absidale. Distrutta anche questa chiesa, alla metà
dell'XI secolo venne costruito e dedicato a S. Maria Assunta, probabilmente dal
vescovo Adalgero di Eichsstädt, un edificio a tre navate, in parte poggiante
sulla precedente costruzione. Sulla destra, in epoca carolingia secondo alcuni
studiosi, tra XI e XII secondo altri, venne edificato il Sacello di S. Giusto,
che fu poi allungato fino a formare una specie di chiesa parallela e gemella.
Nel XIV secolo, infine, entrambe le chiese furono private di una navata: la
chiesa di S. Maria Assunta della destra, S. Giusto della sinistra: lo spazio che
si creò divenne la navata centrale dell'attuale chiesa, alla quale fu data
anche la facciata che oggi vediamo. Il lavoro, iniziato dal vescovo Rodolfo
Pedrazzani (1303-1320) fu ultimato sotto il vescovo Enrico de Wildenstein
(1383-96) che consacrò la nuova chiesa. Non ci furono in seguito modifiche
sostanziali. La facciata, forzatamente irregolare per aver dovuto inglobare due
differenti chiese, ha terminazione a salienti nella parte destra, mentre nella
sinistra si salda al campanile. È in corsi di arenaria, il che permette un
violento e sempre vario brulicare della luce; al centro, il trecentesco rosone,
con la sua delicata, leggera orditura, data dalla doppia serie di esili
colonnine a raggiera di cui quelle esterne legate da un motivo a rosette
quadrilobate e archetti trilobati che crea un piacevole effetto di trina.
Presenta tre porte: quella centrale ha degli stipiti particolari, ricavati da
una grande stele romana tagliata in due parti, a tre nicchie e frontone, con i
busti ad altorilievo di sei personaggi della famiglia Barbia (inizio I secolo
d.C.): l'ultimo personaggio in basso a destra fu trasformato in un S. Sergio con
l'alabarda simbolo di Trieste, Lapidi e Stemmi abbelliscono la facciata: si
guardi la lastra che porta lo stemma e la tiara pontificia di Enea Silvio
Piccolomini, che fu papa Pio II e che nel 1448-50 era stato vescovo di Trieste;
ed inoltre i tre busti in bronzo (Pio II e i vescovi Rapicio, umanista, e
Rinaldo Scarlicchio che ritrovò le reliquie di S. Giusto) opera di Alberto
Brestyanszhy (1862) direttore del l'atélier dello scultore triestino Giuseppe
Capolino e suo successore.
Il campanile fu innalzato nel 1337 ad opera di Randolfo de' Baiardi ed ultimato
nel 1343 in guisa di massiccio torrione, cui l'uso di grandi blocchi di arenaria
adoperati per la costruzione conferisce ancor più carattere di severa forza.
Riveste il precedente campanile romanico che a sua volta inglobava parte del
propileo romano. Vi è murato un fregio romano (dal frontone del propileo) con
armi, corazze; sopra la porta una figura di S. Giusto di epoca gotica (con testa
romana riadattata). Nella cella campanaria, dalla quale si gode un magnifico
panorama, cinque campane, tra le quali il celebre campanon del peso di 4900
chilogrammi, fuso in Austria nel XIX secolo.
All'interno, la chiesa si presenta come una basilica cristiana a cinque navate.
Ha copertura lignea a carena di nave rovesciata (il soffitto fu rifatto nel
1905) e capitelli di varia foggia e di varia epoca che stanno a testimoniare il
complesso iter costruttivo dell'edificio. L'acquasantiera, modesto pezzo di
plastica trecentesca, con decorazioni a fogliami, a dentelli, a treccia, è
sormontata da una statuetta in bronzo di S. Giusto scolpita da Marcello
Mascherini nel 1946.
Tra le tante opere d'arte di cui la chiesa è ricca, certamente i più
appariscenti sono i mosaici absidiali e parietali. L'abside dell'ex chiesa
dell'Assunta (prima a sinistra rispetto all'abside centrale) è decorata con un
mosaico raffigurante la Vergine in trono tra gli Arcangeli Michele e Gabriele e,
nella fascia inferiore, i dodici Apostoli. È opera di maestranze
venete-ravennati dell'inizio del XII secolo, per certi raffronti abbastanza
convincenti, sul piano stilistico, con alcune figure dei primi mosaici di S.
Marco o con frammenti della basilica Ursiana di Ravenna (datati al 1112), mentre
l'iconografia porta ad un confronto con quelli di Torcello, dove però maggiore
è lo schematismo nell'esecuzione.
Seduta su un trono di aerea lievità e tenendo in braccio il Bambino
benedicente, la Vergine, ieratica sullo sfondo d'oro, domina la composizione ed
a lei si inchinano, reverenti, gli arcangeli. Nella fascia inferiore si snoda la
teoria degli Apostoli, disposti con la solita visione bizantina, separati da una
pianticella fiorita, abbastanza diversificati nelle tipologie e negli
atteggiamenti. Nella parte destra una finestrella, murata nel 1438, interrompe
la teoria senza però troppo disturbare la composizione, anzi conferendole quasi
una nota di vivacità. Nell'abside dell'ex sacello di S. Giusto (primo a destra
rispetto all'abside centrale), c'è un altro mosaico che raffigura il Cristo
benedicente tra i Santi Giusto e Servulo. È mosaico più tardo di quello
dell'Assunta e va riferito al XIII secolo: presenta infatti un carattere
neoellenistico che però potrebbe anche essere dovuto a più generose e diffuse
inzeppature (Gioseffi) del restauro ottocentesco. Le due figure sono isolate in
una conca d'oro senza alcuna connotazione spaziale. Cristo, che tiene nella
sinistra un libro, calpesta con il piede destro un serpente e con il sinistro un
basilisco, il quale fatto viene spiegato con un'inscrizione latina che corre
sotto i piedi dei due santi e che, in italiano, suona: Dio può ora regnare in
eterno in maestà: ecco Cristo che cammina sul serpente e sul basilisco. Ciò ha
portato a pensare che ci fosse un'allusione al Barbarossa il quale, sconfitto a
Legnano (dove anche trecento triestini avevano combattuto) aveva dovuto
sottomettersi a papa Alessandro III, nel 1177, a Venezia, presente anche
Bernardo vescovo di Trieste.
Nei sottostanti riquadri con lunetta contenuti entro archi a tutto sesto, sono
riapparsi alla luce, nel 1954, alcuni affreschi con storie di San Giusto del
1230 ca., che restavano coperti da altri affreschi, dello stesso soggetto,
dipinti intorno alla metà del XIV secolo (strappati, restaurati e conservati
per ora in Museo: opera del così detto Maestro di San Giusto). Raffigurano il
martirio del Santo e sono in pessimo stato di conservazione: sembrano
appartenere alle stesse maestranze artistiche che hanno lavorato nella chiesa di
Muggia Vecchia.
Nella vicina piccola abside, detta di S. Apollinare, si notano affreschi
romanici molto sbiaditi con Storie di S. Apollinare; interessante, nello
zoccolo, il motivo del finto velario che si ritrova solo in pochissime altre
chiese della regione. I mosaici dell'abside centrale sono opera di Guido Cadorin
(1932) che nell'Incoronazione della Vergine riprende il motivo degli affreschi
che, nella stessa abside. Antonio Baietto e Domenico Lu Domine, udinesi, avevano
eseguito nel 1423 e che vennero distrutti alla metà dell'Ottocento; se ne
conservano solo due piccoli frammenti al Museo, oltre ad un disegno del pittore
triestino Gaetano Merlato che riproduce l'intera macchinosa quattrocentesca
Incoronazione.
Ancora, nella basilica, vanno visti gli affreschi della secentesca cappella di
San Giuseppe: Fuga in Egitto e Transito di S. Giuseppe nelle pareti laterali,
Gloria di S. Giuseppe nella cupoletta, dipinti tutti nel 1706 dal fecondo
comasco Giulio Quaglio che, forse condizionato dalle esigue dimensioni del
luogo, evita qui quel gigantismo delle forme che anima tanti dei suoi affreschi
in Udine. Nella stessa cappella, la pala contenuta nel marmoreo altare eretto
nel 1704, è del veneziano Sante Peranda (1566-1638), che nello Sposalizio della
Vergine si rifà ad immagini tipiche del manierismo veneto.
Affreschi ancora, alquanto modesti, del muranese Sebastiano Santi nella cappella
dell'Addolorata (1855: scene della vita di Gesù).
Per quanto riguarda le opere mobili, da segnalare un bel polittico con la
Crocifissione al centro, sei santi a piena figura entro archetti trilobati ed
altri a mezzo busto nei pennacchi fra gli archi, eseguito da Paolo Veneziano (o
più probabilmente dalla sua bottega) per l'altar maggiore (così almeno vuole
la tradizione) nel secondo quarto del secolo XIV. Oggi fa parte del tesoro di S.
Giusto.
Nella cappella di S. Servolo, una Madonna allattante, tempera su tavola di un
madonnero veneto del XVII secolo. Una tela di Benedetto Carpaccio (1541), figlio
del più celebre Vittore e particolarmente attivo in Istria, rappresenta la
Vergine che allatta Gesù, con i santi Giusto (che tiene in mano il modelletto
della città di Trieste) e Sergio ai lati: dipinto di modesta esecuzione, ma non
spiacevole.
Due opere di scultura si impongono sulle altre: il bellissimo Compianto sul
Cristo morto (arte tedesca della prima metà del XV secolo); piccolo capolavoro
per l'eleganza e l'equilibrio che dominano il serrato e drammatico gruppo delle
espressive figure; il trittico, in legno dorato, con S. Agostino al centro, S.
Sebastiano e Gesù adolescente (proveniente dal convento di S. Bernardino a
Portorose) opera che nell'impianto architettonico e nell'intaglio delle figure,
si mostra prossima ad analoghi modelli giuliani della fine del XVI o dell'inizio
del XVII secolo. Il Tesoro della Cattedrale, piuttosto ricco, è costituito da
notevoli pezzi d'arte. Tra gli altri, il velo di S. Giusto, dipinto su seta del
XIII secolo con l'immagine del santo (arte di corte costantinopolitana); un'urna
in lamina d'argento, con motivi a girali e grappoli e, sui lati minori, un
rigido crocifisso (secolo XIII); il Crocifisso dei Battuti (secolo XIII); il
Crocifisso di Alda Giuliani, in argento dorato, datato 1383; e poi busti
reliquiari (in parte rubati qualche anno fa), candelabri, lampade ed altri
oggetti, oltre alla celebre alabarda in ferro battuto (che è il simbolo della
città) che secondo una leggenda cadde sulla piazza maggiore di Trieste
nell'ottobre del 303, allorché San Sergio fu decapitato in Siria.
A sinistra della basilica, sorge il Battistero di San Giovanni, costruito (1380)
sul luogo dell'antico battistero paleocristiano, recentemente riportato
all'aspetto originario.
A destra, la Chiesetta di S. Michele al Carnale (così detta perché adibita a
cappella mortuaria fino al 1829), semplice e graziosa costruzione del XIII
secolo, con campaniletto a vela e una cripta ad arcate: incastonati sulla
facciata, interessanti frammenti di plutei paleocristiani. Chiese e monumenti
notevoli. La mancanza di un valido Medio Evo e di un Rinascimento, unita
all'esplosione - demografica, economica ed artistica - sette-ottocentesca ed
agli eventi dolorosi delle due ultime guerre, fa sì che Trieste non abbondi -
come altre città - di monumenti singolari o per pregi artistici o per
significato storico, né di chiese arricchite di opere d'arte nel corso dei
secoli.
Dell'età romana rimangono l'Arco di Riccardo (nei pressi della chiesa di S.
Maria Maggiore), il cui nome ha oscura origine, costruzione di grosse pietre,
con trabeazione a tre fasce, che dovrebbe risalire al 33 a.C., quando Augusto
fece costruire le mura; la cavea semicircolare del Teatro Romano (nell'omonima
via) che gli scavi riportarono in luce una quarantina d'anni fa (dieci statue
che ornavano il proscenio sono state collocate in Museo). Risale al I-II secolo
d.C. ed era in origine posto fuori delle mura, in riva al mare che all'epoca si
spingeva fin là. Resti di mosaici paleocristiani sono stati ritrovati nel 1963
durante occasionali scavi in via Madonna del Mare: è stata quindi rimessa in
luce una parte della pavimentazione di quella che doveva essere una basilica
paleocristiana cimiteriale, essendo situata fuori dell'antica cerchia di mura. I
mosaici, che hanno motivi geometrici e risultano vieppiù interessanti per le
iscrizioni che recano, sono su due strati sovrapposti, l'uno del V, l'altro
dell'inizio del VI secolo d.C.
Dopo San Giusto, la chiesa più interessante è S. Maria Maggiore (in via del
Teatro Romano); vi si giunge salendo una monumentale, moderna scalinata,
iniziata nel 1627; la chiesa nella concezione si ispira alla vignolesca chiesa
del Gesù in Roma: da quella tuttavia si discosta nell'organizzazione interna
dello spazio che risulta qui frazionato dalla suddivisione in tre navate (anziché
pianta ad aula). La facciata, dinamicamente articolata, sembra dovuta al gesuita
architetto (oltre che pittore e trattatista) Andrea Pozzo (1647-1709), trentino
di nascita ma romano per formazione culturale, che l'avrebbe eseguita nei
primissimi anni del Settecento. All'interno, nell'abside il grande affresco con
l'Immacolata Concezione, dipinto da Sebastiano Santi nel 1842; buone tele sugli
altari e nelle pareti (una Madonna della Salute è attribuita al Sassoferrato,
un S. Ignazio al Maffei); monocromi a tempera di G. B. Bison rappresentanti gli
Evagelisti nei pennacchi della cupola (inizio XIX secolo), una Madonna con
Bambino in pietra del friulano Pietro Bearzi, 1853, splendidi banchi intagliati.
La vicina Chiesetta di S. Silvestro, pesantemente restaurata nel 1927 e liberata
dalle sovrastrutture barocche, risale al secolo XII inoltrato: la tradizione
vuole sia stata edificata sulla casa delle Sante Eufemia e Tecla, che
affrontarono il martirio nel 254, casa poi dedicata a S. Silverstro, papa
all'epoca di Costantino. Oggi è un tempio delle comunità evangeliche elvetica
e valdese.
Un piccolo scrigno di opere d'arte è il Monastero di San Cipriano, in via delle
Monache, dal 1426 abitato dalle Benedettine. Non è tanto la chiesetta dalla
modesta facciata fine Settecento e dall'interno ad unica navata a suscitare
ammirazione, quanto tutto il complesso conventuale, nel quale sono stati
mantenuti ambienti di rara suggestione, quali l'antica cucina o il forno per il
pane, ed inoltre dipinti di un qualche pregio (il migliore, tuttavia, il celebre
trittico di S. Chiara, di Paolo Veneziano e aiuti, è ora al Museo Sartorio),
sculture in legno (tra cui una gran croce trilobata trecentesca, con S.
Giovanni, Madonna e Angelo dipinti alle estremità: un grande Crocifisso; una
Madonna dell'inizio del XV secolo, di scuola tirolese, con Bambino del XVI
secolo: un Vesperbild di scuola friulana, inizio XVI secolo), argenterie (in
genere sei-settecentesche, ma con anche una bella croce astile del XIV-XV
secolo).
Esempio di architettura neoclassica è la Chiesa di S. Antonio nuovo, che chiude
scenograficamente la zona del canale. Costruita tra il 1825 ed il 1849, è
l'opera più significativa dell'architetto Pietro Nobile, uno dei massimi
esponenti del neoclassico triestino, che già nel 1808 ne aveva steso il
progetto. La facciata ha un pronao con sei robuste colonne ioniche che
sorreggono un ampio frontone e, con la retrostante cupola, ricordano da vicino
il Pantheon.
L'edificio, per ragioni economiche,
non poté essere realizzato nel materiale e con la decorazione prevista dal suo
autore (i cassettoni nell'interno della cupola e sugli arconi sono in gran parte
finti in chiaroscuro, tutte le parti esterne, ora ricoperte di malta, avrebbero
dovuto essere in pietra d'Istria, il timpano avrebbe dovuto portare nell'interno
un bassorilievo), sicché non può mostrare nella sua compiutezza la vera idea
dell'architetto. Comunque, anche così povero, questo tempio rimane
indiscutibilmente - e nonostante l'opposto parere di Camillo Boito che lo
condannò dicendo "fosse brutto, almeno!" - uno dei monumenti più
significativi dell'epoca neoclassica, e di notevole valore soprattutto da un
punto di vista urbanistico (Walcher). All'interno, dipinti ottocenteschi del
Grigoletti, dello Schiavoni e del Politi, oltre ad un affresco di Sebastiano
Santi con l'Ingresso di Gesù in Gerusalemme.
Ricordiamo ancora la Chiesa di S. Spiridione, in piazza S. Antonio, progettata
dal milanese Carlo Maciacchini ed aperta al culto nel 1868: dedicata al culto
serboortodosso, è una costruzione movimentata, splendida per le fastose
decorazioni a mosaico sia all'esterno che all'interno, per le pitture, per le
icone postbizantine provenienti per la maggior parte dall'area slava
mediterranea; la Chiesa evangelica, innalzata dallo Zimmermann nel 1875 in stile
neogotico; il Tempio Israelitico, in via Donizetti, costruito nel 1902 su
progetto di Ruggero e Arduino Berlam, ispirato alle rovine di Baalbek; la Chiesa
di S. Nicolò dei Greci (culto greco ortodosso) in Riva III Novembre, eretta nel
1786 e nel 1819 rinnovata da Matteo Pertsch che lasciò nella facciata
delimitata dai due campanili una chiara impronta del suo stile.
Ricchissimo l'arredo liturgico. Due grandi tele del pittore di Pirano Cesare
Dell'Acqua danno tono alle pareti laterali (la Predica del Battista, 1852 e
Cristo tra i fanciulli, 1854), ma è l'iconostasi il fulcro di tutto il luogo
sacro. Opera di ignoto intagliatore, simile a quella eseguita per la vecchia
chiesa di S. Spiridione nel 1794 da Sebastiano Treppan, arricchita da dipinti a
tempera su tavola con fondo oro (bottega del pittore greco Giorgio Trigonis, che
operò a Trieste dal 1786 al 1833), da tele, da coperture in argento lavorato a
sbalzo, si carica di valori spirituali ed allo stesso tempo artistici e
costituisce un unicum in regione.
Ancora da ricordare la settecentesca chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo a
Barcola, che nel 1930 ha subìto pesanti trasformazioni, tra l'altro con la
collocazione in facciata del bel rosone seicentesco proveniente dalla distrutta
chiesa di S. Pietro in Piazza Grande. All'interno, elegante altare maggiore di
Giovanni Comin ed Enrico Merengo, eseguito alla fine del XVIII secolo per la
cappella della Madonna della Pace di Venezia. Venne acquistato nel 1826 per la
Cappella del Sacramento della Basilica di S. Giusto, dove rimase fino al 1840.
Interessante il paliotto del Comin con la raffigurazione delle anime purganti e
le statue a tutto tondo che sormontano la mensa.
Comune
I Musei.
Civici Musei di Storia e Arte e Orto Lapidario (via Cattedrale 15). Dal 1925
sono allogati nell'edificio eretto alla fine del Settecento ma ristrutturato da
Giovanni Battista de Puppi nel 1837 ed acquistato dal Comune nel 1915. Nati come
"museo misto", cioè per la raccolta ed esposizione di opere
archeologiche, d'arte, etnografiche, eccetera, vanno oggi precisando - in fase
di ristrutturazione - la loro specializzazione esclusivamente archeologica
(dalla preistoria all'epoca romana con appendice nel Medioevo, con materiali
riguardanti sia la città che il territorio). Nell'atrio, nelle salette del
pianterreno e del primo piano sono esposti marmi romani, materiale egizio di
epoche e provenienze diverse (stele funerarie, vasi, bronzetti ed anche una
mummia); oggetti d'arte del Gandhara
CAFFE A TRIESTE (un po di storia)
A cavallo tra '700 e '800 molte
grandi opere vennero edificate sia su commisione di privati che per avvicinare
ancor di più la vita della città a quella della capitale.In particolare
l'architetto triestino Matteo Pertsh diede vita allafacciata del Teatro Grande
(oggi Verdi, recentemente restituito al suo originale splendore) nel 1801 e al
Palazzo Carciotti (che ancora domina le Rive) costruito su commissione del
"negoziante Demetrio Carciotti" attorno al 1805. Negli stessi anni
Matteo Pertsh perse, a favore dell'architetto Antonio Molinari, il concorso per
una nuova opera monumentale, la Borsa oggi sede della Camera di Commercio.
Ma altre opere vennero edificate dalla metà alla fine del secolo scorso.
Completamente rinnovata la medievale Piazza Grande (oggi Piazza dell'Unità
d'Italia, la più grande in Europa aperta sul mare) con la costruzione del nuovo
palazzo Municipale che diede alla città l'aspetto di vera capitale marittima
dell'Impero. Pochi anni dopo, nel 1883, veniva ultimato la nuova imponente sede
del Lloyd Austriaco.
Un caffe' a Trieste
Trieste. Se fosse un colore, sarebbe il bianco. Il bianco splendente dei palazzi
governativi di Piazza dell'Unità, affacciati direttamente sul mare. Ma anche il
nero…"bollente"!
Se fosse un profumo, sarebbe quello del caffè appena fatto.
Ai tavolini di Caffè storici, come il Tommaseo, il San Marco, il Caffè degli
Specchi, il Tergesteo, trovi ragazzi che studiano per l'interrogazione a scuola
dell'indomani, coppie di anziane signore che sorseggiano il "capo",
l'accademico che corregge la tesi, universitari che ripetono e ricopiano gli
appunti e chi, come me, entrata per uno spuntino e per sfogliare i giornali,
resta incantata dai ritmi lenti e rilassati.
Nessuno ti fa fretta, nessun cameriere ti sollecita a lasciare il tavolo al
prossimo cliente, anzi ti propone un'altra fetta di Strudel o di torta Sacher o,
se sono le sei del pomeriggio, un boccale di birra "ben accompagnato".
Così viene voglia di chiacchierare, di parlare di grandi cose come un tempo
avevano fatto al medesimo tavolo Joyce, Svevo, Rilke, Sthendal.
Un angolo di paradiso per il turista e per l'habitué. Peccato che ne sono
rimasti solo otto di questi angoli, nove con la prossima riapertura del Caffè
degli Specchi, affacciato dal 1839 sulla bella Piazza dell'Unità.
Nell'800 di caffè così se ne contavano 54, nel 1911 addirittura 98. Era anche
l'epoca del famoso Caffè Gambrinus a Napoli, del Caffè Greco a Roma, e di
altre centinaia sparsi per il Belpaese.
Ma i tempi cambiano e, come una mannaia, questi "tempi moderni"
decretano la chiusura di alcuni di essi: una triste realtà che si sta
espandendo come un'epidemia. I costi di mantenimento sono alti, i ritmi veloci,
i consumi di massa. E un caffè "gocciato" come dicono a Trieste
rischia di diventare un lusso per pochi.
Entrare in un Caffè come il Tommaseo significa ripercorrere le orme di Italo
Svevo, che qui vi passava giornate intere a scrivere, a leggere i suoi
"maestri", a chiacchierare con l'amico James Joyce.
il Caffè Tommaseo, fondato dal padovano Tommaso Marcato nel 1830, è famoso
anche per essere stato il primo locale a portare una novità d'inizio secolo: il
gelato. Veniva - e viene gustato in un ambiente luminoso, ornato da
specchiere fatte arrivare dal Belgio, stucchi e pitture del Gatteri.
Oggi, per stare al passo con i tempi, le sale si sono aperte al brunch e alle
cene veloci. Tavoli più o meno grandi, apparecchiati a mo' di ristorante, hanno
mutato l'atmosfera ottocentesca. Anche i restauri del 1997 hanno restituito agli
interni un bianco troppo fulgido a discapito di certa atmosfera décadence, di
cui rimane memoria negli scritti letterari, gelosamente custoditi nelle
vetrinette, una delle quali "protetta" dall'effige in olio di Niccolò
Tommaseo.
Anche il Tergesteo ha da poco concluso i lavori di restauro, per ricreare
l'atmosfera di fin de siécle, ma dell'originale, purtroppo, è rimasto ben
poco. Nato nel 1863, all'interno dell'omonima galleria, il Tergesteo è famoso
per le sue vetrate colorate raffiguranti alcuni episodi della leggendaria storia
di Trieste.
Fuori dalla Galleria del Tergesteo, si possono incontrare altri suggestivi caffè,
come il Bar Ex Urbanis, piccolo, intimo, nato dalle ceneri di una pasticceria e
impreziosito da un pavimento a mosaico, che reca la data storica della sua
fondazione: 1832.
Andando verso piazza della Repubblica, ci s'imbatte nel Caffè Stella Polare,
nel cuore del borgo teresiano, accanto alla chiesa serbo-ortodossa di San
Spiridione e di fronte alla neoclassica facciata di S. Antonio Nuovo. Aperto dal
1867, dalla famiglia grigionese Griot, è stato rifugio di intellettuali e di
numerosi irredentisti. Tant'è che il tranquillo signor Griot, per paura di
rappresaglie, espose un cartello fuori dalla porta che recava un'eloquente
scritta: " Qui non si parla di politica né di alta strategia". Con la
fine della seconda guerra mondiale e l'arrivo degli americani in città, la
Stella Polare divenne una famosa sala da ballo: da qui tante ragazze triestine
presero il mare per gli Stati Uniti, spose felici di giovani americani. Il Caffè
oggi non ha più il glamour di un tempo: è troppo costoso mantenere una sala da
ballo e una da biliardo. Così si sono salvate solo due stanze dove gustare un
dolce e sorseggiare un buon tè.
CENNI STORICI SU AQUILEIA
Aquileia fu fondata dai Romani come colonia militare nel 181 a.C. in un luogo che era all'incrocio di popoli e traffici commerciali. Fu dapprima baluardo contro l'invasione di popoli barbari e punto di partenza per spedizioni e conquiste militari.
Collegata da una buona rete viaria, col tempo divenne sempre più importante per il suo commercio e per lo sviluppo di un artigianato
assai raffinato. Raggiunse il suo apice sotto l'impero di Cesare Augusto: con una popolazione stabile di oltre 200.000 abitanti, divenne una delle maggiori e più ricche città di tutto l'impero. Fu residenza di parecchi imperatori, con un palazzo assai frequentato, fino a Costantino il Grande e oltre.
Quando vi giunse il messaggio cristiano (la tradizione parla di una venuta di S.Marco evangelista che portò a Roma S. Ermacora per farlo consacrare da S. Pietro come primo vescovo di Aquileia), esso ebbe rapido sviluppo sotterraneo, tanto da esplodere prontamente appena venne concesso il culto pubblico con l'Editto di Milano del 313 d.C.
Basti pensare che furono erette prontamente tre grandi aule, lussuosissime, poste tra loro a ferro di cavallo: due principali, tra loro parallele, unite da una trasversale. Ciascuna poteva contenere comodamente da due a tre mila persone: cosa impensabile per un semplice "inizio" di evangelizzazione e per le ingenti risorse necessarie per realizzarle. Queste poi, ben presto risultarono insufficienti per contenere tutti i fedeli, e dovettero essere demolite per far posto ad altre aule più ampie. Infatti troviamo che, qualche decina di anni più tardi (verso il 345), partendo dalle fondazioni dell'Aula Nord, fu eretta una molto più ampia (lunga ben 70 metri e larga 31: 5 metri più lunga di quella che vediamo), la più vasta in assoluto per Aquileia: quella che nel 452 d.C. fu distrutta da Attila e mai più risorse. Anche l'Aula Sud, ampliata sotto il vescovo Cromazio rimase semidistrutta dall'invasione degli Unni. A questo punto c'è da notare una caratteristica tipica e unica di Aquileia: tutte le varie basiliche erano strettamente a forma rettangolare e senza abside.
Quando i figli degli scampati e degli esuli ritornarono ad Aquileia e pensarono ad una ricostruzione, volsero l'attenzione alle strutture
residue dell'Aula Sud, che ancora fu ampliata in lunghezza e larghezza: saranno le fondazioni di quest'ultima a fare da supporto, dopo un lungo periodo di completo abbandono (dai Longobardi all'800), alla costruzione di una vera e propria basilica, come noi l'intendiamo, e che sommariamente costituisce il perimetro di quella attuale. Quest' opera fu portata a termine dal vescovo Massenzio (811-838), con l'aiuto finanziario di Carlo Magno. Successivamente però, prima gli Ungari e poi un terremoto (988) la resero inagibile. Resti del pavimento in mosaico di questa basilica si possono esplorare attraverso due botole: una presso l'altare al centro del presbiterio e l'altra presso il sarcofago di San Pietro.
LA BASILICA
Il primo edificio di culto cristiano aquileiese fu edificato nel 313 d.C. dal vescovo Teodoro. Era costituito da tre grandi aule rettangolari poste a ferro di cavallo, dal battistero e da ambienti di servizio Le due aule parallele (teodoriana sud e teodoriana nord) erano mosaicate ed adibite alla celebrazione della messa e all’insegnamento delle Sacre Scritture; la sala trasversale, pavimentata a cocciopesto, veniva invece utilizzata come collegamento tra le due aule precedenti.
Verso la metà del IV secolo l’aula teodoriana nord subì un notevole ampliamento allo scopo di contenere un numero sempre più grande di fedeli (aula post-teodoriana nord). Accanto venne costruito un nuovo battistero con vasca esagonale. Detta aula venne distrutta dagli Unni di Attila nel 452 d.C. e mai più ricostruita.
Successivamente anche l’aula teodoriana sud venne trasformata in un edificio a tre navate con un grande battistero di fronte al suo ingresso principale (aula post-teodoriana sud).
Nella prima metà del IX secolo il patriarca Massenzio volle avviare i primi lavori di ristrutturazione di quest’ aula creando il transetto, la cripta degli affreschi (sotto il presbiterio), il portico e la Chiesa dei Pagani.
La basilica attuale è sostanzialmente quella consacrata nel 1031 dal patriarca Poppone dopo le modifiche da lui eseguite (sopraelevazione dei muri perimetrali, rifacimento dei capitelli, affresco dell’abside e costruzione dell’imponente campanile alto 73 metri).
Ulteriori interventi furono apportati dal patriarca Voldorico di Treffen nel XII sec. (affreschi nella cripta massenziana con scene della vita di S. Ermacora, della Passione di Cristo ed altre a carattere allegorico e profano) e dal patriarca Marquardo di Randek nel XIV secolo (archi a sesto acuto fra le colonne e tutta la parte alta della basilica compreso il tetto a carena di nave rovesciata, lavori resi necessari dopo il terremoto del 1348).
Museo Archeologico Nazionale
Il più importante dell'Italia settentrionale per la ricchezza di documenti di epoca romana. Tra i reperti più preziosi troviamo:
*la collezione dei ritratti funerari ed onorari, in pietra carsica e marmi diversi
*la collezione delle gemme e delle ambre intagliate, eccezionale per il numero dei pezzi e la qualità degli intagli
*la collezione dei vetri, stupenda per colori, forme trasparenze, iridescenze*
*i mosaici policromi figurati provenienti dalle case signorili di età tardorepubblicana
*i monumenti funerari spesso figurati (urne, stele, are, cippi, sarcofaghi, mausolei) che offrono numerose ed interessanti notizie sulla
vita quotidiana del tempo
PALMANOVA
(LA città stella)
Nei primi decenni del Quattrocento (1420) la Serenissima Repubblica di Venezia occupò il Friuli. Questa terra era considerata di importanza strategica per la difesa della terraferma, per il controllo delle vie di comunicazione e dei confini.
Una delle minacce maggiori per la Serenissima era rappresentata dai Turchi che, a ondate, avevano invaso il territorio friulano
saccheggiando, distruggendo e trascinando via come schiavi donne e bambini.
In seguito alla morte senza eredi del Conte di Gorizia, Leonardo, si aprì, nel 1500, una nuova guerra tra Venezia e Austria: Gradisca passò all’Austria e si venne a creare un confine innaturale con città venete incastonate nel territorio asburgico e viceversa.
Tale conformazione territoriale venne definita confine “a pelle di leopardo”.
Dal momento che il confine orientale della Terraferma si trovava esposto alle incursioni turche e austriache era necessario rafforzare il Friuli, terra di confine, con la costruzione ex novo di una fortezza al centro della pianura.
Questa doveva fungere da baluardo sia contro le mire espansionistiche degli Asburgo sia contro le continue incursioni dei Turchi.
Venezia nominò cinque Procuratori con il compito di decidere il luogo esatto su cui far sorgere la nuova città; questi si riunirono il 16
ottobre 1593 nel castello di Strassoldo e decretarono che la scelta era fatta.
La nuova fortezza doveva sorgere in posizione strategica: l’incrocio tra la via Julia Augusta e la strada Ungaresca (Stradalta).
Alla realizzazione del progetto partecipò una équipe di ingegneri, trattatisti ed esperti architetti militari dell’Ufficio delle fortificazioni di Venezia fra cui l’architetto Giulio Savorgnan.
Il 7 ottobre 1593 si diede inizio ai lavori di costruzione di Palma ed il Senato Veneziano nominò Marc’Antonio Barbaro primo Provveditore Generale della fortezza.
Nel periodo di dominio veneto la città stellata fu dotata di due cerchie di fortificazioni con bastioni, cortine, fossato e rivellini a protezione delle tre porte d’accesso.
Nonostante le apparenze di un incontrastato dominio veneziano, il XVIII secolo rappresentò per la Serenissima la parabola discendente della sua gloriosa storia: anche Palmanova e il Friuli ne seguirono il declino.
Il crollo definitivo si ebbe il 3 marzo 1797 quando un maggiore austriaco entrò con l’inganno in fortezza e aprì la strada a mille
armati austriaci che aspettavano poco fuori le mura. Gli austriaci non ebbero il tempo di godere la loro conquista in quanto il 18 marzo i francesi comandati da Bernardotte entrarono in fortezza e disarmarono anche le truppe veneziane che fino a questo momento si erano dichiarate neutrali.
Dopo la pace di Campoformio, Palmanova ritornò agli austriaci che la tennero fino al 1805 quando fu rioccupata dai francesi. Una delle prime preoccupazioni di Napoleone fu quella di “rendere la fortezza al passo con i tempi”; per fare questo procedette alla spianata dei tre villaggi circostanti di Ronchis, San Lorenzo e Palmada i cui edifici oltre ad essere possibile ricettacolo per i nemici, impedivano il tiro ai cannoni della piazzaforte. Così sotto la direzione di Chasseloup si dette avvio alla costruzione della terza cerchia delle fortificazioni. In corrispondenza ai baluardi veneziani furono aggiunte le nove lunette napoleoniche dotate anche di gallerie sotterranee (mine).
Nel 1809 e nel 1813 la fortezza resistette agli assedi posti da parte degli Austriaci rivelandosi inespugnabile e confermando la lungimiranza degli interventi napoleonici. Palmanova, mai conquistata dalle armi, ritornò agli Austriaci solo in virtù dell’armistizio di Schiarino ?
Rizzino del 16 aprile 1814.
Finito il periodo napoleonico, il dominio austriaco sul Friuli durò dal 1815 al 1866 Il 24 marzo 1848 la guarnigione della città stellata, infiammata dagli ideali liberali in seguito ai moti di Vienna, Milano e Venezia, si sollevò contro il dominatore austriaco ed elesse a proprio capo l’ex generale napoleonico Carlo Zucchi.
La reazione asburgica fu piuttosto dura e sfociò in un assedio alla Fortezza.
Alla fine, stremata e senza più speranze di ricevere gli sperati rinforzi da Carlo Alberto, Palmanova capitolò dopo Udine e il 26 giugno fu firmata la resa di Palma e gli Austriaci rioccuparono la fortezza.
Gli austriaci rafforzarono la presenza delle artiglierie in fortezza tanto che le truppe italiane, nel 1866, durante la Terza Guerra d’Indipendenza non la attaccarono. Venne annessa al Regno d’Italia con il plebiscito del 21 ottobre 1866.
La fortezza tornò alla ribalta quasi dopo 50 anni quando, durante la Prima Guerra Mondiale, diventò deposito di viveri e vestiario, centro di smistamento e di rifornimento per la prima linea situata sull’Isonzo; dopo la disfatta di Caporetto fu parzialmente incendiata dalle truppe in ritirata. Nella notte del 29 ottobre 1917 la città si trasformò in un immenso rogo, il 60% degli edifici venne distrutto.
Durante la Seconda Guerra Mondiale Palmanova corse il pericolo di essere rasa al suolo dai nazisti in fuga: solo il miracoloso intervento dell’arciprete Giuseppe Merlino fece sviare i tedeschi dalla decisione di raderla al suolo.
Nel 1960 su decreto del Presidente della Repubblica Palmanova fu dichiarata “Monumento Nazionale”.
Simona Dragoni dragoni@mondadori.it