Balkan Express
L’ex-Jugoslavia on the road
Racconto di viaggio 2003
Sole
basso e caldo, estivo. Profumo di ginestra, d’erba bagnata e di terra arata,
la Salaria scorre morbida e sinuosa sotto le ruote della vespa. Sabbia, vento,
innumerevoli e monotoni paesi di riviera, l’Adriatica è noiosa e trafficata.
Ancona mi viene incontro arrossata dal sole al tramonto. Salsedine, nafta,
sartie marcescenti, prue e fumaioli. Si presenta così il porto, prima vera
tappa di un tour a due ruote tra i resti della ex Jugoslavia. Notte lunga e mare
calmo. Spalato al mattino mi accoglie con il campanile bizantino del palazzo di
Diocleziano scintillante sotto il sole nascente, unica bellezza artistica di
un’architettura cittadina dal tipico stampo socialista, con grandi palazzoni
ed ampi boulevards. Pochi metri dal porto, l’insegna familiare di una nota
marca italiana promette di soddisfare la voglia di un caffè e segnala
l’avvenuta penetrazione economica italiana dello spazio ex-Jugoslavo.
Biossido
di carbonio, catrame e prostitute ecco la Magistralni Put, lunga arteria di
comunicazione che, costeggiando il litorale adriatico, collega Rijeka (Fiume,
n.d.a.) alla montenegrina Podgorica. Pochi chilometri e lascio alle spalle i
periferici ruderi industriali dell’era Titina. Le piccole case bianche del
litorale spalatino pullulano di cartelli per l’affitto di camere ed
appartamenti dal costo giornaliero di 100 kune a persona (15 euro circa). Il
paesaggio urbano lascia spazio ai vigneti,
agli uliveti, ai pini, ai cipressi, ai fichi e alle numerose isole della
Dalmazia. 40 km a sud del capoluogo dalmatino e sono nella Makarska riviera.
Alcune zone di macchia mediterranea annerite dal fuoco segnalano che la
speculazione edilizia sta muovendo anche qui i suoi primi passi. Attraverso il
fiume Cetina a Omiš. Piccole barche cariche di turisti risalgono la corrente
per visitare il canion che l’acqua ha scavato nel corso di secoli. Attaccato
dai crampi della fame faccio tappa in un ridente paesino, Baška Voda. La
cortesia del simpatico gestore di un camping mette a tacere il mio brontoloso
stomaco.
Impreco
a lungo contro il terreno pietroso che piega i picchetti della tenda e raggiungo
il mio ospite che ha già preparato un’abbondante piatto di “Gavuni”,
lattarini fritti, caldi e croccanti, accompagnati da mezzo litro di vino rosso,
leggero e fruttato. L’accostamento pesce vino rosso mi fa storcere il naso. A
raddrizzarlo interviene Nicola che mi
scruta attraverso gli occhiali scuri calati sul naso ed esclama sorridendo da
sotto i baffi grigi da vecchio
tricheco saggio: “Plava riba, crno vino”, “Pesce azzurro, vino rosso”.
Consumato
il pasto saporito ed po’ebbro dall’ottimo vino mi concedo un po’ di mare.
Il profilo dell’isola di Brać, famosa per la spiaggia di Bol e per le
cave di pietra bianca, si staglia sinuoso dopo un breve braccio di mare. Mi
tuffo nelle acque cristalline, profonde e fredde, ideali per chi pratica sport
acquatici. Le montagne del parco nazionale di Bjokovo che si ergono maestose
sulla testa lasciano intuire l’aspra orografia dei Balcani. Il giorno dopo la
Magistralni Put mi accoglie con il profumo dei pini silvestri. I monti sfilano
impervi sulla sinistra facendo da degno controaltare al mare scintillante ed al
profilo scuro della lunga isola di Hvar sulla destra. Terza, quarta e poi di
nuovo terza, la vespa sale agile per i tornanti in direzione Ploče. Un
ennesima curva ed una serie di piccoli laghetti naturali si dipingono nel
panorama.
La strada scende tranquilla verso le foci della Neretva. Canne
palustri, folaghe, germani reali e qualche airone, odore d’acqua salmastra e
pesce. Da una casa galleggiante un
pescatore alza un braccio in segno di saluto. A Neum la continuità territoriale
della Croazia viene interrotta, per 20 km, dall’unico accesso al mare della
Bosnia Herzegovina. Per un tratto assai breve passo per due volte il confine tra
Croazia e Bosnia toccando con mano gli effetti reali della geopolitica. In
lontananza avverti già la presenza di Dubrovnik; l’antica repubblica di
Ragusa che seppe resistere per due secoli (dal XVI al XVIII. n.d.a) alle
pressioni ottomane e veneziane. La Placa, ampia e lunga strada in pavée
circondata da palazzi rinascimentali, chiese e conventi barocchi, è il cuore
pulsante della città. Il sole ormai al tramonto colora di rosa i marmi del
palazzo dei Rettori, bello quanto quello dei Dogi a Venezia. “Pasport molim”,
“passaporto prego”. Il poliziotto controlla i documenti, posa lo sguardo
sulla vespa, sorride sardonico sotto il berretto verde oliva.
Sulle
pagine del mio passaporto spicca, fiammante, il timbro montenegrino. Innesto la
quarta ed apro il gas, cani randagi abbaiano inseguendomi minacciosi. Luce
morbida, montagne impervie che chiudono uno stretto e sinuoso tratto di mare, le
“Bocche di Cattaro” con i gabbiani e qualche nuvoletta, sono meglio di una
cartolina. Più avanti le cupole a cipolla delle cattedrali ortodosse di Kotor (Cattaro
n.d.a.) fanno da cartello per un altro confine, quello tra cattolicesimo ed
ortodossia. Budva, Sveti Stefan, Petrovac mi vengono incontro con i loro
monasteri. A Petrovac svolto a sinistra.
Caldo
asfissiante, tornanti, camion e gas di scarico, arranco verso Podgorica. Una
roulotte fa da chiosco e promette riposo e birra fresca. Sorpasso rapidamente le
rovine industriali della periferia di Podorica (Titograd n.d.a) inoltrandomi nel
cuore del Montenegro. Falchi, corvi, larici e pini, il Platije Kanjon intarsiato
tra i monti dal fiume Morača scorre sulla destra. Quarta, andatura
costante, mi godo il panorama ripassando, di tanto in tanto, l’alfabeto
cirillico con la segnaletica stradale. Sole alto e caldo, strani gorgoglii allo
stomaco mi avvertono che è ora di pranzo. Avvisto una Gostionica (Hostaria
n.d.a.), freccia e sono a tavola. Ordino una
doppia porzione di saporiti Čevapćić, salsiccette di manzo
speziate arrosto, servite con cipolla fresca e accompagnate da birra ghiacciata,
sollievo infinito per la mia gola. Consumato il lauto pasto mi fumo una
sigaretta godendomi il fresco della veranda e sorseggiando un caffè turco. Kolašin,
Mojkovac, al bivio per Bijelo Polje consulto la cartina e tiro dritto per Berane.
Sete, sole e sudore, bevo come un cammello finendo presto le mie scorte
d’acqua. Una fonte di montagna mi viene incontro provvidenziale e fresca.
Mercedes dalle targhe tedesche e dai colori improbabili riportano a casa
chiassose famiglie rom, BMW scintillanti e metallizzate, compunti Gästarbeiter
made in Germany. Da queste parti fortuna è sinonimo di Germania.
Campi
coltivati, grano, pascoli e qualche piccolo vigneto la vespa scivola maneggevole
in questa geografia agricola; nell’aria odore di fatica, sudore e sacrifici.
La spia della benzina lampeggia, arancione, sul cruscotto; Berane e la stazione
di servizio sono a pochi km. Faccio il pieno con 3 euro e 50, saluto il
benzinaio che mi guarda come fossi Marco Polo e mi dirigo verso il confine con
la Serbia. Da qui a la frontiera sarà un susseguirsi ininterrotto di gallerie
male illuminate, paura e improvvisi cambi di luce. Nuovo timbro e nuovo confine
a Špiljani. Bocca arida e strada deserta, alti nel cielo limpido i falchi
volteggiano ingaggiando la rituale e quotidiana battaglia per la sopravvivenza
con i piccoli mammiferi di terra. L’acqua si esaurisce rapidamente sotto il
sole caldo del mezzo pomeriggio; due contadini fermi vicino al loro carro mi
offrono la possibilità di irrigare la savana che ho in bocca. In lontananza
sembra di udire la voce del Muezzin che scalda il cuore della Serbia mussulmana;
il Sangiaccato e il suo capoluogo, Novi Pazar, mi attendono dietro le valli e le
montagne dove i minareti segnano il confine tra Islam e “Cristhianitas”.
Traffico,
semafori e continui cambi di marcia, pericolanti slalom tra le macchine, Novi
Pazar mi accoglie con il suo caos cittadino dopo km di statale in semi
solitudine. Musiche balcaniche, odore di cipolla e di carne arrosto, spezie,
incensi, mucchi di legna da ardere accatastati sui marciapiedi. La voce della
città mi parla di Oriente, di una storia antica, fatta di invasioni e commerci,
di prosperità e miseria, di odio e tolleranza. Il cambiavalute offre un euro
per 65 dinari, al mercato nero il cambio e di 1€ per 80 dinari. Opto per il
cambio più vantaggioso. Case basse, mattoni rossi, tetti alpini, comignoli e
parabole, di edilizia popolare socialista non se ne vede molta ad eccezione di
due alberghi nel centro cittadino. In una via laterale alcuni ragazzi giocano a
pallavolo alzando una rete in strada. Un chiassoso e variopinto corteo di
automobili mi taglia la strada strombazzando felicemente prima del rito della
circoncisione. Schivo uno dei tanti tombini che spuntano minacciosi
dall’asfalto e mi fermo in un chiosco per uno spuntino. Pasta sfoglia che si
scioglie in bocca ripiena di carne tritata e speziata, il burek sa mesom va
gustato lento intervallandolo con
sorsi di yogurt magro e un po’ d’acqua. Accanto a me si siede una famiglia
mussulmana, la moglie indossa il burqa, l’uomo una lunga barba. Revaival
fondamentalista dopo gli anni laici del socialismo e gli orrori dell’ultima
guerra balcanica.
Cala
la sera sui minareti, sui burqa, sui mucchi di legna pronti per essere arsi, sui
giovani circoncisi e sulle reti di pallavolo tese in strada, cala la sera anche
in casa di Samir, scultore trentenne conosciuto anni prima a Sarajevo. Scarpe
allineate fuori dalla porta, calore domestico, odore di peperoni e zucchine
ripiene, brodo, legna bruciata e tabacco, l’ospitalità da queste parti ha un
sapore antico, orientale. Accanto alla stufa il nonno di Samir sorride benevolo
mentre il nipote mi rifila una sana batosta a scacchi. L’aria è fresca e
tranquilla, in alto le stelle ammiccano conciliando il sonno, saluto e vado a
dormire. Il sole è già caldo quando al mattino scendo dai Mokra Gora
percorrendo la Magistralni put Novi Pazar-Raška in direzione Kraljevo. Querce e
larici lasciano presto il passo a pioppi e platani che ornano le rive del fiume
Ibar. Le cipolle delle chiese ortodosse nei monasteri sui monti si sostituiscono
ai minareti, la Serbia cristiana fa capolino dietro la valle. Più avanti la
statua enorme di un partigiano si erge solenne e maestosa da uno spuntone di
roccia a picco sul fiume, testimone di un’epopea che oggi molti, in Serbia
come in Croazia e in Italia, vorrebbero dimenticare.
Brvenik, Bare, Ušče, qui la toponomastica ha nomi
stretti e scivolosi dettati dall’orografia della valle. In alto sulla sinistra
il monastero di Studenica, il più antico del paese, invita al riposo. Vasi di
marmellata e miele fanno bella mostra di se sui banchetti ai bordi della strada,
nell’aria profumo di fiori di campo e more. Le auto che incrocio ammiccano
complici, lampeggiando per segnalarmi la presenza di un posto di blocco. La
velocità non è eccessiva ma rallento ugualmente, per evitare scocciature.
Alberi di prugne, mele e pere, alveari e cocomeri, i lampeggianti blu scompaiono
veloci alle mie spalle. Più avanti le dolci colline della Šumadija
incorniciano morbidamente la valle della Morava con i sui vigneti e i suoi
allevamenti di maiali. All’improvviso, come in un film di Kosturica, mi
ritrovo in un campo di mais intasato come piazza Sempione in un giorno di
pioggia.
Prima,
seconda, prima, seconda, zigzago impacciato tra vecchie Zastava,
moderne Sköda e puzzolenti trattori
paleosocialisti cercando di non finire nei campi. Kraljevo, la città dei re, fa
capolino dietro una pannocchia. Finita l’allucinazione filmica sosto nel
monastero cittadino dove in passato furono incoronati diversi re serbi. Sulla
facciata della chiesa pende la bandiera nazionale fregiata delle quattro s
cirilliche del motto: “solo la solidarietà salva la Serbia”. Religione e
nazionalismo colmano, anche qui, il vuoto ideologico ed identitario che ha
fagocitato la Jugoslavia dopo la caduta del Muro. All’ingresso della città
il primo carroarmato ad entrare nella Kraljevo liberata dai nazisti
arrugginisce nel ricordo di quell’evento. Pieno di benzina e di cibo per il
viaggio, controllo le gomme e parto per Belgrado via Kragujevac. Pannocchie,
zucche, cocomeri, traffico scorrevole; alcuni insettoni locali giocano ai
Kamikaze con me; qualcuno si immola, rumoroso e doloroso, sul casco e sul viso.
Topola, Belosavci, Mladenovac, Ralja i paesi qui hanno nomi lunghi e piatti come
il panorama. La fertile Pannonia si annuncia dietro Belgrado. Sulla destra,
oltre le colline, avverti, forte,
il pulsare del Danubio.
Tir
mefitici, fumo nero, polvere e odore di nafta, il traffico si fa via via più
denso man mano che mi avvicino alla capitale. La statale entra direttamente in
città, lontano si intuisce l’occhieggiare rigoroso di un semaforo.
Particolari, i semafori, in tutta la ex Jugoslavia. Il giallo scatta anche prima
del verde. L’edilizia belgradese non eccede nel sovietico, anche se non manca
la predilezione per i boulevards, tipica dei regimi autoritari. Traffico
cittadino abbastanza agevole, la Stari Grad, la città vecchia, si mostra
mittleuropea nell’architettura e mediterranea nella socialità. La fortezza del Kalemegdan benedice, imponente, il matrimonio
d’acque della Sava e del Danubio. Dopo il ponte di ferro sulla Sava, Novi
Beograd, quartiere della media nomenklatura socialista, mi accoglie con i viali
alberati e i barconi all’ancora nelle quiete acque del fiume. Più in là i
segni dei bombardamenti Nato e il sobborgo mafioso di Zemun. Torno indietro
verso Trg Republik, Piazza della Repubblica e lo struscio della centralissima e
pedonale via Kneza Mihailova. Levo tenda e bagagli dai portapacchi e cammino, un
po’ profugo un po’ turista, tra i belgradesi in struscio.
Casa
di Furio, collega universitario in trasferta a Belgrado, è poco distante
dall’edificio barocco che ospita l’Accademia delle Arti e delle Scienze,
culla del revanchismo serbo. Doccia, spaghetti, odore di sugo, accenti
meridionali e romani, chianti; c’è una piccola Italia in festa in una casa al
centro di Belgrado. Borbottio lontano e tenue, aroma di caffè nell’aria,
Furio mi chiama dalla cucina, fuori il sole è quello tiepido del mattino; lo
accompagno a lavoro all’istituto culturale italiano e parto verso Novi Sad.
Buche, camion, granoturco, cicogne, odore di concime e terra annaffiata la
Vojvodina (regione della Serbia. N.d.a.) mi accoglie sotto un cielo basso e
azzurro. Novi Pazova, Stari pazova, Indija, Beška, i nomi dei paesi sono fluidi
come il Danubio. Poco prima di Novi Sad, sulla sinistra i monti del parco
nazionale dei Fruška Gora brillano verdi sotto il sole tiepido mentre poco più
avanti, imponente si erge la fortezza di Petrovarardin. Sul fiume alcune chiatte
sonnecchiano sornione presso i resti di un ponte, testimoni
dell’”intelligenza” delle bombe Nato. Sono appena le 9 del mattino quando
lascio alle spalle la polverosa periferia di Novi Sad puntando veloce verso Bačka
Palanca ed il confine croato. Corvi, mais, aironi, cicogne, odore di luppolo,
campi di girasole, poi, lunghissimo, il ponte sul Danubio e, dall’altra parte,
Ilok e la Croazia.
Altro confine e altro timbro. Croci bianche nei campi,
sull’asfalto e sulle case i segni delle cannonate serbe, bandiere croate al
vento. La guerra qui è fresca come l’ombra dei tigli. Vukovar, la Stalingrado
dei balcani appare all’orizzonte con le sue rovine. Scatto un paio di foto e
controllo la cartina; se voglio arrivare a Sarajevo e vedere anche il ponte del
romanzo di Andrić a Višegrad devo allungare tornando indietro a Novi sad,
proseguire a destra per Ruma, Šabak, Valjevo e a Požega svoltare a sinistra
per Užice e dopo circa 80 km la valle della Drina e Višegrad poi altri 140 km
fino a Sarajevo capitale della Bosnia. Torno velocemente verso Novi Sad,
superando gli esterrefatti partecipanti di
un moto raduno locale e svolto per Ruma. Cielo basso e terreno di pianura, odore
di concime, la vespa fila che è una bellezza in mezzo ai campi di luppolo e di
girasole. A Šabak passo la Sava, azzurra e calma, in lontananza i primi monti
che preannunciano quelli aspri ed impervi della Bosnia; sole alto e caldo,
terza, quarta, salgo verso Valjevo e tiro dritto per Požega. Pini, abeti,
larici e qualche galleria, corta, per fortuna. Crampi allo stomaco e luce
arancione lampeggiante sul cruscotto, è ora di rifornimento per me e per la
vespa. Benzina e olio per lei, burek sa sirom, pljeskavica (burek al formaggio e
“hamburger”. N.d.a) e birra fredda per me, vero sollievo per la mia fame
lupina. In lontananza il suono sordo e minaccioso di un tuono preannuncia un
temporale. Giacca cerata, bandana rossa a coprire il volto, fruscianti buste di
plastica nere a coprire i bagagli ed il viaggio può continuare in barba a Giove
pluvio.
Le
gocce pungono come spilli malgrado la bandana, fermarsi a Višegrad con questo
tempo è una follia, decido quindi di tirare dritto fino a Sarajevo.
Pioggia, buche e asfalto viscido rendono il viaggio sempre più
difficile, cerco invano un posto dove bere qualcosa di caldo mentre, minacciose
e immense, si avvicinano le montagne che circondano la capitale bosniaca. Le
gambe tremano sulla pedalina della vespa, la strada si inerpica verso il monte
che domina Sarajevo. Quarta, terza, seconda, la salita si fa sempre più ripida
e il freddo più intenso. Sulla sinistra sfila il cartello che indica Pale,
capitale, durante il conflitto, dell’autoproclamata Republika Srpska e covo
del criminale di guerra Mladić. Poco più avanti un avamposto militare
ricorda ad alcuni che la guerra, forse, non è ancora finita del tutto. Pini,
abeti, odore di muschio e di terra bagnata, il paesaggio assume toni alpini.
Nebbia fitta e freddo intenso, tremante e bagnato mi inerpico sul monte, in
lontananza una luce indica un rifugio di montagna. Caffè bollente, grappa di
prugne, odore di legna bagnata, nel caminetto scoppiettano allegri alcuni ceppi
di legno mentre una coppia di anziani signori si sfida a scacchi sorseggiando
brandy.
Altro
giro di grappa e caffè, pago il conto e riprendo il cammino per Sarajevo. Curve
e asfalto scivoloso, la discesa verso la Capitale non è agevole, dopo
un’ennesima curva scorgo i primi tetti della città vecchia. Minareti, guglie
e cupole Sarajevo si annuncia con il suo coacervo di popoli e religioni, esempio
di convivenza che la guerra non è riuscita a piegare. Incomincia a fare buio
quando entro in casa di Tarik, tecnico audio della tv bosniaca. Tappeti e calore
domestico, odore di verdure e brodo, disfatto crollo sul letto che il mio amico
mi ha preparato. Le strade e i palazzi di Sarajevo portano ancora i segni delle
cannonate. I ruderi della biblioteca che conservava rari testi della diaspora
sefardita si affacciano sulla Miliačka, il fiume della città. Poco lontano
le facoltà dell’Univeristà pullulano di studenti e professori. Passeggio per
la città vecchia. Odore di cipolle, Čevapćić, legna arsa e caffè,
il canto del muezzin fa da controaltare alle campane delle chiese. Oriente e
Occidente, Cristianesimo, Ebraismo e Islam si incontrano a Sarajevo, perno
centrale per gli scambi culturali, religiosi e commerciali di tutti i Balcani.
E’ proprio per il suo carattere cosmopolita che la città è stata vittima
dell’assedio più lungo dalla seconda Guerra Mondiale. In quell’evento si è
sublimata l’eterna lotta tra città e campagna. Carico i pacchi sulla vespa e
mi avvio verso Mostar. Gallerie e buche, odore di pesce e more, piccole stazioni
balneari fluviali, la valle della Neretva scorre, placida come il suo fiume,
sulla destra.
A Mostar alcuni ragazzi si tuffano nel fiume saltando dal
ponte vecchio, quello che era stato un mirabile esempio dell’ingegneria
ottomana, fu ricostruito dopo che le cannonate croate lo avevano abbattuto. Su
una collina alle spalle del ponte, immensa e solitaria, una croce segna il
confine tra Islam bosniaco e cattolicità croata. Riprendo il cammino verso
Spalato. Il sole al tramonto arrossa i tetti della città dalmatina quando
giungo al porto. La nave sta già imbarcando gli ultimi turisti. Le luci della
costa lentamente si allontanano e un senso di nostalgia mi pervade, il viaggio
è concluso Ancona e Roma mi aspettano al di là dell’orrizzonte.
Matteo Imperiali