Ecuador
IL DOLCE E L’AMARO DI UN VIAGGIO IN
ECUADOR E GALÁPAGOS
Diario di viaggio 2009
“Non
è la più forte delle specie che sopravvive,
né la più intelligente,
ma quella più reattiva ai cambiamenti”
(Charles Dawin)
L’Ecuador è
una scelta obbligata per chi, come noi, desidera visitare le isole Galàpagos,
ci troviamo così a progettare un viaggio in un Paese che non occupa, nella
lista dei nostri desideri, una delle primissime posizioni.
Attratti più
dall’Amazzonia e dal caldo che dalle Ande, costruiamo il viaggio sulla base di
due elementi certi: la crociera di una settimana alle Galàpagos ed alcuni
giorni di full immersion nella foresta amazzonica optando, in alternativa ad un
soggiorno in lodge, per la navigazione a bordo di un battello fluviale.
Quel che resta
delle nostre tre settimane di vacanza è presto colmato dai lunghissimi voli di
andata e ritorno, dalla visita di alcune località andine del nord del Paese e
dal trasferimento dalla capitale a Guayaquil, tragitto che ci consentirà di
percorrere la via dei vulcani.
Affidiamo
l’incarico di prenotare i vari servizi ad una agenzia locale
già utilizzata da altri viaggiatori non senza aver prima interpellato
un’altra agenzia e Fabio Tonelli, spesso menzionato in vari siti di viaggi,
con il quale però non si riesce a raggiungere un accordo.
Per il volo
intercontinentale, KLM è la compagnia aerea che risponde meglio alle nostre
date e che, inoltre, offre – rispetto alle altre – la tariffa migliore,
anche se va detto che – con destinazione Ecuador – non si trovano voli
particolarmente economici.
Diario di
viaggio:
11
gennaio 09 – domenica
Nei giorni
passati sono caduti 30 e più centimetri di neve, ma il timore di imbatterci
nella chiusura degli aeroporti è ormai scongiurato, le strade sono state pulite
dai mezzi spazzaneve e dalla pioggia.
Oggi c’è il
sole, il cielo è incredibilmente azzurro, i campi sono ancora imbiancati, la
luce ed il paesaggio così innevato invitano all’ottimismo e al buonumore, è
esattamente in questo stato d’animo che, caricati i bagagli in auto, ci
avviamo verso l’aeroporto di Malpensa.
Con un primo volo
della durata d’un paio d’ore raggiungiamo l’aeroporto di Amsterdam per noi
ormai famigliare, siamo transitati qui diverse volte, l’ultima non più di 4
mesi fa.
Inganniamo
l’attesa della partenza per Quito curiosando nei tanti shop e duty free, segue
l’imbarco e finalmente alle 23,30 si decolla, ci aspettano molte ore di volo e
due scali (Bonarie e Guayaquil) ma riusciamo a dormire per buona parte della
notte.
12
gennaio 09 – lunedì
Siamo bloccati
nella sala d’aspetto dell’aeroporto di Bonarie (Antille olandesi), gli
annunci non dicono altro che di pazientare fino alla risoluzione di un problema
tecnico.
La sosta a terra
si protrae per un ora e mezza oltre il previsto, anche una volta risaliti a
bordo dell’aereo dobbiamo attendere altro tempo senza capire cosa accade.
Non siamo
particolarmente preoccupati, ma siamo stanchi, indossiamo abiti invernali e
siamo infastiditi dal caldo, insomma non vediamo l’ora di arrivare a
destinazione, ci auguriamo, pertanto, di poter ripartire quanto prima.
L’aereo atterra
a Quito con due ore abbondanti di ritardo quasi sfiorando con le ali le case ed
i palazzi costruiti a ridosso della pista.
L’addetto
dell’agenzia che ci attende all’uscita ci rincuora informandoci che a
Bonarie succede molto spesso di restare bloccati e che giusto ieri i passeggeri
di un altro volo hanno atteso 7 ore prima di poter ripartire.
OK, ci
consideriamo fortunati!
Attraversando la
città caotica e trafficata, che si sviluppa in lunghezza per circa 45 km sul
fondo di una valle incassata tra due catene montuose che corrono parallele,
raggiungiamo il centro coloniale con le sue impressionanti strette strade, ora
in ripida salita, ora in vertiginosa discesa, fiancheggiate da bassi edifici dai
colori pastello.
La prima
impressione è gradevole, viene subito voglia di perdersi tra le sue viuzze, ma
giunti all’hotel Patio Andaluz ci concediamo una pausa: sono assolutamente
necessari una doccia, un cambio d’abiti ed una stiracchiata senza però cedere
al sonno al fine di metterci in pari con il nuovo fuso orario (- 6 ore).
L’hotel, molto
elegante, è il risultato di una accurata ristrutturazione ed è composto da due
patii racchiusi da edifici a due piani con belle balconate, loggiati, ringhiere,
balaustre. Gli ambienti sono impreziositi da pregiato parquet, piante, fiori e
begli arredi.
Dopo un paio
d’ore, non esattamente in forma, ma sicuramente un po’ meno devastati,
grazie anche alla posizione centralissima dell’hotel, possiamo fare una prima
passeggiata alla scoperta del Centro Històrico.
Orientarsi nella
sua “scacchiera” costituita da quadras è abbastanza semplice, una cartina
però aiuta ad individuare con maggior facilità le principali piazze ed
attrazioni.
Tralasciando la
visita di chiese e monumenti, diamo la precedenza alla ricerca di una banca per
convertire qualche Euro nella moneta locale (dollaro USA).
Quella che doveva
essere un’operazione facile e veloce si trasforma nella estenuante ricerca di
una banca che fornisca questo tipo di servizio.
Scopriamo che
nessun istituto di credito effettua il cambio di valuta e che l’unico che
offre l’opportunità di farlo applica un cambio da strozzini, cioè 1 dollaro
USA per ogni Euro.
Spiazzati da tale
scoperta ripieghiamo sull’unica alternativa: la casa di cambio che, rispetto a
quella ufficiale, pratica una conversione inferiore di circa 10 centesimi di USD
per ogni Euro.
Possedendo ancora
qualche bigliettone verde avanzato dal precedente viaggio ci limitiamo a
cambiare solo un centinaio di Euro prefissandoci, ove possibile, di effettuare i
pagamenti con la carta di credito.
Terminato il
“tour” delle banche ci possiamo finalmente concentrare sulla città
ammirando Plaza S. Francisco e Plaza Grande entrambe circondate da chiese e
palazzi dalle eleganti facciate.
Quest’ultima
– tra gli altri – ospita il palazzo presidenziale, ci spieghiamo così la
presenza di diversi gruppi di persone che, con cartelli e striscioni,
protestano. Lo stesso vale per la donna con un megafono che, spostandosi da una
parte all’altra del giardino che sta al centro della piazza, tiene comizio a
tutti e a nessuno.
Ci soffermiamo ad
osservare i singoli gruppi di manifestanti ed a leggere i cartelli che ciascuno
ha elaborato, sorridendo nel vedere le figure di politici cui è stato
sostituito il volto con il muso di un animale (topo, maiale, serpente, etc.) e
tornando seri nel leggere alcune massime di Simon Bolivar e di Gandhi.
Ognuno protesta
per cose differenti senza badare al proprio vicino, pensiamo che se ci
mettessimo anche noi a declamare a gran voce slogan contro i nostri politici o
contro qualsiasi altra istituzione saremmo perfettamente integrati con il clima
di questa piazza e nessuno si sognerebbe di scacciarci dandoci dei provocatori o
dei pazzi.
Tutte le proteste
si svolgono pacificamente, si ha l’impressione di assistere a tanti siparietti
più che a manifestazioni di dissenso.
Attorno alla
piazza, sotto i portici, venditori ambulanti, venditori d’acqua e lustrascarpe
propongono merci e servigi per pochi centavos.
Osserviamo
ammirati la maestria di un giovane lustrascarpe che, a colpi di spazzola dati
con una grazia tale da sembrare una danza, tira a lustro il paio di scarpe
vecchie e consunte di un cliente
orgogliosamente accomodato su un trespolo che pare un trono.
Le vetrine dei
negozi espongono le più svariate mercanzie: dagli addobbi per dolci nuziali e
per qualsiasi altra ricorrenza alle figure di carta crespa e colorata da
incendiare durante il carnevale, dai manufatti in pelle ai souvenir che non
vorresti mai ricevere in regalo, dalle torte dall’aspetto stucchevole alte 15
cm alle imbottiture per aumentare il volume di seni e posteriori e tanti altri
oggetti curiosi mai visti prima oppure da noi già passati di moda da decenni.
Di sicuro nelle
vetrine della città coloniale non trovano posto le grandi firme, i manichini
hanno pettinature retrò, sbeccature o parti del corpo e del viso mancanti e ci
portano indietro nel tempo.
Non vediamo nulla
che inviti allo shopping, ma apprezziamo l’aspetto un po’ provinciale e
genuino di questa zona della città, diversa da molte altre grandi capitali del
mondo tutte simili nello sfavillio di centri commerciali, boutique, show room.
Abbiamo saltato
il pranzo e, alle 16, è presto per la cena, ma da Tianguez, bel ristorantino
della rete del commercio equo e solidale, ubicato sotto i portici di una chiesa
in Plaza S. Francisco, non c’è orario fisso per consumare un pasto. Ordiniamo
pesce e gamberi ed assaggiamo una deliziosa empanada di farina di mais ripiena
di formaggio a metà tra il dolce ed il salato. Il conto è una piacevole
sorpresa: con circa 10 USD a persona si è mangiato molto e, soprattutto, bene.
La stanchezza si
fa sentire, anche l’altitudine (2.850 m) rende tutto faticoso, decidiamo di
andare a dormire presto, ma prima di ritirarci in hotel entriamo nel negozietto
che sta proprio di fronte alla Hall e che in vetrina espone begli oggetti di
artigianato e manufatti molto graziosi dai prezzi onesti.
Ci limitiamo ad
acquistare l’ultima coppia di statuine di legno raffiguranti un uomo ed una
donna (campesinos) con il tipico copricapo e seduti in posizione raccolta.
Visitiamo anche il negozio gemello, a pochi isolati di distanza, dove troviamo
altri oggetti interessanti, ma rimandiamo gli acquisti promettendo ai cordiali
venditori di tornare a fine viaggio.
Per la seconda
volta tentiamo di rientrare in albergo, ma le lucine che si accendono sulle
montagne che circondano la città catturano la nostra attenzione. Quito (la città
moderna) che durante il giorno appare come un ammasso di case e palazzi, con il
buio acquista un fascino particolare.
Torniamo in Plaza
Grande dove le luci sapientemente posizionate a valorizzare gli edifici
coloniali ci regalano una visione incantevole del centro storico e delle
montagne che lo racchiudono.
Gustando dolci
ciliegie acquistate per 50 centavos da una venditrice ambulante camminiamo
ancora un poco. La folla dirada, i negozi ed i locali chiudono, la città –
nonostante l’illuminazione – si addormenta presto ed a questo punto ci
ritiriamo.
La nostra camera
si affaccia sul cortiletto interno che ospita il ristorante, ci addormentiamo
sulle note della musica andina che un gruppo locale sta suonando per
intrattenere chi sta ancora cenando.
13
gennaio 09 – martedì
Rigenerati da un
discreto numero di ore di sonno, in compagnia di Wilson, uomo di una sessantina
d’anni, dalla pelle scura, dall’incredibile chioma ancora corvina e dal
sorriso cordiale, lasciamo Quito per dirigerci, seguendo la Panamericana, verso
nord.
Con la sola
eccezione di un paio di punti panoramici che permettono di osservare una piccola
laguna, un vulcano con la cima incappucciata dalle nuvole ed una profonda e
verde vallata solcata da un fiume, il paesaggio non regala grandi emozioni.
Giunti ad Otavalo
è d’obbligo una sosta al mercato artigianale che occupa l’intera piazza
principale della cittadina.
Oggi non è
sabato, quindi non possiamo beneficiare del mercato “autentico” ovvero
quello che raduna centinaia di commercianti indigeni che, a detta delle guide,
è famoso in tutto il mondo per la qualità dei prodotti tessili esposti.
Dobbiamo accontentarci del mercato permanente che ormai ha luogo ogni giorno
della settimana e che, da un primo sguardo, sembra offrire articoli più o meno
simili.
La prendiamo
larga iniziando l’ “artigianato tour” dai negozi che circondano la piazza.
Tra presepi,
statuette di legno e altri manufatti tutti uguali, spiccano diversi oggetti
antichi e mentre alcuni – ad un attento esame - si rivelano rifacimenti,
altri, come il crocefisso che pensiamo di acquistare, sono realmente vecchi, ma
ci vengono chieste cifre da capogiro. Non proviamo neppure a contrattare, come
è usanza, sul prezzo, la base di partenza è davvero spropositata.
Lasciate perdere
le antichità rivolgiamo la nostra attenzione alle bancarelle della piazza, ma
non vediamo altro che poco più di una decina di articoli riproposti su ogni
banco e da ciascun venditore, ci stanchiamo presto dei richiami più o meno
insistenti di ognuno e delle montagne di berretti, guanti, calzettoni, maglioni,
poncho, amache, statuine, presepi, camicette ricamate, borracce ricavate da
zucche e quant’altro, tutti identici.
Il nostro giro di
shopping si conclude solo con l’acquisto di calzettoni e guanti colorati in
lana d’alpaca… o forse in filato sintetico… mah!?
Senza nulla
togliere al mercato, probabilmente non l’abbiamo apprezzato perché non siamo
molto interessati all’artigianato, in particolare a quello prodotto in serie
per i turisti.
Lasciata Otavalo,
il programma odierno prevede un’altra sosta che non ci fa esultare, è la
volta dei manufatti in cuoio esposti nelle decine di negozi di Cotacachi.
Fatto il giro di
rito tra capi d’abbigliamento in pelle, borse, cinture, portafogli e scarpe,
ci siamo guadagnati il pranzo presso il ristorante El Leñador.
Il locale non ci
conquista, evidentemente è uno degli elementi, insieme ai mercati e alle
botteghe artigianali, inseriti in un circuito turistico che Wilson ripete
ciclicamente.
In un primo
momento siamo negativamente impressionati dalla vastità della sala da pranzo,
dal numero di coperti, dalle 2 tavolate di turisti e dalle guide e autisti
radunati in disparte, ma dopo aver gustato un pasto più che dignitoso il nostro
giudizio si ammorbidisce e siamo indulgenti anche sulla voliera che, eretta nel
piccolo giardino, costringe alla cattività decine di graziosissimi pappagallini
colorati.
La tappa seguente
ci porta alla Laguna di Cuicocha che la guida Polaris descrive come segue:
“Quando è soleggiato il posto è assolutamente meraviglioso, col nuvolo
invece la sua bellezza assume un fascino sinistro”.
Ebbene, è
esattamente così – con le nuvole basse e sinistro – che ci appare il
cratere vulcanico collassato a seguito di un’eruzione sul cui fondo c’è un
lago con al centro due isole originate dall’accumulo di lava eruttata.
Considerato il
clima, siamo indecisi sul da farsi, ci sembra tuttavia di non onorare il luogo
senza fare un giro in barca sul lago, ma, mentre ci allontaniamo dal molo,
diretti verso le isole, cala un nebbione che nasconde qualsiasi punto di
riferimento e fintanto che siamo in mezzo al lago, lontani dalla terra, abbiamo
l’impressione di avanzare sospesi nel vuoto e tra il nulla.
Il barcaiolo però
sa il fatto suo, punta deciso la prua verso i canneti che delimitano lo stretto
passaggio che si insinua tra i due isolotti di lava, si ferma poi in prossimità
di una piccola baia dove, nell’acqua trasparentissima, salgono bolle di gas.
Ci troviamo ad
oltre 3000 m di altitudine e viene spontaneo pensare che l’acqua della laguna
sia gelida, ma, grazie ai numerosi fenomeni legati all’attività vulcanica di
questa zona, la sua temperatura non scende mai al di sotto dei 16°C. Quasi roba
da tuffarsi visto che invece in superficie noi stiamo rabbrividendo.
La visibilità è
sempre più ridotta, il nostro “Caronte” ci mostra il punto in cui siamo
evidenziandolo su una cartina, ci fa inoltre vedere alcune cartoline che
raffigurano la laguna e le isole. Sorridiamo al pensiero di trovarci in un luogo
molto bello, ma di poterlo ammirare paradossalmente solo in fotografia.
Proseguiamo la
navigazione osservando le diverse specie di uccelli che popolano le sponde del
lago e che, spesso, al nostro passaggio, si alzano in volo.
In una situazione
così spettrale, con la nebbia sempre più fitta, non poteva mancare anche
l’arrivo della pioggia battente e, sebbene la barca abbia un tendalino, ci
inzuppiamo come pulcini.
Ci diciamo,
nonostante il clima avverso, di aver apprezzato l’escursione, ma proviamo
sollievo quando, dopo lo sbarco, risaliamo velocemente in auto e ripartiamo con
il riscaldamento acceso.
Prima di
raggiungere Ibarra, dove è previsto il pernottamento, c’è il tempo per una
sosta a San Antonio de Ibarra, villaggio conosciuto per gli artigiani che
scolpiscono il legno.
Non siamo
particolarmente entusiasti di questo nuovo tassello dell’ “artigianato
tour” che ci vede indifferenti davanti alle vetrine che espongono statuette ed
oggetti dozzinali simili tra loro tanto da sembrare fatti in serie.
Ci prendiamo
anche una sequenza di gestacci quando inconsapevoli non accontentiamo una
donnina a seguirla nel proprio negozio perché, pensando che fosse sordomuta (e
anche un po’ svitata!), ai suoi strani gesti abbiamo risposto solo con sorrisi
incerti.
All’interno
della Galeria Luis Potosì troviamo invece sculture bellissime, ne scegliamo
diverse ben disposti ad acquistarle grazie anche ai prezzi più che onesti, ma,
ahimé, non accettano pagamenti con carta di credito e non abbiamo sufficiente
contante.
Ci proponiamo di
tornare tra due giorni, quando, prima di rientrare a Quito, lasceremo Ibarra e
sempre ammesso che si trovi il modo di cambiare altri soldi.
Nel tardo
pomeriggio raggiungiamo l’Hosteria Chorlavi, bella struttura coloniale che in
passato ha subito diverse trasformazioni passando da abitazione privata a
monastero e da hacienda ad albergo.
Il complesso di
edifici comprende diversi patii, fontane, giardini rigogliosi, uno stagno e
perfino un ponticello sospeso che attraversa uno stretto rio dall’acqua
tumultuosa. Ovunque sono disposti oggetti e arredi appartenuti al passato. Le
camere hanno camini, pavimenti in cotto e laddove l’antica pavimentazione è
mancante è stata sostituita da inserti di pregiato parquet di 2 legni dai
colori differenti.
Nel contesto c’è
una piccola cappella ed anche un anfiteatro coperto che immaginiamo venisse
utilizzato per assistere alle sanguinose lotte tra galli da combattimento.
Attraversando
patii e loggiati viene spontaneo pensare a Zorro: tra queste architetture
spagnoleggianti manca solo lui!
Il ristorante
dell’Hacienda per soli 10 USD serve un’ottima cena e in questa felice oasi,
davanti al tepore del camino accesso, ci togliamo di dosso l’umidità e si
conclude una lunga giornata.
14
gennaio 09 – mercoledì
Il nuovo giorno
ci vede attivi abbastanza presto e, dopo un’abbondante colazione, prima di
orientarci verso la destinazione programmata, raggiungiamo il centro di Ibarra,
più precisamente la vecchia stazione ferroviaria che, sotto la pensilina che la
circonda, ospita un colorato mercato ortofrutticolo.
Dopo aver letto
su diverse guide della possibilità di percorrere parte dell’itinerario (circa
¼) della vecchia linea ferroviaria che univa Ibarra a San Lorenzo a bordo
dell’Autoferro (bus montato su rotaie) siamo giunti sin qui senza alcuna
certezza, anzi, a seguito della risposta negativa dell’operatore locale cui ci
siamo rivolti per l’organizzazione dell’intero viaggio, siamo quasi
rassegnati e convinti di dover rinunciare a questa esperienza.
Le nostre
pessimistiche aspettative invece vengono rovesciate da una piacevole notizia:
l’Autoferro parte solo con un minimo di 16 passeggeri, è inutile sperare –
in questo periodo di bassa affluenza turistica – che si possa raggiungere tale
numero di adesioni, ma per piccoli gruppi (max 8 persone) c’è la possibilità
di percorrere lo stesso tragitto a bordo di un vagoncino più piccolo, idem, in
mancanza del gruppo, accollandosi la spesa totale corrispondente al costo di 8
biglietti.
Considerato che
la cifra non sarebbe comunque eccessiva e che, per la corsa di domani, pare ci
siano già in lista altri due turisti, accettiamo la proposta lasciando i nostri
nominativi all’addetto alle prenotazioni anche se, a differenza dell’Autoferro,
non ci si può accomodare sul tetto del “trenino”.
Soddisfatti ci
allontaniamo dalla cittadina seguendo una strada che attraversa campi coltivati
(canna da zucchero, mais, patate, etc.) dalla geometria squadrata che, nel loro
insieme, compongono un immenso patchwork dalle tante sfumature di verde.
Il nastro
d’asfalto corre in salita, spesso viaggiamo più in alto dello strato nuvoloso
con il risultato che vediamo profonde vallate ricolme di soffici nubi bianche.
Abbandonata la
strada principale deviamo, seguendo le indicazioni per la Riserva Ecologia El
Angel, sulla vecchia e dissestata caretera che, passando da Tulcan, veniva - in
passato - utilizzata per attraversare il confine ed entrare in Colombia.
Il paesaggio ci
regala pascoli e campi coltivati che si alternano e che, con incredibili
pendenze, ricoprono le pendici delle montagne.
Dopo 45 minuti di
scossoni e qualche difficoltà nel superare alcuni mezzi che bloccano il
passaggio, prima ancora di raggiungere l’ingresso ufficiale della Riserva, i
campi coltivati cedono il posto a distese ricoperte di frailejones (Espeletia)
bellissima pianta simbolo del pàramo (*) con un tronco legnoso alto fino a 2
metri sulla cui sommità si aprono a corolla grandi foglie vellutate dal colore
verde tenue impreziosite da fiori gialli.
(*) Pàramo: regione
botanica d’alta quota, compresa tra i 2800 e i 4000 m, caratterizzata da
praterie montane e distese d’arbusti dove le temperature sono basse, il vento
costante e le piogge frequenti anche se per lo più in forma leggera.
E’
meraviglioso, ovunque si guardi non c’è altro tipo di vegetazione oltre a
questi splendidi “margheritoni”.
Parcheggiata
l’auto presso la biglietteria della Riserva ci incamminiamo lungo un sentiero,
percorso obbligato che permette di raggiungere vari punti panoramici che si
affacciano su una spettacolare laguna.
Il terreno tutto
intorno è punteggiato da piccoli bacini d’acqua che, visti dall’alto,
sembrano tanti cocci di specchio.
Senza mai
abbandonare il sentiero, tra migliaia e migliaia di frailejones, soprannome in
lingua locale che si traduce in “frati grigi”, scendiamo fino alla riva del
lago e siamo fortunati, perché pur in assenza del sole, la visibilità è
ottima e finalmente ammiriamo un paesaggio per cui – ci diciamo – valga la
pena di venire in Ecuador.
Seguendo un
percorso ad anello ora dobbiamo affrontare una ripida salita segnalata da un
cartello che la classifica quale via breve (l’alternativa per tornare al punto
di partenza è ripercorrere lo stesso sentiero a ritroso) con l’avvertenza che
è affrontabile solo da persone con “corazones sanos”.
Molto lentamente,
e dopo ripetute soste, raggiungiamo il punto più alto (3800 m). A premiare il
nostro sforzo fisico il sole fora la cortina di nuvole regalandoci così una
luce perfetta per scattare un’ultima sequenza di fotografie.
Finalmente in
discesa termina lo straordinario circuito che ci ha permesso di ammirare
l’eccezionale concentrazione di piante che crescono solo in questo luogo,
porzione di pàramo intatto salvato dalla deforestazione e dal pascolo e,
pertanto, molto prezioso.
Sulla via del
ritorno facciamo una sosta per pranzare e per visitare la cittadina di El Angel,
poco più che un villaggio con case e localini affacciati sulla piazza
principale, un monumento, una fontana ed una “galleria” di cipressi, vere
opere d’arte, modellati dalle cesoie di creativi giardinieri che riproducono
forme geometriche, volti, animali, scritte, archi e diverse altre figure più o
meno astratte.
Prendiamo posto
in un modesto ristorante che si trova su un angolo della piazza, è passata da
un pezzo l’ora canonica per il pranzo, senza poter scegliere si mangia quel
che è rimasto, solo riso, patate e pollo arrosto, il conto ci lascia increduli:
poco più di 2 dollari a testa per un pasto più che decoroso!
Ultima sosta
della giornata presso la Heladeria Rosalia Suarez di Ibarra.
All’interno del
locale assistiamo alla lavorazione, rigorosamente manuale, del gelato: si
versano gli ingredienti in un recipiente di metallo che ruotando su uno strato
di ghiaccio tritato li solidifica, si continua a mescolare il tutto fino al
raggiungimento della giusta consistenza, si trasferisce infine il composto nel
banco frigo ed a quel punto può essere già consumato.
Il risultato è
più somigliante ad un semifreddo ai vari sapori di frutta e latte, non possiamo
definirlo una vera e propria leccornia, in Italia si producono gelati di qualità
superiore, siamo imbattibili in questo campo, ma senza dubbio il fascino di
questo locale sta nel fatto che, da oltre un secolo, donna Rosalia e la sua
discendenza hanno cambiato ben poche cose nel loro processo artigianale. E’
quindi una visita imperdibile.
Visitiamo poi il
centro della città con le sue ampie piazze dalla pianta quadrata che ospitano
giardini rigogliosi con un ricco assortimento di piante dove non mancano
svettanti palme e che sono contornate da edifici di epoca coloniale e chiese
traboccanti di oro, statue, altari, sculture, dipinti, dove i fedeli si
prostrano inginocchiandosi a terra pregando con un fervore che non siamo più
abituati a vedere.
Rientriamo, infine, nel “regno di Zorro”,
l’eroe mascherato è solo una presenza immaginaria, ma nel concreto ci
aspettano una buona cena ed un beato sonno.
15
gennaio 09 – giovedì
In perfetto
orario raggiungiamo l’officina del ferrocaril che ospita belle locomotive di
un tempo passato insieme ad un’accozzaglia di rottami arrugginiti, siamo
raggianti nello scoprire che una comitiva di francesi ha allungato la lista dei
passeggeri, viaggeremo, pertanto, a bordo dell’Autoferro, già pronto sui
binari.
La fortuna è
dalla nostra parte, oggi è anche una bella giornata soleggiata, condizione
ideale per compiere il viaggio accomodati sul tetto.
Il nostro
entusiasmo però è presto smorzato e per un’ora e mezza resta in bilico tra
alti e bassi: non c’è verso di far partire questo bizzarro mezzo di
trasporto. Alcuni meccanici armeggiano attorno al motore smontando e rimontando
parti di esso – ad un occhio profano – quasi a casaccio con risultati poco
incoraggianti, il motore che sembra ben avviato si spegne immancabilmente subito
dopo.
Ma chi la dura la
vince e finalmente si parte.
Percorriamo poco
più di un centinaio di metri e siamo di nuovo fermi, ma questa sosta è
d’obbligo per girare il trenino, ci siamo, infatti, mossi in retromarcia.
La manovra è
curiosa perché, grazie ad un particolare binario dalla forma circolare, l’Autoferro
viene spinto a braccia da alcuni volontari fino al compimento di una rotazione
di 180°.
Lasciamo
fischiando lo scalo ferroviario e fintanto che non abbandoniamo il trafficato
centro urbano dobbiamo ripetutamente abbassarci per evitare di essere
“decapitati” dai grovigli di cavi elettrici.
Il locomotore
attraversa poi una zona agricola, costeggia e supera una serie di canyon, ponti
e buie gallerie all’interno delle quali dobbiamo nuovamente appiattirci. Lo
spazio sopra di noi è davvero poco e, mentre
passo indifferente sull’arcata in ferro che attraversa una profonda e
vertiginosa gola, il buio dei tunnel e lo spazio angusto mi procurano un po’
d’ansia, respiro a pieni polmoni e con sollievo ogni volta che riappare la
luce.
Il paesaggio che
vediamo scorrere è costituito da verdi vallate, cascatelle, torrenti, campi
coltivati, pascoli ed da un’incredibile miscellanea di piante montane e
tropicali, vediamo pini, abeti, cipressi, eucalipti, agavi, fichi d’India,
oleandri, palme, ibiscus, acacie ed altri alberi che non conosciamo e che
sfuggono alla nostra “catalogazione”.
Il colore
predominante è il verde che si riproduce in tante sfumature, da quello dei
campi con l’erba alta che ondeggia al nostro passaggio a quello delle molte e
differenti piante.
Il cielo continua
a mantenersi sulle tonalità dell’azzurro, mentre i raggi del sole ci scaldano
ed esaltano i colori.
Dopo un paio
d’ore raggiungiamo Salinas e qui termina la corsa. Il polveroso villaggio con
le casette basse dai colori tenui ha
un aspetto desolato, sembriamo personaggi finiti per sbaglio sul set di un film
western durante l’ora della siesta, quando tutto tace e non si muove una
mosca.
L’autista,
Wilson, ci raggiunge con un po’ di ritardo, ha percorso il tragitto in auto e
lungo la strada si è fermato a soccorrere ll conducente di un autobus in
difficoltà.
Ora, sommando
ritardo a ritardo, dobbiamo correre per rientrare a Quito, sfuma così la
possibilità di ripassare da S. Antonio di Ibarra e di acquistare le sculture in
legno dell’atelier Potosì.
Facciamo una
sosta pranzo in quello che il driver definisce un “ristorante tipico”, nella
realtà si tratta di un enorme fast food con tanto di esposizione di foto e
relativi prezzi a caratteri cubitali di piatti poco invitanti.
Non vedendo nulla
di convincente mi limito a prendere una bottiglia d’acqua, mentre Sandro si
lancia su una “fritada” (piatto a base di pezzi di maiale fritto e mais
bollito), ma – fatto per lui insolito – è costretto a rinunciare a ripulire
il piatto.
L’Ecuador, come
tutti sanno, è attraversato dall’Equatore ed una sosta alla Mitad del Mundo
(a circa una ventina di chilometri da Quito) è d’obbligo.
Dove corra
esattamente questa linea immaginaria non è chiarissimo poiché ci sono vari
simboli posti in luoghi differenti e distanziati tra loro che ne rivendicano
l’esatta posizione. Poco importa, per me è assolutamente affascinante
ritrovare qui lo stesso filo invisibile già “calpestato” in Africa.
Guidati da una
simpatica donna visitiamo l’interessante museo all’aperto Inti-Ňam.
La nostra preparatissima
guida si prodiga in spiegazioni a carattere scientifico, astronomico ed
astrologico, ci coinvolge, inoltre, in esperimenti e dimostrazioni sugli effetti
della forza di gravità, della forza centrifuga ed altri fenomeni possibili solo
a latitudine 0°.
Il percorso
didattico si rivela, oltre che istruttivo, alquanto spassoso perché con facilità
riusciamo a fissare in perfetto equilibrio un uovo su di un chiodo, a sollevare
una persona robusta con due sole dita, a barcollare come ubriachi camminando ad
occhi chiusi e così via in una serie di esperimenti singolari.
L’ultimo
padiglione del museo ospita una ricca collezione di rettili ed insetti, mi
impressiono non poco nel vedere serpenti “sotto spirito” di tutte le taglie
soprattutto perché le probabilità di incontrarli non sono remote considerato
che domani voleremo in Amazzonia.
Al termine della
visita ci spostiamo di qualche centinaio di metri per dare un’occhiata anche
al monumento de la Mitad del Mundo, il simbolo più turistico dell’Ecuador,
una sorta di tozza torre in pietra sormontata da una sfera che rappresenta la
Terra.
A parte ciò che
simboleggia non lo troviamo particolarmente attraente.
A Quito ci
accoglie la pioggia ed un black-out che interessa il 70-80% dell’intero Paese.
La ricerca di un
ristorante aperto si conclude con un insuccesso, tutta la città è immersa nel
buio, negozi e locali hanno già abbassato le serrande.
Ceniamo presso il
ristorante dell’hotel Patio Andaluz dove siamo nuovamente alloggiati e che,
evidentemente, è dotato di un gruppo elettrogeno. Il “ripiego” si traduce
in un’ottima cena accompagnata dalle note suonate da un’orchestrina.
16
gennaio 09 – venerdì
Sveglia
prestissimo, alle 6 siamo già in procinto di lasciare la città che continua ad
essere oscurata dal black-out e bagnata dalla pioggia.
Raggiunto
l’aeroporto e sbrigate le solite formalità ci predisponiamo all’attesa del
volo per Coca, cittadina petrolifera, attraversata da un oleodotto, le guide la
definiscono poco attraente, ma costituisce il punto di partenza obbligato per le
escursioni nella foresta amazzonica.
Siamo silenziosi
e sonnecchianti, un annuncio però ci desta: il volo è attualmente sospeso
causa maltempo nella zona di destinazione.
Ci invitano alla
pazienza e ad attendere nuove comunicazioni.
Pensiamo che la
foresta pluviale amazzonica si rivela già, senza ancora averla raggiunta, un
luogo molto umido e sulla base di questa considerazione non possiamo non
ricordare i 500 mm (mezzo metro!) d’acqua caduti in poche ore durante un
nostro precedente soggiorno nella selva misionera argentina.
Un’attesa è
sempre snervante soprattutto quando non si sa come finirà. Un ritardo è
seccante, ma lascia intendere che prima o poi si arriverà a destinazione, ben
altra cosa è un aereo che non riesce a decollare da Coca per un nubifragio, non
sappiamo quindi se arriverà e se potremo, a nostra volta, ripartire, la qual
cosa procura una preoccupazione maggiore.
Il tempo passa e
la sala d’aspetto si svuota dei passeggeri che man mano si imbarcano sui
rispettivi voli per riempirsi di nuovi viaggiatori mentre noi siamo sempre in
stand-by.
Dopo lunga attesa
viene finalmente dato l’annuncio dell’imbarco, il sollievo cancella ogni
tensione.
Raggiunta con un
volo 30’ la nostra destinazione, all’uscita dall’aeroporto veniamo
investiti da un’ondata di caldo, lo sbalzo tra la piovosa Quito e l’umidità
amazzonica è notevole, ma nonostante le evidenti chiazze di sudore che si
espandono sui nostri indumenti siamo felici di trovare il sole e di essere in
procinto di penetrare nella foresta.
Con un breve
trasferimento a bordo di un bus con le panche allineate e totalmente aperto sui
lati raggiungiamo il luogo dell’imbarco: un terminal con ristorante, bar ed
una sorta di motel con una fila di stanze che si affacciano su un loggiato.
Restiamo
parcheggiati qui per un po’ di tempo osservando alcune piccole scimmie ed
altri animali, diversi dei quali sono rinchiusi in gabbia, che stazionano nel
piccolo giardino del complesso.
Proviamo
compassione per queste povere bestie costrette alla cattività ed oggetto delle
“attenzioni” dei turisti. Riteniamo che ad un animale selvatico dovrebbe
essere concessa la possibilità di vivere libero nel proprio habitat.
Ci imbarchiamo su
una lancia a motore sfrecciando per 2 ore e godendo della piacevole brezza sul
Rio Napo che nasce in Ecuador, scorre attraversando il Perù per confluire,
infine, nel grande Rio delle Amazzoni.
Il fiume è molto
largo, l’acqua ha il caratteristico colore marrone dei grandi fiumi che
tagliano le foreste pluviali. Le rive, nel primo tratto, offrono la sconfortante
visione della predominanza dell’industria petrolifera sulla natura.
Accanto a piccoli
villaggi ardono i fuochi perenni dei pozzi di estrazione, il fiume è solcato da
numerose chiatte che trasbordano autocisterne cariche di greggio, la foresta
reca evidenti tracce di disboscamento.
Dopo aver
percorso un certo numero di chilometri la situazione migliora, piccole piroghe a
remi prendono il posto delle grandi chiatte, spariscono i pozzi di
trivellazione, la vegetazione si infittisce ed è in un contesto più attraente
che raggiungiamo il battello fluviale Manatee: imbarcazione di circa 25 m di
lunghezza, a fondo piatto, con tre ponti ed una dozzina di confortevoli cabine.
Saliti a bordo,
il capitano e lo staff ci danno il benvenuto e ci indirizzano alle cabine
preassegnate.
La nostra, che
porta il nome “mariposa” (farfalla), è collocata sul ponte superiore, la
troviamo di nostro gradimento, ha due letti, una bella finestrona panoramica, un
bagno con ampia doccia.
Anche la voce
“pasti” ci gratifica sin da subito, il pranzo viene servito poco dopo nella
saletta ristorante.
Ospite al nostro
tavolo Ernesto, simpatica e preparata guida, che subito ribattezziamo
“Comandante” in onore al Che (Guevara). La sua risposta orgogliosa ed
inequivocabile, “Affermativo. Hasta Sempre!”, ci fa intendere che ha gradito
il soprannome.
Nel corso del
pomeriggio siamo sottoposti ad un’esercitazione antincendio, alla
distribuzione di stivali di gomma, mantelle antipioggia e giubbotti salvagente
e, per finire, ad un briefing durante il quale ci vengono illustrate le varie
tappe del percorso che seguiremo, le attività che svolgeremo a terra o a bordo
di canoe e altre indicazioni di vario tipo.
Il battello
navigherà in direzione est ininterrottamente salvo nelle ore notturne. Anche
durante le nostre escursioni a terra il Manatee proseguirà la sua corsa, saremo
noi a rincorrerlo ed a raggiungerlo con le canoe a motore.
Trascorriamo il
resto della giornata sulla terrazza panoramica in contemplazione della foresta
che ricopre entrambe le rive del fiume. Di sottecchi studiamo anche i nostri
compagni di viaggio che, in un primo momento, sembrano il distaccamento di un
reparto geriatrico… si tratta di una comitiva di inglesi che ha aderito ad un
tour organizzato da un’agenzia viaggi specializzata e che opera esclusivamente
per gruppi over 55.
L’età media di
questo gruppo è molto più alta, ci spieghiamo così la presenza a bordo di una
“Doctora”: giovane e bella donna medico.
La giornata si
mantiene soleggiata ed il tramonto ci regala un tripudio di colori e riflessi.
La cena si
traduce in un altro gustoso pasto ed a tenerci compagnia c’è la Doctora, un
po’ spaesata, è la prima volta che sul battello è presente un medico ed
inoltre, come noi, non conosce nessuno, ma Diego, Milton, Ernesto, il capitano
ed il resto del personale sono amichevoli, non ci vorrà molto a rompere il
ghiaccio.
La cena è
seguita da uno sbarco per la prima escursione nella foresta.
Calzando stivali
di gomma, in compagnia del giovane e abilissimo Milton e di una guida indigena
ci inoltriamo nella selva, il silenzio è rotto soltanto dal rumore dei nostri
passi, dai richiami di insetti ed altre creature invisibili e da fruscii
misteriosi.
Con una torcia
Milton mette in luce formiche giganti, ragni pelosi, millepiedi carnosi, grilli,
cavallette, cicale, scarafaggi ed un ricco campionario di altri insetti. Ci
invita a non calpestare un uovo deposto da un uccello, ci mostra una rana e una
grossa farfalla appesa ad una fronda che, comparendo all’improvviso, a pochi
centimetri dal mio naso, mi accorcia la vita di qualche minuto: ha le sembianze
della testa di un serpente!
Proseguendo la
camminata incontriamo subito dopo un vero serpente, le due guide ci invitano
alla prudenza ed a mantenerci a distanza di sicurezza, avvertimento superfluo
per quel che mi riguarda, non mi passa proprio per il cervello di avvicinarmi,
se mai il mio primo istinto è quello di scappare più lontano.
Nel vedere quel
corpo, grosso, squamoso, con una serie di doppie X “ricamate” su tutta la
sua lunghezza, avvolto attorno ad un ramo all’altezza dei nostri occhi mi si
gela il sangue, vorrei scappare, ma le parole di Milton “attenzione, è molto
pericoloso, è il più grosso esemplare di Ferro di lancia che mi sia mai
capitato di vedere, non avvicinatevi, è molto aggressivo” mi paralizzano e
fanno si che mi aggrappi a lui e che mi nasconda alle sue spalle, così protetta
– seguendolo - ci spostiamo di pochi passi e, ancora fatico a credere
d’esserci riuscita, stiamo a guardare il velenoso serpente per qualche minuto
girandogli attorno con circospezione fino a vederne anche la testa. La visione
è inquietante e affascinante allo stesso tempo. Non credo che riuscirò mai a
superare la mia paura per i serpenti velenosi, ma sto migliorando, solo qualche
anno fa, qualche serpente fa… non sarei riuscita a guardarne uno negli occhi
da così poca distanza come ho appena fatto.
Milton e
l’indigeno ritengono che andare oltre, superando il rettile, sia troppo
rischioso, torniamo quindi sui nostri passi consapevoli della straordinarietà
di questo avvistamento.
Prima di risalire
sul battello ci fermiamo sulla riva del fiume per ammirare il cielo stellato e
per ascoltare, nel buio totale, i suoni delle cicale e delle mille creature che
popolano la foresta, sopra tutti spicca il richiamo dei rospi alla ricerca di
femmine con cui accoppiarsi.
17
gennaio 09 – sabato
La giornata è
ricca di programmi e mentre sul battello le “attività” (pasti, relax sulla
terrazza panoramica, chiacchiere con gli altri ospiti che si rivelano persone
molto interessanti nonché grandi viaggiatori e briefing con le guide) si
ripetono, a terra o su imbarcazioni più piccole le escursioni sono molto varie,
piacevoli ed interessanti.
La prima
escursione odierna si svolge in barca. Seguendo il Rio Tiputini esploriamo parte
del Parco Nazionale di Yasuni (*).
(*) Il caso di Yasuni rappresenta una contraddizione
tipica dell’Amazzonia ecuadoriana. Si tratta di una delle quindici aree
forestali che vantano la più alta biodiversità al mondo, dove sono presenti
tutti gli habitat della giungla, con la flora e la fauna più rare. Nel 1979 vi
è stato istituito un parco nazionale, il più esteso di tutto l’Ecuador
continentale. In questa zona dell’Amazzonia poi si sono “rifugiati” gli
Huaorani, l’etnia india che più di qualsiasi altra ha conservato lo stile e
la filosofia di vita propri della selva. D’altra parte, disgraziatamente,
proprio qui, a quanto pare, si concentrano molte delle risorse petrolifere del
paese e lo stato nel 1991 ha clamorosamente rilasciato ad alcune compagnie la
concessione per lo sfruttamento del sottosuolo. Oltre che alla contaminazione
del terreno (a causa delle infiltrazioni di petrolio e dei prodotti di scarto),
l’ambiente è stato danneggiato dalla costruzione di una strada lunga 110 km,
che ha implicato una devastante opera di disboscamento e che fa sorgere il
rischio di una prossima colonizzazione dell’area: per evitarlo si è deciso di
limitare l’accesso a questa strada agli indios, agli scienziati, ai militari e
al personale delle compagnie petrolifere.
Dal fiume non si
percepisce la devastazione provocata dall’industria petrolifera, anzi la
vegetazione è molto fitta e varia e specchiandosi sulla superficie dell’acqua
produce bellissimi riflessi dalle molte sfumature di verde.
Non
si vedono animali, solo un paio di tucani, diversi volatili dal bel piumaggio
nero e giallo ed i loro particolari nidi circolari che sembrano fatti di tessuto
di yuta.
L’escursione
successiva ci porta a visitare il villaggio di Nuevo Rocafuerte che costituisce
il posto ufficiale di confine per chi desidera, proseguendo la navigazione lungo
il Rio Napo, entrare in Perù.
Sull’unica
strada del villaggio troviamo qualche modesta bottega, poche umili casette ed un
ospedale che visitiamo subito dopo aver giocato con alcuni morbidi e bellissimi
pulcini.
La struttura è
linda e ordinata, dispone di arredi ed attrezzature che, paragonate a quelle dei
nostri ospedali, sono ormai superate ma assicurano comunque un buono standard
assistenziale.
Una energica
missionaria ci scorta nei vari ambienti, ambulatori, laboratori e corsie di
degenza. Non possiamo che essere favorevolmente impressionati dall’efficienza
del complesso ospedaliero e del personale, in prevalenza volontario, che presta
qui la propria opera.
Nel piccolo
laboratorio d’analisi chimico-cliniche un tecnico ci mostra alcuni strumenti
ed una “collezione” di vasi di vetro contenenti embrioni di scimmia,
serpenti ed altra fauna locale. Considerata la mia fobia non sento il bisogno di
alimentarla approfondendo il discorso sulla pericolosità di alcuni rettili.
Nel giardino
possiamo ammirare bellissime piante, una profusione di fiori coloratissimi ed
una splendida coppia di pappagalli Ara, regalo di un generoso donatore.
Il Manatee segue
ora – in direzione nord – il corso di un affluente del Rio Napo,
precisamente il Rio Aguarico che segna il naturale confine tra Ecuador e Perù.
Sulla nostra sinistra abbiamo la riva ecuadoriana, sulla destra quella peruviana
che sono pressochè uguali, ma la consapevolezza di luogo di frontiera ha, per
me, un fascino sempre particolare qui accresciuto dalle postazioni militari di
entrambi i Paesi che si fronteggiano dalle due sponde del fiume.
Tali
distaccamenti militari fanno tenerezza, si tratta di fortini delimitati da
palizzate realizzate con tronchi d’albero e canne di bambù, sono inoltre
dotati di torrette di avvistamento e tettoie ricoperte da foglie di palma.
Queste postazioni ci ricordano i fortini in miniatura della nostra infanzia,
tanto preziosi per giocare alla guerra con eserciti di soldatini.
La terza
escursione della giornata ha inizio esattamente da uno di questi distaccamenti
militari.
Un giovanissimo
soldato, insieme a Milton, ci fa strada attraverso la giungla dove ammiriamo
alberi imponenti, radici intricate, fiori, frutti sconosciuti, liane e
rampicanti che avviluppano, soffocandoli, interi alberi.
La passeggiata
non dura a lungo, siamo costretti ad interromperla per il vento che ha fatto la
sua comparsa insieme alla pioggia.
Quest’ultima da
sola non costituirebbe un problema, con una qualsiasi foglia (tutte di
gigantesche dimensioni) è presto fatto un “ombrello”, abbiamo, inoltre, le
mantelle.
Il vento, invece,
rappresenta un pericolo perché scuote gli alberi e qualsiasi altra cosa,
potrebbe caderci addosso un ramo spezzato o un pesante frutto.
Torniamo,
pertanto, nello spiazzo erboso della postazione militare e, per ingannare il
tempo, raccogliamo limoni grandi quanto meloni che i “soldatini” ci
concedono di asportare.
Smette di
piovere, cessa anche il vento, percorriamo, quindi, un diverso “sentiero”.
La foresta è
fitta, quasi angosciante, la volta verde non permette alla luce di filtrare, non
si hanno punti di riferimento, ma il suo fascino sta nel fatto che è viva,
pulsante, animata da decine di suoni differenti, fruscii, odori, non si vedono
animali ma si percepiscono i loro versi e richiami.
Quando se ne esce
e ricompare la luce solare si prova sollievo, sembra perfino di respirare
meglio, ma già ti manca il suo pulsare, il suo abbraccio avvolgente. Quando
lasci la foresta sembra che tutto si spegne esattamente come quando si preme il
pulsante di un interruttore.
L’ultima
escursione della giornata viene effettuata dopo cena.
Con la canoa, a
motore spento, ci spostiamo lentamente completando il giro attorno ad una grande
isola. Il buio totale ed i suoni provenienti dalla foresta ci regalano una
sensazione di pace assoluta, mi sento così rilassata che potrei chiudere gli
occhi e addormentarmi in pochi secondi.
Terminato il
periplo dell’isola scorgiamo in lontananza le luci del battello che si
riflettono sull’acqua nera come l’inchiostro, punto luminoso che seguiamo
silenziosi come un faro nella notte.
18
gennaio 09 – domenica
Sveglia alle
5,30, colazione e trasferimento sulla canoa a motore. I compagni di viaggio si
rivelano sempre più vispi, altro che “geriatrici” come abbiamo
ingiustamente malignato, salgono e scendono le scalette del battello
disinvoltamente, infilano e sfilano giubbotti salvagente e stivali a tempo di
record, anche quando si tratta di superare precarie passerelle si dimostrano
impavidi.
La Doctora, forse
inizialmente preoccupata per un eccessivo carico di lavoro, in realtà è
disoccupata e, per vincere la noia, partecipa insieme ai vari gruppi ad ogni
escursione.
Lasciato il Rio
Aguarico si imbocca, sulla destra, il Rio Lagarto, nuovo confine naturale con il
Perù che essendo meno ampio avvicina ancora di più i due Paesi.
Questo fiume ha
la particolarità di avere le acque scure, ricche di tannino, risultato della
decomposizione del fogliame.
E’ netta e ben
visibile la linea di demarcazione tra l’acqua marrone del Rio Aguarico e
quella nera del fiume che stiamo navigando.
Ci troviamo ora
in un’area compresa nella Riserva faunistica del Cuyabeno (*).
(*) Un’escursione
alla riserva faunistica del Cuyabeno rappresenta un’ottima occasione per
conoscere l’Oriente. Permette infatti d’avventurarsi con facilità nel cuore
della giungla, di vedere e imparare molto di questo mondo verde e intricato.
La riserva è vastissima (oggi, in seguito a vari
ingrandimenti, più di 600 mila ettari), si estende attorno al Rio Cuyabeno e al
Rio Aguarico (che s’immette nel Rio Napo, diretto affluente del Rio delle
Amazzoni), all’estremo nord-est dell’Ecuador, ai confini con Colombia e Perù.
E’ stata creata nel 1979 per tutelare lo straordinario
patrimonio naturale di quest’area e il territorio delle comunità indigene che
vivono lungo i due fiumi. La riserva è però diventata zona protetta a tutti
gli effetti solo negli anni ’90, dopo che alcune aree erano state disboscate e
che abbondanti fuoriuscite di petrolio si erano riversate nel Rio Cuyabeno.
Curiosamente il nome Cuyabeno viene dal paicoca, la
lingua dei Siona-Secoya, e significa “porta veleno”, a causa di alcuni
frutti velenosi un tempo trascinati dalla corrente.
Gran parte del territorio della riserva comunque è
rimasto intatto e presenta uno dei più alti livelli di biodiversità al mondo.
Vi vengono effettuati importanti studi scientifici
e si continuano a scoprire nuove specie. Particolarmente numerose e varie
quelle di uccelli (un quinto di tutte quelle che si trovano nell’intero
Sudamerica), dai tucani alle aquile amazzoniche, vi vivono inoltre giaguari,
scimmie di 18 specie, i celeberrimi delfini rosa d’acqua dolce, caimani, piraña
e le mostruose anaconda. Innumerevoli le specie di rane ed insetti soprattutto
formiche e ragni (tra questi ultimi la gigantesca tarantola). Per non parlare
poi dell’incredibile varietà della flora amazzonica.
Anche
oggi possiamo beneficiare di una bella giornata soleggiata e dello spettacolo
della foresta impreziosito dall’avvistamento di tartarughe d’acqua, uccelli,
tucani, scimmie e, anche se molto lontano, di un bradipo dall’esasperante
lentezza.
Raggiungiamo una
splendida laguna dove è possibile fare il bagno e mentre i “nonnetti”
incartapecoriti si tuffano con noncuranza, noi, insieme alla giovane doctora e a
pochi altri, stiamo ad osservarli divertiti.
L’acqua è
molto pulita, fermissima, la sua colorazione scura accentua l’effetto
specchio. Percorriamo l’intera circonferenza del lago ammirando incantati i
riflessi della vegetazione lussureggiante, ma la cosa più straordinaria da
osservare sono i delfini rosa che emergono mostrandoci il dorso pallido e
lucente.
Lasciamo a
malincuore questo luogo speciale, dove tutto è perfetto e infonde un senso di
pace indescrivibile, immagazzinando colori e immagini che in futuro ci faranno
certamente pensare all’Amazzonia con nostalgia.
Nel pomeriggio
nuovo sbarco a terra per compiere una passeggiata nella foresta. Vi accediamo
attraversando un altro fortino dopo aver ottenuto il permesso dal militare con
il più alto grado.
Anche questa
postazione ha di fronte, sull’altra riva del fiume, quella “nemica”, ma
campi da calcio e pallavolo, nonché bananeti,
frutteti e orti ci inducono a pensare a rapporti molto amichevoli, potremmo
scommettere che in una zona così remota e pacifica i due “eserciti” si
scambino visite di cortesia, banchettino insieme e si sfidino nelle più
svariate discipline sportive e non.
Sorridiamo nel
vedere le trincee scavate nel terreno e ricoperte da tettoie di paglia, ridiamo
senza ritegno quando eludiamo il sistema di allarme: un filo teso e sollevato da
terra circa 10 cm, ma celato dall’erba alta, con una serie di barattoli di
latta arrugginiti infilati in ciascuna estremità che fanno rumore se il filo
viene inavvertitamente calpestato.
Il soldato Garcia
che ci scorta nella foresta è, infine, l’ennesimo richiamo alla nostra
infanzia: dove c’è Zorro non poteva mancare il sergente Garcia!
Che bello sarebbe
se in ogni angolo del mondo le guerre si “combattessero”
in questo modo e con gli stessi “armamenti” che si sono visti qui.
La passeggiata
sotto la volta della foresta, con una cappa di caldo e umidità da record, ci
mette a dura prova.
Guardiamo le
chiazze di sudore che si espandono sugli indumenti di chi ci precede consapevoli
di non essere in condizioni migliori. Anche la nonnina (84 anni) più elegante e
distinta del gruppo che si è meritata il titolo di Queen Elizabeth appare un
po’ “stropicciata”.
Che donna
invidiabile, sana fisicamente ed anche di testa, non ha perso una sola
escursione e non ha esitato ad esibirsi in costume da bagno.
Per il dopo cena
ci propongono una seconda escursione nella foresta, ma decliniamo, ci godiamo
dalla terrazza del battello uno spettacolo inconsueto: da molto lontano è in
arrivo un forte temporale, il cielo nero è squarciato dal bagliore di lampi che
per brevi attimi illuminano le nubi. La cosa si ripete per alcune ore, poi
durante la notte piove a dirotto mentre il rombo dei tuoni rompe il silenzio ed
i lampi si susseguono rapidi.
Mi è sempre
piaciuto osservare il temporale, qui – in Amazzonia – credo di aver visto
quello più sensazionale.
19
gennaio 09 – lunedì
Abbiamo percorso
500 km arrivando a toccare il Perù e costeggiandolo per un lungo tratto, oggi
termina il tragitto di andata e mentre la comitiva di inglesi tornerà
lentamente verso Coca impiegando i prossimi tre giorni, noi siamo in procinto di
rientrare al punto di partenza in un’unica tappa con un motoscafo veloce.
Salutiamo con una
punta di commozione il Capitano, la doctora, tutto lo Staff, i “nonnetti”
inossidabili, la deliziosa Queen Elizabeth dagli occhietti dolci e la sua
dinoccolata amica e coetanea dai capelli a caschetto tinti di rosso e la
frangetta corta che ci fa pensare ad un buffo personaggio dei fumetti.
Viaggiamo per 5
ore sotto una pioggia battente che riduce notevolmente la visibilità in un
paesaggio totalmente privo di colore salvo tutte le varianti del grigio.
Il trasferimento
si rivela difficile, si rompe il tergicristallo ed il conducente, dopo aver
tentato almeno un paio di volte di ripararlo, è costretto a sporgersi
lateralmente per vedere il fiume cercando di seguire una traiettoria a slalom
per evitare i banchi di sabbia affioranti ed i tronchi d’albero trascinati
dalla corrente.
Viaggiare con
questo clima e la visibilità tanto ridotta è stata una grande
fatica: un meritato grazie e complimenti al pilota!
Dal finestrino
dell’aereo salutiamo per l’ultima volta la fitta foresta, il fiume e le
isole di sabbia.
Atterriamo a
Quito all’imbrunire, la giornata si conclude con un’altra ottima cena presso
il ristorante dell’hotel Patio Andaluz dove facciamo ritorno per la terza
volta.
20
gennaio 09 – martedì
Lasciamo
nuovamente il traffico di Quito e la distesa di case e palazzi questa volta
diretti verso sud.
Fino alla
cittadina di Latacunga il paesaggio non offre panorami meritevoli di una sosta,
la situazione cambia seguendo, per circa 60 km, la
deviazione che conduce alla Laguna di Quilotoa (3850 m).
Questo ultimo
tratto di strada, bordeggiato da agavi, attraversa campi coltivati e pascoli
dove gialle siepi fiorite delimitano le proprietà, i cactus prendono il posto
delle agavi ed i campesinos con i poncho colorati badano alle greggi di pecore e
lama.
Le donne, dalle
lunghe trecce e dalle gote arrossate, indossano tutte la stessa “divisa”:
calzettoni bianchi, mocassini sformati con il tacco, bluse colorate, gonne di
panno o velluto scuro, il classico cappello di feltro nero e vari giri di
collane di metallo dorato.
Stiamo
attraversando una zona montana e rurale, con le case dai tetti ricoperti
d’erba, molto bella e selvaggia. Profondi canyon solcano il territorio ed il
mosaico dei campi riveste i fianchi delle montagne sino alla sommità
sviluppandosi quasi in verticale. Pur provando una fitta di angoscia pensando alla
vita dura dei campesinos che lavorano la terra manualmente senza l’ausilio di
mezzi meccanici, non possiamo che apprezzarne la laboriosità.
Raggiungiamo,
infine, la Laguna di Quilotoa, un cratere vulcanico con le nubi che lo
circondano e che sembrano trattenute dalle rocce. Sul fondo della caldera c’è
un incantevole lago dall’acqua color verde smeraldo.
In circa
un’ora, godendo di splendide vedute, percorriamo il sentiero che, con un
dislivello di 400 m, scende fino alle spiaggette sabbiose che delimitano la
laguna.
Risalire a piedi,
a questa altitudine, sarebbe molto faticoso, vogliamo, inoltre, provare
un’esperienza per noi nuova, così per soli 5 dollari affittiamo un mulo
ciascuno.
Salirvi in groppa
e mantenersi in equilibrio è un’impresa non proprio facile. Rigidi come
stoccafissi, tenendoci saldamente aggrappati ad una corda, tra risate e attimi
di paura, avanziamo lungo la mulattiera che ora sembra ancora più stretta.
I muli si fermano
spesso sull’orlo del dirupo e, nonostante non soffra di vertigini, provo un
po’ di inquietudine al pensiero che, con una scrollata, l’animale possa
sbarazzarsi del suo fardello.
Per tutto il
tragitto veniamo scortati da ragazzini e giovani donne, proprietari dei muli,
che con nostro grande stupore ci seguono a piedi affrontando il ripido sentiero
a passo sostenuto e, in apparenza, senza fatica. Calcolando che percorrono
salita e discesa più volte nell’arco della giornata pensiamo che la richiesta
di 5 USD per persona sia una cifra che non ripaga un lavoro tanto faticoso.
Sulla via del
ritorno facciamo una sosta per ammirare da vicino un gruppo di lama adulti ed un
bellissimo e vivace piccolo dal pelo scuro che si avvicina curioso per scappare
subito dopo.
A fine giornata i
pastorelli che camminano al margine della strada stanno tornando alle proprie
case dopo aver rinchiuso nei recinti pecore e lama.
Viaggiamo più in
alto dei diversi strati di nuvole che al calar del sole assumono varie tonalità
di colore. E’ straordinario l’insieme di soffici nuvole bianche, di eteree
formazioni rosate e di cupe nubi scure con squarci qua e là che lasciano
intravedere sprazzi di cielo azzurro/blu. Un pittore troverebbe sicuramente
ispirazione da una scena così bella e ricca di colori.
Ceniamo e
pernottiamo presso l’Hosteria Rumipamba de las Rosas, hacienda con una ricca
collezione di antichi attrezzi agricoli, auto d’epoca, carri, strumenti
musicali e molti altri oggetti collocati in ogni dove.
L’insieme degli
ambienti e degli arredi è piuttosto kitsch,
ma la raccolta di pezzi antichi è notevole.
La
nostra camera è molto ampia, ha un bel caminetto, un soppalco con un romantico
abbaino e pareti ricoperte di strumenti ed utensili del passato: per noi
appassionati di “roba vecchia” è un gran bel lustrarsi gli occhi!
21
gennaio
09 – mercoledì
Partenza
alle 8 per un lungo trasferimento della
durata di 7 ore. Attraversiamo dapprima paesaggi andini, sfiorando i 4000 m di
altitudine, caratterizzati da distese di arbusti e ciuffi d’erba ondeggianti
al vento dove pascolano gruppi di vigogne che – in alcune occasioni – ci
tagliano la strada. Sullo sfondo il vulcano Chimborazo, innevato, completa
questo bellissimo quadro.
Abbassandosi
di quota lo scenario cambia, superiamo fitti boschi d’abeti ed i fazzoletti
dei campi coltivati dalle svariate sfumature di verde e marrone .
Affrontiamo
poi un lungo tratto di strada dissestata che alterna asfalto con profondi solchi
a sterrati in condizioni anche peggiori, il tutto immersi in una fitta nebbia
che riduce notevolmente la visibilità.
Scendendo
ancora di quota la vegetazione muta nuovamente, attraversiamo ora foreste
tropicali ed i primi bananeti.
Lasciate
le montagne e la zona collinare, si susseguono piantagioni di cacao, banane e
canna da zucchero e vaste risaie. Territorio, quest’ultimo, di natura paludosa
popolato da centinaia di aironi bianchi dove le povere case di affollatissimi
villaggi sorgono su palafitte.
Giunti
al fiume Guayas un lungo e ardito ponte separa una estesa baraccopoli dalla
modernità di Guayaquil, stridente contrasto purtroppo ricorrente per molte
grandi metropoli del sud del mondo.
Ci
lasciamo alle spalle il degrado di una periferia povera mentre di fronte
possiamo ammirare le belle casette colorate della collina di Santa Ana e, più
in là, i grattacieli ed i simboli del benessere.
La
posizione privilegiata del nostro albergo (Grand Hotel Guayaquil) ci permette di
sfruttare al meglio il poco tempo di cui disponiamo per visitare il centro
cittadino che alterna edifici moderni a palazzi di epoca repubblicana
dall’architettura importante, piazze con imponenti alberi, fontane e giardini
ad ampi e trafficati viali.
La
temperatura estiva invita ad una passeggiata sul Malecòn (lungofiume). Si
tratta della recente realizzazione del progetto di recupero di una zona
degradata e malfamata ora sicura grazie ad una recinzione ed ai poliziotti che
ne presidiano gli ingressi, resa, inoltre, gradevole da laghetti, fontane,
padiglioni espositivi, chioschi, giardini ornamentali, cinema, giochi per
bambini e fast food dalle insegne sgargianti che, nonostante tutto, non riescono
ad attrarci. Per cenare scegliamo, infatti, un bel ristorantino – la Tasca
Vasca – che propone piatti tipici della cucina basca dove gustiamo un
eccellente polipo alla brace guarnito con riso e patate e per dessert una
squisita crema catalana.
Visitiamo,
in seguito, i giardini di Parque Bolivar e la Cattedrale gremita di fedeli
nonostante l’ora tarda che, contrariamente alle chiese ridondanti di addobbi e
oro visitate in precedenza, al suo interno è molto sobria, con pochi dipinti e
statue.
Trascorriamo
il resto della serata passeggiando sul Malecòn percorrendolo da un’estremità
all’altra (2,5 km). Infine, prima di rientrare in albergo, facciamo un ampio
giro seguendo nuove strade per ammirare altre piazze e palazzi del centro. Non
possiamo affermare di conoscere Guayaquil, tuttavia per quel poco che abbiamo
potuto vedere ci ha fatto una buona impressione, la città ci è parsa molto
gradevole. La sua atmosfera rilassata ci è sembrata evidente dall’alto numero
di persone che camminano per strada, sostano nei parchi, affollano i locali,
dalle famigliole con bimbi e dalle coppiette di innamorati che la sera
frequentano il lungofiume fino a tardi. Persino i cambiavalute abusivi ostentano
grosse mazzette di banconote senza sentire la necessità di celarsi.
22
gennaio 09 – giovedì
Ci
svegliamo presto, il nostro entusiasmo è palpabile poiché questa nuova
giornata segna la concretizzazione di un sogno dal nome evocativo: Galàpagos!
Un
autista e Mariella, colonna portante dell’agenzia di Guayaquil cui ci siamo
rivolti per l’organizzazione di questo viaggio, ci accompagnano in aeroporto.
Mariella
è una ragazza giovane, sorridente e molto pratica. Durante il tragitto
chiacchieriamo e ridiamo per alcuni aneddoti di viaggio, proviamo poi un brivido
quando ci riferisce che, dopo aver accettato la nostra prenotazione, la società
che gestisce il battello amazzonico Manatee, qualche settimana dopo, ha cambiato
idea rifiutandola. Ci complimentiamo per la sua tenacia, Mariella non solo è
riuscita a far riconfermare la prenotazione bensì ad ottenere un programma
speciale e più ricco di quello classico.
L’aeroporto
di Guayaquil è una struttura moderna ed efficiente, l’attesa dell’imbarco
è resa più vivace da un gruppo di giovani “dive” in abiti provocanti che
posano con fare felino per decine di foto.
Non
riusciamo a stabilire se si tratta di turiste un po’ troppo lanciate nella
parte di top model o se siano davvero modelle impegnate in un servizio
fotografico.
La
statura poco slanciata e gli abiti non proprio griffati ci fanno propendere per
la prima ipotesi.
Ci
chiediamo, nel caso dovessimo ritrovarle sulla nostra stessa barca, se
considerarle un divertente diversivo oppure una “calamità”.
Alle
11 si decolla, in meno di un paio d’ore raggiungiamo Baltra.
Superate
le file per pagare la tassa di ingresso al parco (100 USD) e per il ritiro dei
bagagli usciamo dalla semioscurità del terminal, la luce solare ci investe
quasi con violenza: siamo alle Galàpagos (*) e non si tratta di un sogno!
(*) Le Galàpagos
sono situate nell’Oceano Pacifico, a cavallo dell’Equatore, quasi 1000 km a
ovest dalla costa ecuadoriana. L’arcipelago è formato da 13 isole principali,
6 isole minori e 42 isolotti.
Si tratta di
isole di origine vulcanica e costituiscono un unico, enorme parco naturale.
La Riserva
comprende i fondali marini e il 97% della superficie emersa delle isole. Nel
restante 3% del territorio vivono i coloni ecuadoriani e sorgono le strutture
turistiche.
Le Galàpagos
sono innanzitutto il luogo d’incontri ravvicinati con animali unici, rari e
dsparati: le tartarughe giganti che danno il nome all’arcipelago (galàpagos),
leoni marini che ci annusano incuriositi, iguane che al nostro passaggio neppure
si scompongono, pellicani appollaiati sul ponte della barca… il fatto è che
questi animali, abituati all’assenza di predatori, si lasciano avvicinare
senza timore dall’uomo e non sono pericolosi. E poi in mare – nelle acque
incredibilmente limpide delle Galàpagos – si nuota insieme a pesci tropicali
colorati, giocando con le otarie, inseguendo tartarughe marine e rabbrividendo
alla vista di uno squaletto.
Ma un viaggio
alle Galàpagos non è solo questo. L’arcipelago, formato dalle cime di alcuni
vulcani emersi, presenta un ambiente naturale d’eccezione, dove suoli forgiati
dalla lava e crateri collassati permettono di gettare uno sguardo su un passato
quasi inconcepibilmente lontano e dove ogni passo è una lezione di storia
naturale. Non per niente è proprio qui che Darwin ebbe l’intuizione che gli
permise di elaborare la sua celebre teoria.
Un viaggio
alle Galàpagos è davvero un’esperienza irripetibile, il cui ricordo resta
fra i più indelebili ed emozionanti, anche se non siete degli esperti o degli
appassionati.
Una
persona con il cartello recante la scritta “Floreana” (il nome della nostra
barca) ci indirizza verso un bus. Poco dopo ci raggiungono le starnazzanti
“dive”… oh my God, vuoi vedere che… ma la nostra preoccupazione non dura
a lungo, un provvidenziale “angelo custode” le recupera dirottandole su un
diverso autobus.
In
pochi minuti raggiungiamo il canale che separa Baltra dall’isola di Santa Cruz.
Floreana è lì ancorata insieme ad altre imbarcazioni.
Sul
pontile ci smistano un’ultima volta, sospiriamo di sollievo nel constatare che
una donnona prepotente prende una direzione diversa dalla nostra. Insieme a
quelli che saranno i nostri compagni per i prossimi 8 giorni (in totale siamo 12
passeggeri), a bordo di un gommone, raggiungiamo Floreana.
Dopo
un briefing con la guida, Victor, che un po’ troppo sfacciatamente parla già
di mance per se stesso e per l’equipaggio, l’assegnazione delle cabine,
un’esercitazione sul comportamento da tenere in caso di evacuazione ed uno
spuntino, siamo finalmente pronti per compiere la prima escursione sulla vicina
Isla Seymour Norte.
Due
grossi squali scuri nuotano attorno allo scafo, in pochi minuti la scena cambia
e si materializzano alcune tartarughe marine. Non si perde tempo a quanto pare,
se questo è il ritmo degli avvistamenti faremo un bel “pieno” di emozioni.
Ci
aspetta uno sbarco asciutto, vale a dire su un molo naturale o scogli. Al
contrario gli sbarchi bagnati, come suggerisce la parola stessa, avvengono nei
pressi di una spiaggia ovvero ci si bagna dai piedi in su in misura
proporzionale al movimento delle onde.
Il
tipo di sbarco viene comunicato in anticipo in modo tale da indossare ogni volta
le calzature adatte.
I
trasferimenti da Floreana alle varie località da visitare avvengono sempre a
bordo di un gommone, diventerà un automatismo – al suono della campanella -
indossare il giubbotto salvagente (chaleco), scendere la scaletta, fare un passo
lungo, sedersi sul bordo del gommone, sfilare il giubbotto, sbarcare e viceversa
a fine escursione.
Alcuni
piccoli leoni marini che monopolizzano il
molo di Seymour ci danno il
benvenuto, inevitabili il primo coro di “oh!” ed una raffica di foto.
Prendiamo un sentiero che conduce all’interno dell’isola costellato
di rocce dal colore rossiccio, alberi palo santo e arbusti secchi che ricordano
il bush africano, grosse iguane di terra ben mimetizzate compaiono
all’improvviso.
Ogni
passo ci riserva una sorpresa, sulle pietre spiccano lucertole della lava,
iguane marine dal colore scuro, grossi granchi rossi. Sopra le nostre teste
volteggiano maestose fregate dal piumaggio nero.
Alcuni
esemplari maschi, appollaiati sugli arbusti, emettono richiami molto forti e,
per attirare le femmine, gonfiano - fino alle dimensioni di un palloncino - una
sacca rossa posta sotto il becco.
Da
questo straordinario rituale è evidente che siamo capitati nel bel mezzo della
stagione degli accoppiamenti, siamo sopraffatti dalle tante emozioni che questa
piccola isola ci riserva a raffica senza concederci il tempo di assimilarle
tutte. Se solo si potesse far scorrere il “film” al rallentatore avremmo più
possibilità di cogliere ed immagazzinare anche il più piccolo particolare.
Proseguendo
la camminata incontriamo le prime sule piedi azzurri, bellissime e buffe con
quelle “pinne blu” ai piedi.
L’aspetto
più sorprendente è che qui gli animali, compresi gli uccelli, non si
scompongono al nostro passaggio, pur badando a non uscire dal sentiero tracciato
ce li troviamo vicinissimi, in mezzo ai piedi come si suol dire, e non scappano,
in diverse occasioni siamo obbligati a cambiare traiettoria per evitare di
calpestarli.
Come
dice la guida: non servono obiettivi telescopici per scattare primi piani.
Terminato
il percorso interno ci affacciamo su una bassa scogliera dove violente onde si
infrangono. Volgendo lo sguardo verso l’oceano vediamo una serie di simpatiche
scenette che hanno per protagonisti piccoli leoni marini che, affamati,
strillano sollecitando le madri impegnate in mare a procurare cibo.
L’escursione
termina con le tenere immagini di due cuccioletti che giocano, si intrecciano,
si stropicciano, mentre sullo sfondo i pellicani si tuffano rumorosamente in
acqua per uscirne poco dopo con la sacca del becco rigonfia di pesce.
Durante
la navigazione le fregate ci seguono, come scuri aquiloni, quasi a voler fare
gli onori di casa accompagnandoci al termine della visita.
Alle
fregate si uniscono poi i pellicani, felice conclusione di questa prima giornata
non solo limpida e soleggiata, ma altresì ricca di natura e di emozioni.
Il
tramonto con gli uccelli che continuano a seguirci in volo è uno spettacolo
indescrivibile, siamo senza parole.
Il
cielo si fa sempre più scuro e si “accende” di stelle, trascorriamo la
nostra prima serata in una baia riparata dell’Isla Santa Cruz.
Il
primo “documentario” notturno ci regala le immagini di grossi
banchi di pesci che nuotano tutto attorno alla barca e che, attratti dalle luci,
si spostano in massa con movimenti convulsi mentre due leoni marini sono
impegnati a dar la caccia a guizzanti serpenti di mare.
23
gennaio 09 – venerdì
Campanella…
scarpe… chaleco… scaletta… gommone… sbarco… alle 7 in punto tocchiamo
il suolo di Dragon Hill (Isla Santa Cruz), una spiaggia di nere pietre laviche
con il comitato di benvenuto costituito da una colonia di leoni marini.
Seguendo
un sentiero ci inoltriamo all’interno, il paesaggio è caratterizzato da
alberi palo santo ancora spogli e alti cactus, spinosi anche sul tronco, che si
riflettono nelle acque di piccoli stagni, incontriamo solo qualche iguana
terrestre e fringuelli di Darwin.
Il
caldo è già opprimente, la camminata non è impegnativa ma in questo ambiente
pietroso con alberelli bassi privi di foglie che non offrono alcun riparo la
affrontiamo con non poca fatica.
Dopo
un paio d’ore senza vedere nulla sbuchiamo finalmente su una bella spiaggia di
sabbia chiara e, così accaldati e sfatti, è un piacere immenso tuffarsi in un
mare dal colore turchese e dalla totale trasparenza.
Mentre
nuotiamo, una sula piedi azzurri si tuffa in picchiata, proprio davanti a noi, a
caccia di prede che questi uccelli, formidabili pescatori, divorano prima ancora
di uscire dall’acqua.
La
spiaggia è molto bella, decidiamo di asciugarci percorrendola in tutta la sua
lunghezza, ma veniamo subito assaliti da assatanati tafani, non c’è modo di
liberarsi delle fastidiose bestiacce, dopo aver rimediato una serie di dolorose
punture ci rivestiamo in fretta optando per una poco dignitosa ritirata.
A
metà mattina lasciamo l’approdo, stiamo costeggiando la parte occidentale di
Santa Cruz diretti da nord verso sud, nei pressi di Whale Bay il capitano getta
l’ancora ed alle 14… campanella…
scarpe… chaleco… scaletta… gommone… sbarco… siamo di nuovo a terra per
una passeggiata “illustrativa” che ben presto si rivela un bidone, nessuno
infatti si dimostra entusiasta di perdere tempo per vedere 4 cocci di ceramica e
vetro di dubbia datazione che la guida spaccia per resti dei primi coloni
dell’isola.
Tornati
sulla spiaggia, mentre ci accingiamo a fare il bagno con relativo snorkelling,
una pioggia battente ci investe e nei pochi minuti occorrenti per tornare su
Floreana ci infradiciamo completamente, siamo così costretti ad un bucato
supplementare.
Si
riparte in direzione Puerto Ayora, durante la navigazione, a non più di un
chilometro dalla costa, il capitano stacca una vecchia, grossa e pesante antenna
collocata sul ponte superiore e, indifferente ai nostri sguardi allibiti, la
getta in mare. Giustifica la sua azione con una scrollata di spalle e con la
motivazione che quello era l’unico modo per liberarsi di un nido di vespe.
Siamo
convinti che in una riserva marina protetta un simile gesto sia sacrilego oltre
che un insulto per chi paga una tassa di ingresso di 100 dollari, certamente a
Puerto Ayora si sarebbe potuto trovare un rimedio più intelligente per
allontanare le vespe senza danneggiare i fondali marini.
Abbiamo
tutta l’intenzione di denunciare l’accaduto.
Trascorriamo
il resto del pomeriggio in navigazione all’insegna di un clima instabile che
ci fa omaggio di diversi scrosci di pioggia.
Il
nostro umore non è dei migliori, l’insoddisfazione è crescente in quanto
riteniamo che la scelta dell’itinerario odierno sia volta al massimo risparmio
allo scopo di trarne il maggior profitto cosa che ci viene confermata ancora una
volta dal menu decisamente scarso che alterna pollo al maiale e che ci porta –
considerate le somme da noi pagate per questa crociera – a protestare.
Dopo
quella che spacciano per cena sbarchiamo e passiamo il resto della serata a
Puerto Ayora, animata cittadina con negozietti di souvenir, agenzie che
propongono ogni sorta di escursione, bar, ristoranti e locali notturni.
Il
bilancio della giornata è negativo, siamo decisamente scontenti del percorso,
delle soste prolungate in zone di nessun interesse naturalistico e del
trattamento a bordo.
24
gennaio 09 – sabato
Campanella…
scarpe… chaleco… gommone… sbarco a Puerto Ayora per una visita alla
Stazione Scientifica Charles Darwin che ospita un ufficio informazioni sul Parco
Nazionale, un istruttivo museo e che gestisce le attività di ricerca
scientifica, di salvaguardia ed educazione ambientale.
E’
il posto giusto per denunciare il fattaccio avvenuto ieri, ma l’ufficio è
chiuso, manca il responsabile, una donna cui raccontiamo l’episodio
dell’antenna scaricata in mare ci invita a rivolgerci alla Capitaneria di
porto.
Presso
la Stazione sono ospitate tartarughe di varie fasce d’età.
Le
uova deposte dalle testuggini vengono prelevate dalle diverse isole e conservate
in incubatrici sino alla loro schiusa. I piccoli nati restano sotto la tutela
del Centro fino al raggiungimento di un certo peso ed età per poi essere
riportati sulle isole d’origine.
Tali
interventi consentono una sopravvivenza maggiore delle tartarughe e più alte
probabilità di raggiungere la maturità. Nelle varie sezioni del Centro
possiamo vedere numerosi piccoli, numerati e raggruppati per taglia e periodo di
nascita.
Proseguendo
la visita incontriamo un gruppo di vecchi maschi di dimensioni enormi e poco
discosto un gruppo di femmine.
In
uno spazio esclusivo è ospitato il celeberrimo Lonesome George che come una
star del cinema volta le spalle a noi paparazzi e che, neppure dopo lunga e
paziente attesa, si degna di mostrare il suo lato “A”.
Sembra
che nemmeno le due compagne, candidate per la riproduzione in quanto di una
specie molto simile, riescano ad avere maggior fortuna: George il solitario
continua ad essere indifferente a tutto ed a mantenere immutata la sua
posizione.
Torno
più volte da George, ma nulla. Mi sarebbe tanto piaciuto vedere anche il suo
musetto, considero comunque il fatto di essere qui e di poterlo osservare da
vicino un importante ed emozionante obiettivo raggiunto.
Ho
sentito parlare del solitario George, per la prima volta, una quindicina
d’anni fa. Ricordo d’aver provato tristezza per quell’ultimo esemplare
della sua specie rimasto senza una compagna con cui accoppiarsi e che alla sua
morte costringerà gli scienziati e l’umanità ad apporre l’ennesima,
irrevocabile e dolorosa cancellazione sulla lista della fauna in pericolo di
estinzione.
L’emozione
è tanta, non immaginavo di vedere dopo parecchi anni e con i miei occhi quello
stesso George di cui, in questo preciso momento, sento riecheggiare la triste
storia narratami da una donna, grande viaggiatrice, che ho molto stimato.
Provo
una grande pena per questo animale divenuto famoso, una leggenda, suo malgrado.
Nel
pomeriggio nuovo sbarco per l’escursione alla riserva El Chato che
raggiungiamo in bus attraversando una zona dell’isola molto vegetata, verde e
con gli alberi in fiore.
Prima
di accedere alla riserva facciamo una sosta per visitare un tunnel scavato da un
fiume di lava incandescente, è impressionante, osservando le ampie dimensioni
della galleria, immaginare la violenza dell’attività vulcanica.
El
Chato è un ambiente naturale molto vasto che ospita all’incirca 3.500
tartarughe giganti.
La
guida riferisce che essendo sparse su una superficie molto estesa non è sempre
facile vederle, ma siamo fortunati, ne vediamo molte, sono enormi ed è
bellissimo osservarle nel loro habitat mentre si muovono lente o si cibano o
stanno in ammollo in uno stagno.
Forse
il solitario Gorge qui avrebbe avuto maggior fortuna, ma - per il suo bene -
vogliamo credere e sperare che l’accanimento di studiosi e scienziati sia
giustificato considerando che alla sua morte saranno 10 e non più 11 le specie
sopravvissute.
Trascorriamo
la seconda serata a Puerto Ayora, questa volta meno entusiasti di trovarci, dopo
3 giorni, ancora sull’isola che le altre imbarcazioni lasciano a distanza di
poche ore dall’aver caricato i turisti recuperati in aeroporto.
Ci
sentiamo presi in giro anche per le donnine in abiti fascianti che fanno la
spola dal molo a Floreana e viceversa. Non sarà per caso per questo genere di
intrattenimenti che giriamo qui attorno da tempo troppo prolungato?
E
poi perché Victor (la guida) durante il consueto briefing serale mi ha fatto
una scenataccia, pubblica, fuori luogo e senza una motivazione sostenibile?
E
ancora perché, visto che sostiamo in porto ormai da due giorni, nella cambusa
sono già terminate le scorte di alcuni viveri? Siamo addirittura in numero
inferiore rispetto alla normale
capienza della barca (12 passeggeri su 16), escludiamo che si tratti di una
nostra smisurata voracità.
Perché,
dopo cena, si scende a terra ed il primo bisogno che dobbiamo soddisfare è
quello di cercare qualche cosa da mettere sotto i denti?
Mi
addormento con questi e diversi altri interrogativi che affollano la mia mente.
25
gennaio 09 – domenica
Alle
3,30 il rumore della catena che riavvolge l’ancora mi sveglia: si parte!
In
realtà dovremmo già essere in viaggio da almeno 4 ore… chissà? forse le
donnine hanno sconvolto la tabella di marcia e non solo…
Durante
la navigazione il mare agitato mi impedisce di riaddormentarmi. Non mi sono
ancora abituta alla ristrettezza della cabina, ci sono momenti in cui mi assale
un forte senso di claustrofobia, ma mi impongo di dominare l’ansia ed infine
il sonno ha il sopravvento.
Campanella…
scarpe… chaleco… gommone… sbarco bagnato in località Post Office Bay (Isla
Floreana).
L’isola
conta una sessantina di abitanti e si trova a sud di Santa Cruz a circa 6 ore di
navigazione.
Circolano
molte storie strane e lugubri sui primi coloni tedeschi che si trasferirono qui:
avvelenamenti, sparizioni e altri fatti misteriosi che grazie ad una buona dose
di suggestione aleggiano ancora nell’aria.
Come
vuole la tradizione, che risale all’epoca delle baleniere, lasciamo la posta
(un paio di cartoline) in un barile e incuriositi sfogliamo i mazzi di cartoline
già imbucate constatando che quelle in giacenza da più tempo (alcune da anni)
sono indirizzate negli USA.
Un
tempo la posta veniva lasciata dai cacciatori di balene che in seguito veniva
ritirata e distribuita ai destinatari da navi di passaggio.
Apro
una parentesi per confermare che una delle cartoline da noi imbucate è arrivata
in Italia due settimane più tardi spedita da un solerte Monsieur parigino.
Lasciato
l’ameno “ufficio postale” ci spostiamo verso l’interno dell’isola dove
si trova una grotta lavica il cui stretto passaggio di accesso mi blocca
inducendomi a rinunciare, senza rimpianto, alla “calata negli inferi”. Dalla
testimonianza di chi non si è lasciato vincere dalla claustrofobia ed è sceso
nel tunnel pare che non mi sia persa una grande avventura.
L’insoddisfazione
per come si sta svolgendo la crociera, con molte (troppe!) soste in luoghi senza
animali, è in crescendo, inoltre il trattamento che ci riservano a bordo e la
scortesia della guida, non fanno che aumentare il nostro disagio.
Tornati
alla spiaggia, dopo aver fatto un bagno, ci avviciniamo agli ospiti di
un’altra barca (Princess of Galàpagos), 4 donne sono italiane, cogliamo
l’occasione per scambiare due chiacchiere e per fare un raffronto tra la loro
e la nostra crociera.
La
Princess è un’imbarcazione più piccola, a pieno carico (16 passeggeri) ed in
apparenza più scalcinata della nostra, le donne riferiscono di non riuscire a
dormire nelle cabine anguste e verniciate di recente, dopo essere state male
hanno preferito improvvisare un giaciglio nella sala ristorante con il benestare
dell’equipaggio che si adopera a smontare e rimontare i “letti” ogni
giorno.
Nonostante
ciò, sopportano il disagio con spirito abbastanza umoristico e complessivamente
sono molto soddisfatte del programma di escursioni, dell’itinerario,
dell’evidente rapporto cameratesco con la guida e dell’eccellente menu molto
ricco e vario proposto da un abile cuoco.
Victor
– al contrario – non perde l’occasione per fare un’altra pubblica
piazzata, anche le donne italiane tacciono sbalordite da tanta aggressività.
Ci
salutiamo, ognuno ritorna sulla propria barca, gli ospiti della Princess sono di
ottimo umore e stuzzicati dall’appuntamento con i manicaretti confezionati dal
cuoco di bordo.
Noi
ci sentiamo depressi, come se fosse appena scaduta l’ora d’aria di un
detenuto.
I
pasti costituiscono un dovere da assolvere, non un piacere.
E’
la prima volta che ci capita – dopo tanti viaggi – di provare sconforto nel
sedersi a tavola, increduli, ad ogni pasto, dinanzi alle solite 4 verdure
lessate e scondite e poco altro.
Ci
spostiamo poco più a nord accompagnati, durante la navigazione, da numerose
tartarughe marine.
Sbarcati
su una spiaggia scura, percorrendo un istmo (Punta Cormorant), raggiungiamo una
bella laguna dai riflessi rosati e dai bianchi residui di sale dove, in teoria,
si dovrebbero osservare i fenicotteri. Nella sostanza ne vediamo, in lontananza,
solo due esemplari, ma le spiaggette dalle sfumature rosate ed i colori
dell’acqua valgono, in ogni caso, la passeggiata.
Sono
le 14, il sole è cocente, lo sento bruciare sulla pelle, mi rigiro spesso e mi
muovo per evitare di scottarmi.
Lasciata
la laguna seguiamo il sentiero fino a sbucare su una stupenda spiaggia di sabbia
bianca dove risaltano nere rocce vulcaniche ed il mare è di un bellissimo color
turchese.
Sulla
sabbia sono evidenti le molte tracce lasciate dalle tartarughe che – durante
la notte – vengono qui a deporre le uova dopo aver scavato grandi buche.
Sui
sassi neri spiccano rossi granchi.
Nell’acqua
trasparente nuotano diverse grandi tartarughe che ogni tanto emergono per
respirare.
Purtroppo
qui non ci si può bagnare, ma, considerata la consistente presenza di
tartarughe, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Rispettiamo, pertanto, questo
luogo incontaminato e ce ne andiamo grondanti di sudore ed accaldati
riconoscendo loro la totale ed esclusiva frequentazione di queste invitanti
acque.
Tornati
al punto di partenza, nel vedere in mare alcuni turisti che sguazzano beati,
crediamo di poter fare altrettanto, ma Victor ha detto NO! ed inflessibile
richiama il gommone… Pol Pot (così lo soprannominiamo) ha deciso di porre
bruscamente fine alla nostra ora d’aria riportandoci a bordo boccheggianti,
accaldati e pure depressi, ma forse è proprio attraverso la nostra prostrazione
che lui alimenta il suo senso di onnipotenza.
Ci
spostiamo nei pressi di Devil’s Crown, un semicerchio di roccia, quel che
resta di un cratere vulcanico parzialmente sommerso.
Non
ce la sentiamo di tuffarci per lo snorkelling nella forte corrente e
nell’acqua fredda, ma chi ha avuto la tempra di farlo è stato compensato da
un’infinità di pesci colorati, tartarughe, otarie e da un paio di squali.
Dopo
cena, come di consueto, ci piazziamo sul ponte panoramico, il “documentario”
serale ci allieta con le evoluzioni di una grossa otaria in compagnia di un
piccolo, la visita occasionale di altre otarie e l’inconsueto spettacolo di
pesci sfreccianti che corrono per parecchi metri sul filo dell’acqua.
26
gennaio 09 – lunedì
A
mezzanotte si parte per Isla Española, la traversata si rivela problematica, il
mare è mosso, commetto l’errore di alzarmi per andare in bagno e mi gira
tutto, mi assale la nausea. So che, in momenti come questo, bisogna sdraiarsi,
risalgo nella mia cuccetta, l’oblò è aperto, quello spiffero d’aria
frizzante mi aiuta a tenere a bada il senso di claustrofobia, nonostante il
rumore delle onde che sbattono sullo scafo sia inquietante cerco di controllare
la paura ed anche il respiro, riesco a superare il momento critico senza cader
vittima del mal di mare e dopo diverso tempo mi riaddormento.
Alle
6, ancorata la barca, sono la prima a salire sul ponte e una boccata d’aria
fresca davanti al sole che sorge e tinge le nuvole di rosa riporta il mio
stomaco alla normalità.
Española,
situata a sud-ovest dell’arcipelago, è la più meridionale delle isole ed
anche una delle più belle, ha una superficie di 61 kmq ed è completamente
disabitata, dista circa 10 ore di barca da Puerto Ayora (Santa Cruz).
Gli
esperti concordano nel dire che è la più interessante per l’osservazione
degli uccelli. E’ l’unico posto al mondo dove si riproducono gli albatros
delle Galàpagos.
Alle
7,30 campanella… scarpe… chaleco… gommone… sbarco (asciutto) a Punta
Suarez, un promontorio roccioso che cela una spiaggetta di sabbia chiara, nella
antistante piccola baia dall’acqua calma e trasparente decine di leoni marini
grandi e piccini nuotano, compiono salti, piroette, movimenti agili ed eleganti:
uno spettacolo per gli occhi ed una pillola di ottimismo per il nostro umore più
volte messo a dura prova.
Due
sule piedi azzurri posate su una lapide di pietra sembrano messe lì in bella
mostra per dare il benvenuto ai visitatori.
Ci
incamminiamo seguendo il sentiero che si sviluppa su una falesia di roccia
vulcanica, ovunque vediamo iguane marine che, distese sui massi, si crogiolano
al sole, otarie, granchi rossi e una discreta quantità di uccelli tra i quali
predominano bellissime sule mascherate (dalla livrea bianca e nera con una zona
di pelle nuda e nerastra che circonda il becco giallo e che ricorda appunto una
maschera), gabbiani codadirondine (unico uccello che caccia durante la notte),
fringuelli, gabbiani e diversi altri uccelletti che se paragonati alle splendide
sule dalla “maschera” nera o a quelle con le “pinne” azzurre appaiono
insignificanti.
Un
serpente lungo e sottile, innocuo per noi, ma pericoloso costrittore per gli
animali di piccola taglia ci attraversa la strada.
Facciamo
varie soste per ammirare e fotografare le diverse specie di animali e volatili e
per godere di begli scorci panoramici scendendo in diverse calette o dall’alto
della scogliera battuta dalle onde dell’oceano dove l’acqua si infrange,
penetra in alcune fenditure uscendone sotto forma di alti spruzzi.
Il
sentiero prosegue all’interno, attraversando l’isola, questa parte della
camminata non riserva grandi emozioni, possiamo però constatare che gli
arbusti, in prevalenza spogli, stanno germogliando e le piante più esposte alla
luce cominciano a ricoprirsi, più velocemente di quelle rivolte a nord, di
nuove e verdi foglioline.
Il
caldo non da tregua, sarebbe bello potersi tuffare nella piccola baia dove
nuotano le otarie, ma non è consentito. Concludiamo il giro ad anello
esattamente nello stesso punto in cui siamo sbarcati e salutiamo i leoni di mare
più in fretta di quel che vorremmo.
Lasciamo
il luogo seguiti dalle fregate che, come sempre, scortano la barca.
Il
capitano da ordine di gettare l’ancora di fronte ad una lunga, meravigliosa,
spiaggia di sabbia candida dove bivaccano centinaia di leoni marini.
I
colori del mare, con il fondale sabbioso, assumono tutte le sfumature del
turchese.
Sbarchiamo
sulla spiaggia di Gardner Bay che per un paio d’ore sarà esclusivamente
“nostra”, la percorriamo in tutta la sua lunghezza fermandoci ad osservare i
diversi gruppi di leoni marini impegnati in attività variabili dal pigro
spostarsi all’asciutto man mano che la marea sale e piccole onde li investono
all’allattamento dei cuccioli, dalle lotte dei maschi che scacciano i rivali
ai piccoletti che giocano azzuffandosi goffamente e così via.
Stiliamo
la graduatoria del cucciolo più piccolo meravigliandoci di continuo perché
dopo quello che a noi pare l’ultimo nato ce n’è sempre uno ancora più
piccino, ma dopo aver percorso l’intera spiaggia, soddisfatti e senza più
dubbi, possiamo finalmente decretare il vincitore: si tratta di un tenerissimo
esemplare con la pelliccia rugosa, pieghettata, vuota, ancora troppo grande, che
presto di riempirà di carne.
Avvertenza
importante:
Mentre le
femmine ed i piccoli sono assolutamente inoffensivi, i grossi maschi possono
essere molto pericolosi; l’unico momento in cui anche le femmine sono
aggressive è nel periodo che segue il parto, quando non permettono a nessuno di
avvicinarsi al piccolo. Madri e figli si riconoscono attraverso il suono della
voce e attraverso l’odore. Per questo I VISITATORI NON DEVONO MAI E POI MAI
TOCCARE I PICCOLI DI OTARIA: l’odore delle creme solari, insetticidi, profumi
impedisce alla madre di riconoscere il figlio, che viene respinto e lasciato
morire di fame. E’ terribile vederne i cadaverini sulle spiagge.
Si
salpa diretti verso nord-est, la nostra prossima meta è Isla San Cristobal.
Puerto Baquerizo Moreno è la cittadina principale dell’isola nonché capitale
politica della Provincia delle Galàpagos.
Durante
la navigazione perdiamo una grossa tanica di plastica che guida ed equipaggio
– tempestivamente informati dell’accaduto – non si curano di recuperare…
mentre ci allontaniamo dal “corpo del reato” galleggiante il nostro
scetticismo sulla serietà di questo equipaggio così poco rispettoso della
natura subisce un ulteriore picco.
Il
porto della cittadina è affollato di barche, trascorreremo la notte qui
ormeggiati, quindi sbarco serale.
Prima
di partire non avremmo mai immaginato di dover passare diverse serate in città,
dai resoconti di altri viaggiatori si sarebbe detto che le barche compiono
lunghi spostamenti a partire dall’ultima escursione giornaliera proseguendo la
navigazione nel corso della notte; per noi la realtà è ben differente,
viaggiamo molto poco, le isole incluse nel nostro itinerario sono solo 4,
pensavamo che almeno su tutte si potessero vedere meraviglie come quelle delle
due escursioni odierne, ma non è andata così. Al di là di queste
considerazioni ci godiamo lo sbarco come momento di libertà: 2 ore senza
l’obbligo di sottostare a ferrei ordini e senza gli sguardi truci e le
angherie di Pol Pot - come dice una nota pubblicità - non hanno prezzo!
Dopo
aver fatto un giro per negozi e gustato un ottimo batido (frullato) di frutta
fresca ci fermiamo a lungo sul Malecon (lungomare) ad osservare un’otaria
adagiata su un muretto di cemento ed un cucciolo che succhia rumorosamente il
latte attaccandosi ad ognuno dei 4 capezzoli alternandoli a seconda della
posizione per lui più comoda. Nel silenzio notturno il rumore della poppata
sembra amplificato, lasciamo la coppia di leoni marini a malincuore, il gommone
ci aspetta per riportarci sulla barca.
27
gennaio 09 – martedì
Con
Floreana ferma in porto sono riuscita a dormire tutta la notte, al risveglio mi
sento decisamente in forma e riposata.
Alle
8 sbarchiamo in città per visitare il Centro de Interpretacion. Essendo già
stati in escursione alla Stazione Scientifica C. Darwin
(Puerto Ayora, Isla Santa Cruz), questa seconda e molto simile tappa
culturale ci indispone, la riteniamo una grossa perdita di tempo considerato
anche che siamo costretti a stare qui e nei paraggi per la bellezza di 4 ore e
mezza.
Non
c’è alcuna possibilità di cambiare programma, ci sottoponiamo malvolentieri
alle noiose spiegazioni di Victor che non racconta nulla di nuovo rispetto a
quanto già sentito 3 giorni fa e letto, riletto, straletto - e ormai
memorizzato - su guide, libri, riviste, pubblicazioni.
Il
livello di insofferenza raggiunge l’apice quando Pol Pot ripete per ben due
volte consecutive la stessa storia in spagnolo dimenticando invece di fare la
traduzione in inglese per i due ragazzi londinesi che fanno parte del nostro
gruppo.
Quando
finalmente Victor decide di farla finita con questa manfrina e si congeda,
scappiamo dal Centro senza più curarci di terminare il percorso didattico.
Percorrendo
un sentiero immerso nella vegetazione raggiungiamo una spiaggia ed un
promontorio roccioso sulla cui sommità si erge un faro.
Sugli scogli dimorano leoni marini, iguane e alcune sule piedi azzurri.
Prima
di tornare in porto e di risalire su Floreana, contravvenendo alla nostra
abitudine di non consumare mai nulla poco prima di un pasto, facciamo una sosta
sotto il pergolato di un baretto concedendoci una generosa razione di patate
fritte con rondelle di würstel ed un frullato alla frutta, così – per una
volta – non proveremo tristezza davanti al “buffet” di bordo.
Da
Puerto Baquerizo Moreno ci spostiamo seguendo la costa occidentale di San
Cristobal, in breve raggiungiamo Isla Lobos.
L’ancora
viene gettata in uno stretto canale che separa la costa dall’isolotto che
ospita uccelli e leoni marini.
Mentre
attendiamo di sbarcare, un marinaio lava i gommoni e la fiancata della barca
gettando secchi d’acqua saponata incurante della chiazza schiumosa e dei
residui di detersivo che si espandono in un tratto di mare dove nuotano le
otarie e dove i turisti fanno snorkelling… non c’è mai limite al peggio,
pensiamo sempre più sconcertati.
Campanella…
scarpe… chaleco… gommone… sbarco… i leoni marini occupano il molo,
dobbiamo attendere che si spostino o si tuffino in mare prima di poter passare.
Ci
troviamo su un isolotto lungo e stretto, una striscia di terra brulla con
qualche basso cespuglio dove si celano le otarie. Prima ancora di vederle ne
percepiamo il caratteristico odore molto forte e penetrante.
Le
iguane marine qui sono più piccole e scure, fatichiamo a distinguerle sulle
rocce laviche.
Osserviamo
da vicinissimo una stupenda coppia di sule piedi azzurri con un piccolo dal
piumino bianco che svolazza tanto è morbido e delicato.
Proseguendo
incontriamo un cucciolo di leone marino probabilmente orfano e ferito, fa male
al cuore constatare che nessuna femmina è disposta ad accoglierlo. Il piccolo
leone marino si avvicina ad ognuna cercando di attaccarsi ai capezzoli, ma viene
ripetutamente scacciato. Il suo richiamo è straziante, è evidente che avrà
vita breve, tra qualche giorno altri turisti troveranno il suo cadaverino
abbandonato vicino ad un masso o in mezzo al sentiero.
La
selezione naturale è una legge senza deroghe: sopravvive solo il più forte!
Questo
isolotto anche se piccolo ci gratifica con scene bellissime, ma la fretta della
guida nel richiamare il gommone, caricarci sopra e riportarci sulla barca rompe
l’incantesimo e mi procura l’ennesima insoddisfazione. Meno di un’ora a
terra, a metà del pomeriggio, in un contesto pieno di animali, è davvero poca
cosa, non si ha il tempo di osservarli e di aspettare il momento giusto per un
buono scatto fotografico.
Stanca
di subire chiedo il motivo di tanta furia e da qui alla discussione animata il
passo è breve.
E’
evidente che Victor sarebbe più adatto a prestare servizio in una caserma, in
un carcere, in un lager… sarebbe stata sufficiente una concessione di pochi
minuti, il tempo di immortalare i pellicani e diverse otarie che dagli scogli si
tuffavano in acqua per poi risalirvi con estrema agilità in un carosello di
spruzzi, richiami e scene davvero straordinarie.
La
lite si fa tanto accesa al punto che – una volta risaliti su Floreana –
interviene il Capitano.
Victor
si dilegua, continuiamo la discussione con quest’ultimo che parte seccato ma
dopo aver ascoltato le nostre motivazioni si dimostra più conciliante, i toni
pian piano si smorzano. Al termine del battibecco, per porre rimedio e per
sedare il nostro malcontento, il Capitano ci concede una deviazione, anziché
tornare in porto (a sud dell’isola) ci spingiamo ancora più a nord sino a
raggiungere il Leon Dormido, un massiccio roccioso che da lontano sembra poco più
di uno scoglio.
Il
mare è piatto come una tavola, è l’ora del tramonto, la prua è rivolta
verso il Leon Dormido (così chiamato perché ha le sembianze di un leone marino
che dorme), a poppa l’orizzonte con il sole che sta calando in mare, sopra di
noi il cielo è terso, solo poche soffici nuvolette, come quelle dei fumetti,
che si tingono di tutta la gamma cromatica che va dal rosa all’arancio.
La
scena già così è perfetta, ma - come spesso accade – la natura ha in serbo
grandi e straordinarie sorprese.
Sono
rivolta a prua, sto ancora meditando sui malumori, le discussioni, il bilancio
di questa porzione di vacanza, le lacrime mi rigano il viso ed il cuore è colmo
di amarezza perché sono convinta che un po’ di fortuna in più e con una
guida meno caratteriale tutto sarebbe potuto andare meglio. All’improvviso un
profilo scuro ed un alto spruzzo d’acqua catturano la mia attenzione
riportando i miei pensieri al presente.
Non
è, questa, stagione per avvistare le balene, ma quello spruzzo è
inconfondibile, mentre, poco convinta, cerco di scartare l’ipotesi che si
tratti davvero di una balena, il fischio della sirena ed il grido “whale”
(balena) confermano che ho visto giusto.
L’eccitazione
è alta, seguiamo la scia del cetaceo che riemerge altre volte.
Per
non perdere una sola frazione di secondo dell’intera scena rinuncio alle
fotografie mettendo in azione la memoria visiva che cattura più volte
l’immagine dell’enorme dorso della balena con la pinna soprastante e, per
finire, l’ultimo altissimo spruzzo d’acqua.
Seguendo
le scie e le sagome scure ho l’impressione che le balene siano due, ma non ne
ho la certezza perché ne vediamo emergere sempre e solo una per volta.
Più
tardi il capitano ci confermerà che le balene erano realmente due e che è un
fatto eccezionale trovarle ancora qui in questo periodo.
Il
sole scompare all’orizzonte, alle nostre spalle, e di fronte quello che da
lontano sembrava uno scoglio si rivela un roccione enorme, una montagna dalle
pareti verticali alte fino a 400 metri con una fenditura all’estremità
orientale che lo attraversa interamente. Uno spettacolo senza eguali, da
togliere il respiro per la bellezza, per l’imponenza, il tutto impreziosito
dai colori di uno splendido tramonto.
Di
fronte a tanta magnificenza la mia tristezza si dissolve, assaporo questi minuti
di felicità allo stato puro con la certezza che alla parola “Galàpagos”
assocerò questa sequenza di immagini.
Ci
portiamo sull’altro lato dell’imponente massiccio, sullo sfondo il cielo è
ancora arrossato dagli ultimi bagliori del tramonto, le nuvole ora hanno un
colore blu notte.
E
quale ultima grande emozione, il capitano da ordine di passare nello stretto e
lungo canale, la barca scivola nell’angusto passaggio tra due pareti verticali
di roccia che ammiriamo naso all’insù mentre il suono della sirena riecheggia
nell’aria.
Seconda
serata a Puerto Baquerizo Moreno e relativo sbarco dopo cena.
Ci
sediamo su un muretto che delimita la spiaggia ed osserviamo il comportamento
dei leoni marini, le lotte di due grossi maschi impegnati a difendere il proprio
territorio ed il proprio “harem”, un cuccioletto strillante alla ricerca
della madre ed i tentativi di conquista di un posto nel mucchio da parte degli
esemplari appena usciti dall’acqua.
Ci
sono attimi di assoluta calma in cui tutti i leoni marini sembrano ben
accomodati, silenziosi e sprofondati nel sonno, poi, in breve, alla prima
scaramuccia, si scatena il pandemonio, si sentono versi acuti, si vedono
movimenti convulsi e otarie che si scavalcano, si spostano, si spintonano… poi
la calma e di nuovo il caos… una sequenza che si ripete all’infinito.
28
gennaio 09 – mercoledì
Durante
la notte ci siamo spostati a Santa Fè, piccola isola disabitata ad est di Santa
Cruz, stiamo gradualmente facendo ritorno al punto di partenza.
Al
nostro risveglio la barca è già ancorata in una baia dall’acqua
trasparentissima, attorno allo scafo nuotano tartarughe, leoni marini, razze e
pesci di diverse dimensioni e colori.
Sbarco
bagnato. Il sentiero che percorriamo è ripido, si inerpica su una pietraia, tra
la vegetazione bassa e secca scorgiamo tre iguane, una delle quali sembra
indossare una tuta mimetica, la sua pelle squamosa ha esattamente gli stessi
colori e macchie irregolari.
Tra
i sassi si nascondono due topi… saranno pure endemici, ma non riscuotono
grande successo, non valgono certamente la sudata e la faticaccia di questa
scarpinata infruttuosa.
Sommiamo
così un altro bidone ai precedenti, è inevitabile domandarsi se anche sulle
restanti isole dell’arcipelago ci siano luoghi altrettanto privi di attrattive
e quanta responsabilità hanno i Capitani nella scelta di sbarcare in un luogo
piuttosto che in un altro, di visitare un’isola al posto di altre e così via.
La
navigazione nel tratto di mare che separa l’isola di Santa Fè dalla costa
orientale di Santa Cruz ci offre la visione delle sempre affascinanti fregate
che volteggiano sopra di noi e le piroette di enormi mante che compiono, fuori
dall’acqua, salti altissimi roteando su se stesse.
Ancora
una volta la natura generosa ci ripaga di tanti disagi. E’ commovente,
sentiamo il suo affetto quasi a fior di pelle, come se l’oceano e il cielo si
sentissero in dovere di porre rimedio alle infelici scelte delle persone che per
questo viaggio hanno incassato parecchi quattrini offrendo molto poco.
Alle
14, raggiunte le isole Plaza, sbarchiamo sull’isolotto meridionale (Plaza
Sur), un lembo di terra lungo e stretto dove crescono splendidi cactus giganti,
ora fioriti. Il suolo ricoperto da muschio rosso, il cielo terso e azzurro
unitamente al colore blu del mare profondo conferiscono all’insieme uno
straordinario effetto cartolina.
Quest’ultimo,
fortunatamente, è uno dei luoghi che da solo vale il viaggio e non solo
paesaggisticamente.
L’isola
è abitata da una nutrita colonia di leoni marini, molti dei quali occupano il
molo.
Per
scendere dal gommone è infatti necessario battere le mani e fare un bel po’
di rumore.
Il
non timore di questi animali nei confronti dell’uomo è divertente, occorre
insistere parecchio perché si facciano più in là, che spasso vederli
indifferenti ai nostri ripetuti tentativi di farli spostare.
L’acqua
del mare è un fermento di “proiettili” scuri (altre otarie) che guizzano
agili e veloci, sembra tutto un gioco, c’è chi si tuffa, chi riguadagna un
posto al sole, chi si stiracchia, chi si rincorre, chi strilla, chi si azzuffa.
Qui
abbondano anche le iguane di terra, ai piedi di ogni cactus se ne trova sempre
almeno una.
L’altro
lato dell’isola è caratterizzato da un’alta falesia che richiama un certo
numero di volatili.
L’estremità
orientale è totalmente priva di vegetazione, il suolo è “piastrellato” da
enormi blocchi di roccia bianca lucidati e levigati dal continuo passaggio dei
leoni marini.
Sono
catturata dalla bellezza di questo luogo e concentrata nello scattare una
fotografia quando sento la voce rabbiosa di Victor, senza neppure girarmi posso
indovinare verso chi è indirizzata l’ennesima, inopportuna, sfuriata… è
patetico! La sua perseveranza, depurata da cattiveria e negatività, potrebbe
essere encomiabile.
Riprendiamo
la navigazione, raggiunto il canale che separa Santa Cruz da Baltra ci fermiamo
per trascorrervi l’ultima notte.
Dopo il tramonto
osserviamo ciò che avviene attorno alla barca.
Le zanzare, in
questo approdo non molto distante da una laguna bordeggiata da mangrovie, sono
fameliche, ma riusciamo a tenerle a bada con una generosa dose di repellente
(provvidenziale OFF!).
Assistiamo al passaggio di alcuni grossi squali, di pesci saltanti che corrono
come saette sul filo dell'acqua inseguiti dai leoni marini e ad un fenomeno che,
in assenza di una spiegazione, ci pare ultraterreno.
Nell'acqua scura si materializza all'improvviso una larga scia luminosa che –
silenziosa - avanza, si muove sinuosa, scende in profondità, risale e continua
il suo percorso sino a circondare la barca, siamo ammaliati da tale spettacolo
pur senza conoscerne l'origine.
L'indomani Xavier
(simpatico conducente dei gommoni utilizzati per gli sbarchi) ci spiega che si
tratta di enormi banchi di pesci che si muovono compatti la cui fluorescenza
spicca nel buio.
29
gennaio 09 – giovedì
E’
proprio vero che ci si abitua anche alle sistemazioni più anguste, ho dormito
un sonno tranquillo nella mia cuccetta, che ormai mi sembra famigliare,
accogliente, quella stessa nicchia che il primo giorno mi era parsa tanto
opprimente al punto che ho seriamente pensato di dormire sul ponte coperto.
Siamo
al termine della crociera, ci aspetta un’ultima escursione, poi lo sbarco
definitivo a Baltra ed il trasferimento in bus verso l’aeroporto.
Con
il gommone, senza scendere, quindi una variante… campanella… chaleco…
gommone… visitiamo Caleta Tortuga Negra, un’ampia porzione di mare
dall’acqua trasparente, color verde smeraldo, circondata da mangrovie.
Stupenda baia scelta dalle tartarughe per l’accoppiamento, ne vediamo molte,
giganti, che nuotano a pelo d’acqua e due in fase di corteggiamento.
Nella
laguna nuotano anche piccoli squali (di lunghezza inferiore al metro), grossi
pesci ed eleganti e flessuose aquile di mare.
All’imbocco
di un canale naturale che penetra in una galleria di mangrovie, una tartaruga,
uno squalo ed un’aquila di mare sembrano giocare a rincorrersi.
Sugli
scogli affioranti, sule piedi azzurri, aironi ed altri volatili paiono intenti
ad osservare la vita che si svolge tutto attorno.
Se
non ci fossero formazioni di agguerrite zanzare si potrebbe pensare a questo
luogo come ad un distaccamento dell’Eden, ancora una volta il repellente ci
risparmia un sacco di noie.
Victor
sta ritto sulla punta del gommone, sorridiamo nell’immaginare che al posto del
remo abbia in mano un fucile mitragliatore, siamo sempre più convinti che, nel
ruolo di guida, si sia improvvisato, spesso e volentieri, tanto è preso dalla
parte di primadonna, gli sfuggono importanti avvistamenti.
Torniamo
per l’ultima volta su Floreana, ancora una mezz’ora di navigazione ed il
soggiorno alle Galàpagos si conclude con un tris di grossi squali che girano
attorno alla barca quasi volessero porgerci i saluti finali o “sbranare gli
italiani” come mormora Victor.
Campanella…
scarpe… chaleco… gommone… al momento dello sbarco provo sollievo e rabbia
nello stesso tempo, non è così che doveva andare, avrei dovuto sentirmi
malinconica nel lasciare un arcipelago famoso ed apprezzato per la sua ricchezza
naturale, invece provo un immenso senso di liberazione da una situazione di
costrizione e disagio e quando Victor, in aeroporto, passa oltre senza salutare
e senza degnarci di uno sguardo penso con tristezza alla sorte dei prossimi
passeggeri che avranno la sciagura di viaggiare con lui.
La
seguente frase contenuta nella guida Polaris suona ora tanto bruciante e amara:
Un elemento
importante è la guida: sarebbe un peccato trovarne una poco competente. Le
guide sono classificate secondo tre livelli (il terzo è il più alto) a seconda
delle loro competenze scientifiche e della loro conoscenza dell’inglese.
In
realtà è soprattutto questione di fortuna.
Dopo
diverse ore di attesa in aeroporto, uno scalo a Guayaquil e due voli giungiamo a
Quito.
L’hotel
Patio Andaluz ora ci sembra ancora più bello e l’elegante suite disposta su
due piani ci pare irreale, tanto spazio privato dopo la promiscuità di Floreana
ci mette di buonumore anche se il clima non è dei migliori, tanto per cambiare
piove.
Per
recuperare la settimana di dieta forzata scegliamo di consumare la cena in uno
dei migliori ristoranti della città coloniale: Hasta la Vuelta, Señor.
Assaggiamo
la famosa empanada de viento: un frittellone gonfio ripieno di formaggio che al
momento del taglio sprizza vapore, ottimo al gusto e singolare il nome che
descrive esattamente il suo contenuto.
Passiamo
poi al “plato fuerte”: carne per Sandro, per me gamberoni alla griglia
accompagnati da purè di patate e per finire in bellezza mousse di maracuja e
mousse di limone.
30
gennaio 09 – venerdì
Trascorriamo
l’ultimo nostro giorno di vacanza a Papallacta, villaggio termale a circa 70
km a est di Quito. La giornata fredda e nuvolosa non invita a spogliarsi, ma
superata la ritrosia iniziale ci immergiamo velocemente nella prima vasca
d’acqua calda, possiamo così concentrarci meglio sul panorama: ci troviamo al
centro di una scenografica conca situata a 3.250 m di quota interamente
circondata da splendide montagne dalle pendici fittamente vegetate.
Dopo
esserci cotti a puntino ci spostiamo da una vasca all’altra con acqua più o
meno calda, osiamo poi bagnare i piedi nella vasca d’acqua gelida, ma il
dolore provocato dal freddo ci fa desistere.
Mi
rituffo nell’acqua calda e ci resto immersa fino a provarne fastidio, sento a
quel punto di desiderare un po’ di fresco, riesco allora ad immergermi
completamente nell’acqua gelida, solo per qualche secondo, ma non sento più
alcun dolore, anzi ne traggo beneficio.
Scopro
così, per caso, la “vichinga” che è in me e trovo molto divertente passare
dal caldo al freddo resistendo nell’acqua gelida sempre qualche secondo in più.
Rilassati
e con la pelle ammorbidita torniamo a Quito per un pomeriggio di shopping e
visita della città senza un itinerario fisso e senza una mappa, guidati solo
dalla voglia di raggiungere un certo edificio scorto da lontano o di entrare in
una chiesa senza neppure conoscerne il nome solo perché attratti dai decori
intravisti attraverso un portone spalancato o per curiosare in un cortile.
Camminiamo
per ore superando interi isolati, ciascuno dedicato ad una precisa attività o
tipologia di prodotto. Troviamo pertanto raccolti in poche centinaia di metri
tutti i venditori di piastrelle, sanitari e materiale per edilizia, poi è la
volta delle botteghe di oreficeria, segue la zona dei venditori di calzature e
articoli in pelle e cuoio, dei commercianti di addobbi per torte di ogni tipo e
biglietti augurali per qualsiasi ricorrenza, il settore degli artigiani e così
via per i vari gruppi di merci.
Spesso
piove, ma la città coloniale è ricca di portici, non è difficile trovare un
riparo.
Raggiungiamo,
sulla sommità di una collina, l’imponente Basilica neogotica del Voto
Nacional con alte torri ed una cornice con scolpiti piante ed animali (iguane,
tartarughe, etc.) tipici dell’Ecuador. Sostiamo a lungo all’interno, non
tanto per fervore religioso, ma per riprendere fiato dopo la faticosa salita.
Concludiamo
la serata sotto le basse volte di mattoni del ristorante Cafè Quiteño Libre
che si trova nello stesso cortiletto dell’hotel S. Francisco, un posticino
molto grazioso con un’ottima cucina.
Ci
incamminiamo verso il nostro albergo ammirando per l’ultima volta gli antichi
palazzi illuminati e le piazze deserte.
Termina
qui questo viaggio dal sapore dolce e amaro che non ha lasciato, come i
precedenti, un profondo “solco” nei nostri cuori.
Daniela danielabellan@hotmail.com
viaggio Ecuador Galapagos