Diario di viaggio La Habana, estate 2004[1]
Nell’
estate del 2004, mi sentivo oramai pronto per il primo viaggio transoceanico.
L’idea era quella di partire per il Venezuela. E’ proprio questo mio
proposito mi fa entrare in contatto con Michele di viaggiareliberi.it. Infatti
cercando su Google, informazioni su questo paese scopro il suo sito.
Dopo una ricerca di
informazioni e varie valutazioni su costi e opportunità, decido, d’accordo
con Fabrizio di Milano, di cambiare meta e di andare a Cuba.
Trovo
un ottimo biglietto in offerta presso un’agenzia di Roma[2], che mi permette di
risparmiare circa 300 € sul costo del biglietto.
Così prendo contatti
con Michele e i suoi collaboratori, che mi rispondono in tanti, dandomi notizie
e suggerimenti per il mio oramai imminente viaggio.
Scopro così che il
soggiorno migliore qualitativamente ed anche economicamente è nelle casas
particulares. Capisco che non è difficile trovarne una e decido così di
non acquistare null’altro oltre il biglietto aereo.
Partenza da Roma per
La Habana con scalo a Madrid. Prezzo del volo 950€ in alta stagione (31
luglio-12 agosto).
Arriviamo a Cuba circa
alle 21.00 ora locale. Il tempo di prendere i bagagli e alle 22.00 siamo sul
taxi che ci porterà presso la casa di una persona a Villa Panamericana, che
conosce un mio amico di Napoli. Il tassista ci chiede 30$, sappiamo che è molto
più di quanto costa in realtà, ma siamo troppo stanchi per metterci a
contrattare e decidiamo di accettare.
L’impatto con la
periferia dell’ Habana non è bellissimo, non è rassicurante per chi arriva
da lontano e non è mai stato nell’ America latina. Si vedono agglomerati di
case popolari, immerse nella natura selvaggia dell’ isola e uomini e donne
tanto diversi da noi che camminano numerosi per la strada.
Arrivati a Villa
Panamericana, ci accorgiamo di essere capitati molto fuori mano dal centro della
città. Decidiamo di desistere e chiediamo al tassista se conosce qualche casa
particular in centro.
Passiamo in macchina
per strade affollate di giovani che passano la serata vicino al mare. Facciamo
il giro di numerosissime case. Ognuno ci indirizza da qualcun altro e così via
per un’oretta fino a quando troviamo finalmente sistemazione a casa Acela[3].
Acela è una donna
cubana 58enne (lo scopriremo solo quando ce lo dirà, poiché ne dimostra almeno
una decina in meno), di razza nera, simpatica e materna.
Ci rassicura, insieme
con la sua amica Mercedes, che si trova lì a casa sua, che siamo capitati in
una buona famiglia e che possiamo stare tranquilli e riposarci: “Aquì
no se perde nada”. Mi capiterà, durante la vacanza, di lasciare a casa
sua il portafoglio anche con tanti soldi e nessuno toccherà mai niente. Ci
mostra la nostra stanza e ci indica un posto lì vicino dove possiamo andare a
mangiare qualcosa.
La casa di Acela è un
appartamento composto da cucina, salotto, bagno e due camere da letto
matrimoniali con bagno indipendente che affitta ai turisti per 30$ a notte. Ci
mettiamo d’accordo anche per fare colazione e cenare lì. Potevamo scegliere
tra una colazione di 3$ e una di 5$. La prima era la classica colazione latte,
pane, caffè e marmellata. La seconda invece prevedeva anche due uova
strapazzate, un paio di fette di salumi, formaggio, un po’ di insalata, oltre
a latte, caffè, pane, burro, marmellata, frutta, succhi di frutta tropicali
ecc.ecc. Insomma, scegliamo la seconda opzione e vi assicuro che stavamo più
che bene fino alla sera. Per la sera la cena costava 10$ oppure 12$, nel caso in
cui volessimo l’aragosta. Ma la cena era abbondantissima. Mangiavamo in due
persone, ma avremmo potuto fare tranquillamente in cinque, e difatti dopo di
noi, con ciò che avanzava cenavano anche Acela e la sua famiglia. C’era ogni
sera riso, preparato in vari modi, zuppa di fagioli, insalata fatta con i più
disparati ortaggi, aragosta (al sugo, o a
la plancia), o gamberoni, o pesce imbottito, mariquitas
(banane fritte), pane, frutta, dolce, postre
(una sorta di marmellata accompagnata da fettine di formaggio) caffè e ron
cubano. Una sera ho cucinato personalmente gli spaghetti col sugo dell’
aragosta. Acela pensava che mi piacesse molto il budino, che in realtà mi
disgustava anche un po’. Ma era così contenta di prepararmelo che facevo
finta di esserne ghiotto.
Proseguendo il
racconto, traccerò man mano i ritratti di alcune delle persone che ho
conosciuto e dei loro racconti, che al mio ritorno mi hanno reso tanto più
ricco.
La vita di Acela non
poteva dirsi una vita facile. Certo, rispetto agli altri cubani aveva un tenore
di vita discreto grazie al lavoro che faceva. Poteva permettersi di avere un
frigorifero e un televisore, ma la notte dormiva su un divano nell’ ingresso
quando aveva entrambe le camere occupate.
Sua figlia era
scappata a Miami insieme con suo marito e aveva avuto lì una bambina. Acela
conservava gelosamente le foto di sua nipote, che non aveva mai conosciuto, e ne
lodava la bellezza e la giovinezza, soffriva guardando le foto dei suoi parenti
lontani, che non avrebbe mai più potuto rivedere, piangendo in maniera così
composta che un osservatore poco attento avrebbe potuto credere che si trattasse
di un banale malumore.
Il figlio di Acela,
sposato, viveva ancora a La Habana, ma era ammalato di quella depressione che
colpisce tanti dei giovani cubani, che non hanno granchè da fare durante il
giorno, non trovano un senso alla loro vita e si alienano dal mondo esterno.
C’è chi reagisce così, soffrendo, e chi sta psicologicamente benissimo, dato
che i bisogni del corpo, come il cibo e i vestiti, sono più grandi di quelli
della mente e li annebbiano. Ad ogni modo, egli era in cura psichiatrica per
curare i mali che affliggevano la sua mente.
Insieme a noi, non
dormivano lì, ma c’erano sempre, vivevano tante persone. C’era la figlia
della sorella di Acela, la zia, e tante amiche. In una commistione e in una
pacifica convivenza di razze.
La cugina di Acela,
una signora sulla cinquantina, molto bella, era un avvocato. Non aveva potuto
svolgere la sua professione perché il governo aveva bisogno di un soldato e lei
andò a fare il soldato. Era un’accanita sostenitrice di Castro, era convinta
che Cuba fosse il paese più bello del mondo, il posto più felice della terra e
con il migliore governo. Non c’era verso di farle notare che in un sistema
liberale avrebbe potuto fare il lavoro per il quale aveva studiato. Cuba per lei
aveva una dignità tale da farle accettare qualsiasi sacrificio. Proprio nei
mesi in cui eravamo lì, era stato scoperta una piccola riserva di petrolio. Lei
riteneva che, una volta iniziata l’ estrazione e la commercializzazione del
petrolio, Cuba sarebbe diventato il paradiso in terra. Qualche giorno dopo suo
marito doveva operarsi al cuore, ma l’operazione era stata rimandata perché
non erano disponibili alcune strumentazioni necessarie all’ intervento.
Qualcuno dei suoi parenti le fece notare che non era una gran cosa avere una
sanità gratuita quando questa è inefficiente. Lei riteneva che lo fosse.
Comunque stiano le cose, quel giorno ho capito che esiste davvero chi crede
fortemente allo spirito della rivoluzione e lo sostiene.
Il primo risveglio
all’ Habana fu segnato da quell’ odore di benzina assordante che fuoriesce
da automobili vecchie e maltenute, ma affascinanti e suggestive.
Una passeggiata per la
città per ambientarci un po’, conosciamo un po’ di gente, in tanti ci
chiedono qualche dollaro in cambio della loro guida e cose del genere. Il sole
è così forte che mi provoco una spellatura sulle spalle per una camminata in
città di una mezz’oretta. Il malecon, così
i cubani chiamano il lungomare dell’ Habana, è uno spettacolo bellissimo. Una
lunga striscia di mare che contorna la città che regala splendore e malinconia
allo stesso tempo
Decidiamo di andare al
mare. Il posto più vicino è la playa del
Tropicoco, chiamata così poiché si trova di fronte ad un grande albergo
blu, appunto il Tropicoco.
Per arrivare alla
spiaggia bisogna passare el tunel una
piccola galleria che apre le porte di una strada extraurbana dalla quale è
possibile iniziare a viaggiare per le più disparate località dell’isola.
Si tratta di una
spiaggia abbastanza attrezzata, con baretti sulla spiaggia, venditori di cocco
corretto al rum, tante persone, tanti giovani italiani e tanti cubani.
Rimango incantato
dalla sabbia soffice, fina, bianca e pulita e penso all’immondizia della
spiaggia di Misero (NA), dove qualche settimana prima ero andato a prendere il
sole. Mi viene da pensare che sto vedendo il mare per la prima volta, quello che
avevo visto fino ad allora ne era un misero surrogato.
Un poliziotto si
avvicina, ci domanda se siamo arrivati da poco, si presenta e ci stringe la
mano. Ci raccomanda di tenere gli occhi aperti e di non portare il passaporto
con noi quando andiamo in giro, poiché ci sono numerosi borseggiatori. Ci
rassicura sul fatto che la polizia non farà su di noi nessun controllo e ci
dice di non esitare a chiamarlo se mai dovessimo avere qualche problema.
Ci sono suonatori
cubani che rallegrano l’ atmosfera e a rendere surreale anche le percezioni
delle orecchie oltre che degli occhi.
Conosciamo alcuni
ragazzi di Napoli, anche loro lì in vacanza, i quali ci parlano entusiasti
della vita habanera. Trascorriamo una
bella giornata in spiaggia.
Una delle cose che più
mi ha colpito è stato vedere i bambini bianchi e i bambini neri bagnarsi nelle
stesse acque e costruire con le loro mani lo stesso castello di sabbia. Mi sono
emozionato, non lo avevo mai visto e non pensavo fosse così bello.
Per tornare a casa,
prendiamo un taxi. Il conducente è un uomo di mezz’età, ci racconta anche
lui della difficoltà di sbarcare il lunario, ci dice che ha due figli ai quali
può garantire giusto lo stretto necessario per sopravvivere. Il taxi non è
suo, è dello Stato, lui va in bicicletta al garage, ma è contento del suo
lavoro perché gli permette di arrotondare con le mance.
Ci parla di Fidel e
della rivoluzione. Ci dice che i giovani non sono contenti poiché vedono
ragazzi di altri paesi della stessa età, che vanno a Cuba in vacanza, che
possono permettersi di avere tanti abiti e tante scarpe, che possono uscire
tutte le sere, che possono mangiare quanto gli pare e andarsene in giro per il
mondo. Le persone della sua generazione, al contrario, pur essendo coscienti di
non essere il popolo più agiato della terra e che qualcosa potrebbe farsi per
migliorare la propria situazione, apprezzano molto il lavoro di Castro. Ci dice
che i giovani parlano così perché “no
saben lo que el ha hecho”. Ci racconta che prima della rivoluzione per una
visita medica si pagavano 200$, cifra che nessuno aveva, e tutti erano costretti
a lasciarsi morire poiché non potevano pagarsi le cure mediche; che tanti
cubani dormivano sotto i ponti e oggi tutti hanno una casa, piccola, affollata,
ma comunque una casa; che oggi non esiste più il razzismo, mentre prima il
bianco camminava da un lato della strada e il nero dall’ altra.
Ancora, ci parla degli
americani. Ci dice che sono ottime persone e che la gente americana non ha colpa
per le malefatte e per le decisioni del loro governo. Il governo americano,
quello si, è odiato. Ci dice che tutto sarebbe risolto a Cuba con la rimozione
del bloqueo. Gli americani sono
secondo lui anche degli ottimi turisti, perché fanno un turismo muy
de cultura. Mentre gli argentini no, quelli non gli piacciono affatto. Sono
turisti arroganti e presuntuosi.
Ci spiega anche che le
leggi penali cubane sono molto dure. Il furto è punito con dieci anni di
reclusione. Ma se è fatto ai danni di un turista la pena si raddoppia. Se viene
ucciso un turista, l’assassino viene punito con la fucilazione. Per questo
motivo chi visita Cuba può stare molto tranquillo: “tenemos leyes muy fuertes por la segurdad del turista”.
La chiacchierata con
il nostro amico dura fino all’ arrivo a casa. Lì lo salutiamo e gli lasciamo
un dollaro di mancia. Lui, contento, ringrazia e torna al suo lavoro.
Andiamo a cena e poi a
ballare la salsa al Chevere, un locale
che si trova nel quartiere del Miramar.
Sembra un buon posto. I buttafuori non permettono alle signorine di entrare con
abiti troppo succinti; l’ ingresso è rigorosamente a coppia e costa 10$ con
free bar tutta la notte. Puoi consumare anche 12 bottiglie di rum e pagare solo
il costo del biglietto di ingresso.
Una sera ho bevuto
ventitre consumazioni, ma non mi sono ubriacato e al mattino dopo non avvertivo
nessun mal di testa. Che l’aria di Cuba sia un deterrente contro la sbornia?
Non è difficile
trovare compagnia per l’ingresso, ma non c’è assolutamente quell’
atmosfera di prostituzione tipica di tanti altri posti.
Mi si avvicina Marco,
un ragazzo cubano della mia età, mi dice che è lì con la sua fidanzata e con
una sua amica che non ha il compagno per entrare. Così entro con loro e faccio
la loro conoscenza.
Marco, studente di
giurisprudenza come me, un bel ragazzo, dalla faccia pulita e sveglia allo
stesso tempo, mi racconta che suo padre è avvocato e che lui ha scelto di
studiare giurisprudenza per amore del diritto romano, materia nella quale, il
caso vuole, io sono tesista. Mi racconta delle difficoltà del suo paese e della
sua vita, fatta di stenti e della sua relazione con Amalia, una donna spagnola
che ha 15 anni più di lui, con una figlia di 6 anni, la quale gli permette di
fare una vita un po’ più agiata dei suoi amici, mandandogli periodicamente un
po’ di soldi e vestiti.
Lo stesso Marco, con
il quale resto in contatto e con il quale esco qualche altra sera e vado anche
al mare, mi confessa una mattina in spiaggia che non ama la donna con la quale
sta insieme. Ne soffre, ma si sente di impazzire e vuole ad ogni costo andare
via da Cuba. Lei gli offre questa possibilità, portandolo in Spagna e facendolo
lavorare lì. Le sue parole mi fanno scendere brividi di freddo nelle vene,
nonostante il caldo soffocante.
Al Chevere
ballo la salsa, seguendo gli insegnamenti della mia accompagnatrice, Neyza,
una ragazza cubana di ventitre anni, anche lei fidanzata con un italiano un bel
po’ più grande di lei. Non era difficile immaginarlo dato che possedeva un
cellulare. Partecipo sempre con lei, ad un gioco organizzato nel locale, una
sfida in ballo e canto tra coppie di diverse nazionalità… VINCIAMO!!! Entro
in simpatia con il giovane disk jokey e animatore cubano che lavora lì e passerò
a salutarlo qualche altra volta.
Anche lui ha il sogno
di andare a fare il suo lavoro in Europa, mi lascia il suo biglietto da visita e
mi chiede, se mai ne avessi la possibilità di trovare qualcosa per lui in
Italia, di non esitare a contattarlo.
Il mio compagno di
viaggio, dentista, conosce un medico che lo invita ad assistere in sala
operatoria ad un intervento che dovrà fare qualche giorno dopo. Lui rifiuta
l’invito, e io mi domando perché. Sarebbe stata un’esperienza interessante.
Ancora in giro per la
città. La vita cubana scorre lenta, le giornate sono lunghe per i cubani, c’è
tanto da fare ma nessuna fretta di farlo. Non c’è frenesia, tutto scorre
tranquillo. Per fare la fila alla posta o alla banca può essere necessaria
anche un’intera giornata, ma sono queste piccole cose che privilegiano le
relazioni sociali che noi occidentali abbiamo dimenticato di coltivare.
L’ hotel Habana
Libre è un grosso grattacielo situato al Vedado,
uno dei quartieri centrali dell’ Habana, è lì da decine di anni e lo
stesso Castro vi ha risieduto durante la rivoluzione. Ancora oggi ha riservata
per lui una camera ed ogni tanto vi fa ritorno.
Per prelevare un po’
di contanti mi reco all’ hotel Nacional, l’albergo dove si tenevano i più
importanti meeting di mafia italo-americana ante
rivoluzionem. Mi dicono che lo stesso Lucky Luciano, che pure possedeva una
casa al Miramar aveva soggiornato lì
per lunghi periodi[4].
Per la strada e fuori
ai ristoranti tanti cubani vogliono fare amicizia con te. La maggior parte
spinti dalla voglia di conoscerti, qualcuno per racimolare qualche dollaro.
Vieni fermato spesso, è una cosa con la quale bisogna imparare a convivere,
vorresti aiutare tutti, ma non puoi farlo, e allora dopo le prime volte che
offri da bere a qualcuno cominci a diventare insensibile.
Conosciamo Eduardo, un
giovane cubano, di pelle bianca e biondo. Egli possiede una vecchia macchina
americana rossa. Si arrangia facendo abusivamente il tassista e accompagnando in
giro i turisti. Gli chiediamo di portarci in giro per la città per il
pomeriggio. Visitiamo la Plaza de la Revolucion, il cimitero dell’ Habana, il
quartiere del Miramar, assistiamo ad
uno spettacolo di vegetazione incredibile, se si pensa che si è nel bel mezzo
di una grande città, ancora, vediamo la strada dove sono tutte le ambasciate,
ed anche un enorme palazzo nero, dove ci sono i diplomatici americani. Non è
una vera e propria ambasciata, si tratta di un ufficio di relazioni, controllato
a vista da numerosissimi uomini armati. Gli amministratori cubani si divertono a
piazzare proprio lì di fronte manifesti propagandistici.
A proposito di
manifesti e cartellonistica, questi mi hanno molto colpito. Siamo abituati nelle
nostra città a vedere grossi manifesti pubblicitari che raffigurano giovani
donne in completi intimi. All’ Habana ci sono dei bei cartelli colorati,
alcuni di propaganda politica, tesi a tenere vivo lo spirito della rivoluzione,
dove ci sono scritte frasi come “Venceremos”, “Vivo en el ensenamento del maestro” con foto
di Fidel Castro e Stalin, “Volveran” con
foto di cinque cubani arrestati negli Stati Uniti, o più semplicemente di
politiche di risparmio energetico dove si invita a non consumare troppa energia,
o anche di politica sanitaria, della quale vi propongo un caratteristico
cartello. Sì, proprio così, i cartelli sono sostenuti da paletti così, messi
nel verde adiacente alle strade e non attaccati a palazzi o a strutture
metalliche pensate apposta per la cartellonistica.
Decisi a partire alla
volta di Varadero, ci rechiamo all’ hotel Habana Libre, dove c’è una
agenzia di viaggi cubana. Compriamo i biglietti dell’ autobus e ci facciamo
riservare una stanza in una casa
particular.
Percorrere i 150 km
che dividono La Habana da Varadero non è affatto facile. Impieghiamo circa 4
ore. Ci spiegano che è una cosa normale poiché c’è sempre qualche
inconveniente che allunga i tempi del viaggio. Il nostro è stato un piccolo
temporale. Le spazzole dell’autobus erano guaste e ci siamo dovuti fermare. Il
conducente è sceso e per circa un’ora ha tentato di ripararli. Nel frattempo
chiunque si trovasse a transitare su quella strada si fermava e cercava di
prodigarsi per fare qualcosa.
Arrivati a Varadero
troviamo una spiacevole sorpresa. La casa esiste[5],
la signora pure, ma non ha posto e ci giura che quando l’hanno chiamata
dall’agenzia lei lo aveva detto. Così restiamo lì da lei per la cena e
andiamo a trovarci un posto per dormire accompagnati da un amico di famiglia
della signora, che per 5$ ci porta all’ hotel Turquino. E’ un alloggio per
studenti, per 35$ in tutto abbiamo a disposizione una stanza con cinque posti
letto.
La sera usciamo e mi
rendo subito conto che sono capitato nel posto sbagliato. Ci dicono che Varadero
è stato nominato municipio especial per
il turismo. Questo significa in poche parole che i cubani non possono per legge
relazionarsi con gli stranieri, neanche scambiare una parola. Non si può
stringere amicizia con nessuno. Gli stranieri stanno con gli stranieri e i
cubani stanno con i cubani. Anche i locali notturni sono balere per i turisti.
I grandi alberghi e i
villaggi turistici la fanno da padroni. Ne sono tantissimi, uno più attrezzato
dell’ altro, e sono frequentati da Italiani e da Canadesi. Infatti è proprio
con un gruppo di Canadesi che passiamo la notte in spiaggia a chiacchierare e a
bere birra.
Il mare e la spiaggia
sono bellissimi, la sabbia più bella di quella dell’Habana, il colore del
mare pure. Ma i quadri sono abituato a guardarli in salotto, il posto voglio
viverlo!
La cosa che ricordo
con maggior piacere di Varadero è un uomo che mi si avvicina e mi chiede se
voglio comprare un cocco. Gli rispondo di si e lui si arrampica a mani nude su
una palma reale di circa 20 metri e me lo va a prendere in cambio di 2$.
Decidiamo di ritornare
a La Habana. Acela nel frattempo ha affittato la nostra camera ad un inglese di
madre napoletana, che non parla italiano ma parla perfettamente il dialetto
napoletano!
Così, andiamo a
dormire abusivamente da Mercedes, che non potrebbe farci stare lì perché non
ha l’autorizzazione governativa. Tuttavia ha una piccola costruzione di due
piani nel retro del suo giardino, con un vecchio e rumoroso condizionatore nella
stanza da letto. E’ lì che restiamo a dormire per il resto del nostro
soggiorno habanero.
La casa di Mercedes è
il posto più incredibile dove sono stato. Lì vivevano un numero indefinibile
di persone. Varcata la porta vi era un lungo e stretto corridoio e numerose
stanze sia sulla destra che sulla sinistra. Non ho mai capito quante persone
vivevano lì, quante vi trascorrevano solo la giornata e quante ci andavano solo
a dormire. Ricordo che c’erano sua figlia con il suo bambino, il figlio, una
quantità di parenti di ogni grado. Ascoltavano musica e passavano la giornata
parlando e bevendo ron e caffè.
Ho avuto in quei
giorni la sensazione, e ancora la porto dentro, di vivere le atmosfere e le
situazioni del dopoguerra, che a volte mio padre mi racconta. Un solo televisore
in un palazzo intero e tutti insieme a guardarlo. Le giornate passate in casa
con tanti amici, il piacere delle cose semplici, e la gioia di condividerle pur
nella miseria. La “mezza sedia” non mancava nelle case cubane. E’ una
sedia alta la metà di una normale, cinquant’ anni fa a Napoli ce ne erano
tante. Ma io ne avevo vista una sola nella mia città.
Un’ altra figlia di
Mercedes aveva sposato un pilota di aereo argentino e si era trasferita a Buenos
Aires. Lei andava spesso a farle visita e stava lì in Argentina tre o quattro
mesi all’anno.
Mercedes ci trattava,
così come del resto aveva fatto anche Acela[6],
come persone della sua famiglia, si prendeva cura di noi amorevolmente e non
c’era verso di convincerla a non affaticarsi per noi con le faccende
domestiche e che potevamo provvedere anche da soli. Lei ogni mattino puliva la
nostra casetta e dovevamo nasconderle i vestiti sporchi perché non si mettesse
a fare il bucato.
Incontriamo per strada
Eduardo, il tassista che avevamo conosciuto qualche giorno prima. Prendiamo
appuntamento con lui perché ci accompagni al mare ogni mattino e ci venga a
riprendere al tramonto.
Eduardo ci racconta
che tutte le volte che può permetterselo esce la sera a bere una birra e
tradisce sua moglie. Dice che è una cosa normale a Cuba (io penso che sia una
pratica diffusa in tutto il mondo), poiché i problemi che hanno vengono
superati con le distrazioni. E i loro svaghi sono la musica, il ron
e l’amore.
Sul tragitto verso il
mare, passiamo in un posto sperduto, in piena campagna, dove ci sono un gran
numero di officine e di fabbriche. Chiediamo spiegazioni a Eduardo, il quale ci
dice che è passato di lì per sapere quando può passare a controllare la
pressione delle gomme della sua auto, che, per quanto malandata, gli permette di
procurarsi da vivere.
Il nostro
accompagnatore ci porta ad una nuova spiaggia, Santa Maria Tararà, è un posto esclusivo, potrebbero accedervi
solo i residenti e persone facoltose. Qualche tempo dopo ho letto su un giornale
che è proprio lì che Maradona andava a fare il bagno durante il suo soggiorno
a La Pradera. La spiaggia si trova
qualche chilometro più aventi del Tropicoco che è raggiungibile camminando una
ventina di minuti a piedi. Per arrivarci bisogna pagare una mazzetta di un
dollaro ogni volta alla guardia che sorveglia il posto.
Il luogo è meno
affollato delle altre spiagge che abbiamo visitato, si sta più tranquilli e non
ci sono giovanotti alla ricerca di facili avventure e relative signorine
compiacenti. Inoltre non ci sono le numerose guardie con i cani che invece sono
numerose al Tropicoco. Anche qui ci sono due chalet sulla spiaggia dove è
possibile mangiare qualcosa e bere una cerveza.
A Cuba, a parte l’
Havana club, e qualcuno che vende la Coca Cola, non si trovano le solite
bevande, e neppure le sigarette più diffuse. Ci sono due tipi di birra la
Kristal e la Bucanero. La maggior parte delle persone che sono state a Cuba
preferiscono la seconda, ma per me la Kristal aveva un sapore unico.
In prossimità della
spiaggia c’è un alberghetto con piscina, dove andiamo qualche volta al
ritorno a bere una birra con Eduardo. Ci sono tanti turisti, ma mi sembrano
turisti cubani o comunque dell’ area latina. Sicuramente non sono italiani e
parlano spagnolo o inglese.
Le nostre serate a La
Habana vengono trascorse in alcuni locali del posto a ballare la salsa. Andiamo
al Cafè cantante dove paghiamo 15$
l’ingresso e le consumazioni costano 3$. Giovani cubani, sia uomini che donne,
si accompagnano a turisti stranieri. C’è molta prostituzione. Noi stessi
veniamo fermati appena scesi dal taxi da una ragazza che ci chiede di entrare
con lei. Una volta dentro, ci chiede 60$ per passare la notte con lei.
Rifiutiamo garbatamente e lei abbandona il nostro tavolo alla ricerca di qualche
altro cliente. Col passare delle ore le varie jineteras (così vengono chiamate le prostitute) chiedono sempre
meno soldi pur di guadagnare qualcosa dai 60$ delle ore 22.00 arriviamo ai 20$
delle 02.30. Ma non siamo interessati e quindi siamo molto ignorati dalle
giovani avventrici del locale.
Facciamo tappa, una
delle altre sere, in un altro locale, El
diablo tun tun, non è un locale tipicamente cubano, nel senso che un gruppo
locale suona musica rock, pop e reggae. Ma si sta bene e passiamo una piacevole
serata.
L’ultima sera all’
Habana torno al Chevere, dove incontro
per l’ultima volta gli amici conosciuti la prima sera. Ci salutiamo con grande
tristezza e ci auguriamo di rivederci prima o poi da qualche parte nel mondo o
quando tornerò a Cuba, dato che già comincio a sognare di ritornare.
Il giorno dopo alle
18.00 abbiamo appuntamento con Eduardo che deve accompagnarci all’ aeroporto.
Il nostro amico ci abbandona e non viene a prenderci con nostro grande stupore.
Così il figlio di Mercedes ferma un taxi per strada. Salutiamo Acela, dalla
quale compriamo per pochi soldi sigari autentici (ho controllato tagliandone uno
trasversalmente), la sua famiglia, Mercedes e tutti gli altri con grande
commozione da entrambe le parti e torniamo a casa giusto ventiquattro ore prima
dell’ arrivo di un violento uragano che si abbatte sulle isole del mar dei
Carabi.
Una volta in Italia,
ho continuato a tenere vivo il desiderio di tornare a Cuba, di visitarla nella
sua interezza e mi sono aggiornato per tanti mesi sulle vicende di questo paese
attraverso il blog[7] di un signore milanese che
si è trasferito lì all’ Habana e lavora in un ufficio di un’agenzia di
viaggi italiana in loco[8].
Da lì ho potuto seguire l’evolversi dell’emergenza uragani, le novità in
campo legislativo e tante curiosità.
Al mio ritorno non ho
scritto nulla. Il mal di cuba si è affievolito solo alcuni mesi dopo. Se avessi
scritto allora, le emozioni che ancora mi sentivo addosso forse mi avrebbero
portato a buttare giù un racconto poco lucido. Mi rendo conto che mi vengono in
mente tutti i particolari e che non ho dimenticato niente.
A volte mi fermo a
pensare. Vedo i luoghi che ho vissuto e le persone che ho conosciuto. Mi domando
se siano ancora vivi e in quale posto del mondo si trovino. Mi viene da
immaginare quel bimbo di due anni, nipote di Mercedes, quanto sarà cresciuto e
quanto sarà diventato bello. E quanti altri bimbi ci saranno, venuti al mondo
da poco, qualcuno lo avrà portato la cicogna, tutti saranno figli dell’amore,
qualcuno correrà sulle spiagge del suo paese, qualcun altro scapperà via. E
mentre scrivo mi viene la pelle d’oca.
A volte mi chiedo se sono stato lì davvero, se tutto quello che vi ho raccontato è successo veramente o è stato solo un sogno. I sogni sono destinati a realizzarsi o a svanire, ma il mio non morirà mai: un giorno tornerò a rotolarmi nella sabbia bianca di Cuba, a passeggiare al tramonto sul malecon e, chissà, potrei anche decidere di imbarcarmi sulla nave del vecchio e non tornare più indietro.
Massimo
Galiero massimogaliero@hotmail.com
[4]
Sull’argomento, è possibile leggere un interessante resoconto in M.A.
Barroso - I. Reyes Ortiz, Cronache dai
Caraibi, percorso inedito attraverso le Antille, pag. 71-80.