COLOMBIA
Diario di viaggio 2005
di
Pietro Messa
BOGOTÀ
Aeroporto
di Bogotà, 18.03.2005: primo contatto con i pur gentili poliziotti colombiani
che, oltre a ricontrollare ai raggi X i bagagli (ma che senso ha all’arrivo?)
mi perquisiscono da testa a piedi.
Le
perquisizioni personali sono pratiche quotidiane in Colombia, infatti poi
scoprirò che vengono sempre fatte all’ingresso di bar notturni, discoteche,
stazioni, etc.
Altra
curiosità dell’arrivo: la richiesta della mia impronta digitale per cambiare
la bellezza di 20 euro! Addirittura anche gli ATM (sportelli bancomat) hanno il
vetrino dove bisogna appoggiare il pollice, altrimenti non sputano fuori i
soldi.
Poi
via, prendo un taxi che velocissimo sfreccia fra grattacieli e baracche. E anche
qui scopro che gli autisti di taxi/pullman/mezzi pubblici hanno il piedino
pesante. Se in Brasile, patria del fu Ayrton Senna e di Barrichello, pensano che
avendo lo stesso sangue abbiano il diritto di correre come pazzi, qui
rivendicano la stessa nazionalità di Juan Pablo Montoya, vero e proprio eroe
nazionale che quindi va imitato ogni giorno.
A
Bogotà ho visitato il ricco “Museo Del Oro”, un’enorme raccolta di
oggetti d’oro dei popoli prehispanici. Mai visto tanto oro tutto insieme.
E
qui, durante una pausa-caffè, mi faccio fregare 10.000 pesos (3 euro) come un
cretino!
Un
tizio molto gentile mi chiede se gli cambio 20.000 $ in due biglietti da 10, e
alla mia risposta negativa mi chiede di prestargli i 10 che ho. Lui lavora qui
al museo, mi dice con un’aria innocente, e ora deve pagare il conto al bar.
Appena cambia i soldi me li restituirà.
Non
so perchè ma glieli do e lui puntualmente, dopo aver pagato il conto e fatto
qualche giro, sparisce. Come me frega anche 3 simpatiche signore di Bogotà,
alle quali ha rifilato i 20.000 $ che voleva cambiare (falsi!).
Ma
le 3 vispe terese partono all’inseguimento del malfattore per tutto il museo,
così per un po’ le accompagno anch’io. Parlano con tutte le guardie,
preoccupate soprattutto del fatto che erano stati rubati dei soldi ad uno
straniero che sta visitando il loro paese! Che carine.
Io
le tranquillizzo dicendole che era stata solo colpa mia. Poi mi salutano tutte e
3, dopo avermi chiesto notizie sul mio viaggio, e se ne vanno.
In
effetti non ce l’avevo tanto con il ladruncolo. È bastato allentare per un
attimo le difese e la diffidenza verso chiunque (che invece bisogna sempre avere
da queste parti) per farsi subito fregare.
E
mi viene da pensare a tutto il tempo speso per organizzare “la sicurezza”
del viaggio (tasche nascoste, più carte di credito, codici Pin camuffati, pochi
contanti appresso, fotocopie documenti, etc) e poi è bastato che uno
semplicemente mi avesse chiesto di prestargli dei soldi per fregarmi.
Ok,
ricevuto. È il momento di dissotterrare l’ascia... ehm... cioè no, di tirare
fuori tutte le “difese” che si erano un po’ “ammorbidite” dopo
l’ultimo viaggio nel super-sicuro Oriente.
Riattivo
anche la mia personale “retrovisione”, cioè il camminare con la testa un
po’ china in modo da controllare con la coda dell’occhio che c’è dietro
di me. Utile soprattutto la notte con tutti i barboni che ci sono qui.
In effetti in nessuna città dell’America Latina ho mai visto tanti sbandati come qui a Bogotà. La maggior parte sono giovani, tanti son ragazzi. Sporchi, vestiti di stracci, hanno tutti le facce scure, o per il colore della pelle, o per la barba lunga e le strisce nere che hanno su visi e braccia. Sembra quasi che il lucido per scarpe che molti di loro usano per lavorare di giorno se lo mettano anche in faccia.
Sostano
la notte nelle vie più scure. Dove c’è un lampione spento, è molto
probabile che vicino ci sia uno di loro. Se non fai in tempo ad oltrepassarli
velocemente, ti si piazzano davanti e ti chiedono qualche moneta.
L’altra
notte son rientrato in taxi all’hotel alle 3,30. Il tassista, fermatosi ad un
metro dall’entrata, ha iniziato a suonare il clacson come fosse ad un
matrimonio. Ma che fa, è impazzito? E invece poi capisco. Un attimo dopo
infatti un barbone era già arrivato dietro il taxi e aspettava che io scendessi
per chiedermi soldi. Eppure la strada sembrava deserta.
Ma
questi poveracci non dormono mai? Il giorno dopo troverò la risposta.
Nel
mio girovagare per il centro in una tranquilla e finalmente tiepida domenica
pomeriggio, nelle vie centrali animate da artisti di strada, esibizioni di
ballerini, bancarelle, etc, è capitato spesso di vedere quegli “zombie”
delle notti dormire nei posti più impensabili. Uno l’ho visto dormire sul
marciapiede davanti agli studi di una TV privata dove, circondati da un
centinaio di persone, stavano registrando un programma in diretta. Poco dopo un
altro l’ho visto dormire in uno spartitraffico (largo meno di 1 mt!) di una
trafficatissima via centrale, in mezzo alle auto che sfrecciavano!
Li
ho chiamati “zombie” perchè, a parte l’aspetto non certo gradevole,
camminano, chi più chi meno, barcollando. Sembrano perennemente sbronzi, o più
probabilmente sono indeboliti dagli stenti.
Il
secondo giorno visito l’interessante museo con la “Donacion Botero”,
esposizione permanente di opere d’arte donate alla città da Fernando Botero,
il più famoso artista colombiano contemporaneo. Oltre alle sue opere, tutte
curiosamente raffiguranti soggetti “grassi”, comprende anche pregiati
dipinti di artisti europei, quali Picasso, Mirò, Dalì, Monet, Renoir, De
Chirico e tanti altri.
Accanto c’è un museo numismatico che salto a piè pari, per soffermarmi invece su alcune sale di un terzo museo dove viene esposta la storia della scoperta e colonizzazione (e saccheggio) del Sud America.
Mi
colpisce questa frase:
La
conquista y el posterior desarrollo del sistema colonial modificaron tambien la
situacion economica y politica de Europa.
Surgieron nuevos emporios comerciales y el monto de los
intercambios contribuyo al auge de la burguesia. Ya en el siglo XVIII, la
revolucion industrial serà posible gracias a la acumulacion de capital,
promovida por la expansion en ultramar”.
Quindi,
se ora in Europa viviamo agiatamente, lo dobbiamo anche alle ricchezze che i
nostri antenati sottrassero all’America Latina.
E
poi.... chi diede l’inizio a tutto ciò fu proprio.... Cristoforo Colombo, un
italiano!
Sabato
notte visita alla “Zona Rosa”, a Nord di Bogotà, alla ricerca di un locale
dove si possa ascoltare e ballare Salsa, ballo qui molto popolare (che studio da
diversi anni).
Fuori
diluvia, mi auguro quindi di trovarlo subito.
Primo
tentativo: locale famoso raccomandato dalla Lonely Planet: chiuso da 1 anno!
Secondo
tentativo: chiedo per strada e becco proprio un signore che stava distribuendo
inviti per un locale dove si ascolta anche salsa (“anche”.... mmm.....
che significa?). Lo seguo, e poco dopo mi ritrovo dentro un bordello! E mi tocca
pure ordinare una consumazione obbligatoria. Me la cavo con una veloce birretta
che, circondato da una decina di succinte fanciulle, mi scolo rapidamente per
poi cambiare aria.
Terzo
tentativo: vado ad orecchio, e giungo davanti ad un enorme locale dove c’è un
concerto dal vivo di salsa. Ma non mi fanno entrare! “Solo en pareja, señor”,
cioè solo ingresso in coppia.
GRUNT!
UFF! ACC!!
Inizio
a stufarmi, e aggiungendo il fatto che non smette di piovere, inizio a pensare
di tornarmene in hotel. Ma ecco che.....
Quarto
tentativo. Provo ad entrare in un ultimo locale e qui finalmente trovo ciò che
cerco. C’è un formidabile sestetto (basso, chitarra, percussioni, tastiera,
tromba e voce, e saltuariamente anche maracas e clave) che suona salsa dal vivo,
e si balla pure!
Bravissimi
i musicisti, colombiani (Aristas è il nome del gruppo), ed il cantante è un
anziano uomo di colore in abito, con il cappello bianco a falde larghe stile
Compay Segundo.
CALI
Spostamento
in autobus (10 ore) a Cali, 3^ città del paese, nel sud-ovest, regione “Valle
del Cauca”. Quest’ultima è una delle zone dove viene segnalata la presenza
della guerriglia e dei paramilitari, e infatti in strada si nota la sempre più
massiccia presenza di militari dell’esercito, in mimetica e con mitra in mano.
Nelle
zone montane addirittura si incontra un militare di guardia ogni 100-200 mt.
A
questo punto è doveroso aprire una parentesi sulla situazione politica
colombiana, se si vuole capire meglio cosa succede in questo paese da quasi
mezzo secolo. Per descrivere il colore della sabbia del mare c’è sempre
tempo.
Fra
i gruppi guerriglieri presenti, i maggiori (con un totale di 25.000 unità) sono
le F.A.R.C. (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), nate dal Partito
Comunista Colombiano e inizialmente sostenute dalla Russia, e l’E.L.N. (Ejercito
de Liberacion Nacional), filocubani.
Perso
l’appoggio di Mosca e Cuba, i guerriglieri oggi si finanziano con le rapine, i
sequestri e i taglieggiamenti ai produttori di droga, perdendo per strada anche
i primi ideali politici e di conseguenza anche l’appoggio della popolazione.
A
loro si contrappongono l’Esercito regolare dello Stato ma anche i sanguinosi
paramilitari (A.U.C.- Autodefensas Unidas de Colombia), esercito privato
orientato a destra, che può contare sull’appoggio non sempre nascosto
dell’esercito regolare. Spesso vengono proprio usati da questi ultimi per i
lavori più scomodi. Sono responsabili di orrendi massacri di civili sospettati
di collusione con i guerriglieri.
L’attuale
Presidente (filoamericano) Alvaro Uribe Velez si vanta di aver reso più sicuro
il paese ma la sua azione si è limitata a militarizzare il territorio, senza
cercare minimamente di eliminare le cause che, da quasi 50 anni, hanno creato
una vera e propria guerra civile.
Qualche
cifra. Ogni anno: 30.000 omicidi, più di 3.000 sequestri (fra i quali anche
stranieri), quasi 200.000 “desplazados”, cioè contadini e indios costretti
ad abbandonare le proprie terre devastate dalla guerra.
E
in tutto questo la droga, che è la prima cosa alla quale si pensa quando si
sente nominare la Colombia, non c’entra granchè. La prima grande causa del
conflitto è la profonda ingiustizia sociale presente quasi in ogni settore
della società colombiana.
Alcuni
giorni fa ho fatto un interessante chiacchierata con un caleño (abitante di
Cali), laureato in Ingegneria Agraria. Ora è disoccupato, ma la sua famiglia ha
diversi ettari di terra vicino alla città. Terra fertilissima, che per il clima
che c’è qui può avere raccolti tutto l’anno. Il suo sogno è avviare
un’impresa agraria sulla sua terra, coltivandola intensamente. Mi dice però
che l’unico problema è il fatto che il terreno si trova proprio in mezzo a
due grandi latifondi i cui proprietari, se solo si azzarda a coltivare più dei
quattro pomodori e lattughe che ora coltiva la sua famiglia, non tarderebbero a
piazzargli una pallottola in testa. “Aquí’ funciona asì ”, mi dice. È
già tanto che gli abbiano ancora lasciato la proprietà di quel terreno.
Che
la guerra civile e il narcotraffico continuino fa comodo a molti.
Fa
comodo al Governo che si serve spesso dei paramilitari per eliminare personaggi
scomodi come oppositori politici, sindacalisti e giornalisti. Tant’è che le
statistiche attribuiscono l’80% delle violazioni dei diritti umani ai
paramilitari e solo il 20% ai gruppi guerriglieri. Dall’’86 al ’90, nella
sola Bogotà, furono assassinati 1500 fra attivisti e dirigenti del Partito
Comunista e dell’Union Patriotica, i due partiti di sinistra. Fu annientata
completamente, anzi “seppellita”, tutta l’opposizione democratica.
Fa
comodo agli USA, per i quali la ipocrita “lotta al narcotraffico” è la
maschera che viene usata per la loro politica commerciale e di dominio sul
territorio. Il petrolio colombiano viene estratto dalle multinazionali americane
e inviato al loro paese pagando un prezzo bassissimo allo stato colombiano. E lo
stesso succede per i ricchi giacimenti di pietre preziose. In cambio gli USA
forniscono anche armi e addestramento militare all’esercito, in modo che possa
difendere i loro stabilimenti.
Droga,
petrolio, armi, potere. Alla fine le guerre vengono alimentate sempre dagli
stessi elementi.
Per
la cronaca, la Colombia è l’unico paese Sud-Americano che ha appoggiato gli
Usa nella guerra all’Iraq. (*)
Chiusa
parentesi.
Anche
questo autobus è guidato dal solito pazzo, pur se stiamo scendendo dai 2.600 mt
di Bogotà. Mi colpisce soprattutto il fatto che quando la strada è libera vada
ad andatura abbastanza normale ma appena abbiamo davanti un’auto o, peggio
ancora, un altro bus o un tir, arrivi immediatamente l’istinto pluriomicida,
con sorpassi che fanno trattenere il respiro (e pregare).
Il
bus è pieno. A fianco a me ci son due simpatici bambini seduti uno sopra
l’altro, e nei due sedili dall’altra parte c’è la madre con altri due
bambini in braccio, più un altro passeggero sepolto dietro. I bravi bambini
naturalmente salgono sul pullman con bottigliette di aranciata, patatine e
pasticci vari che ingurgitano rapidamente nei primi minuti.
Appena
Battista l’autista prende coscienza di avere sotto il sedere un pullman con più
di 50 persone e inizia così a correre sui tornanti mozzafiato delle Ande, i
bravi bambini iniziano, a volte a turno e a volte tutti insieme, a vomitare
nella loro bella bustina gentilmente distribuita da Battista poco prima.
Talvolta però lo stimolo gli giunge così rapido che non fanno in tempo a
centrare la bustina, cosa che capita anche al bambino a fianco a me e proprio
nell’esatto momento in cui gli viene anche la tosse. Come risultato mi fa la
doccia di vomito nella gamba destra, ma per non farlo sentire ancor di più a
disagio non mi pulisco subito e lascio così seccare sui pantaloni quei bei pois
gialli di patatine/aranciata/succo gastrico. La madre, non facendo più in tempo
a pulirne uno che subito iniziava l’altro, scoppia a piangere. Arriva
provvidenziale una sosta in un bar, che permette all’allegra famigliola di
ricomporsi e al sottoscritto di prendere una boccata d’aria fresca e meno
acida. Poi ci facciamo qualche foto tutti insieme e tutto passa (infatti alla
fermata successiva ricomprano le patatine!).
A
Cali, nella Guest House dove alloggio, ci sono ragazzi Israeliani, Inglesi,
Australiani, Americani, Tedeschi e un italiano. Una sera incontro quest’ultimo
nella reception e parliamo un po’ di viaggi. Dopo un po’ mi fa: “Io ti
conosco... tu sei Pietro della Sardegna”.
“GULP!
E tu come lo sai???!”
Pensandoci
bene capisco tutto. Un anno fa avevamo dialogato in internet su un NewsGroup di
viaggi, senza però conoscere mai i nostri nomi reali.
Lo
dico sempre io, il mondo è troppo piccolo!
Cali
è considerata la capitale colombiana della Salsa, e questo è il motivo
principale della mia visita. Capito però proprio nella “Semana Santa”, dove
in Colombia si sta chiusi in famiglia e non si esce. Chiudono anche i locali
notturni, compresi quelli salseri. Mi tocca quindi aspettare il fine settimana,
quando tutto riapre.
C’è
un solo museo interessante da vedere, il “Museo Arqueologico La Merced”, con
una ricca collezione di ceramiche precolombiane, una mummia con ancora la pelle
e i capelli (e sembra abbia anche il “coso” – è un maschio) e una curiosa
sala con esposte maschere carnevalesche Sud-Americane ed alcune europee. Una
sola proviene dall’Italia, ed esattamente dalla... Sardegna! (Mamuthones di
Mamoiada).
La Lonely Planet cita come molto interessante anche il parco zoologico (il più grande della Colombia) e un pomeriggio vado a visitarlo, se non altro per vedere i mammiferi che l’anno prima, pur andando sia nella Savana (Los Llanos) che nella Giungla (foresta amazzonica) Venezuelane non era stato possibile vedere. Ma si rivela il solito zoo con animali tristi in gabbia.
Una
sera esco con l’Inglese e il Tedesco dell’hotel, e con due loro amiche
colombiane. Carl (di Londra) è il più esuberante di tutti, e lo diventa ancor
di più dopo che, all’incirca ogni mezz’ora, aspira con il naso alcune
striscette bianche. Innaffia poi il tutto con mezzo litro di “Aguardiente”,
e all’una lo facciamo riportare da un taxi in hotel! Non connette più.
Sera
successiva fra italiani, con l’altro italiano dell’hotel e il Dj Francesco,
milanese, che dopo un anno in giro per il Sud-America si è stabilito qui a Cali
dove ha aperto una boutique di abbigliamento, insieme alla ragazza colombiana
che gli disegna i vestiti. Ci fa conoscere un po’ di locali della città dove
non c’è l’ombra di altri turisti.
Ma
l’appuntamento clou (per me) è il sabato notte, quando riaprono le discoteche
di salsa.
Sabato
dovrebbe esserci anche la “Chiva”, un pulmino colorato che, con
un’orchestrina di musica (salsa!) dal vivo, scarrozza un gruppo di passeggeri
per la città, con tanto di pista da ballo, spuntino e bottiglia di Aguardiente
compresa!
Ma,
dopo varie ricerche, mi dicono che oggi la Chiva non parte perchè è la
“Semana Santa” e non c’è un gruppo di persone sufficiente. Ad ogni modo
mi reco ugualmente al punto della partenza, previsto per le 20 ma, dopo un’ora
di attesa, di Chiva non se ne vede neanche l’ombra.
Alle
20:00 e 1 secondo alzo i tacchi e me ne vado (e per di più piove!). Mi rifugio
in un bar del centro e mi rincuoro con una bottiglietta di “Club Colombia”,
birra locale. E siccome una non basta a farmi dimenticare la “Chiva” persa
dopo averla aspettata per una settimana, ne aggiungo ben presto altre 3. Ed ecco
che, nel bar, alcune coppie iniziano a ballare (sempre salsa) e dopo un po’ la
pista si anima. Invito una ragazza a ballare e, anche se qui ballano una salsa
completamente diversa da quella da me studiata, mi accontento. “Tanto la Chiva
è persa ormai”, penso spesso.
Conosco
così Liliana e una sua amica, due studentesse di Bogotà, e poco dopo arrivano
tre loro amici brasiliani. Il gruppo cresce rapidamente e decidiamo di spostarci
in un altro locale. Appena usciamo dal bar... cosa passa in strada? Una Chiva
allegra e festante, con tanta gente che balla dentro!!! Grunt!
Siccome
i brasiliani chiaramente non ballano salsa, finiamo in una discoteca con musica
techno, e per di più poco prima di entrare fa irruzione la polizia. Tutti,
faccia al muro e mani in alto, veniamo perquisiti accuratamente.
All’interno
della disco, i brasiliani decidono di comprare una bottiglia di rum che,
aggiunto alla mia precedente birra, fanno alzare eccessivamente il mio tasso
alcolico del sangue.
Stufo
della techno, decido di andare a Juanchito, un quartiere periferico dove sono
raggruppate le più importanti discoteche di salsa. Prendo il taxi e, dopo una
quindicina di minuti, arrivo a Juanchito, riaperto solo oggi dopo la settimana
di riposo. Sono le 3 di notte ed è pieno di gente da tutte le parti, luci,
musica, una baraonda generale. Ma mi accorgo solo ora di aver finito i soldi, ne
ho a malapena per pagare il taxi. E poi come ritorno? UFF!
A
malincuore faccio fare dietro-front al taxi e mi faccio riaccompagnare in hotel
a prendere le carte di credito, e poi mi avvicino ad alcuni ATM. Ma, complice
l’alcool, sbaglio digitando i codici pin e mi si bloccano tutte e 2 le carte.
Ho aspettato la notte salsera tutta la settimana e sono ora costretto a
rientrare in hotel perchè non ho più un soldo.
Oggi
è la notte di Pasqua. È incredibile come a volte gli eventi si ripetano.
Esattamente un anno fa, la notte di Pasqua, un episodio analogo mi capitò in
Venezuela dove, rimasto senza soldi, dovetti dormire su una panchina di
un’inquietante stazione di autobus in quanto nessun hotel mi volle fare
credito.
Rientrando
in hotel, il solito trans presente al solito angolo dell’hotel mi elenca come
di consueto tutte le sue virtù e arti varie ma questa volta, anzichè
ignorarlo, lo zittisco dicendogli che non ho più soldi e, per dimostrarglielo,
gli regalo gli ultimi 2000 pesos che ho in tasca. Così ora non ho più davvero
un soldo. Domani ci penserò! Lui (o lei) mi guarda perplesso e se ne va. Senza
soldi qui non si è nessuno neanche per i trans!
Domenica
(ragionando meglio) risolvo tutto telefonando a Milano. E per di più vengo a
sapere che Juanchito apre anche oggi! Wow!
Così
domenica notte, con le tasche strapiene di pesos, ritorno a Juanchito dove
finalmente riesco a poggiare piede.
Prima
discoteca, la più esclusiva (e che proprio per questo mi attira di meno): Changò.
Due
perquisizioni di seguito all’ingresso. “Ma perchè?” gli chiedo
inutilmente. Dimenticavo che a Bogotà, per esempio, la percentuale di armi
illegali presenti è una ogni 7 abitanti, e credo che qui a Cali non saranno da
meno. L’altro giorno ho visto in un locale un cartello con scritto “È
vietato entrare con armi, grazie”, come da noi si scrive “È vietato
fumare” o “Vietato entrare con cani”.
Dentro
è tutto lussuosissimo. Uomini in giacca e cravatta e donne in abito da sera e
tacchi. Due piste da ballo e ottima musica. Osservo un po’ tutto e dopo cinque
minuti me ne vado. Prima di uscire entro un attimo in bagno. Mi sciacquo le mani
e mi accorgo che c’è un cameriere nero, con camicia e denti bianchi e
papillon nero, che strappa i fogli di carta dal rotolo e li porge per asciugarsi
le mani, cantando a squarciagola la salsa che si sta ballando in pista.
Non
oso entrare al cesso per il timore di trovarci un altro cameriere che mi porge
la carta igienica!
Seconda
discoteca: Agapito.
Questa
mi dicono che è più popolare e mi attira di più. E infatti dentro tavoli e
sedie sono in plastica, c’è una sola pista, molte meno luci. Ma si entra in
coppia e, anche se mi fanno passare, ci sono solo coppie dentro. Una delle prime
cose che mi hanno consigliato in tanti è di non ballare mai con una
ragazza se è presente il ragazzo nel locale. È molto pericoloso in Colombia.
Una birretta e via in un altro locale.
Terza
discoteca: Senegal.
Non
capivo perchè questa me la consigliassero soprattutto i ragazzi. Dopo che entro
lo capisco. Alternato a salsa e merengue c’è ogni tanto qualche spogliarello
femminile. Altra birretta e me ne rientro, domani devo partire presto. Juanchito
l’ho visto, non ho altro da fare qui.
Adiòs,
Cali.
MEDELLIN
Dal
sud-ovest della Colombia inizio la risalita verso nord e, dopo due grandi città,
voglio ora visitare un paesino. Mi fermo così un giorno a Salento, antico e
fresco paesino a 1900 mt di altitudine dove il pomeriggio, seduto sul cassone di
un fuoristrada, mi reco a vedere l’attrazione maggiore di questo “pueblito”,
e cioè la “Palma de cera”, la varietà di palma più alta del mondo che
raggiunge anche i 60 mt di altezza. Per il resto però la gente sembra meno
cordiale degli altri luoghi che ho già visitato. Dopotutto qui siamo in
montagna.
Alla
fine del paesino c’è una lunga scalinata che porta in cima a una collina
dalla quale si può ammirare tutta la “Valle de Cocora”, verdissima fino
alle cime delle montagne. Sulla collina c’è anche un gruppo di militari che
sorveglia la valle, tre dei quali però lo fanno... dondolandosi su
un’altalena. Suscita un po’ di curiosità il vederli, vestiti in mimetica e
con il Kalashnikov sulle ginocchia, giocare come bimbi. In effetti sono spesso
giovanissimi, a volte mi domando se abbiano almeno 18 anni.
Da
Salento a Medellin, altra strada tortuosa che prima ridiscende e poi risale la
“Cordillera Occidental”, fino ai 1540 mt di Medellin.
Paesaggi
bellissimi. A poco a poco la folta e verdissima foresta tropicale che ricopre
interamente i ripidi pendii delle montagne lascia il posto a campi coltivati
ordinati e ben tenuti. Si vedono immense coltivazioni di caffé (secondo paese
produttore nel mondo, dopo il Brasile) ma anche tanti pascoli con bovini.
Bisogna dire che, rispetto ai vicini “cugini” venezuelani (che coltivano
solo il 3% del loro paese, lasciando incolte la maggior parte delle pianure) i
Colombiani sono più laboriosi anche da questo punto di vista.
Ma...
non c’è tanto tempo per osservare i campi dal finestrino, è ora
indispensabile guardare bene la strada e soprattutto ciò che fa l’autista di
turno. Non ho dubbi nel collocarlo al primo posto nella speciale classifica dei
peggiori (o migliori?) autisti che ho incontrato in Colombia. Incoraggiato dal
fatto che guida un pullman un po’ più piccolo degli altri (30 posti), le
acrobazie che riesce a compiere in questi tornanti mi spingono ben presto a
decidere di non guardare più la strada e di chiudere gli occhi per cercare di
dormire.
Ma
come si fa, mi chiedo, ad iniziare un sorpasso quando si hanno a malapena 15 mt
di spazio, poco prima di una curva cieca, in salita e quando il mezzo che si
vuole sorpassare è un mezzo pesante? Non so. Gran merito del successo (e quindi
della sopravvivenza) va al fatto che queste strade son poco trafficate. La gente
si sposta soprattutto con i mezzi pubblici, o perchè l’auto non ce l’ha, o
perchè è più sicuro che spostarsi da soli attraverso questi monti poco
abitati.
Medellin,
seconda città colombiana (2.000.000 di abitanti) è conosciuta nel mondo in
quanto ex capitale mondiale della cocaina ai tempi di Pablo Escobar, carismatico
narcotrafficante che riuscì anche a fondare un partito politico e a farsi
eleggere al Parlamento. Ucciso nei primi anni 90, il centro di potere della
droga cambiò residenza ma Medellin rimase comunque il centro economico e
industriale più importante del paese, tanto che i suoi abitanti (chiamati
“paisà”) periodicamente rivendicano l’autonomia dal resto del paese e da
Bogotà, che è invece la capitale culturale del paese, oltre che
amministrativa. Ricorda un po’ le nostre Milano e Roma, o no?
Proprio
per i passati fatti (o misfatti) di Pablo Escobar, Medellin è rimasta
nell’immaginario di chi non è mai stato in Colombia come “l’inferno” di
questo paese, a sua volta “inferno” del continente Sud Americano. Se provate
ad andare in un’agenzia di viaggi italiana, per la Colombia vi proporranno
solo una visita a Cartagena e forse all’isoletta caraibica di S. Andrès,
tutto il resto è “out”. Assolutamente pericoloso. Addirittura nei siti
governativi italiani viene fortemente sconsigliato qualsiasi viaggio in
Colombia.
Se
non è assolutamente motivata la brutta fama che il paese ha nel mondo intero,
ancor di meno lo è Medellin rispetto agli altri luoghi colombiani. Anzi posso
dire che qui ho trovato persone ancora più cordiali e gentili di quelle
(comunque sempre molto socievoli) incontrate nel resto del paese.
Però...
però... prima di constatare tutto ciò sono arrivato a Medellin, carico di
tutte le false notizie sulla città, un caldo pomeriggio e, dopo aver lasciato i
bagagli in hotel, son subito uscito ad esplorare il centro città. Fatta qualche
decina di metri, sento delle urla che si avvicinano sempre più e dopo un po’
vedo un ragazzo che mi sfreccia a fianco, inseguito da tre militari.
-
Ecco – penso subito – la città è proprio pericolosa come si dice -. Quando
il ragazzo passa vicino a me, lascia cadere quella che credo sia la refurtiva:
tre scatole di biancheria intima che sembrano... mutande!
Nonostante
il giovane fosse decisamente più veloce, i passanti iniziano tutti ad urlare
“Ladròn, ladròn” finchè qualcuno non lo ferma e permette così alla
polizia di acciuffarlo. E siccome la ressa è proprio nella direzione in cui sto
andando, mi infilo anche io a curiosare. Mi aspetto di vedere un poveraccio,
morto di fame, vestito di stracci come i tanti barboni che si incontrano per
strada. Invece... bah, quasi non ci credo. E’ un ragazzo sui 25 anni, nero,
che indossa una bella magliettina sportiva, pantaloni corti al ginocchio come si
usano qui e un paio di “Nike” nuove ai piedi.
-
Ma... ma... ma... perchè? – Dall’aspetto insomma non sembra uno senza
soldi, e per di più ha tentato di rubare tre mutande! I militari lo ammanettano
e lo portano via, dandogli ogni tanto una manganellata nella schiena giusto per
rassicurarlo un po’. Ciò che più mi ha colpito è però l’atteggiamento
della gente, di approvazione per la polizia e di condanna per il ladro, tanto
che se non fosse stato per loro la polizia non l’avrebbe preso. Chissà perchè
mi vengono in mente situazioni analoghe capitate in alcune grandi città del sud
Italia, dove però l’atteggiamento della popolazione è stato, a volte,
esattamente l’opposto.
Il
giorno dopo visito il “Museo de Antioquia”, con l’immancabile esposizione
di dipinti dell’onnipresente Fernando Botero. Il museo poi è ubicato davanti
alla “Plazoleta de las esculturas”, grande piazza dove son collocate una
ventina di grandi statue di bronzo tutte di... Fernando Botero. Ma, mi chiedo,
prima che nascesse Botero (1932) cosa esponevano nei musei colombiani? Mah...
comunque sono molto belle (e buffe).
A Medellin rimango un paio di giorni e poi mi dirigo verso la vicina Venezuela per passare il week-end fra persone conosciute un anno fa, prima di dirigermi verso le coste del nord.
VENEZUELA
A
Cucuta, ultima città colombiana al confine con il Venezuela, prendo un taxi per
recarmi prima agli uffici dell’immigrazione e poi per fare i pochi chilometri
che mi separano dalla prima cittadina venezuelana.
Quando
arriviamo a circa 10 mt dal confine, il taxi si spegne. C’è una fila
lunghissima e il traffico è molto lento, ma il taxi non ne vuol sapere di
ripartire. Non rimane allora che... spingere! Passo così la frontiera
venezuelana a piedi, spingendo il taxi, fra le risate dei due militari della
dogana!
Nei
due giorni in Venezuela mi ritornano in mente i ricordi dei due mesi trascorsi
qui un anno fa. E inizio a confrontare ogni cosa con la vicina Colombia.
In
effetti i due paesi, pure se vicini, presentano alcune importanti differenze.
Una
delle cose che prima si notano è la generale arretratezza economica e
tecnologica del Venezuela. Questo si rileva osservando il più vecchio parco
auto (ci son tante malconce Cadillac, ex auto lussuose, residui dei fastosi anni
’80 nei quali il Venezuela, grazie al petrolio che possiede, era uno dei paesi
più ricchi dell’America latina), le condizioni delle strade e
l’abbigliamento della gente (particolarmente gli uomini, perchè le donne son
sempre ordinate, ad ogni latitudine, nelle grandi città come nei piccoli e
poveri villaggi).
Le
altre differenze si possono così sintetizzare.
NATURA:
meglio in Venezuela (mar dei Caraibi, foresta amazzonica, savana, alta montagna,
grandi paludi, isole con barriera corallina, cascate). In Colombia è simile, ma
molte zone sono praticamente inaccessibili a causa della guerra civile (per
esempio Amazzonia e savana).
GENTE:
meglio in Colombia, più cordiale e affettuosa dei più “rudi” venezuelani.
SPIAGGE:
il Venezuela, oltre alle stupende isole coralline di Los Roques (un vero
paradiso, anche se “infestate” da italiani!), ha anche tante altre belle
spiagge. In Colombia la costa oceanica non è molto gradevole (sabbia e mare
scuro), rimangono alcune spiagge nella costa caraibica e le due isole di S. Andrès
e Providencia.
COSTI:
bassissimi nei due paesi, ma un po’ più bassi in Colombia (tranne per gli
autobus, più cari).
CARTAGENA
Al
rientro in Colombia, mentre scendiamo attraverso i ripidi tornanti della
“Cordillera Oriental”, incontriamo al bordo della strada un pullman
completamente bruciato. Questa zona, che ora dicono sia più sicura, alcuni anni
fa era molto rischiosa a causa della guerriglia che spesso bloccava gli autobus
per derubare (e a volte sequestrare) i passeggeri, incendiando poi il pullman
prima di dileguarsi nella foresta.
Probabilmente
la notte scorsa è accaduto di nuovo! Via, via, andare!!
Dopo
una mezza giornata e una notte a Bucaramanga, grande città alle pendici dei
monti famosa per una curiosa pietanza locale, la “Hormiga culona”, che è
una specie di formica dal “culo” grande (che però non riesco a trovare da
nessuna parte – non è la stagione giusta adesso), mi dirigo a Cartagena,
bellissima città coloniale che si affaccia sul mar dei Caraibi. Il suo centro
storico, ottimamente conservato, è stato dichiarato dall’UNESCO “Patrimonio
mondiale dell’umanità”.
Estremamente
affascinante poi la lunga e possente muraglia che circonda l’antica città,
costruita in passato per difenderla dai continui attacchi di pirati e bucanieri
(XVI secolo). Nelle varie nicchie sono ancora presenti i cannoni che gli
spagnoli utilizzavano per proteggere le loro ricchezze, che poi altro non erano
che gli ori da loro rubati agli indios. Insomma, era una continua gara a chi
rubava di più.
Finiti
(o quasi) gli ori degli indios, gli spagnoli utilizzarono Cartagena per un altro
importante (ma ancor meno edificante) commercio: gli schiavi neri africani. E
infatti qui, nella costa caraibica (ma anche nella costa pacifica), la
percentuale di popolazione nera presente è molto più alta del resto del paese.
Però,
per i miei gusti qui a Cartagena ci son troppi turisti. E quindi,
inevitabilmente, i prezzi sono più alti. Anche il clima è decisamente diverso.
Dopo le fresche città montane visitate, sono ora in piena zona tropicale, con
clima torrido (30-35°C!) e umido. Il richiamo del mare ormai si fa sentire
sempre più!
Per tutti questi motivi mi trattengo solo due giorni in questa bella città e poi mi dirigo ancora più a nord, in un piccolo paesino di pescatori (e turisti) a 4 ore da Cartagena. Taganga.
TAGANGA
Riesco
a trovare l’ultimo letto libero
in un incantevole (ma caldissimo) hotel a 5 metri dal mare. Hotel “Casa Blanca”,
15.000 pesos (5 euro) con bagno in camera e ventilatore. La stanza ha una
porta-finestra che si affaccia proprio verso il mare (indimenticabile il
risveglio mattutino con “vista mare”) e
nel poggiolino c’è anche un’amaca, ottima la sera per leggere quando
il caldo dà un po’ di tregua.
L’hotel
(e il paesino) è invaso da ragazzi/e israeliani, tanto che io e un attempato
americano siamo gli unici due turisti non israeliani dell’hotel. La prima
notte divido anche la camera con una (molto carina) ragazza israeliana.
Le
loro storie sono uguali. Sono tutti ex militari di leva ed è frequente
incontrarne in Sud America, anche se qui sono proprio tanti. Dopo i tre duri
anni di servizio militare obbligatorio nel loro paese, partono per 5-6 mesi
all’estero, finché gli durano i soldi. Se c’è un limite alla parsimonia,
loro lo superano sempre alla grande. Addirittura ho letto in una guida il
consiglio di seguire i turisti israeliani se si vuole spendere poco. Per cui il
detto “ebreo” per denominare una persona tirchia non è privo di fondamento!
Oltre
questo, hanno un’altra caratteristica che non li rende particolarmente
simpatici rispetto ad altri stranieri: la scarsa socievolezza. Incontrandoli
separatamente si può anche instaurare un dialogo, ma quando sono in gruppo
diventano assolutamente asociali, spesso non salutano nemmeno. Nella settimana
che rimango a Taganga riesco a scambiare qualche chiacchiera con tutti gli altri
turisti che incontro in hotel tranne che con loro (però devo dire che non mi
dispiace affatto: W la Palestina!).
Passano
così tranquilli i giorni in questo piccolo pueblito. Il villaggio sarà lungo
circa 300-400 mt, tutto a ridosso di una spiaggia circolare all’interno di
un’insenatura. La sabbia non è particolarmente bella (non è bianca) ma
l’acqua si e poi, oltre il promontorio, c’è una spiaggia più bella (Playa
Grande) raggiungibile noleggiando una barca (4000 pesos A/R) o a piedi in 20
minuti (consigliabile però solo la sera, quando il sole è meno forte).
Sia
a Taganga che a Playa Grande lungo la spiaggia ci son tanti piccoli ristoranti
(capanne con tetto di foglie di palma) dove si può mangiare del freschissimo
pesce (fritto o alla griglia) a pochi metri dal mare, con i piedi nella sabbia e
con (questo solo a Taganga) musica latina a tutto volume.
Taganga
ha anche un’altra particolarità: è la località in Colombia (e forse nel
mondo) dove le immersioni subacquee e i corsi sub costano meno. Esempi: corso 1°
e 2° livello Padi, 130 euro (4 gg); 2 immersioni in mattinata nella barriera
corallina, con escursione in barca e noleggio attrezzatura, 30 euro. Dopo aver
rinviato più volte, alla fine però rinuncio alle immersioni per una più
interessante escursione di 3 gg al vicino Parque Nacional Tayrona, di cui parlerò
più avanti.
IL
LATIFONDISTA
La
sera, al rientro dalla spiaggia, la mia sosta d’obbligo per una (o, più
spesso, più di una) birra è al ristorantino di una cicciotta e simpatica
signora colombiana. Seduto nel muretto davanti alla strada principale,
sorseggiando una birra gelata e ascoltando salsa come sempre ad alto volume, ho
trascorso piacevoli serate e conosciuto tanta gente del posto. Il fine settimana
poi il villaggio si riempie anche di tanti turisti colombiani, molti dei quali
vengono addirittura dalla capitale.
E
infatti sabato pomeriggio, dopo appena un sorsetto di “Aguila”, mi ritrovo
nel bel mezzo di una tavolata con una decina di colombiani. Alcuni vivono qua,
uno è argentino (e parecchio sbronzo) e altri vengono da Bogotà. A fianco a me
c’è proprio un turista di Bogotà. Dopo un po’ che parliamo (e dopo
parecchie birre alternate a bicchierini di “Ron de Medellin”) quest’ultimo
si “apre” di più e inizia a parlarmi della sua vita. Mi dice che ha una
grandissima azienda agraria vicino alla capitale e .... bla... bla...bla...
All’inizio rimango sbigottito. Un latifondista! Finalmente ne conosco uno! Il
latifondo è, in parecchi paesi Sud Americani, la principale causa di povertà
della popolazione. Enormi appezzamenti di terra appartenenti a poche
(ricchissime) persone. Una volta in Brasile, nel Mato Grosso, ne ho attraversato
alcuni in fuoristrada; ci son volute ore per attraversarli dall’inizio alla
fine. E tutti al centro avevano una lussuosa villa con piscina e antenna
parabolica, che strideva enormemente con le vicine baracche fatiscenti dei loro
dipendenti. Ricordo che provocava una profonda tristezza il vedere un tale
abisso sociale fra persone che fra l’altro vivevano a pochi metri di distanza
le une dalle altre.
E
ora sono qui, che osservo il mio interlocutore mentre mi parla, e un po’ mi
perdo nei miei pensieri. I proprietari dei latifondi li ho sempre immaginati
analoghi a quelle ville lussuose, e quindi persone distinte, eleganti e anche...
profondamente antipatiche. E invece lui indossa una semplice polo giallina e
jeans non vecchi ma neanche nuovi. Ha meno di 40 anni, bianco, capelli corti a
spazzola. Insomma, uno qualsiasi. Però sorride raramente, ha il viso segnato e
apparentemente stanco. Riprendo ad ascoltarlo con più attenzione. Mi dice che
l’azienda va bene, ha abbastanza soldi, viene spesso qui al mare in aereo per
il week-end. Ma... ma... l’azienda è di tutti i fratelli, che prima erano 12:
ora ne sono rimasti vivi 4! La guerriglia ha ucciso gli altri, e lui stesso teme
per la sua vita e per quella dei suoi 2 figli. Gira sempre armato, tranne in
questo momento. Probabilmente però la pistola ce l’ha nell’auto a pochi
metri da noi. Anche qui, nella costa caraibica (territorio controllato dai
paramilitari dell’AUC) dice che è conosciuto, sia dalla polizia che dai paras
e quindi deve stare sempre attento, anche se non come a Bogotà.
-
Perchè non vendi tutto e cambi paese? – gli chiedo. Mi risponde che la sua
azienda è talmente grande che ha un valore enorme, e che quindi nessuno gliela
comprerebbe.
Strano
destino. Qui in Colombia la maggior parte delle persone è condannata alla
povertà per tutta la vita e lui, più che benestante, è condannato
probabilmente a morire, come i suoi 8 fratelli, dalla sua stessa ricchezza. Non
c’è pace per nessuno. Mi invita anche ad andare a visitarlo, quando ritorno a
Bogotà per partire in Italia, Se vado la sera prima usciremo insieme a
“rumbear” (fare festa, gozzovigliare) nei locali notturni. Ma, dopo quello
che mi ha raccontato, non mi attira molto uscire in giro con lui. Ci diamo
quindi appuntamento per le 23 per andare insieme a ballare, e lo lascio per
andare in hotel a lavarmi e poi a cenare.
SABADO
NOCHE EN TAGANGA
Ma,
come al solito, i programmi saltano sempre e così poco dopo mi ritrovo da
tutt’altra parte ad accompagnare a casa sua Natalia, un’artigiana conosciuta
in spiaggia comprando un braccialetto, che ora è troppo sbronza per arrivarci
da sola. Per di più abita lontano, fuori dal paese. Dopo varie soste (ogni
volta che passiamo vicino ad un locale dove c’è musica mi chiede di ballare
con lei in strada, cosa che chiaramente a me non dispiace!) arriviamo a casa
sua. Ha appena il tempo di sdraiarsi in un’amaca che Morfeo se la porta via.
Finalmente posso così lasciarla e riavviarmi all’hotel, all’estremo opposto
di Taganga. Natalia la incontrerò di nuovo diversi giorni dopo e mi dirà che
si è svegliata il pomeriggio del giorno dopo, ancora vestita e con le scarpe
come quando si sdraiò sull’amaca. Hic!
In
discoteca, appena arrivo e ordino la prima birra, conosco due ragazze, Helen e
Andrea, con le quali vado poco dopo a ballare salsa. Sembra che la birra mi
porti fortuna, ogni volta che la ordino conosco qualcuno. O forse è più giusto
dire che con il caldo che fa qui si beve continuamente tutto il giorno, quindi
quando incontro qualcuno è molto probabile che abbia qualche bevanda in mano!
Le
due amiche mi insegnano anche alcuni movimenti del Reggaeton, un nuovo ballo
caraibico ancora più sensuale. Un ballo invece che esiste solo in questa parte
della Colombia è la Champeta, dove praticamente l’uomo e la donna stanno
sempre attaccati strusciandosi in ogni modo, con un ritmo simile al merengue.
Sia la Champeta che il Reggaeton son però, purtroppo, improponibili dalle
nostre parti!
Bella
serata oggi, una delle migliori di tutto il viaggio. Alle 3 la discoteca chiude
e alle 3.01 entrano i militari a sbattere tutti fuori. Storie di orari
inflessibili pare o forse, come alcuni maligni commentano, di tangenti che la
proprietaria non vuole pagare.
Comunque
è sabato notte, sono solo le 3 e fuori del locale siamo in tanti ad essere
rimasti delusi della breve nottata. Ma, dopo un rapido passa-parola, ecco che
una ragazza svizzera (che vive qui da alcuni anni) improvvisa un party nel
giardino di casa sua e invita tutti. Wow! Lunga camminata e infine arrivo.
Ecco
che spuntano fuori degli strumenti musicali usati in tarda serata da un gruppo
di musicisti, i quali ora ripetono la loro performance. Bravissimi.
Ecco
che salta fuori un grande bidone con dentro acqua, ghiaccio e tante bottigliette
di birra. Stupendo.
Ecco
che dopo il concerto improvvisato viene acceso uno stereo a tutto volume con
musica varia, dal rock al reggae, dalla salsa al reggaeton! Non ho più parole.
Mi
godo la serata, la musica, la compagnia di Helen e Andrea e la socievolezza di
tutti, molti dei quali li conosco proprio qui.
Alle
6, mentre albeggia, rientriamo, mentre c’è chi non desiste e addirittura
inizia ad arrostire dei pesci.
PARQUE
NACIONAL TAYRONA
Dopo
un paio di giorni di tranquillo relax “marino”, programmo di andare a
visitare il vicino Parque Nacional Tayrona, bellissima zona verde costituita da
una fitta foresta pluviale che gradatamente discende da una zona collinare fino
alle bianche (finalmente!) spiagge, ombreggiate da palme da cocco, che arrivano
fino a pochi metri dal mare. Ci si arriva prima in pulmino, poi con un
fuoristrada ed infine a piedi o a cavallo.
Decido
così di partire martedì mattina ma lunedì sera, mentre gironzolo nella via
centrale di Taganga, mi ferma un ragazzo conosciuto qualche giorno prima il
quale mi propone di andare
al
parco con lui, che è una guida. Mi propone un’escursione che lui definisce
“naturalistico-culturale-antropologica”, che comprende una visita al Museo
Tayrona di Santa Marta, trekking di 4 ore attraverso la foresta, incontro e
pernottamento con una famiglia di indios e infine 2 giorni di permanenza nelle
spiagge. Il prezzo? Offerta libera, più le spese! Non posso non accettare,
l’escursione assume ora tutto un altro valore rispetto alla sola escursione
naturalistica che avevo programmato. Devo però aspettare 2 giorni, in modo da
andarci insieme a Christopher, una ragazzo svizzero conosciuto stamattina che
vuol venire anche lui. E via, anche questa volta piani rivoluzionati
all’ultimo momento!
Luis,
la nostra guida “per caso”, è un personaggio particolare. E’ appena
uscito di galera, dove è rimasto per 4 mesi a causa di una canna di marijuana
che la polizia gli ha trovato in tasca. In Colombia è vietata ogni tipo e
quantità di droga, anche quella per uso personale e la polizia, piuttosto che
perseguire i trafficanti (che sono molto potenti e quindi pericolosi) si
accanisce con chi la usa (turisti compresi). Per non rinchiuderli in galera
chiede cospicue tangenti, chi invece non ha i soldi per pagarle finisce dentro.
Come Luis.
Partiamo così giovedì mattina io, Luis, Christopher e le due ragazze conosciute sabato, Helen e Andrea. Prima tappa il Museo Tayrona, nella vicina città di Santa Marta.
I
Tayrona erano i più evoluti fra i popoli indigeni precolombiani ma furono anche
la prima comunità che gli spagnoli incontrarono al loro arrivo in Sud America.
Essi rimasero talmente sorpresi dalle loro ricchezze che, per non correre il
rischio di perdere qualcosa, li massacrarono tutti. Iniziò così una ossessiva
ricerca dell’oro che diede luogo anche alla nascita della leggenda dell’El
Dorado, mitico “cimitero” di oggetti d’oro che, tutt’oggi, non è mai
stato trovato.
Dopo
un frugale spuntino (alcuni pezzi di salsiccia fatta con chissà quale carne e
cubetti di arepa calda, cioè frittelle di mais) comprato in una bancarella del
caotico e non certo profumato mercato, facciamo un salto in un market per
acquistare il cibo per la cena di stasera. Per ricambiare l’ospitalità degli
indios infatti gli offriremo la cena. Poi via, 4 ore di cammino faticosissimo. I
tre quarti della strada sono in salita, in mezzo alla foresta, con più di 30°
di temperatura ma, quel che è peggio, con un’umidità altissima. Arriviamo
praticamente fradici al villaggio.
-
ANCHIGAAAA!
-
ANCHIGAAAA!
Questo
è il saluto in lingua india che Luis urla da lontano per avvisare gli indios
del nostro arrivo. D’altronde il telefonino loro non ce l’hanno e neanche
l’e-mail, per cui non sanno nulla del nostro arrivo.
Il
minuscolo villaggio è costituito da appena tre capanne con tetto di paglia,
poste accanto ad un ruscello. Ci sono due uomini giovani, uno anziano, due
ragazze (già con prole!), una donna più grande e 5 o 6 bambini. Sono tutti
vestiti di bianco. Solo gli uomini parlano spagnolo e accettano di parlare con i
“forestieri” come noi. I bambini e le donne parlano solo la loro lingua
india, e queste ultime sono in generale meno disponibili ai contatti con altre
persone.
Luis
viene salutato e accolto da tutti con gioia. E’ da più di 4 mesi che non
viene a trovarli (causa la galera!) e ci fa presente che lui è l’unico al
quale gli indios permettono di restare nel villaggio e dormire anche quando
viene con turisti. Le altre guide, e gli altri turisti che passano qui nel
parco, sono tollerati solo per brevi visite, poi devono andare via. Quando
infatti (il giorno dopo) chiedo ad uno dei due uomini se le visite dei turisti
diano loro fastidio, lui ammette di si perchè questi fanno sempre tante
domande, tante foto, li guardano continuamente, etc. D’altronde il loro
piccolo villaggio si trova proprio al centro del parco per cui di turisti ne
passano spesso.
Ma
per noi è un po’ diverso. Siamo venuti con un loro amico e per di più
abbiamo portato 4 bustoni di viveri. Ce n’è per la cena di stasera e ne
avanza pure per qualche altro giorno.
Luis
ha anche la bella idea di portare un piccolo mappamondo ai bambini, per fargli
vedere come è fatto il mondo e da dove veniamo noi e gli altri turisti che
passano qui. In effetti di scuola non ne ha mai fatta nessuno di loro e
televisione non ne hanno, tuttavia le notizie più grosse arrivano anche qui,
come ad esempio sullo Tsunami in Oriente.
Dopo
un po’ iniziano i preparativi per la cena. Code di serpente, lingua di
tartaruga, cuore di macaco, cosa pensate abbia mangiato in questo villaggio in
mezzo alla foresta, dove gli indios vivono come qualche secolo fa? Spaghetti
alla bolognese!!
Luis
infatti ci spiega che gli indios vanno matti per la pasta per cui inizia a
preparare il ragù. Bè, almeno ho potuto spiegargli che quel piatto era
originario del mio paese.
Dopo
aver cotto gli spaghetti al dente, mette il tappo alla pentola e li lascia a
mollo nell’acqua calda per più di mezz’ora, in quanto deve ancora preparare
il ragù. Comunque alla fine saranno ottimi (c’era anche molta fame, però!).
Dopo
cena i due uomini ci fanno un piccolo concerto con due strumenti a fiato e una
maracas, durante il quale assaggiamo... le foglie di coca! Sono pochine per
avere un qualsiasi effetto stupefacente, ma è giusto per sentire il sapore.
Sono secche, vanno masticate un po’ per farle ammorbidire e poi si tengono fra
la guancia e le gengive, come i criceti!
Vicino
a me ci son Luis ed Helen che parlottano un po’ dei fatti loro. Lavoro, vita
di tutti i giorni, etc. Quando Helen gli dice che a breve, per lavoro, si dovrà
spostare in una cittadina più a Nord, Luis le risponde abbassando di molto il
volume della sua voce. La cosa però attira ancora di più la mia attenzione.
E’ dai discorsi che la gente locale tiene fra di loro che spesso si conosce
molto di più di un paese di quanto non ci venga raccontato (a noi turisti)
direttamente. Questo perchè spesso le informazioni che “volontariamente” ci
vengono riferite sono filtrate dall’occasionale convenienza o interesse che
possono avere verso il turista.. Luis le dice che quella zona era in passato
pericolosa per la presenza dei paramilitari dell’AUC, ed Helen gli replica che
ora è anche peggio. Ha parlato da poco con un suo amico appena rientrato il
quale le ha detto che, periodicamente, i paras stanno riprendendo a fare
la “limpieza”, cioè pulizia. Di
che cosa? Di quelli che loro ritengono “pesi” o meglio “rifiuti” della
società. E cioè i barboni (che infatti in Colombia vengono chiamati “desechables”,
letteralmente “vuoti a perdere”; la scritta “desechable”
compare nelle bottiglie della Coca Cola), gli omosessuali, i piccoli
delinquenti. I paras girano in borghese, e quando trovano un barbone che
dorme in un angolo della strada lo pestano oppure gli sparano direttamente un
colpo in testa. Per questo la notte i desechables cercano di stare svegli
e di dormire solo di giorno.
Luis
poi le dice che da poco si è comprato un nuovo vestito, non certo per il gusto
di farlo ma per evitare proprio i problemi della “limpieza”,
visto che anche lui talvolta dorme per strada. Il vestito nuovo praticamente è
il suo “lasciapassare” per poter dormire o circolare per strada più
tranquillamente.
Non
intervengo nell’argomento solo perchè ho notato che parlavano a voce bassa,
forse per timore (o vergogna) che noi stranieri veniamo a conoscenza
dell’inferno che si nasconde in questo apparente paradiso.
La
notte dormiamo in una capanna che i guardiaparco hanno affidato in custodia agli
indios. – Ma – ci avverte l’indio – domani mattina dovete uscire presto,
c’è il pericolo che arrivino le guardie e non è permesso entrare in quella
capanna -.
La
mattina dopo ci alziamo alle 6,30 e alle 7, appena mettiamo il piede fuori,
incontriamo un guardiaparco che ci sgrida per benino (soprattutto a Luis) e che
poi va a lamentarsi anche con gli indios. Per sistemare tutto ci tocca pagare la
tassa d’ingresso nel parco di 20.000 pesos che finora avevamo evitato. Poi
salutiamo tutti e ci avviamo verso la spiaggia, incontrando nel tragitto diversi
resti della città precolombiana “Pueblito”.
IL
MARE
La
spiaggia (Cabo San Juan) è bellissima. Sabbia bianca e belle palme da cocco. In
acqua ci sono anche tante rocce di granito levigate dal mare, che ricordano
tanto quelle del Nord Sardegna. In più c’è un piccolo campeggio dove si può
affittare un’amaca a 5000 pesos a notte (1,60 euro), servizi con WC e doccia
(senza lavandini) e un piccolo ristorante bar. Nient’altro, solo natura
intorno. Che dire, il pernottamento più economico di tutta la Colombia mi
capita proprio in un angolo di paradiso. Meriterebbe senz’altro più giorni,
ma ormai il mio tempo è quasi scaduto e dopodomani inizia il viaggio di
rientro.
La
notte ci uniamo ad un gruppo di ragazzi che son accampati vicino alla spiaggia,
davanti ad un bel fuoco. Ci son due giocolieri colombiani che fanno volteggiare
torce accese, ci son due ragazze europee (Olanda e Francia) che sono in viaggio
anche loro da sole, due guide turistiche (due ragazzi di Santa Marta) e noi 5.
Helen mi sorprende quando prende le due torce e inizia anche lei a farle
volteggiare. Mi spiega poi che ha imparato grazie al suo lavoro di artigiana
ambulante, che la porta spesso in contatto con artisti da strada.
Ci
offrono il mate, bevanda argentina simile ad un thè forte, e poi rum. Sono
tutti gentili, infatti non c’è l’ombra di un israeliano! Per ricambiare
vado al bar e prendo altro rum, che qui vendono in brick da 1 litro. Inutile
dire che del rum non ne rimarrà neanche una goccia. Inutile anche dire che poi
non c’è voluto molto tempo per prendere sonno, con grande gioia delle 44.000
zanzare che, in fila per sei col resto di due, mi hanno punto ogni centimetro di
pelle scoperta e non, arrivando anche a pungere attraverso i jeans. Riporterò
così integra in Italia la mia bella bomboletta di OFF spray (repellente per
insetti) felice di aver attraversato mezzo mondo senza essere stata neanche
aperta.
Il
giorno dopo, sabato, si rientra.
Non potevo trovare luogo migliore per concludere il viaggio colombiano. E pensare che la settimana scorsa, a Cartagena, un ragazzo italiano che vive lì da alcuni anni mi sconsigliò fortemente di andare al Parque Tayrona. Diceva che l’anno scorso la guerriglia aveva sequestrato un gruppo di turisti. Bah, anche questa volta il non ascoltare gli avvertimenti allarmistici che abbondano sulla Colombia mi ha permesso di scoprire un posto incantato.
Nell’ultimo
tratto il pullman viene fermato ad un posto di blocco. Sale un militare armato
fino ai denti e ordina agli uomini di scendere. Embè, e le donne perchè no??
Giù
solita perquisizione con le mani in alto poggiate al bus, che però questa volta
furbescamente riesco ad evitare mettendomi alle spalle del militare che sta
“palpando”. Ma poi al controllo documenti vengono trattenute solo due
persone fra tutti i passeggeri: Christopher e io! Lui non ha il passaporto, io
invece ce l’ho ma in fotocopia. Ma come, non si capisce che siamo due semplici
turisti, con le facce e gli abiti da turisti? Ma il militare, con la faccia e
l’abito da militare, non è convinto e si consulta con il comandante. Poi
forse vedono come siamo conciati e capiscono che di soldi non ne dobbiamo avere
tanti appresso, e ci lasciano andare.
Risalgo
sul pullman e trovo posto a fianco di un uomo che ha in mano un pollo vivo,
tenuto per le zampe a testa in giù. Il pollo è tranquillo, sembra ormai
rassegnato al suo prossimo futuro culinario ma, ogni tanto, ci ripensa e prova a
ribellarsi, starnazzando. Dall’altro lato del mio sedile c’è una ragazza
francese che si impietosisce per la bestiola e inizia a protestare verso il
“señor colombiano”, il quale però la ignora completamente. Lei allora ci
prova un’ultima volta dicendogli che non può tenerlo così, perchè è una
tortura. L’uomo allora si gira e, pacatamente, gli risponde: – No es una
tortura, es una comida! – (Non è una tortura, è una cena). Tutti quelli
vicini iniziano a ridere, io compreso. La francesina dal viso candido incassa la
sconfitta e non apre più bocca, consolata dal suo ragazzo (colombiano) che ogni
tanto ci ripensa e si mette a ridere anche lui!
IL
DENTISTA-PIZZAIOLO
Oggi
è sabato, e di notte è immancabile una visita al “Garaje”, l’unica
discoteca qui a Taganga. Ho l’occasione per salutare le tante persone che in
questa settimana ho conosciuto. Prima faccio un salto a provare le pizze che
Junior, un ragazzo conosciuto una notte in discoteca, prepara ogni sera nella
sua mini casa-pizzeria.
La
pizzeria è costituita da un monolocale dove c’è un letto in un angolo, un
divanetto e due sedie in un altro angolo, un tavolino al centro dove prepara le
pizze, un frigo da un’altra parte e il bagno. Fuori invece c’è il forno, un
cubo di metallo dove cuoce le pizze, a gas. Junior è di Bogotà e ha studiato
per diventare dentista. Finiti gli studi, iniziò la professione nella capitale,
ma si aprì anche un’agenzia di assicurazioni con un altro socio, che gli
rendeva molto. E lavorava tanto. Troppo! Decise così di mollare tutto e andare
a vivere nella costa. Ora fa l’istruttore sub e, le sere, il pizzaiolo.
Sembra
una delle storie che ho sentito tante volte in giro per il mondo, quando
incontro persone “occidentali” che si son stufate della nostra vita
frenetica e hanno piantato tutto per andare a vivere con più serenità. E’
molto raro invece sentirlo dire da un sud-americano che prima guadagnava tanto.
Bravo Junior, ottima scelta. E la pizza è anche buona! – Esame superato –
gli dico – la tua pizza è piaciuta ad un italiano! –
Gli
altri clienti presenti, sentendomi, si compiacciono anche loro con Junior. Eh...
gli stereotipi italiani son conosciuti in tutto il mondo!
Domenica
ultimo “pargo a la plancha con patacones” (pesce alla piastra con banana
fritta) e birra Poker, nel ristorantino-capanna in spiaggia, con salsa/merengue/vallenato
di sottofondo e piedi sotto la sabbia!
Adiòs,
Colombia! Y... suerte!
INFORMAZIONI
PRATICHE (1 Euro = 3020 pesos)
VIVA
L’EURO!!
Anche
in Colombia, con l’euro in tasca si diventa dei Paperon De Paperoni !
HOTELS
-
Bogotà.
Hotel El Dorado, quartiere La Candelaria (centro città), carrera 4 n° 15:
18000 pesos la singola, 25000 la doppia, con bagno, acqua calda (un filino) e TV
malandata.
-
Cali.
Guest House Iguana, calle 21: posto letto 14000 pesos, stanza doppia 20.000
pesos, con ventilatore e bagno in comune.
-
Salento.
Hosterìa Calle Real, carrera 6: 25000 la singola, con bagno, tv e ventilatore
(fa freddo, non c’è bisogno).
-
Medellin.
Hotel Plaza, parque Bolivar: 17000 pesos stanza matrimoniale con bagno,
ventilatore e tv.
-
Bucaramanga.
Hotel Balmoral, carrera 21 n° 34: stanza doppia 15000 pesos, con ventilatore,
tv, bagno e acqua calda.
-
Cucuta.
Hotel Internacional, calle 14 n° 4: stanza doppia 15000 pesos, con ventilatore
e bagno in camera.
-
Cartagena.
Hotel holiday, calle De La Media Luna n° 10: 8000 pesos stanza (un buco!) con
letto singolo e ventilatore, bagno in comune.
- Taganga. Casa Blanca, carrera 1 n° 18 (davanti alla spiaggia): posto letto in camera doppia 15000 pesos, con ventilatore e bagno. Caldo a volontà ma vista fantastica.
RISTORANTI.
Comida corriente, cioè pasto comune costituito da una minestra con pezzi
di verdura, un secondo piatto con riso bianco, un pezzo di carne o pesce,
fagioli o lenticchie, patate, insalata e banana fritta, oltre ad un frullato di
frutta: 3500-4000 pesos, cioè 1,20 euro.
Oppure
Churrasco, cioè bistecca di bovino con patate fritte e insalata, a 6000
pesos (2 euro).
1
bottiglia di birra piccola, 1500 $ (0,50 euro).
Per
la strada, 1 bicchierone di plastica con cubetti di frutta appena tagliata e
stecchino: 500 pesos (16 cent/euro) – frutta a scelta fra mango, papaya,
ananas e anguria. Slurp!
INTERNET.
1 ora a 1500-2000 $ (0,50-0,70 euro).
TAXI.
Nelle grandi città usano il tassametro, per cui non bisogna contrattare. Nei
piccoli centri invece niente tassametro e quindi si contratta. Costo in città:
circa 1-2 euro in centro, 3-4 per la periferia.
TELEFONO.
Dai centri di telecomunicazione: per l’Italia, 800 pesos al minuto per i
fissi, 1200 per i cellulari.
AUTOBUS
Bogotà
– Cali: 45000 pesos (normalmente 12 ore, con autista kamikaze 10 ore!).
Cali
- Armenia: 15000 pesos, 4 ore.
Armenia
- Medellin: 27000 pesos, 6 ore.
Medellin
– Bucaramanga: 57000 pesos.
Bucaramanga
– Cucuta: 25000 pesos, 6 ore.
Bucaramanga
– Cartagena: 62000 pesos, 12 ore.
Cartagena
– S. Marta: 17000 pesos, 4 ore.
S.
Marta – Taganga: 800 pesos, 15 minuti (taxi 5000 pesos).
Santa
Marta – Bogotà: da 55000 a 90000 pesos, a seconda della compagnia, 12 ore.
(*)
Fonti e links “indipendenti” per approfondimenti sulla situazione politica:
Siti
blog del povero Enzo Baldoni:
FOTO
L’album
fotografico online si può consultare cliccando qui sotto:
oppure
copiando questo indirizzo sul browser:
http://it.pg.photos.yahoo.com/ph/colombia_032005/album?.dir=/78ab&.src=ph&.tok=phoZ8BDB8m.EpR1K
Pietro
Messa