IL CAUCASO A MODO MIO
PARTE PRIMA
ARMENIA
Sono arrivato in Armenia questa mattina con un volo da Praga; adesso sono seduto su una dura panca di legno in un atrio che non merita l’appellativo di “hall”, osservando la cameriera del piccolo bar rigovernare tavoli e sedie mentre aspetto che faccia giorno per uscire dall’aeroporto e raggiungere il centro. Già ieri sera, all’aeroporto di Praga, guardavo incuriosito gli altri passeggeri, ascoltando la loro incomprensibile lingua, osservando i lineamenti dei genitori che controllavano gli scatenati bambini, studiando i vestiti, gli sguardi, i volti di questo popolo per noi così misterioso. Come sempre, l’idea di andare in un paese pressoché sconosciuto, anche se non lontano, mi affascinava moltissimo. Durante il mio viaggio, ai tanti che mi hanno chiesto: “Why Armenia?”, ho risposto: “Why not?”. Sono sempre stato attratto dai paesi che non conosco. Non attratto turisticamente, nel senso di voler visitare musei o monumenti importanti; quanto dalle persone, dai popoli, dai volti, ognuno con la propria storia, le proprie idee, il proprio modo di vestire, di parlare, di comportarsi. Quando vado in un posto, cerco sempre di osservare la gente, capire come viva, quali problemi incontri, con quale spirito e con quali mezzi li affronti.
Viaggio sempre solo, ma mai impreparato. Questa notte alle quattro, quando l’aereo è atterrato in questo assurdo aeroporto rotondo che fa sembrare quello di Mosca l’ultimo ritrovato della tecnologia, sono stato subito assaltato dai taxisti che si offrivano di portarmi in città. Ma io volevo prendere l’autobus, e sapevo che il primo partiva alle otto, così mi sono armato di pazienza e mi sono seduto nella sala d’aspetto, facendo lentamente passare le ore e osservando la vita intorno a me: la cameriera del bar che serve i clienti buttando ogni tanto un occhio alla telenovela sul piccolo televisore appeso ad una parete; le donne delle pulizie che lavano il pavimento, un gruppo di ragazzi che aspettano l’arrivo dei loro amici, gli altri tassisti che ogni tanto si fanno avanti con me, che rifiuto gentilmente ma fermamente nel mio russo stentato (come mi aspettavo, sono pochissime le persone che parlano inglese) le loro insistenti offerte.
E non sono rimasto sorpreso quando ho scoperto che non c’erano indicazioni per la fermata dell’autobus, perché tanto questo non passava, e così ho dovuto improvvisare e salire su un taxi collettivo spiegando a gesti che volevo essere lasciato al capolinea della metropolitana.
Devo dire, però, che una cosa mi ha molto colpito in positivo: quando sono andato a ritirare il mio bagaglio, alcuni addetti hanno confrontato l’etichetta sulla borsa con quella sul mio biglietto, per essere sicuri che non mi stessi portando via la valigia di un altro. Questo sì che è un controllo utile, e che in nessun aeroporto, nemmeno nella tanto organizzata Europa occidentale, mi avevano mai fatto! E’ proprio vero che in ogni luogo c’è sempre qualcosa da imparare.
Qui tutto è così vero, genuino, ordinatamente disorganizzato. Questo posto così lontano, almeno nell’immaginario, ed ancora immune al turismo di massa, che io mi accingo a visitare in solitario, senza conoscere nessuno né aver prenotato niente è davvero ciò che ci vuole per vivere un’avventura di quelle con la A maiuscola, e non vedo l’ora di cominciare a vivere e a raccontare le mille e mille difficoltà, persone, finestre sulla vita quotidiana che mi stanno aspettando in questo incredibile viaggio.
La prima cosa che colpisce qui a Erevan, capitale dell’Armenia, è il caldo. Un caldo asfissiante, soffocante, che impedisce di respirare e spinge a cercare riparo nei molti parchi e giardini che si trovano ovunque in città, e che almeno proteggono dal sole, ma non certo dall’afa.
In mezzo a uno di questi parchi c’è un bar con dei tavolini, quasi tutti occupati. Mi siedo per riprendere fiato e per mangiare qualcosa, mentre mi guardo attorno per osservare meglio gli armeni, popolo pressoché sconosciuto da noi. Le cameriere dai lunghi capelli scuri, prosperose e scollate, fanno svogliatamente la spola tra i tavoli e la cucina; anch’esse sembrano patire la calura. Quella che mi serve non capisce l’inglese, ma non è difficile ordinare un hamburger; poi, provo ad abbozzare un “grazie” in armeno (che ho avuto l’accuratezza di studiare prima di partire) sperando di generare un sorriso; ma non ottengo grandi risultati.
L’afa è soffocante: nel piccolo laghetto tra gli alberi alcuni bambini stanno facendo allegramente il bagno. Agli altri tavoli intorno a me, gruppi di famiglie chiacchierano svogliatamente, bevendo una coca o un te freddo e stando bene attenti a non uscire dall’ombra.
Forse è per via del caldo che Erevan è una città d’acqua: in ogni angolo ci sono fontane che rinfrescano l’aria e permettono di dissetarsi. Piazza della Repubblica, in centro, ne è l’emblema: due grandi getti d’acqua riempiono una grande vasca che occupa tutto lo spazio disponibile, riflettendo i possenti edifici che la circondano: la Galleria Nazionale, il Ministero degli Affari Esteri, il Marriott Hotel, l’ufficio postale. Tutti costruiti intorno a questa specie di lago per creare una vista spettacolare.
Ci sono anche delle fontanelle da cui bere; io all’inizio sono un po’ timoroso, non so se fidarmi; ma poi, vedendo che tutti bevono senza problemi e decidendo che non posso spendere un capitale in acqua, decido di approfittarne, tanto che verrò qui ogni giorno a riempire le bottiglie vuote.
Dopo mangiato mi rifugio presso l’ostello, dove non c’è l’aria condizionata ma le volonterose ragazze che lo gestiscono hanno installato dei ventilatori; dopo qualche ora di meritato riposo, alla sera, torno in piazza a fare due passi.
Resto a bocca aperta: tutti le costruzioni sono illuminate a giorno e si riflettono sull’acqua creando un effetto davvero magico. Potrei stare qui delle ore ad osservare lo spettacolo, e anche gli abitanti del posto non sono indifferenti: c’è un’incredibile affollamento di persone, soprattutto giovani, che vengono qui a passeggiare, si siedono sulle panchine, guardano la piazza illuminata mangiando un gelato: sembra di essere in una capitale europea tanta è la vita notturna che ruota intorno a questa piazza. Mi piace la gente, mi piace vedere tante persone che escono, si divertono, parlano, rendono vivo un luogo già esteticamente bello di suo.
Anch’io mi siedo, voglio farmi un’idea di questo popolo tanto lontano, e resto a guardare la gente che passa, soprattutto le ragazze, tutte vestite all’occidentale con borsette eleganti e gli immancabili cellulari. Quelle più giovani camminano a gruppi, schiamazzando allegramente; le trentenni, invece, si accompagnano a giovani alti e robusti, con capelli cortissimi e profondi occhi scuri.
Anche i lineamenti delle donne sono orientaleggianti, anche se non propriamente arabici: pelle leggermente scura, grandi occhi neri ed infossati, naso appena adunco, ed un generoso fisico che minigonne e vestiti attillati rendono molto attraente. Ma, forse, si tratta semplicemente di essere attratti dal diverso, da tutto ciò a cui non siamo abituati e che quindi stuzzica, a ragione o a torto, il nostro interesse.
Proseguo
nell’esplorazione di questa città dove vivono oltre un milione di abitanti,
così a tarda sera scopro un’altra fantastica sorpresa: l’Opera.
Non tanto per l’edificio in sé (pure notevole), ma per l’enorme piazza
antistante, interamente pedonale, affollata
da centinaia di giovani che passeggiano, si siedono sulle panchine, ascoltano
musica. Il retro della piazza è occupato da un altro enorme giardino, nel quale
sono stati ricavati decine di bar, ristoranti, pizzerie, tutti all’aperto e
tutti affollatissimi di ragazzi. In nessuna città avevo mai visto un simile
centro di aggregazione: camminando per i sentieri del parco passo accanto ai
vari locali stracolmi di clienti, con tavolini, fontane, musica dal vivo, uno
addirittura attrezzato con tavoli da biliardo all’aperto. E poi gente, gente
giovane: davvero incredibile la quantità di persone che vengono qui alla sera a
svagarsi, ad ascoltare musica, a baciarsi sulle panchine. Sembra che l’intera
Erevan si dia appuntamento qui alla sera, e noterò poi che ciò avviene ogni
giorno, anche nelle serate da noi più “vuote” come la domenica o il lunedì.
E’ fantastico stare in mezzo alla folla, una folla comunque ordinata, senza
risse, senza scippi, senza ubriachi, formata solo da tanti giovani che hanno
voglia di uscire di casa. Questo significa anche che, comunque, i soldi da
spendere ci sono: tutti questi ragazzi e ragazze vestiti bene, col cellulare,
che escono a divertirsi sono sicuramente sintomo di un paese con un futuro.
Certo,
per strada si vedono anche mendicanti, o comunque gente che non ha niente da
fare, soprattutto donne di una certa età; ma vedere tutta questa folla di gente
serena, sorridente, fiduciosa per il presente e speranzosa nel futuro mi
rallegra. Significa che le difficoltà del passato, legate soprattutto
all’indipendenza da Mosca, sono in fase di superamento e che gli armeni hanno
davanti a loro giorni migliori di quelli che si sono lasciati alle spalle.
Oggi sono andato in giro per la città, e ne sono stato piacevolmente sorpreso. La prima cosa che colpisce è la quantità di verde: ovunque, in centro come in periferia, ci sono parchi e giardini dove la gente può ripararsi dal caldo, sedersi ad un tavolino, bagnarsi nelle fontane. E per fortuna, perché dopo aver percorso un breve tratto esposto al sole, ho dovuto sedermi a riprendere fiato, quasi spossato dalla calura che io soffro particolarmente. Ho notato, però, che nonostante il caldo gli uomini indossano sempre pantaloni lunghi: io, con la mia canottiera scollata e i calzoncini cortissimi, sono continuo oggetto di sguardi curiosi. Mi sento un po’ a disagio ed inquieto, ma Ani, la graziosa receptionist del modernissimo ostello a due passi dal centro, mi ha assicurato che la città è sicura e che non corro alcun pericolo: ed io non ho motivo per non crederle (un minimo di incoscienza ci vuole sempre…).
Raggiungo
quindi la Cascata dove, a dispetto del nome, non si trova acqua ma
un’imponente scalinata che sale in cima ad una collina da cui si vede tutta la
città e sulla cui sommità è stato posto un glorioso monumento alla libertà.
Alla base della salita c’è un altro giardino, decorato dall’allegra statua
di un gatto gigante.
Per
chi non ama faticare ci sono le scale mobili, ma io non mi perdo certo
l’occasione di farmela a piedi finché, superato da poco il cinquecentesimo
gradino, un inserviente mi ferma e mi dice che non posso proseguire: la cima si
può raggiungere solo dall’interno! Potevano dirlo subito; ma non mi arrabbio,
so che in questi paesi bisogna avere tanta pazienza…
*
* *
Cerco di stare lontano dall’ostello, dove si è
stabilito un gruppo di americani chiassosi che di notte schiamazzano per i
corridoi ad alta voce, mentre di giorno occupano la sala ricreazione collegando
il lettore DVD al televisore per guardare disgustosi film dell’orrore così
cammino moltissimo, a dispetto del sole inclemente.
Passeggiando osservo che, per strada, ci sono molti
poliziotti, la cui presenza però non è asfissiante, ma tranquillizzante. Si
limitano a guardarsi intorno, soprattutto nei luoghi affollati, controllando la
situazione come una madre affettuosa controllerebbe il figlioletto che gioca nel
parco. Ogni tanto si fermano a chiacchierare con qualcuno, ma in generale non li
si nota nemmeno. A differenza dell’Italia, dove la polizia serve solo a dare
le multe, qui le persone si sentono protette, vigilate ma non sorvegliate.
In compenso, il traffico è assurdo e caotico: qui a
Erevan l’unico vero pericolo è quello di essere investiti, perché le auto
fanno quello che vogliono. Cambiano direzione all’improvviso, passano col
rosso, non rispettano minimamente i pedoni che, a loro volta, se ne infischiano
del traffico attraversando come e quando vogliono. E’ una specie di caos
organizzato, in cui ognuno fa quello che vuole ma, nonostante tutto, non
succedono mai incidenti seri (almeno, io non ne ho mai visti). Anche perché le
auto non sono tante: quasi nessuno può permettersi di comprarne una, e così il
mezzo di trasporto più usato è il mashrutka:
un pulmino con una decina di posti che gira per la città caricando e scaricando
le persone, più o meno come un autobus (di cui ho visto pochissimi, sgangherati
esemplari). Non esistono fermate: ognuno sale dove vuole, semplicemente
allungando un braccio all’arrivo del mezzo; paga una tariffa bassissima, e
quando vuole scendere lancia un grido al conducente. Esistono decine di linee
diverse, ognuna col proprio percorso e un cartello esposto sul parabrezza; gli
autisti non sono proprietari dei mezzi, ma si riuniscono in cooperative con cui
possono dividersi lavoro, ricavi e costi senza farsi concorrenza. E se da un
lato questi pulmini che si fermano e ripartono all’improvviso ad ogni angolo
di strada creano non poca confusione, dall’altro aiutano sensibilmente a
ridurre il traffico, perchè con essi una persona può raggiungere qualsiasi
angolo della città, anche il più periferico, e senza dover aspettare molto
poiché i mashrutka arrivano a getto
continuo. Mezzi come questi, sebbene con nomi diversi (in generale vengono
indicati come taxi collettivi), ne ho
visti dovunque, in Asia come in Africa, e non ho mai capito perché non abbiano
preso piede in Europa occidentale, dove aiuterebbero di sicuro a ridurre buona
parte del traffico urbano ed anche interurbano, dato che esistono linee dirette
verso le altre città. Forse qui la gente ha minore esigenza di spostarsi
rispetto a noi? Può essere in parte vero per le strade extraurbane, dato che
quasi tutti vivono e lavorano in città, ma per quanto riguarda la copertura
urbana sarebbero sicuramente utilissimi, veloci e comodi. Non posso fare a meno
di pensare che ciò accade perché le case automobilistiche sarebbero molto poco
contente di questa innovazione, così come la lobby dei taxisti “ufficiali”,
pure anche qui presenti, ma ai quali io evito assolutamente di rivolgermi.
*
* *
In
giornata mi telefona Nana, una ragazza di Erevan che avevo conosciuto su
Internet qualche settimana prima di partire e alla quale avevo lasciato il mio
numero sperando di organizzare un incontro. Decidiamo di vederci per la cena: le
lascio l’indirizzo dell’ostello e mi preparo come si deve. Ho visto molte
belle ragazze in giro per la città, e spero che lei non sia da meno. Purtroppo
resto un po’ deluso quando la vedo: non è certo uno schianto, ma non importa:
non sono venuto in Armenia in cerca di avventure galanti, e comunque passare una
sera in compagnia di una ragazza del posto sarà sicuramente piacevole.
Passeggiamo
un po’ in centro, verso Piazza della Repubblica che è il posto migliore per
rinfrescarsi. Nana non è certo una camminatrice, e coi suoi tacchi alti procede
lentamente, tanto che devo stare attento a non lasciarla indietro. Il centro
geografico della città è un grande cantiere: ci sono moltissimi edifici in
costruzione, che, come la mia amica mi spiega, sono destinati a diventare uffici
e centri commerciali. Dunque il progresso è in arrivo anche qui a Erevan;
peccato che tutti questi lavori in corso, con tanto di gru, polverose
impalcature e strade rovinate dai martelli pneumatici diano alla città
un’aria di degrado che non merita.
Dopo
aver fatto rifornimento di acqua, andiamo a cena nella zona dell’opera;
nonostante siano quasi le otto, l’afa è ancora opprimente, così ci sediamo
ad un tavolo vicino ad una fontana sul cui bordo sonnecchia una tartaruga.
Nana,
che parla benissimo l’inglese, mi racconta un po’ di lei: figlia di padre
russo e di madre armena, è nata a Erevan ma si considera russa a tutti gli
effetti.
“Io
parlo solo in russo, – mi spiega – leggo libri russi e i miei amici sono
tutti russi. Non mi sento affatto armena, è solo il luogo dove sono nata, ma
non mi ci sento legata. La mia cultura è russa.” Di lavoro fa la traduttrice,
manco a dirlo, dall’armeno al russo.
Le
chiedo cosa pensa dell’Armenia, se anche lei, come me, ritiene che il futuro
sarà positivo.
“Non
so, ci sono molti problemi”. Mi dice che la disoccupazione è alta, e che i
giovani fanno fatica a trovare un impiego stabile. Ribatto di aver visto molti
ragazzi vestiti bene, con il cellulare: significa che hanno soldi da spendere.
“Il
cellulare da noi è praticamente obbligatorio – mi dice lei, sorridendo –
perché i telefoni fissi non funzionano. Qui non funziona niente. La benzina
scarseggia, e per molti anni dopo l’indipendenza, non avevamo nemmeno il gas
per scaldarci d’inverno.”
Resto
un po’ sorpreso: “Ma come, se ci saranno quaranta gradi!”
“In
agosto sì, ma d’inverno cade un metro di neve”. Con questo caldo, mi sono
dimenticato che Erevan si trova a quasi mille metri d’altezza.
Scherzi
a parte, Nana mi racconta di come l’Armenia abbia effettivamente pagato un
caro prezzo per l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Con la sua svolta ad
occidente si è attirata da subito le antipatie di Mosca, che per prima cosa ha
chiuso tutti i gasdotti che portavano il metano dal Mar Caspio, costringendo il
paese a passare gli inverni senza riscaldamento e senza nemmeno poter scaldare
l’acqua per cucinare. Lei era una bambina allora, ma si ricorda benissimo i
tempi duri che la sua famiglia ha dovuto affrontare.
“Mio
padre voleva anche andarsene, tornare in Russia, ma non poteva perché le
frontiere erano chiuse. Così siamo rimasti.” Dopo questo racconto, comincio a
guardare lei e gli altri armeni con occhi diversi.
“Non
sei arrabbiata per questo? – la incalzo – Non dovresti odiare i russi?”
Nana
ci pensa un po’ su, poi risponde:
“No,
io non mi interesso di politica, come quasi tutti i giovani qui. Il passato è
alle spalle, ora tutti guardano al futuro”.
“E
tu, come russa, sei mai stata discriminata, o trattata male dagli armeni?”
“No,
- sorride – nessuno qui fa delle generalizzazioni. Certo, molti armeni non
vedono i russi di buon occhio, ma io sono sempre stata trattata come una di
loro. In fondo sono nata qui, vivo con loro, mangio con loro, solo le miei
origini sono russe, ma nessuno mi hai mai disprezzata per questo”.
Nana
si accende una sigaretta dietro l’altra mentre parla, cosa che ho visto fare a
molti giovani; un pacchetto di sigarette russe costa mezzo euro, pochissimo per
noi, molto in relazione allo stipendio medio locale.
La
conversazione scivola su binari più leggeri; mostro alla mia amica la guida
Lonely Planet del Caucaso, scritta in italiano, che lei prova a leggere e a
tradurre con un discreto successo, avendo studiato anche il nostro idioma, oltre
all’inglese e allo spagnolo. Nana rimane sorpresa da come io riesca a leggere
l’armeno, una lingua indoeuropea molto particolare, che certo pochi stranieri
si preoccupano di imparare. E’ una lingua molto strana: possiede sette casi,
ma un solo genere. Il suo alfabeto, unico al mondo e completamente diverso da
qualunque altro, è stato codificato dal monaco Mesrop Mashtots agli inizi del V
secolo, principalmente allo scopo di tradurre i testi religiosi. Molti termini
derivano dal persiano, o addirittura dal sumero, quindi l’armeno è pressoché
incomprensibile per gli stranieri. Io, però, mi sono preoccupato di studiarlo
un po’, almeno per saperlo leggere, perché è sempre molto utile sapersi
orientare nelle stazioni o leggere i nomi delle strade.
Nana
mi spiega che in realtà esistono due tipi di armeno: quello occidentale, più
moderno, parlato dagli armeni che vivono all’estero, nei vari paesi del medio
oriente; e quello orientale, più simile all’armeno classico, parlato nella
madrepatria. Per me, naturalmente, è impossibile cogliere la differenza, anche
se la mia amica dice che le due pronunce sono molto diverse, qualche volta
persino incomprensibili tra loro. La divisione è nata quando l’Armenia era
una nazione molto più vasta di quella attuale, e occupava buona parte di quella
che oggi è l’Anatolia turca; in seguito alle varie guerre ed occupazioni, con
la conseguente diaspora, i vari gruppi etnici si sono allontanati tra di loro e
nel tempo anche la lingua è cambiata.
Le
racconto dei miei propositi di andare a sud, dove però lei non è mai stata.
Conosce solo i dintorni di Erevan, soprattutto il lago Sevan, dove in estate
moltissimi abitanti della capitale vanno a cercare un po’ di refrigerio.
“Andrai
anche al lago? Sì sta bene là.” mi domanda.
“Penso
di sì, ma più avanti, anche se non ho un programma dettagliato. Prima andrò a
sud, poi girerò per le montagne qui a nord”.
E’
stata anche lei sulle montagne, ma non ne sa molto. La sua vita si svolge quasi
interamente qui, nella capitale.
La
mia amica ha finito le sigarette, e anche la tartaruga ha completato il suo giro
intorno alla fontana. E’ ora di andare. Arriva il cameriere, che scambia due
parole con Nana, che lo conosce bene (allora la scelta del locale non è stata
casuale!), e mi presenta il conto: dieci euro per una cena in due persone,
comprese un paio di birre a testa! Ah, Dio benedica l’Armenia…
Echmiadzin è la sede della Chiesa Apostolica Armena (l’equivalente armeno, anche se molto più in piccolo, del nostro Vaticano). In questo luogo, nel IV secolo d.C., San Gregorio Illuminatore fece erigere la prima Chiesa Madre dell’Armenia (Mayr Tachar), scegliendo il posto perché gli era stato indicato da Gesù in una visione. Qui Papa Giovanni Paolo II celebrò una messa nel 2001, e sembra che il tesoro, custodito nel retro della Chiesa principale, contenga la punta della lancia usata per trafiggere il costato di Gesù, che però non è visibile al pubblico. Oltre a questa, vi sarebbero custoditi alcuni frammenti della Santa Croce e dell’Arca di Noè.
L’Armenia è stato il primo paese al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato, e gli Armeni sono tuttora molto credenti. In tutte le chiese che ho visitato ho visto molte donne, anche giovani, coprirsi la testa con uno scialle prima di entrare in Chiesa, farsi il segno della Croce a ripetizione e uscirne poi camminando all’indietro, per non voltare le spalle all’altare. Echmiadzin, in particolare, è un luogo fondamentale per tutto il popolo armeno che vi si reca spesso in visita, se non in pellegrinaggio. Avendo le spalle scoperte ed i pantaloncini corti, non mi è permesso entrare nella Chiesa principale, così mi aggiro nel cortile reso afoso dal gran caldo mentre i monaci, incappucciati nei loro lunghi abiti scuri e dotati di una lunga, folta, barba si aggirano silenziosamente tra i diversi edifici. Raggiungo anche il Monumento al Genocidio, un grande arco intarsiato costruito per ricordare il recente passato di questo tormentato popolo.
Il complesso è molto interessante, anche se il caldo si fa sentire costringendomi a diverse soste sulle panchine. Durate una di queste pause, mi si avvicina una vecchietta chiedendomi la carità, dalla quale non posso esimermi: mezzo euro per me non è niente, mentre qui una persona ci può mangiare.
Ho voluto spingermi fino ad un’altra chiesetta, quella di Santa Gayane, dove si trova la tomba di uno dei personaggi più celebri dell’agiografia armena, che fu ucciso insieme ad altre trentacinque ragazze per non essersi convertite al paganesimo. La storia è questa: nell’anno 306 d.C. l’imperatore romano Massenzio, preso il potere grazie ad una rivolta, aveva cercato una riconciliazione verso i Cristiani, brutalmente perseguitati dal suo predecessore Diocleziano, al punto da restituire alla Chiesa molti tesori precedentemente confiscati. Dietro questa facciata benevola, però, si nascondeva un animo molto meno nobile, tanto che egli faceva rapire spesso le nobildonne cristiane per abusarne. Una di queste, Hripsime (probabile alterazione di Crispina), dotata di straordinaria bellezza ma che conduceva vita monastica, decise di fuggire insieme ad altre trentatré fanciulle ed alla superiora, di nome Gayane (forse diminutivo di Gaia). Dopo varie peregrinazioni, le giovani donne giunsero nella cristiana Armenia, dove speravano di essere al sicuro. La bellezza della giovane Hripsime non sfuggì però all’attenzione del sovrano Tiridate, il quale fattala venire al palazzo, la invitò a diventare sua moglie; ma la giovane, essendo consacrata a Dio, rifiutò resistendo a tutte le offerte. Secondo la leggenda fu ingaggiata fra i due una lotta accanita, ma Tiridate, pur essendo noto per la sua straordinaria forza, si dovette arrendere. Egli parlò allora con Gayane, chiedendole di convincere Hrispime a sposarlo; la superiora dapprima finse di accettare, poi invece esortò la sua protetta a restare fedele a Cristo. Alcuni presenti, che parlavano latino, fecero la spia col re e Gayane fu imprigionata. Tiridate, arrabbiatissimo, ordinò quindi di ucciderla ma il boia, per un equivoco, fece invece lapidare proprio Hripsime insieme alle sue compagne. Quando il re lo venne a sapere, decise di far uccidere anche Gayane, intorno alla cui tomba fu costruita una cappella poi trasformata in chiesa. Il martirio di Hripsime, Gayane e delle altre giovani fece tanto scalpore tra la popolazione che gran parte di essa, ancora vicina al paganesimo, decise di convertirsi alla nuova religione.
Proprio
in questa chiesa mi imbatto in un battesimo: una grande famiglia è vestita a
festa, e mentre gli anziani restano seduti fuori, nel giardino, circondati da
bambini che giocano e schiamazzano allegramente, all’interno i genitori del
battezzato osservano commossi la cerimonia, molto simile alla nostra, che
osservo da lontano senza disturbare.
Fuori
dal complesso, la solita passeggiata sotto gli alberi mi ha rinvigorito, al
punto da invogliarmi a telefonare a casa. Vedo un grande ufficio postale, e
decido di fare un tentativo. Non ho altra scelta: col mio cellulare non riesco a
chiamare verso l’estero (è la prima volta che mi succede), nonostante la rete
mobile qui sia molto efficiente, anche se un po’ cara; in Armenia, infatti,
c’è un solo gestore che, di conseguenza, può imporre i prezzi che vuole
senza che gli utenti abbiano molta scelta.
Nel
grande atrio cadente c’è una vecchietta seduta pigramente ad un bancone: nel
mio russo stentato le spiego di voler chiamare l’Italia, le scrivo il numero,
e lei mi indica una scassatissima cabina dove mi dice di entrare ed attendere.
Mi ci infilo dentro, e quando il telefono squilla alzo la cornetta ma la linea
cade. Dopo diversi tentativi finalmente riesco a parlare con mia madre, anche se
la voce impiega molti secondi ad arrivare a destinazione, da una parte e
dall’altra, rendendo la conversazione molto difficile. Alla fine vado a
pagare, scoprendo che, nonostante la telefonata sia stata brevissima, esiste una
tariffa minima da sborsare.
D’ora
in poi manderò solo e-mail, anche se nemmeno questo è semplice: l’accesso
Internet dell’ostello è sempre rotto, e trovare un altro Internet point
funzionante è veramente un’impresa!
*
* *
Nel pomeriggio sono andato alla stazione ferroviaria, per informarmi sugli orari e le destinazioni dei treni; quando possibile, preferisco sempre usare questo mezzo di trasporto che mi piace molto per la comodità, la tranquillità con cui posso guardare il panorama, la possibilità di venire a contatto con persone con cui parlare, scambiandosi chiacchiere, informazioni e cibarie. Inoltre è l’unico mezzo sul quale non soffro di chinetosi, mentre ho spesso problemi di stomaco quando uso pullman, auto e navi.
L’edificio
si trova nella periferia meridionale, di fronte ad un piazzale in cui si tiene
uno dei principali mercati cittadini. Per quanto grande, la costruzione era
assolutamente deserta: biglietteria chiusa, atrio vuoto, binari inutilizzati.
Nessun passeggero, nessun treno, nessun orario. Solo un’anziana donna delle
pulizie che lavava il pavimento con uno spazzolone mi ha appena addocchiato,
quasi seccata dalla mia intrusione; per il resto, mi sembrava di stare in un
vecchio museo privato di tutti gli oggetti in mostra.
Dopo
aver girovagato un po’, dando qualche occhiata agli incomprensibili annunci
esposti qua e là, destinati a chissà quali utenti, ho finalmente trovato
l’orario ufficiale: un pannello appeso sopra l’uscita che dà sui binari,
composto da quattro righe scritte a mano, divise tra partenze e arrivi. Per me
nessun treno utile: solo una connessione a giorni alterni per la Georgia, e un
paio di treni locali diretti a nord, tutti ad orari per me impossibili. Dalle
otto del mattino fino alla cinque di sera, niente. Speravo di trovare
connessioni per Sevan: negli anni dell’Unione Sovietica era stata costruita
una ferrovia che raggiungeva il grande lago e lo oltrepassava aggirandolo e
spingendosi a sud fin quasi in Azerbaijan; oggi però è stata chiusa. Dovrò
trovare un altro modo per andarci. In effetti, in Armenia (ma anche in molti
altri paesi non occidentali), il treno è un mezzo usato molto scarsamente; le
gente preferisce prendere i mashrutka, che partono a tutte le ore e ti fanno
salire e scendere dove vuoi. Oltre a ciò, la manutenzione dei binari e dei
vagoni è molto costosa, e lo stato non ha le finanze per accollarsi queste
spese; in attesa di tempi migliori, i pochi investimenti vengono fatti per il
trasporto su gomma, dove comunque i pulmini sono a carico delle cooperative, e
una strada è molto più economica da mantenere piuttosto che una ferrovia.
Ricopio
comunque l’orario in caso possa tornarmi utile più avanti; mi viene un
dubbio, perché invece della parola “partenze” ce n’è una che credo
significhi “destinazioni”. Lascio la donna delle pulizie al suo lavoro e
torno in ostello, dove chiedo ad Ani una conferma sulle informazioni che ho
raccolto. Quale sorpresa mi coglie quando scopro che la ragazza non capisce il
russo! E io che mi illudevo che qui lo parlassero tutti… I giovani invece non
lo studiano più, preferendo l’inglese. Come dargli torto?
Peccato però che per gli adulti sia vero il contrario, e mettere insieme
i vari pezzi in questa babele di lingue ed alfabeti diversi sta diventando ogni
giorno più difficile.
*
* *
Questa
sera a cena ho incontrato dei ragazzi francesi molto gentili, con cui ho fatto
subito amicizia.
Ero
andato a curiosare in una strada chiamata “strada dei barbecue” per via dei
numerosi (o presunti tali) ristoranti specializzati in khoravats,
un piatto tipico consistente appunto in una generosa grigliata di carne,
soprattutto di maiale, ma anche di manzo, vitello, o pesce.
La
mia guida ne parlava bene, invece sono rimasto molto deluso: più che una
“strada dei barbecue” mi è sembrata una polverosa via periferica, soffocata
dal traffico, sulla quale si affacciano semplici (e poco puliti) baracchini che
offrono spiedini a basso costo da portar via o da mangiare in piedi, gestiti da
loschi figuri che capiscono (o fingono di capire) soltanto l’armeno. Ho
scoperto però che, non distante, anche se in un altro quartiere, c’era un
localino molto interessante che ho raggiunto a piedi passando attraverso i
soliti parchi, onnipresenti anche nei quartieri periferici: a Erevan, ovunque
voi abitiate, non sarete mai a più di cento metri da un accogliente giardino
con tanto di fontane e caffè all’aperto.
Anche il mio ristorante aveva i tavoli all’aperto, e seduti a uno di questi ho rivisto tre ragazzi francesi (una ragazza e due maschi) che avevo già notato qualche ora prima nell’ufficio turistico, locale semplice ma accogliente (e con l’aria condizionata!) dove ero andato per chiedere alle attraenti ma distratte addette alcune informazioni su possibili alloggi nel resto del paese.
Vado
al loro tavolo a salutarli, e i gentili ragazzi mi invitano subito a sedermi con
loro. Dev’essere quella particolare complicità che si crea tra backpackers,
quel bisogno di trovare alleati in un paese sconosciuto, a far sì che ogni
incontro, per quanto casuale, si trasformi subito in una possibile amicizia.
La
ragazza, Corinne, è alta e magra, capelli neri a caschetto e due occhi azzurri
che ti passano da parte a parte. I ragazzi, invece, si chiamano entrambi Jerome,
il che semplifica le cose perché devo ricordarmi un solo nome. Lavorano tutti
nel settore dell’urbanistica, così approfitto subito per chieder loro cosa
pensano dell’architettura di Erevan; anch’essi, come me, approvano la
presenza del verde in ogni angolo della città. Dove abitano loro, nei sobborghi
di Parigi, tutto lo spazio disponibile è stato edificato, senza lasciare posto
ad angoli verdi; mi viene in mente come, nelle nostre città italiane, la
situazione non sia molto diversa.
Mi
raccontano di aver girato l’Armenia per due settimane e di aver scoperto un
paese bellissimo, con montagne, foreste, laghi, dove la gente riesce ad essere
molto ospitale nonostante le barriere linguistiche, che costituiscono
l’ostacolo principale nell’esplorazione del paese. Mi dicono che, fuori
Erevan, nessuno parla inglese; loro non parlano russo e quindi i dialoghi spesso
si sono svolti a gesti. Ma, ovviamente, quando c’è la buona volontà tutti
gli ostacoli si possono superare, tanto che loro sono stati invitati più volte
a mangiare in case private, presso gente del posto che non incontra spesso
stranieri e che forse per questo li tratta sempre con molta ospitalità. Non
vedo l’ora di verificare quanto ciò risponda a verità.
In
seguito la conversazione si sposta sui paesi che abbiamo visitato. Uno degli
Jerome ha viaggiato molto, è stato in molte parti dell’Africa e dell’Asia,
e ha anche percorso la Transiberiana fino a Pechino, attraverso la Mongolia. Per
conto mio gli spiego, senza mentire, che la Francia è il paese straniero che
preferisco, dove mi sono sempre trovato molto bene sotto ogni punto di vista:
accoglienza, paesaggi, persone. Ma quando comincio a parlare dell’Islanda
subito Corinne si agita, incalzandomi: “Racconta, racconta” mi sprona
sgranando quegli occhioni blu che mettono paura, tanto sono belli. Le racconto
dei paesaggi meravigliosi, molto selvaggi ma assolutamente incantevoli; dei
fiumi guadati in fuoristrada; dei vulcani nel cui cratere si può camminare;
delle notti trascorse negli ostelli dopo aver nuotato nelle pozze d’acqua
calda; non smetterei mai di parlare e di descrivere le mie avventure di fronte a
quello sguardo magnetico, che mi sforzo di non guardare troppo perché ho timore
che non riuscirei più a smettere di fissarlo.
La
seconda birra comincia a farsi sentire, così il mio arrugginito francese si
mescola troppo spesso con l’inglese costringendomi qualche volta a delle pause
di silenzio mentre cerco le parole giuste. In una di queste pause si intromette
nella conversazione un tale, seduto con la moglie al tavolo accanto: si tratta
di Hamid, un armeno emigrato trent’anni prima in Siria dove ha imparato il
francese. La conversazione si incanala presto nei binari della politica,
argomento che per me non è di alcun interesse, per cui vengo a poco a poco
escluso dal consesso.
Hamid
si sofferma molto a lungo sulla questione della diaspora armena, iniziata nel
1915 in seguito al genocidio di massa compiuto dai turchi, i quali avevano per
gli armeni la stessa considerazione che i nazisti provavano verso gli ebrei.
Oggi sono oltre dieci i milioni di armeni che vivono all’estero, a fronte dei
circa tre rimasti in patria. Il siriano ci spiega come i paesi medio-orientali
attuino politiche molto diverse nei confronti del paese caucasico, alcune
amichevoli, altre ostili. La conversazione si è trasformata ormai in un
monologo, ma i miei amici sembrano molto interessati, soprattutto (sigh!)
Corinne che ha una nonna armena e che quindi si sente coinvolta dai fatti
narrati, intervenendo nella discussione e raccontando la propria esperienza. La
situazione mi sta sfuggendo di mano, proprio quando avevo conquistato
l’attenzione della ragazza! Dopo una buona mezz’ora di noia sono tentato di
salutare e andarmene: capisco poco di quello che dicono (parlano in un francese
molto fluente), e quel poco non mi interessa affatto, così mi limito a
sonnecchiare, sorseggiando il vino e consolandomi notando che anche la moglie di
Hamid, lasciata in disparte, sia ben poco entusiasta della piega presa dalla
serata. Decido comunque di restare: un po’ per educazione, un po’ per non
rinunciare a Corinne, un po’ perché il buon uomo ha avuto la gentilezza di
offrirci da bere (oggi cade il suo anniversario di matrimonio); così rimango
seduto ad ascoltare quello che ormai è diventato un barbosissimo monologo fino
all’ora di chiusura, quando la stremata cameriera ci porta il tanto agognato
conto. Dopo un lungo congedo di Hamid con tanto di scambio di indirizzi e-mail
(non certo il mio), finalmente riesco a riappropriarmi dei miei amici
(soprattutto dell’amica), con i quali faccio un ultima passeggiata. Uno dei
ragazzi partirà dopodomani, mentre Corinne e l’altro resteranno ancora
qualche giorno. Mi chiedono se domani sarò ancora in città, ma ho già in
programma di partire, e nemmeno lo sguardo più magnetico del mondo può vincere
la mia natura di nomade. La serata si chiude in Piazza della Repubblica, dove
saluto affettuosamente Corinne sullo sfondo dei palazzi illuminati che si
specchiano nel laghetto con un effetto che nemmeno Piazza di Spagna o Campo dei
Miracoli possono vantare.
“Welcome to Armenia!” mi dice ridendo il mio vicino di posto sul mashrutka che, in teoria, dovrebbe portarci a Goris ma che in realtà sembra non volerne proprio sapere. Il ragazzone si chiama Armen e mastica un po’ di inglese, un aiuto prezioso in questi luoghi ed in questo genere di situazioni. E mai come adesso ho bisogno di un appoggio.
Goris è una verde cittadina dell’Armenia meridionale, costruita intorno ad un’oasi sperduta in mezzo ad un deserto roccioso. La città costituisce un’ottima base per esplorare la regione, ed in particolare per visitare il monastero di Tatev, che mi hanno detto essere magnifico e situato in una posizione davvero spettacolare. Ma poiché la città è lontana dai principali (si fa per dire) percorsi turistici, è visitata da pochi viaggiatori: per me, questo è certamente un motivo in più per andarci.
Quando il mashrutka arriva alla stazione di Erevan, viene preso d’assalto dai locali ancora prima che si fermi. Anch’io mi butto nella ressa, e riesco a trovare posto di fianco all’autista; e accanto a me ecco sedersi Armen, con cui faccio subito amicizia. Come tanti armeni ha i capelli scuri, tagliati corti, lo sguardo penetrante e l’aria simpatica. Ci sistemiamo tra i piedi i bagagli e quando il pulmino parte, alle dieci, sono molto eccitato. Fino ad ora il viaggio è stato facile, con ostello prenotato e tutte le comodità di una città; ma ora viene il bello. Un americano che ho conosciuto nei giorni scorsi, che vive nel paese da alcuni anni e lavora nei corpi della pace, mi ha detto che la vera Armenia non è Erevan, ma la provincia, la parte rurale; e io non vedo l’ora di scoprirla, andando all’avventura (ma non allo sbaraglio). Dopo pochi chilometri sono subito accontentato: l’autista sembra poco convinto riguardo ad alcuni strani rumori provenienti dal motore, così decide di fermarsi in un’officina per far controllare il mezzo. Si ferma in un cortile dove io scendo per fare due passi, ma poco dopo il mezzo riparte con a bordo i miei bagagli e tutti i passeggeri, lasciandomi a terra. Lo inseguo, ma per fortuna vedo che sta solo facendo manovra per entrare in un garage. Ne approfitto per fare un giro nei dintorni; subito dopo mi viene in mente che nella mia borsa incustodita ci sono il passaporto e tutti i miei soldi, ma non mi preoccupo più di tanto: mi sono bastati tre giorni per rendermi conto di come questo paese sia senza dubbio un luogo sicuro, dove uno straniero viene guardato come un amico da conoscere e non come un portatore di soldi da truffare o derubare. Gli armeni sono onestissimi, ed infatti quando il mashrutka riparte, dopo quasi due ore di sosta, verifico che nessuno dei passeggeri, che pure sono rimasti a bordo tutto il tempo mentre i meccanici riparavano il guasto, ha toccato niente.
Percorriamo altri quattro o cinque chilometri, quindi l’autista si ferma di nuovo. Non è convinto del mezzo, e non se la sente di imbarcarsi in un lungo viaggio (Armen dice che ci vogliono cinque ore per arrivare); così, armeggiando col cellulare, chiama la centrale affinché ci mandino un altro mezzo in sostituzione. Aspettiamo quasi un’ora, sotto il sole di mezzogiorno, che arrivi il nuovo pulmino, mentre io sono tentato di rinunciare e tornare indietro a piedi. Ma Armen, col suo sorriso gioviale, mi convince a restare. “L’altra macchina sta arrivando”, continua a ripetermi sorridendo, mentre gli altri passeggeri sonnecchiano pazienti.
Finalmente arriva un nuovo mashrutka sul quale traslochiamo armi e bagagli. Il veicolo a prima vista non sembra più affidabile del precedente, ed infatti, dopo una sosta per fare benzina, non riparte più. Il benzinaio spinge da dietro mentre l’autista cerca continuamente di mettere in moto, ma senza successo. Mentre sto riflettendo su come in Italia le persone avrebbero cominciato a protestare vivacemente e ad inveire contro l’autista, qui incredibilmente la gente… si mette a ridere! Evidentemente sono abituati a problemi di questo genere… E mentre mi guardo intorno, perplesso, ma sempre più contagiato da quest’aria di serena rassegnazione, Armen mi dice: “Welcome to Armenia!”. Ma sì, viva l’Armenia e tutti i suoi abitanti.
La strada bella, asfaltata, con due corsie per parte è un lungo nastro d’asfalto che corre dritto in mezzo ad una pianura verdeggiante. Raggiungiamo la città di Areni, famosa per i suoi vigneti, i migliori del paese, e per le annesse aziende vinicole. Poi, dopo una brusca curva, la strada improvvisamente si restringe e comincia a salire ripida. Il mashrutka, stracarico, rallenta vistosamente e arranca a fatica mentre, tutto intorno, il paesaggio diventa pietroso, brullo, desertico. Ora capisco perché il viaggio richieda così tanto tempo. Anche il traffico, prima molto intenso, diventa sempre più scarso; l’impressione di smarrimento, di isolamento nel nulla intorno a noi è forte, e sembra davvero di dirigersi verso la fine del mondo. Arrivati in cima ad un passo la strada scende altrettanto ripida e subito il pulmino accelera, tuffandosi in una picchiata vertiginosa verso la valle sottostante, tagliando curve strettissime e sorpassando alla cieca vecchi carretti che troviamo ogni tanto sulla strada. Il viaggio procede così, alternando faticose salite a spericolate discese, fino a quando, dopo quasi tre ore dalla partenza, ci fermiamo in un piccolo ristorante per il pranzo.
Non so quanto resteremo fermi, così decido di non allontanarmi troppo, tenendo sempre d’occhio il mashrutka dopo aver preso nota della targa: nel cortile, infatti, ce ne sono molti altri uguali al mio e non vorrei ripartire su quello sbagliato…
Il locale è piccolo ma confortevole, e soprattutto fornisce un ottimo riparo dal sole. Vedo molti passeggeri ordinare enormi spiedini che grondano grasso da ogni angolo, innaffiati con grossi boccali di birra. Personalmente, la corsa mozzafiato e il caldo opprimente non mi invogliano a mangiare, così prendo solo un succo di frutta, per poi sedermi ad un tavolo insieme ad Armen, che non parla molto ma mangia voracemente.
Esco a fare un giro nel cortile. Alcune donne vendono frutta e verdura esposte su cassette di legno rovesciate; accanto, una fontana da cui sgorga invitante acqua fresca è presa d’assalto da viaggiatori che riempiono bottiglie vuote: anch’io decido di farne scorta, liberandomi dell’acqua che avevo preso a Erevan e che ormai è diventata brodo. Più oltre, alcune siepi molto alte sono state ricoperte con delle frasche creando delle specie di camerette ombreggiate, dove alcune famiglie mangiano al riparo dal sole su dei tavoli installati appositamente.
Dopo circa un’ora di sosta ripartiamo, e il paesaggio intorno a noi diventa, se possibile, ancora più brullo. Ogni tanto attraversiamo qualche sperduto villaggio, costruito nei pressi delle oasi che crescono ai margini delle pietrose montagne. Superiamo il passo Vorotan, a 2.344 metri di quota, entrando nella regione di Syunik, al confine con l’Iran. Questa strada, l’unica della zona, ha origine da una diramazione dell’antica Via della Seta che da Tabriz, nell’Azerbaijan iraniano, portava verso il Mar Nero; ancora oggi si incontrano alcuni Caravanserragli, come quello di Selim, risalenti al quattordicesimo secolo e tuttora intatti. L’intera regione è costellata di antiche fortezze e monasteri fortificati, costruiti intorno a minuscoli villaggi di montagna le cui origini sembrano risalire alla notte dei tempi, e che oggi sono raggiungibili solo in fuoristrada.
Arriviamo a Goris verso le sette di sera. Non appena passiamo davanti alle prime case, comincia un’interminabile serie di soste: ogni tanto qualche passeggero scende, facendo spostare tutti per poter scaricare i bagagli; qualcun altro sale, approfittando di un passaggio per raggiungere il centro; altre volte ancora ci fermiamo perché l’autista deve consegnare dei pacchi ai relativi destinatari, oppure degli scatoloni di cibo a qualche negoziante. Il mashrutka infatti funziona anche da autobus, postino, corriere, messaggero delle ultime novità dalla capitale, e il suo arrivo rappresenta sempre un momento di agitazione, di curiosità, quasi di festa in un luogo tanto remoto e sonnolento.
Quando finalmente arriviamo alla stazione Anton, un quarantenne del posto che ho conosciuto durante la sosta, si offre di accompagnarmi a cercare un albergo, ma poi mi propone di fermarmi a dormire da certi suoi parenti che abitano in città. Accetto molto volentieri: sono curioso di vedere da vicino come si svolge la vita quotidiana in questo paese remoto. Anton mi accompagna in una casa antica, molto bella, con un grande cortile interno ed una veranda al primo piano, dove si svolge tutta la vita domestica. Vi abitano solo donne: la padrona di casa, Pendjk, è sui quarantacinque anni, coi capelli rossi tagliati corti e uno sguardo molto intelligente. Insieme a lei vivono l’anziana madre, la figlia Anja, una vicina molto simpatica di nome Djanna ed una ragazza stupenda, con capelli nerissimi, due occhi grigi da far gelare il sangue ed un nome impronunciabile che aveva viaggiato sul mio stesso mashrutka da Erevan. Sono tutti molto gentili, anche se non parlano inglese e mi è difficile farmi capire col mio russo molto stentato. Mi offrono una stanzetta in parte alla veranda, con un letto comodissimo, un tavolino ed una piccola finestra da cui la vista spazia su un ampio pergolato da cui pendono succosi grappoli di uva bianca.
Subito mi portano da mangiare, soprattutto verdura: cetrioli, pomodori, fagiolini, e pane accompagnato da un formaggio simile alla feta, ma molto piccante. Da bere, l’immancabile bottiglia di vodka: questa in particolare è stata prodotta in casa distillando la mora di gelso, frutto tipico della regione.
Queste donne sono molto semplici e gentili, e anche curiose (penso che non abbiano mai incontrato un italiano prima d’ora): mi fanno domande sulla mia vita, sulla mia famiglia, su cosa ho visto dell’Armenia, se mi è piaciuto e dove andrò in seguito. Quando chiedo il costo del soggiorno dapprima si guardano imbarazzate, senza sapere cosa rispondere; poi mi propongono un prezzo irrisorio, che ho quasi vergogna a pagare. Espongo anche la mia intenzione di andare l’indomani al monastero di Tatev; la signora mi dice che c’è un pullman ogni mattina, e che sarà lieta di accompagnarmi a prenderlo. Sono molto contento di come stanno andando le cose: ho trovato una bella famiglia, accogliente, con cui posso parlare e capire molto riguardo alla vita quotidiana di questa gente.
Nonostante siamo in mezzo al deserto, il
clima non è caldo come a Erevan; trovandosi in un’oasi, la zona è molto
ventilata e stare seduti a parlare, al fresco della veranda, mangiando in
compagnia è davvero piacevole: le mie ospiti mi insegnano un po’ di armeno,
io condivido con loro qualche parola d’italiano. Certo, mancano molte comodità:
al mio arrivo ho potuto solo sciacquarmi la faccia in un catino, ed il water non
ha l’acqua corrente, ma bisogna riempire una brocca nella vasca da bagno e poi
versarla nella tazza; ma nonostante la semplicità (o forse proprio grazie ad
essa), questa famiglia è così gentile ed accogliente che sono sicuro ne verrà
fuori una bellissima esperienza.
Goris,
13 agosto 2006
Il
monastero di Tatev è certamente uno dei più spettacolari dell’Armenia, tanto
da essere raffigurato su tutte le cartoline illustrate e sui vari dépliant
turistici. La strada che lo raggiunge, in compenso, è terribile: non asfaltata,
piena di buche e si avvolge in stretti tornanti su cui transita una quantità di
traffico forse eccessiva per le sue capacità; sono tantissimi infatti i
viaggiatori ed i gruppi di turisti che visitano il complesso per la sua
spettacolare posizione abbarbicata in cima ad una montagna, da cui la vista
spazia per chilometri sul paesaggio sottostante. In particolare si vede
benissimo la stradina che si arrampica sulle pendici intorno alla gola del
Vorotan, sulla quale arrancano faticosamente le vecchie auto che cercano di
raggiungere questo posto tanto isolato. Ci sono arrivato in taxi, dopo aver
scoperto che alla domenica non ci sono mezzi di trasporto pubblici e avendo
contrattato con l’autista un prezzo comunque esorbitante (più di quello che
pago per mangiare e dormire due notti in casa di Pendjk).
Il
complesso, risalente al IX secolo, è formato da due chiese principali
realizzate in pietra, molto semplici, ed una fortificazione in muratura su cui
è possibile camminare ed osservare le montagne intorno a noi. Ci si sente quasi
sospesi nell’aria, a picco sul grande canyon sottostante, che serpeggia a
perdita d’occhio tra le alte montagne.
Anche
qui trovo una messa al mio arrivo, così non posso aggirarmi molto a lungo
dentro la chiesa. Non importa: questi monasteri sono tutti molto semplici, e
spesso la parte più interessante non è l’interno degli edifici ma loro
posizione; peccato solo per la grande gru da costruzione, piazzata proprio in
mezzo al cortile, che rovina l’atmosfera.
In
compenso posso ammirare una quantità incredibile di belle ragazze, tutte
armene, che sono in gita qui e che valgono da sole questo viaggio. I tratti
somatici sono quelli già visti a Erevan: lunghi capelli neri corvini, occhi
penetranti, lineamenti severi ma che possono addolcirsi in un ampio sorriso,
fisico asciutto e prestante. Ne vedo diverse, una più bella dell’altra,
aggirarsi tra gli edifici scattandosi reciproche fotografie sul muro di cinta o
acquistare souvenir dall’immancabile chiosco gestito dai monaci. Devo dire che
la bellezza degli armeni (e delle armene) è pari alla loro cortesia, e anche se
non riesco a comunicare molto sono contento di guardarli e di osservare la
spensieratezza e l’ottimismo stampato sui loro volti, anche in questi tempi
difficili.
Al
pomeriggio ritorno a Goris, dove posso comodamente chiacchierare con Pendjk per
saperne di più sulla sua vita e su quella degli innumerevoli ospiti che vanno e
vengono dalla casa a getto continuo, forse anche incuriositi dalla mia presenza.
In particolare l’onnipresente Djanna, una simpatica signora sulla sessantina,
con folti capelli rossi e occhialini da maestra, mi racconta la sua storia: ha
insegnato lingua e letteratura farsi all’università di Erevan per trentotto
anni insieme a suo marito, docente di tedesco. Ha fatto anche la redattrice, così
mi sembra di capire, in un giornale locale scritto anch’esso in farsi. Questa
lingua è piuttosto diffusa qui: in effetti la frontiera con l’Iran è a soli
60 km in linea d’aria, anche se la tortuosa strada ne impiega quasi 200 per
raggiungerla.
Mentre
parliamo, Djanna mi offre delle zucchine che ha preparato lei stessa, molto più
buone di quelle a cui sono abituato in Italia (che non mi piacciono affatto) e
delle quali mi spiega la ricetta: prepara un pesto di aglio, aceto e nocciole,
poi lo versa sulle zucchine tagliate a fette sottili e cotte alla griglia. E’
quasi ammirevole la pazienza che mette nel cercare sul mio dizionario tascabile
i nomi di tutti gli ingredienti, in modo che io possa comprenderli.
Nell’arco
della giornata, seduto al tavolo in veranda, posso osservare scene d’altri
tempi: la figlia maggiore (che avrà una ventina d’anni) fa il bucato, china
su di un catino appoggiato in terra: insapona i panni, li risciacqua, infine li
appende al filo steso sul cortile. L’altra ragazza (quella mora, bellissima ma
molto scontrosa, e con cui non sono mai riuscito a parlare) prima ripara una
tenda che si era strappata dal sostegno, poi (incredibile!) cambia una
lampadina: non avevo mai visto una donna farlo. Nel frattempo l’anziana nonna,
seduta su una sedia a dondolo, ripara una scarpa a cui si era staccata la suola.
Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo di almeno cinquant’anni. Faccio
notare a Pendjk come in Italia le ragazze (almeno quelle che conosco io) siano
molto diverse: sono capaci solo di parlare al cellulare e di fare shopping nei
centri commerciali.
Mostro
alle donne le foto che ho scattato finora, facendole scorrere sul display della
mia macchina fotografica digitale. Ci soffermiamo a parlare di Nana, della quale
vogliono sapere tutto; poi guardiamo insieme le immagini di Erevan, di
Echmiadzin, e della riserva naturale di Spendaryan che ho attraversato durante
il viaggio di andata. Alla fine chiedo di poterne scattare qualcuna insieme a
loro: accettano volentieri, anche se la nonna scherza, fingendo di lamentarsi
perché non ha il tempo di acconciarsi i capelli a dovere… Mi faccio dare
anche il loro indirizzo, con la promessa di spedir loro dall’Italia le foto
una volta sviluppate. E alla fine del pasto, di nuovo a base di pane, formaggio,
verdura e vodka, mentre le ragazze sparecchiano, Pendjk mi offre degli strani
semi, simili a pistacchi, che tutti mangiano avidamente dopo averli sbucciati
uno per uno, con molta pazienza. Notando il mio sguardo perplesso, la signora
cerca a lungo di spiegarmi di cosa si tratti, poi va in cucina e torna
mostrandomi una bottiglia di olio di semi. Ora capisco: sono semi di girasole
tostati, specialità che io non conoscevo ma di cui gli armeni sembrano andare
ghiotti.
Nel
pomeriggio vado a fare un giro in città. Non è particolarmente interessante:
una griglia di strade orizzontali e verticali, tutte in saliscendi, ai cui bordi
ci sono basse costruzioni silenziose, all’apparenza disabitate. Il traffico è
scarsissimo, e anche le vie sono deserte; vedo solo un gruppo di bambini intenti
a giocare a pallone nell’immancabile parco, che al mio passaggio mi salutano
con un gesto della mano. Camminando, incontro due ragazze che mi chiedono il
nome e si fermano a chiacchierare qualche minuto. Ne approfitto per chiedere
loro se in città ci sia un Internet point, dato che quelli segnalati sulla LP
non esistono più. Mi dicono di sì, e mi spiegano la strada per trovarlo. Prima
di andarci, mi spingo alla periferia orientale, dove in lontananza si possono
vedere alcune grotte scavate nelle formazioni rocciose circostanti: si tratta
della vecchia Goris, i cui abitanti già nel V secolo vi si rifugiavano a
depositare le scorte di cibo o a nascondersi dagli invasori. Mi riporta alla
mente le case troglodite di Matmata, in Tunisia, forse più spettacolari ma
altrettanto affascinanti. Vorrei visitarle da vicino, ma il sentiero che le
raggiunge è lungo e ho paura che nel frattempo diventi buio, così rinuncio.
Visto
che a tavola si beve solo vodka, sulla via di casa mi fermo in un negozietto a
comprare un paio di bottiglie d’acqua. Quella gasata è molto buona: si chiama
Djermuk, dal nome del paese, non lontano da qui, dove si trova la fonte
principale dell’Armenia, a oltre duemila metri d’altezza. Me le vende una
ragazza molto carina: sembra che la città sia abitata solo da donne.
Dopo
cena, nella tranquillità della sera, i bambini giocano per strada (!), e si
sentono addirittura le voci dei passanti: qui il transito di un’automobile
rappresenta quasi un evento, tanto che la gente si sporge dal terrazzo per
guardarla passare…
A causa della mia natura romantica non mi sono mai piaciuti gli addii, perché tendo a commuovermi troppo, e faccio di tutto per renderli il più brevi e sbrigativi possibile. Così, al mattino presto, cerco di dileguarmi zaino in spalla, ma la nonna è così lesta da intercettarmi e da chiedermi di restare a colazione. Cerco di rifiutare, perché il mashrutka per tornare a Erevan parte tra poco e non posso permettermi di perderlo, ma l’insistenza della signora è tale che mi convince a trattenermi. Mangio qualcosa velocemente, quindi schizzo alla stazione preparandomi alla solita lotta corpo a corpo per accaparrarmi un posto; invece, scopro con stupore che esiste una biglietteria dove rivolgersi (l’uso di un mezzo pubblico presenta ogni volta delle sorprese!). Bene, penso: non dovrò lottare per avere un posto; ma quando entro per comprare il biglietto, scopro che il pulmino è già al completo. Quello successivo partirà alle 10, quindi (in teoria) dovrebbe arrivare a Erevan alle 15: un po’ tardi per andare direttamente al lago Sevan, la mia prossima destinazione; mi hanno detto che in agosto le sistemazioni intorno al lago sono piene, quindi decido che, giunto a Erevan, telefonerò a qualche residence per sapere se hanno posto. Alla peggio passerò la notte in città.
In ogni proverbio c’è sempre un fondo di verità. Uno dei miei preferiti recita: “Non tutto il male vien per nuocere”, e calza a pennello con la mia tranquilla natura di ottimista, indispensabile ad ogni viaggiatore indipendente. E infatti anche questa volta si concretizza: mentre aspetto il mashrutka successivo vedo avvicinarsi una coppia di backpackers, chiaramente occidentali, con i quali vado subito a fare amicizia. Sarà un altro viaggio in buona compagnia.
Erik e la moglie Trish vengono da Amsterdam, e stanno girando l’Armenia già da tre settimane. Il fratello di lei ha sposato una ragazza armena (come dargli torto?), e loro due sono stati invitati a partecipare al matrimonio, i cui festeggiamenti sono durati una settimana. In seguito sono ripartiti per visitare il paese, e ora stanno tornando a Erevan per trascorrere con la nuova famiglia gli ultimi giorni prima del ritorno a casa. Ci sediamo vicini, anche se è difficile parlare tra i continui scossoni, il rumore del motore e la cassetta di musica araba che l’autista fa andare a palla nell’autoradio. Ho notato che qui in Armenia questo genere di musica, di probabile provenienza iraniana, è molto più ascoltata rispetto al rock russo, che io ritenevo più diffuso ma che invece è molto lontano dalla cultura locale. Comunque, dopo neanche un’ora i due ne hanno abbastanza della stordente nenia che ci tocca sopportare, così tirano fuori i loro i-pod nuovi di zecca e cominciano a selezionare canzoni occidentali, sperando che possano dare un po’ di sollievo ai loro padiglioni auricolari.
La sosta per il pranzo avviene presso lo stesso ristorante dove il mashrutka si era fermato anche all’andata. Con i miei nuovi amici mi siedo ad uno dei tavoli ombreggiati dove ci scambiamo le scorte di cibo e mangiamo della squisita frutta fresca appena acquistata da una delle venditrici locali.
Ne approfitto per chiedere loro informazioni su Tbilisi, la capitale della Georgia, che intendo raggiungere tra qualche giorno e che non gode affatto di una buona reputazione. I due olandesi confermano i miei sospetti:
“Ci siamo stati qualche giorno fa, - mi racconta la ragazza – e l’atmosfera non è certo tranquillizzante: ovunque ci sono mendicanti, e anche molti zingari, tanto che quasi tutti i negozi hanno guardie armate all’ingresso.” La guardo un po’ preoccupato, mentre lei continua: “A noi personalmente non è successo niente; comunque penso che sia meglio non andare in giro dopo il tramonto”.
A sentire questa descrizione, penso che mi fermerò a Tbilisi il meno possibile. Solo un’altra volta, nell’arco di tutti i miei viaggi, sono capitato in una città con le guardie armate fuori dai negozi, ed è stato anche l’unico luogo in cui sono stato aggredito… ma questa è un’altra storia.
Intanto, il viaggio sul mashrutka riprende, ed i passeggeri non si annoiano di certo: in salita il pulmino va pianissimo, ma in discesa l’autista si scatena in sorpassi senza paura (da parte sua, almeno), curve cieche completamente tagliate invadendo la corsia opposta, improvvisi zig-zag per evitare le buche; il tutto, ovviamente, tenendo il cambio in folle per risparmiare benzina (Erik mi confessa che, durante il viaggio di andata, il loro mashrutka era rimasto a secco e hanno dovuto stare fermi per ore sotto il sole ad aspettare i rifornimenti). Il mio nuovo amico concorda con me su come sembri di stare sulle montagne russe, a parte le trascurabili differenze di non avere binari e di dover continuamente evitare le auto che arrivano dal senso opposto (o anche trattori, carri trainati da cavalli, sghangherate autocisterne piene di benzina, e tutto ciò che l’immaginazione dell’uomo è in grado di mettere su ruote). Nelle curve più strette, mentre cerchiamo di aggrapparci agli schienali dei sedili di fronte a noi per non rovinarci addosso l’un l’altro, ci consoliamo contando sul fatto che l’autista conosca la strada, visto che la percorre tutti i giorni, e che nemmeno lui, tutto sommato, ci tenga a schiantarsi. Anche i tentativi di Trish di fotografare il maestoso monte Ararat, che per lunghi tratti possiamo ammirare in tutta la sua grandezza, con la cima sempre coperta di neve, sono destinati a fallire miseramente. Tiriamo tutti un gran sospiro di sollievo quando arriviamo a Erevan sani e salvi; ma la soddisfazione dura poco perché, non appena apriamo lo sportello per scendere, la terribile afa della capitale ci toglie subito il fiato facendoci rimpiangere la frescura di Goris.
Saluto i miei amici che, come tanti altri prima e dopo di loro, hanno fatto parte della mia vita per poche ma serene ore, e affronto il problema successivo: trovare un posto per la notte. Faccio diverse telefonate ai resort sul lago, ma sono già tutti al completo: dovrò restare in città. Purtroppo scopro che anche il mio ostello è pieno; dovrò arrangiarmi in qualche altro modo. Sembra che ci siano degli affittacamere in città, dove forse posso trovare un letto a basso prezzo: tenterò questa strada.
Per i viaggiatori indipendenti come me, ogni giorno è una battaglia per la sopravvivenza: bisogna trovare un letto dove dormire, bisogna mangiare, bisogna prendere i mezzi pubblici nella giusta direzione, e tutto in luoghi dove comunicare con la gente può risultare molto difficile, se non impossibile. Bisogna capire di chi fidarsi e di chi no, distinguere tra quelli che ti vogliono aiutare e chi ti vuole derubare… Ma senza queste continue battaglie, senza questa giornaliera lotta per soddisfare i bisogni primari, nella quale possiamo contare soltanto su noi stessi, la nostra vita non sarebbe affatto degna di essere vissuta. E quando alla fine torniamo a casa, dove ritroviamo un letto caldo, l’acqua corrente, il frigorifero pieno, riusciamo ad apprezzare molto di più tutti questi beni che diamo troppo spesso per scontati, ma che in realtà non lo sono affatto.
Dal grande terrazzo della casa di Gyulnara la vista è spettacolare, e spazia sull’intera valle del fiume Aghstev. Si vede anche la città vecchia, sull’altra sponda, mentre le verdi montagne circondano l’intero panorama come la degna cornice di un quadro naturalistico. Qui al nord la calura di Erevan è un lontano ricordo, ed è molto piacevole stare seduti a chiacchierare lasciandosi accarezzare dalla brezza della sera. Sono d’accordo anche Bert e Julia, due olandesi anch’essi ospiti in questa grande casa costruita su una collina; oggi sono andati a visitare la locale azienda vinicola, dove hanno comprato una buona bottiglia di vino bianco che stiamo sorseggiando, mentre il sole pian piano tramonta oltre le cime di fronte a noi, colorando la valle col classico colore rosso sfumato. Gyulnara, una signora sulla cinquantina, molto attiva e chiacchierona, ci ha preparato un’ottima cena a base di pizza gigante, verdure e alcuni pezzi di carne conditi con una salsa molto piccante. E’ la prima volta che mangio la carne in una casa privata: qui è un alimento che pochi possono permettersi. Il tutto è accompagnato da una strana bevanda verde, probabilmente un liquore a base di erbe, molto forte, quasi imbevibile.
Ijevan
è una sonnolenta cittadina costruita nei boschi dell’Armenia settentrionale,
animata soltanto dal grande mercato coperto intorno al quale ruota la vita
quotidiana. In effetti, il nome stesso della città significa “locanda”, e
mostra come questo luogo sia sempre stato considerato una tappa di sosta per le
carovane dirette in Azerbaijan. Quando sono arrivato, stamattina, mi sono
sentito completamente disperso; ho provato quella bellissima sensazione di
smarrimento, di disorientamento che ti colpisce sempre quando arrivi in un luogo
sperduto, dove non conosci nessuno, nessuno parla la tua lingua, non sai
orientarti e fai appello a tutte le tue energie interiori perché comunque, in
un modo o nell’altro, devi arrivare al giorno dopo. Una sensazione che non
cambierei con niente al mondo.
In
Armenia, dopo l’indipendenza, moltissimi nomi delle strade sono stati
cambiati, sostituendo i personaggi dell’epoca sovietica con nomi di patrioti o
di famosi personaggi locali: in ogni città piazza Stalin è diventata piazza
dell’indipendenza; viale della rivoluzione è ora viale Mesrop Mashtots, e così
via. Gli abitanti, però, non hanno percepito queste modifiche, e continuano a
chiamare le vie con i nomi vecchi. Così chiedere a qualcuno dove si trovi una
certa strada è assolutamente inutile, a meno che non se ne conosca anche il
nome precedente, che però le guide non riportano; comunque spesso anche questo
sarebbe uno sforzo vano. E’ molto più semplice dire nome e cognome della
persona cercata: nelle città piccole tutti conoscono tutti, e questo è
l’unico modo sicuro per essere indirizzati nella giusta direzione:
“Dove
vive Irina Kosharyan?”
“In
fondo alla strada vai a sinistra, prendi la prima a destra dopo il ponte, quindi
cerca la terza casa, quella con le tende rosse”, e così via.
Solo
che io non cerco nessuno in particolare, ma soltanto l’ufficio turistico;
vengo così indirizzato all’ufficio postale, classico punto di riferimento per
i forestieri, dove spiego che il posto che cerco si trova accanto al teatro. Per
mia fortuna trovo una signora che sta andando da quella parte ed è così
gentile da accompagnarmi. E’ stato in questo ufficio che una zelante impiegata
mi ha trovato sistemazione presso la casa di Gyulnara, una elegante villa a due
piani costruita sulle pendici di una collina. Al piano superiore, quello per gli
ospiti, c’è un’enorme sala da pranzo su cui si aprono diverse camere da
letto, con un grande balcone che dà sulla valle e anche la TV satellitare;
sembra quasi una sistemazione lussuosa, fino a quando, stanco e sudato, vengo a
sapere che in bagno l’acqua manca del tutto durante il giorno…
Bert
insegna inglese a Rotterdam, mentre Julia è architetto. Lui è decisamente
brutto: altissimo e magrissimo, con folti capelli bianchi che lo fanno sembrare
più vecchio di quanto in realtà non sia, compone decisamente una strana coppia
con la moglie, una ragazza minuta e carina, con due occhi verdi incastonati in
un caschetto di capelli rossi, e un sorriso molto accattivante. Hanno girato il
Caucaso per un mese, e tra pochi giorni ritorneranno in Olanda. Mi confermano
come gli Armeni siano gentili e disponibili, e come anche qui al nord, sebbene
sia difficile muoversi con i mezzi pubblici, abbiano sempre incontrato persone
pronte ad aiutarli senza chiedere soldi. In mattinata hanno visitato alcune
antiche chiese nei dintorni, molto belle ma anche molto isolate, e non hanno
avuto alcun problema nel trovare passaggi in auto. Questa disponibilità
disinteressata della gente è, finora, ciò che più mi è piaciuto di questa
nazione. Non ho mai avuto l’impressione di essere oggetto di attenzioni
“particolari”, o tantomeno di trovarmi in pericolo, nemmeno questo
pomeriggio quando ho visitato la squallida e degradata zona vecchia della città,
composta da polverosi edifici semiabbandonati in cui sembravano abitare più
cani che uomini.
Mentre
parliamo, chiedo loro qualcosa su Tbilisi, che hanno visitato un paio di
settimane fa; purtroppo le notizie non sono rassicuranti.
“E’
un brutto posto, – mi conferma Bert - pieno di mendicanti, anche se è
migliorata rispetto a tre anni fa, quando le persone andavano in giro armate”.
Non so se sentirmi rassicurato o preoccupato. “A noi non è successo niente di
brutto – aggiunge la moglie – ma abbiamo saputo di un turista che, in piena
mattina, è stato assalito e picchiato da un gruppo di giovani nel parco Vake.
Per fortuna i passanti sono accorsi ad aiutarlo.” Credo che la mia permanenza
a Tbilisi sarà brevissima.
I
due olandesi mi chiedono del lago Sevan, dove sono stato ieri. Si tratta di un
enorme bacino, a 1900 metri d’altitudine, posto circa a metà strada tra qui e
Erevan. In estate, e soprattutto la domenica, le sue rive sono molto affollate
dagli abitanti della capitale, che vi si recano a cercare refrigerio dalla
opprimente calura. In effetti l’acqua è molto pulita, ci sono spiagge libere
e aree di campeggio. I bambini, muniti di braccioli e salvagente, nuotano vicino
alla riva, sotto l’occhio vigile dei genitori, mentre più oltre tavole da
windsurf si muovono eleganti all’orizzonte. Mentre passeggiavo, sono stato
invitato ad unirmi ad un succulento barbecue che una famiglia aveva organizzato
sulla spiaggia: l’ennesimo bell’esempio dell’ospitalità locale. Ho
rifiutato solo perché avevo poco tempo, mentre sapevo che, se mi fossi seduto,
poi sarebbe stato molto difficile andare via.
Salendo
sulla collina adiacente al lago si trova l’immancabile monastero, anch’esso
meta di carovane di turisti organizzati (ho incontrato perfino degli italiani,
da cui mi sono tenuto bene alla larga) che possono acquistare souvenir dai
venditori locali. La mia attenzione è stata attratta da un anziano signore, con
barba e capelli bianchi, seduto in parte alla scalinata che porta alla vetta,
che vendeva quadretti dipinti a mano raffiguranti il paesaggio lacustre. Ne ho
comprato uno per mia madre (l’unico regalo che porterò a casa), e sono
rimasto un po’ spiazzato quando l’uomo mi ha chiesto venti euro; ma ho
deciso di comprarlo comunque: per me non è una gran cifra, mentre sono convinto
che possa essere di grande aiuto per le persone della generazione passata, che
ne hanno viste fin troppe nella loro vita.
Oltrepassato
il monastero, ho camminato fino all’altro versante della collina, da dove si
gode di una splendida vista del lago, che è tanto grande da non vederne la fine
(nel punto più largo misura 80 km). Ho notato che molti alberi erano
completamente ricoperti di fazzoletti o stracci colorati, annodati fittamente
intorno ai rami. Ho chiesto spiegazioni ad una ragazza che vendeva souvenir
accanto al monastero, che mi ha spiegato che questi nodi vengono fatti dagli
zingari del posto, perché secondo loro tale usanza porta fortuna e fertilità.
Mentre
parliamo, a casa di Gyulnara arrivano altri ospiti. Sono Thomas e Martin, due
ragazzoni austriaci amanti della bicicletta che hanno trasportato i loro mezzi
in aereo fino a Erevan e ora stanno pedalando per tutta l’Armenia. Alla media
di centoventi chilometri al giorno hanno fatto il giro di tutte le province del
nord, e ora stanno ritornando verso la capitale dove tra qualche giorno li
aspetta il volo di ritorno. Resto molto sorpreso dal loro coraggio: finora
infatti non avevo ancora visto, in nessuna città, né biciclette né motorini.
A parte lo stato scadente in cui versano le strade, è lo stile di guida degli
automobilisti ad impensierirmi. Infatti i guidatori armeni considerano i mezzi a
due ruote come “inferiori”, e quindi non li rispettano minimamente.
Un’auto non si sognerebbe mai di fermarsi per dare la precedenza ad una bici,
indipendentemente dalla segnaletica: sarebbe un’umiliazione eccessiva anche
per i tranquilli caucasici. Ripenso al traffico caotico di Erevan, dove le auto
scartano continuamente a destra e sinistra senza guardarsi prima intorno; ai
camioncini col carico che sporge pericolante dai cassoni e che ogni tanto si
rovescia sugli incolpevoli passanti; alle strade di campagna, prive di guardrail
e spesso usate dalle mucche come pascoli improvvisati. Ci vuole davvero un bel
coraggio (e anche un po’ di incoscienza) a decidere di trascorrere una vacanza
pedalando per questi luoghi!
Mentre
Thomas, che parla bene il russo, sta contrattando con Gyulnara il prezzo
dell’alloggio e cercando di capire se e quando ci sarà l’acqua per lavarsi,
chiacchieriamo un po’ con Martin, che ci ha raggiunti sul terrazzo. Insegna
matematica in un liceo alla periferia di Vienna, e sono curioso di sapere se
anche lì si sia creata la stessa società multirazziale delle scuole italiane.
Il ragazzo mi conferma che anche nelle sue classi, come in quelle di tutta
l’Austria, ci sono studenti di pelle e religione diversa, ma che tutto sommato
riescono a convivere pacificamente. In molti istituti i viennesi sono ormai una
minoranza, e la presenza di ragazzi africani, asiatici, sudamericani e slavi è
una realtà ormai consolidata, a cui tutti si sono abituati senza problemi. Mi
riesce difficile pensare che una simile babele non crei alcun attrito, così
cerco di approfondire la questione:
“Ma
tu come fai a farti capire? Parlano tutti il tedesco?”
“Quasi
tutti. Molti ragazzi vengono da famiglie di immigrati che vivono a Vienna da un
paio di generazioni, e quindi hanno dovuto imparare il tedesco per forza, anche
se tra di loro continuano a comunicare nella loro lingua. Gliela insegnano i
genitori, e possono anche studiarla nelle loro scuole serali”.
Ho
sempre apprezzato le comunità di immigrati che, pur vivendo in un paese
straniero da diverse generazioni, e rispettandone le leggi, continuano a
tramandare al loro interno la lingua, i costumi, le celebrazioni. Penso sempre
agli italo-americani che ogni tanto si vedono in televisione, magari
intervistati per qualche motivo nei telegiornali, che non capiscono una parola
di italiano. Ritorno a chiedere a Martin:
“In
aula non hai mai avuto problemi, casi di razzismo tra gli studenti?”
“No,
le comunità sono amalgamate bene, almeno in periferia. Magari in centro, dove
gli austriaci sono ancora la netta maggioranza, può succedere che gli stranieri
siano visti male. Ma nell’hinterland le scuole sono tranquille.”
“Quindi
riesci a gestire la classe da solo.”
“Certo
che no - mi guarda un po’ sorpreso della domanda, come se gli avessi chiesto
se in Austria sono già atterrati i marziani
- . In ogni aula ci sono sempre due insegnanti: uno principale, che
insegna la propria materia, e uno di sostegno per aiutare gli studenti
stranieri, favorire l’integrazione. Un maestro da solo non ce la farebbe”.
Mi
rendo conto che in fondo il suo lavoro non è così facile come sembrava
all’inizio. Mi domando se il suo stipendio sia all’altezza, e quando chiedo
a Martin quanto guadagna, resto sconcertato. Sono sicuro che io, laureato in
Ingegneria delle Telecomunicazioni ed ex capo-progettista presso una grande
multinazionale del settore, non avrei raggiunto la sua paga nemmeno dopo molti
anni e diversi scatti di stipendio. E lui è solo un insegnante di liceo!
L’Europa sarà anche una Comunità, ma la qualità della vita è ancora molto
diversa tra uno stato e l’altro.
Il
vino di Bert è finito; fuori ormai è buio, e mentre raccolgo il bucato che ho
steso ad asciugare mi accomiato dai miei amici, che domani proseguiranno verso
ovest. Chissà, forse ci rivedremo ancora.
Forse non tutti lo sanno, ma l’Armenia è un paese in guerra. Da oltre quindici anni combatte una “guerra non dichiarata” contro lo stato vicino dell’Azerbaijan, un conflitto che ha causato oltre centomila morti più una quantità incalcolabile di profughi, di senzatetto, di disperati. L’oggetto della contesa è un piccolo territorio chiamato Nagorno-Karabakh, nome che significa “giardino nero montagnoso”. Questo giardino è ancora oggi teatro di scontri tra due eserciti, ma soprattutto tra due ideologie, che non hanno proprio niente in comune.
In
origine la zona era abitata dagli Azeri (così si chiamano gli abitanti dell’Azerbaijan),
i quali la considerano la culla della propria cultura e civiltà. Nel XII e XIII
secolo, però, il Caucaso fu occupato da molti popoli diversi: turchi, arabi,
mongoli si contesero queste terre a furia di assedi, battaglie e distruzioni.
Per scampare a queste continue invasioni, gli armeni fuggirono dalle pianure
dove abitavano e si rifugiarono su questi altopiani poco popolati, diventando
ben presto l’etnia principale. Poi venne l’Unione Sovietica, e Stalin, nel
tentativo di amalgamare i vari popoli caucasici, assegnò il Nagorno-Karabahk, a
stragrande maggioranza armena, all’Azerbaijan; quest’ultimo inviò subito
migliaia di coloni ad occupare i territori riconquistati, dove gli armeni
avevano costruito villaggi, chiese, monasteri.
La
convivenza tra i due popoli non fu affatto semplice. L’Armenia va fiera di
essere stata la prima nazione al mondo ad adottare il Cristianesimo come
religione di stato: tale conversione risale, infatti al 301 d.C., dodici anni
prima dell’editto di Milano con cui l’imperatore Costantino adottò la
stessa religione nell’Impero Romano; tanto è vero che questo paese viene
anche chiamato “la culla della cristianesimo”. Gli azeri, invece, sono
musulmani sciiti, e, per quanto moderati, hanno sempre mal tollerato la
convivenza forzata con gli scomodi vicini. La situazione rimase, per così dire,
pacifica fino al crollo dell’Unione Sovietica; in seguito, venuta a mancare
un’autorità superiore che tenesse la situazione sotto controllo, la regione
è esplosa come una pentola a pressione lasciata sul fuoco troppo a lungo. La
piccola repubblica del Nagorno-Karabakh si è subito dichiarata indipendente,
cercando però l’amicizia dell’Armenia. L’esercito azero, appoggiato dalla
Russia, intervenne subito a difesa della propria gente, bombardando senza tregua
Stepanakert, la piccola capitale; il governo di Erevan rispose inviando il
proprio esercito, e per cinque anni, dal 1989 al 1994, questa fu terra di
nessuno: città e villaggi venivano ripetutamente bombardati, occupati e
riconquistati ora da una fazione, ora dall’altra. Fu la ritirata dei russi a
decidere le sorti del piccolo paese: la controffensiva armena costrinse gli
azeri a fuggire, e anche la popolazione civile fu scacciata dalle proprie case e
costretta a fare ritorno in Azerbaijan.
Oggi
la situazione è più tranquilla, ma non ancora rappacificata: ogni tanto si
registrano scontri armati nella striscia al confine e molte zone sono ancora
off-limits per i civili. Politicamente il Nagorno-Karabakh si ritiene
indipendente, anche se l’Armenia lo considera una parte di sé mentre sugli
atlanti è ancora assegnato all’Azerbaijan. Erik e la moglie, i due olandesi
che avevo conosciuto al ritorno da Goris, lo avevano visitato, dicendo che il
paese (almeno nella parte orientale) era sicuro, anche se poverissimo. Io non
avevo il necessario visto (quello armeno non è valido, e anzi bisogna
procurarsene uno nuovo prima di rientrare in Armenia) e ho rinunciato;
oltretutto l’Azerbaijan potrebbe essere una delle mie prossime mete, ma ne è
vietato l’ingresso a chiunque abbia il visto del Nagorno-Karabakh sul
passaporto. Ciò nonostante, ho potuto constatare gli effetti della guerra anche
qui al nord.
Lo
scontro militare, infatti, si è rapidamente esteso su tutto il lungo confine
tra i due paesi, e se ne trovano ancora segni evidenti anche qui, nella montuosa
regione settentrionale del Tavush. Thomas e Martin mi hanno raccontato di aver
pedalato ieri lungo una strada che passa vicino al confine, una ventina di
chilometri ad est di Ijevan, e di aver visto dovunque case distrutte e resti di
villaggi in rovina. Così questa mattina ho chiesto alla padrona di casa, che ha
molte conoscenze tra i tassisti del posto, se fosse stato possibile fare un giro
in quelle zone. La signora, naturalmente, non ci ha messo molto a procurarmi una
macchina, anche se ad un prezzo non proprio economico.
Lo
scenario lungo il confine è davvero impressionante: ovunque si vedono case
devastate, resti bruciati di steccati e di fienili, interi villaggi
completamente abbandonati, scheletri di costruzioni: sono questi i monumenti che
la guerra erige a sé stessa. Anche la strada è semidistrutta e Armen, il mio
autista (sembra che in Armenia si chiamino tutti così), deve fare lo slalom tra
le buche e le crepe nell’asfalto. Tre o quattro volte veniamo fermati dai
militari, che ci chiedono i documenti e ci fanno un po’ di domande prima di
ripartire. Li osservo bene: sono tutti ragazzi, alcuni appena maggiorenni, molto
fieri della divisa che indossano; cercano di assumere un’espressione dura, ma
negli occhi hanno quella luce stanca di chi ha dovuto crescere troppo in fretta.
Lungo
la strada provo a scattare delle foto, ma Armen subito mi ferma con un deciso
gesto del braccio: la mia macchina fotografica, da lontano, potrebbe essere
scambiata per un’arma, e i cecchini potrebbero spararci. Perché qui, nel
nord, la guerra non è ancora finita e si combatte sempre, metro dopo metro,
albero dopo albero. Ufficialmente non è mai stato firmato nessun trattato di
pace. La mia guida mi spiega che in Armenia il servizio militare è obbligatorio
per tutti gli uomini e dura due anni. I soldati alternano quindici giorni di
permanenza al fronte con altrettanti di licenza a casa.
“Ma
non tutti tornano”, aggiunge tristemente l’uomo. Ogni giorno qualcuno viene
ferito o ucciso. Dall’inizio della guerra si sono contati, solo dalla parte
armena, trentamila morti, oltre ad un numero incalcolabile di profughi che hanno
dovuto abbandonare tutto ciò che possedevano. Ma questi sono figli di una
guerra minore, di quelle che non vanno in televisione, di cui non si parla sui
giornali. Qui non ci sono inviati dei telegiornali che si collegano durante
l’edizione serale per mostrare filmati sui combattimenti; non si vedono
giornalisti col giubbotto fosforescente e la scritta PRESS che corrono ad
inquadrare i feriti. Questa è una guerra poco importante, che non interessa a
nessuno straniero, combattuta tra due stati tanto lontani, tanto sconosciuti da
far sembrare tutto “ovattato”, insonorizzato, trascurabile. Ricordo che,
pochi giorni prima di partire, avevo ascoltato da casa il notiziario di un
canale satellitare azero, che aveva dato notizia di scontri al confine, in cui
una ventina di soldati erano rimasti feriti. In Italia la notizia non era
comparsa su nessun telegiornale, nemmeno sul televideo.
Chiedo
ad Armen se sia pericoloso girare in macchina, ma lui scuote la testa. “Se ci
fosse pericolo, i soldati non ci farebbero passare”, risponde con aria
tranquilla. Anche quando non se ne vedono, so per certo che ci sono, nascosti da
qualche parte, e che ci osservano con attenzione.
Mi
piacerebbe scendere e girare tra le rovine, ma il mio tassista è irremovibile:
“Nessuno cammina qui: tutta la zona è minata, soltanto la strada è
sicura”.
Nonostante
il lavoro di una compagnia britannica specializzata nella rimozione di mine
antiuomo che, durante gli sporadici “cessate il fuoco”, porta avanti un
lunghissimo lavoro di bonifica, avventurarsi per i villaggi è rigidamente
vietato. Ancora adesso, ogni tanto, si sente in televisione di una mucca o di un
contadino saltati in aria sopra una mina antiuomo. Sulla televisione armena,
naturalmente.
Nina mi chiama con un cenno, gridando “Mister! Mister!” mentre mi aggiro, incerto, per una polverosa strada di Dilijan, altra località del nord circondata da una verdeggiante foresta. Col mio zaino voluminoso e il mio sguardo incerto, la mia natura di viaggiatore è evidente a tutti; mi fermo allora davanti ad una casa col semplice cartello “B&B Nina”, dove la padrona di casa mi invita ad entrare e mi offre una stanza semplice ma pulita, come tutte quelle dove ho vissuto finora. Mentre Nina porta lenzuola pulite e comincia a rifare il letto, mi chiede di me e mi dà informazioni sui luoghi da visitare. Come molte altre città dell’Armenia, Dilijan non è interessante di per sé, ma rappresenta un ottimo punto di appoggio per visitare i vari laghi e monasteri situati un po’ dovunque, e molto diffusi qui nel nord. Nina parla, ovviamente, in russo, lingua che tutti usano con me subito dopo aver udito il mio “Zdrastvuitye!” (Buongiorno!), e alla quale ormai mi sto abituando. Come al solito non capisco quasi niente di ciò che mi dice, e mi limito ad assentire con la testa buttando qua e là un “Horosciò!” (Bene!), che fa sempre una buona impressione sui miei interlocutori. La casa di Nina è grande, ha un ampio cortile ed un piano rialzato con un bel soggiorno, cucina (che posso usare), un bel bagno grande (con l’acqua!), e una stanza da letto accogliente. Nei dintorni ci sono alcuni monasteri molto interessanti, ed anche un paio di laghi alpini che meritano una visita. Prima, però, decido di guardarmi un po’ intorno.
La stanza dev’essere appartenuta ad una ragazza: sulle pareti ci sono poster di Leonardo Di Caprio, segno inconfutabile che qui abbia vissuto un’ammiratrice. La parete di fronte al letto, invece, è tappezzata con foto di ragazzi e ragazze, tutti messi bene in posa per apparire il più possibile accattivanti. Le immagini sono prese da un programma televisivo russo, “Fabrika Zvezd”, la Fabbrica delle Stelle. E’ analogo al nostro “Amici di Maria”, dove giovani dotati di vari talenti cercando di farsi strada ballando o cantando. Tra le tante, mi colpiscono le foto di due ragazze: Aleksa, immortalata nel gesto di passarsi una mano tra i lunghi capelli castani; e Mascia Weber, una graziosa brunetta ritratta in una classica posa da copertina: in piedi, mani in tasca, sorriso rivolto all’obiettivo. Tutto intorno, altre foto di ragazzi e di gruppi musicali.
Non ho alcuna idea riguardo al successo che abbiano (o non abbiano) avuto questi giovani, ma tutto ciò mi fa riflettere su un particolare aspetto della globalizzazione: quello mediatico. Mi domando se, ai tempi dell’Unione Sovietica, nazione tanto isolata e chiusa a tutto ciò che provenisse dall’estero, fossero ammessi programmi come questo. La risposta che mi do è, ovviamente, negativa. Non ho avuto modo di conoscere personalmente quel paese di allora, perché fino a quando è esistito il turismo indipendente ne era bandito. Ma mi sono sempre immaginato una nazione in cui i giovani venivano spinti a eccellere nello sport, nella ginnastica, nella danza classica; e non solo per sviluppare un fisico allenato e prestante, ma soprattutto per mostrare al resto del mondo, durante le manifestazioni internazionali, la potenza e la superiorità del popolo sovietico e quindi dell’ideologia comunista.
Oggi, invece, la Russia non esporta più niente, non ha nulla da mostrare agli altri. Al contrario: anch’essa importa, copia, prende ad esempio ciò che viene realizzato negli altri paesi, specie quelli occidentali. Sono stato diverse volta a Mosca. Quiz, telefilm e programmi come “La Fabbrica delle Stelle” oggi riempiono i televisori delle case russe, laddove un tempo si potevano guardare solo documentari sulla storia del comunismo e telegiornali approvati dalla censura. A quei tempi era meglio o peggio? Non lo so, ma di sicuro era diverso: era un mondo con una mentalità alternativa alla nostra, buona o cattiva che fosse. Nel duemila, invece, tutto il mondo è uguale, e nei televisori di Mosca, Calcutta, Tokyo o Buenos Aires si vedono gli stessi programmi, gli stessi quiz, gli stessi attori. Ricorderò sempre quel giorno, in Cambogia, in cui alla televisione vidi un episodio di Alias appartenente ad una serie che in Italia dovevano ancora trasmettere. Come afferma il grande Tiziano Terzani, a cui cerco sempre di ispirarmi durante i miei viaggi, la “globalizzazione” è in realtà una “occidentalizzazione”, in cui tutti copiano l’Occidente, nelle cose buone come in quelle cattive, come se questa fosse l’unica via possibile per crescere, per porsi nei confronti del futuro.
D’altra parte si può obiettare come, vent’anni fa, Aleksa e Mascia Weber avrebbero trascorso la loro vita in qualche cotonificio, oppure montando bulloni in una fabbrica di Trabant, mentre oggi hanno l’opportunità di essere stelline della TV. Di più, hanno una possibilità ancora più grande: quella di diventare ciò che vogliono, di poter seguire liberamente le proprie aspirazioni, i propri sogni. Aleksa e Mascia diverranno belle, ricche e famose? O saranno soltanto meteore che transitano sullo schermo, destinate al dimenticatoio e al marciapiede di una strada? Dipende da loro: il destino è nelle loro mani, cosa assolutamente impensabile, prima, in un paese comunista, dove lo stato controllava ed indirizzava la vita di ogni singolo individuo secondo le esigenze del momento (coltivare cotone o costruire auto), dove (almeno in teoria) non esistevano né ricchi né poveri, perché c’era lo Stato pronto ad intervenire per evitare che ciò accadesse. E’ un bene? E’ un male? Non lo so; mentre ci penso, mi sintonizzo sul secondo canale russo e guardo “La Fabbrica delle Stelle”.
* * *
Nina mi procura un taxi per andare a visitare Haghartsin, uno dei più famosi monasteri armeni. Il suo nome significa “danza delle aquile”, e secondo la guida si trova in una splendida posizione, nascosto da una lussureggiante foresta. In Armenia non esiste montagna senza un monastero sulla vetta; dopo averne visti alcuni, devo ammettere che, per quanto belli, si assomigliano un po’ tutti: molto semplici e spogli, costruiti con mattoni resi scuri dal tempo e dall’umidità, attraggono molto più per la loro posizione che per gli edifici stessi.
L’autista, amico di Nina la quale lo chiama sempre quando ci sono turisti da scarrozzare in giro, sembra molto simpatico e cerca subito di fare amicizia. Si chiama Ararat.
“Come la montagna” dico io.
“Come il cognac” risponde lui, sorridendo. L’Armenia è molto famosa per questo liquore, prodotto nazionale esportato dovunque e delle cui bottiglie sono pieni tutti i negozi per turisti; anche se qui molti, erroneamente, lo chiamano brandy. La marca principale prende il nome dalla montagna che domina su tutta la regione; in realtà l’Ararat si trova in Turchia, ma dall’alto dei suoi 5.165 metri è visibile da molte zone dell’Armenia, tanto che la sua vetta perennemente innevata compare sulle etichette di tutti i prodotti locali.
Ararat (il tassista) parla senza freno, facendomi molte domande che io non capisco bene: vuole sapere del mio lavoro, di quanto si guadagna in Italia, e così via. Io cerco di capire e di farmi capire, anche se non amo molto parlare di me con gli sconosciuti. Lungo la strada vediamo due turisti occidentali che, zaino in spalla, camminano sotto il sole cocente, probabilmente diretti anch’essi ad Haghartsin. Ararat subito si ferma, invitandoli ad unirsi a noi. Così devo anche improvvisarmi traduttore tra l’estroverso autista e la simpatica coppia di belgi che declina l’invito, preferendo scarpinare sotto il sole per quindici chilometri. Ripartiamo, ma quasi subito Ararat si ferma di nuovo, chiedendosi se magari i due abbiano bisogno di una sistemazione; eventualmente li può portare al B&B Nina (i miei sospetti di connivenza si stanno rivelando fondati…). Sono più che sicuro che i due ragazzi siano già sistemati, ma i miei tentativi di convincere l’uomo sono inutili: prontamente inverte la marcia tornando alla ricerca della coppia. Quando li raggiungiamo, cerco più di scusarmi con loro per la rinnovata seccatura che di spiegargliene il motivo, ma loro molto gentilmente sorridono: evidentemente sono già avvezzi a questa procedura. In tutto il mio giro dell’Armenia Dilijan è stata l’unica città in cui ho trovato un minimo di “aggressività”, intesa ovviamente in senso buono, nei confronti dei turisti. In tutte le altre città nessuno si era mai fatto avanti a propormi alberghi, ristoranti, escursioni o altro; segno evidente di come questo paese sia (per fortuna!) ancora poco avvezzo al turismo di massa. Quando anche Erevan sarà diventata come Marrakech o Il Cairo, dove non puoi fare un passo senza essere tormentato da venditori poliglotti che quasi ti costringono a comprare collanine o fare foto sui cammelli (e non ho dubbi che prima o poi accadrà), allora avremo perso per sempre un altro piccolo pezzo di quel mondo semplice e genuino, ancora incontaminato, come oggi se ne trovano ben pochi.
Ad ogni buon conto, i due belgi mi confermano di avere già una sistemazione per le prossime due notti, così Ararat riparte a mani vuote, senza nascondere un po’ di delusione. Io, in fondo, lo capisco: in un paese dal passato difficile e dal futuro incerto, ognuno sopravvive come può. I turisti qui si vedono solo per tre mesi all’anno, e non arrivano certo a frotte: è normale che persone come Ararat e Nina facciano di tutto per accaparrarseli. Finché questo modo di fare resterà limitato a poche persone e a delle maniere cortesi, non farà male a nessuno e potrà rappresentare, forse, anche un modo per entrare in contatto con la vita locale di questa gente.
Immerso in un fitto bosco, il monastero è bello anche se, come sospettavo, uguale a molti altri. E’ formato da due chiese molto ravvicinate, con cupole a pianta ottagonale dal tipico tetto rosso scuro, e una piccola cappella. L’interno è molto disadorno, con semplici ritratti di Gesù appesi vicino all’altare, e qualche candela accesa da pellegrini di passaggio. E’ molto più interessante camminare lungo un sentiero che, partendo dal monastero, risale una collina fino a raggiungere i resti di antiche costruzioni. Da lì si gode di una splendida vista sul piccolo complesso, con i tetti rossi che risaltano tra i fitti alberi. A differenza del sud, arido e desertico, queste regioni settentrionali sono molto verdi: le colline sono ricoperte di boschi a perdita d’occhio, e qua e là si intravede la strada che serpeggia attraverso i vari rilievi. Più oltre, in lontananza, la grande mole rocciosa delle montagne caucasiche si staglia contro il cielo azzurro, incorniciando il paesaggio con un effetto molto spettacolare. E non fa nemmeno troppo caldo, tanto che alla sera una maglietta con le maniche lunghe è d’obbligo.
Dopo aver scattato le foto di rito riparto con Ararat, salutando lungo la via del ritorno la coppia di belgi che ormai è quasi arrivata alla meta. Tutto sommato è stata una buona escursione, ma il meglio della giornata deve ancora arrivare. Ararat, infatti, mi dice di avere un figlia, Martina, che usa molto il computer; mi invita a passare la serata a casa sua: “così puoi insegnarle qualcosa”, mi incoraggia. Fissiamo un appuntamento per il dopo cena, quando il mio nuovo amico verrà a prendermi per portarmi da lui. Sono contento di poter vedere un’altra famiglia nella realtà quotidiana, così accetto volentieri.
* * *
Da Nina alloggia anche Hamir, un israeliano fidanzato ad una georgiana con cui ha trascorso due settimane nel suo paese. Ora sta girando da solo l’Armenia per una decina di giorni, deciso ad andare anche nel sud. Così gli do l’indirizzo di Pendjk, spiegandogli bene come arrivarci, come orientarsi a Goris e quali cambiamenti ho trovato rispetto alle cose scritte sulla LP. Quando si incontrano altri viaggiatori è sempre utile scambiarsi informazioni di viaggio: “Cosa hai visto?” “Era bello?” “Dove hai dormito?” “Quanto hai speso?” Sono tutte domande che ci si fa sempre a vicenda, in modo da poter imparare ognuno qualcosa di prezioso dalle esperienze dell’altro. In questi posti sperduti, l’unica fonte sicura di informazioni è costituita da persone che sono già state nei posti dove devi andare, e che ti possono dare pratiche “dritte” preziosissime, aggiornate e sicuramente imparziali.
Nina mi ha preparato una cena fin troppo abbondante, così invito il ragazzo a condividerla con me per chiacchierare un po’. Vorrei chiedergli della guerra che è da poco scoppiata nel suo paese, ma preferisco evitare argomenti scottanti, che potrebbero metterlo in imbarazzo. Così gli chiedo informazioni sulla Georgia, ed in particolare su Tbilisi. A differenza degli altri viaggiatori, Hamir è incoraggiante: la città gli è sembrata tranquilla e sicura, e non ha avuto problemi di nessun tipo.
“Tu, però, l’hai girata con la tua ragazza; – lo incalzo – magari lei sapeva dove portarti e dove non andare”.
“No, abbiamo girato tutta la città, e anche il paese, e non ho mai avuto problemi. Tbilisi è una bella città, non c’è nessun pericolo”. Un po’ rinfrancato da queste notizie, gli chiedo informazioni su altre città della Georgia, in particolare Kazbegi e Batumi, dove lui è già stato ed io intendo recarmi. Alla fine il buio cala sulla villa, e terminiamo la cena con della frutta fresca che abbiamo comprato insieme nel piccolo mercatino vicino al centro.
* * *
La casa di Ararat è piccola ma dignitosa: alcune porte si affacciano sul corridoio che percorriamo fino al piccolo soggiorno, dove l’uomo mi fa accomodare su un comodo divanetto. Nella stanza ci sono alcuni mobili con libri e oggetti vari: piatti, fotografie dei familiari, soprammobili. Un piccolo televisore trasmette una puntata de La Piovra in russo, mentre in fondo alla stanza vedo anche un pianoforte.
Ararat mi presenta la moglie, Julia, una graziosa signora sulla quarantina con capelli rossicci portati corti, un fisico minuto e un timido sorriso impacciato. La donna mi stringe la mano quasi con timore, forse non è abituata ad avere sconosciuti in casa; il marito, invece, prende subito in pugno la situazione, mandandola a preparare il tè mentre mi offre della frutta: alcune fette di anguria, del melone e qualche grappolo d’uva, che però lui non può mangiare poiché mi dice di essere diabetico. Della presunta figlia nessuna traccia.
Ararat mi fa parlare un po’ di me, spiegando alla moglie che insegno informatica ed inglese; mi chiede dove sono stato, cosa ho visto, dove andrò in seguito, e così via. Parla un russo molto veloce e colloquiale, tanto che spesso devo ricorrere al dizionario (che ho avuto l’accortezza di portarmi dietro) per capire cosa mi sta dicendo. A poco a poco l’oggetto delle sue domande si sposta in modo sospetto sulla mia vita: si informa sul mio lavoro, su quanto guadagno, su come si vive in Italia. Non mi piace parlare di me con gli sconosciuti, quindi resto molto sul vago evitando di rispondere direttamente alle domande. Fingo anche di non capire, cercando sul dizionario parole che già conosco per prendere tempo e pensare ad una risposta adatta. Mi dice che gli piacerebbe molto venire a vivere in Italia, che alcuni suoi amici lo hanno fatto e lui vorrebbe raggiungerli. Mi domanda quanto guadagna un tassista da noi.
“Tre, quattrocento euro al mese” rispondo io, stando molto basso per cercare di scoraggiarlo. Ma a lui anche una cifra simile deve sembrare altissima.
“Ma anche la vita costa molto”, aggiungo io. “E ci sono molte tasse da pagare”. Su questo non ho certo bisogno di mentire. L’uomo, pensieroso, continua ad assentire con decisi cenni del capo, mentre la moglie lo guarda con un’aria un po’ preoccupata.
“Come si fa per venire in Italia?” mi chiede infine. “Potrei abitare con i miei amici?”
Sento che stiamo venendo al nocciolo della questione. “Non lo so, è difficile. Ci vogliono molti documenti”. Cerco ancora di scoraggiarlo, ma Ararat sembra molto deciso.
“Ci sono tanti armeni in Italia, a Milano, e a Venezia. Potrei vivere con loro, lavorare lì.”
“Non lo so, io non ne conosco nessuno”.
“Mi serve una lettera d’invito”. Ecco la parola magica: priglaschenye, lettera d’invito. Una lettera che serve agli stranieri per ottenere il permesso di soggiorno. Dev’essere scritta da un italiano, che invita la persona a venire in Italia per un certo periodo di tempo, in modo che questa possa trovarsi un lavoro stabile e prolungare poi la permanenza. A questo punto la prossima domanda di Ararat è scontata:
“Puoi scrivere una lettera per me?”
Adesso mi è chiaro il motivo dell’invito e tutto il resto. Altro che figlia da farmi conoscere! Mi dispiace per lui, ma non ho intenzione di scrivere nessuna lettera. Ararat mi sembra una persona onesta, ma non voglio essere coinvolto in questioni legali che possono solo ripercuotersi a mio sfavore. Se io lo invito, e poi lui viene in Italia e commette qualche reato, chi ne sarà responsabile? Come posso fornire delle garanzie per una persona che conosco appena? Cerco di tirarmi indietro, con più tatto possibile.
“No, io non so come si scrive un priglaschenye. Non ho idea di come sia fatto”.
Lui insiste: “All’ambasciata ci sono i moduli. Ne chiedo uno, puoi compilarlo per me”.
“No”, ribadisco fermo. “Non posso farlo, non so come si fa”.
“Va bene”. Ararat capisce che da me non otterrà niente, così tenta un’altra carta.
“Mia figlia usa il computer. Tu puoi scrivere qualcosa con lei”.
“Scrivere cosa?” Comincio a sentirmi a disagio, spero che la cosa finisca presto.
“Le persone vengono qui. Tu scrivi su Internet, loro vengono”.
Non capisco bene cosa Ararat intenda dire, ma noto che mentre parla, sta cominciando a sudare. Sempre più spesso toglie un fazzoletto dalla tasca e se lo passa sulla fronte.
“Quando torni a casa, tu scrivi su Internet: le persone dormono qui.”
“Dove?”
“Di sotto c’è una grande stanza, loro dormono lì. Julia fa da mangiare”. Indica la donna, che assente decisa.
Credo di capire: Ararat mi sta chiedendo di creare un sito, o qualcosa del genere, dove scrivo informazioni su casa sua per informare i viaggiatori che possono dormire lì. Questo posso farlo: se non creare un sito, almeno scrivere su qualche bacheca che conosco.
“Quando torni a casa?” mi chiede l’uomo.
“Tra un mese”
“Tra un mese?”
“Sì. Dopo l’Armenia, vado in Georgia e poi in Turchia”.
“Tra un mese”, ripete Ararat tra sé e sé. Sembra perplesso; riprende ad asciugarsi la fronte, poi dice qualcosa alla moglie, che si alza ed esce dalla stanza. Dopo un paio di minuti torna con uno sfigmomanometro che subito stringe intorno al braccio del marito.
“E’ per la pressione”, mi dice. “Il caldo, mi fa male”, cerca di giustificarsi mentre lo vedo sempre più affaticato. La donna gli misura la pressione, poi lo tranquillizza. Ararat riprende un po’ di colore, poi mi chiede:
“Puoi scrivere su Internet? Mia figlia ti darà il suo indirizzo, tu le puoi scrivere.”
La figura della figlia non mi è ancora chiara. In ogni modo, anche volendo aiutarlo mi servono un po’ di informazioni.
“Quante persone puoi ospitare?”
Ararat si consulta con la moglie. “Dieci”.
Mi sembrano un po’ tante per una stanza sola, comunque proseguo.
“Quanto costerà?”
“Quindicimila dram”.
Sono trenta euro, decisamente troppi per condividere una stanza. Ma non voglio contraddire l’uomo per non farlo stancare oltre, così dico che si può fare.
“Sì, quando torno a casa posso scrivere. Dammi il tuo indirizzo preciso”.
Ararat chiede alla moglie di portargli carta e penna, poi mi detta il suo indirizzo di casa. Prendo nota. L’uomo sembra molto sollevato.
“Grazie, grazie mille. Tu hai un indirizzo su Internet?”
Penso che si riferisca alla posta elettronica. “Sì”.
“Scrivi qui, per favore”. Mi porge un pezzo di carta ed una biro. “Io lo do a mia figlia, poi lei ti scrive. Lei parla inglese. Quando ti può scrivere?”.
“A metà settembre”, rispondo mentre scarabocchio la mia e-mail su un foglietto spiegazzato.
Sono quasi le undici quando Ararat chiede alla moglie di misurargli ancora la pressione, poi si alza. “Bene, è ora di andare”, annuncia, con sollievo mio e un po’ di tutti.
Saluto la gentile moglie e scendo con lui in cortile, dove chiama la figlia, che era rimasta di sotto con gli amici. Allora esiste davvero! Arriva una ragazza molto carina, sui vent’anni, fisico slanciato, profondi occhi scuri e lunghi capelli che le nascondono parzialmente il viso. Il padre le chiede di scrivere la propria e-mail; lei corre in casa, e dopo qualche minuto torna con un bigliettino che mi porge sorridendo. La saluto velocemente, poi salgo sulla macchina di Ararat che mi deve riportare da Nina. L’uomo mette in moto, poi di nuovo prende il fazzoletto e si asciuga la fronte.
“Fa molto caldo”, si giustifica. Per un attimo penso: se questo si sente male durante il percorso, io che faccio? Per fortuna tutto finisce bene. Quando arriviamo a destinazione, Ararat mi chiede dove andrò domani.
“A Vanadzor”, dico io.
“Se vuoi, ti posso portare con la mia macchina”.
Non ci penso nemmeno! “No, grazie, vado con l’autobus”, rispondo gentilmente.
Prima di salutarmi, l’uomo è così gentile da indicarmi il punto da cui parte il pullman, piuttosto spostato dal piazzale della stazione. Poi parcheggia l’auto nel cortile di Nina che ci viene subito incontro, quasi sollevata di vedermi tornare sano e salvo. Mentre Ararat si siede al tavolo con lei a bere un tè, io mi congedo da entrambi. Tutto sommato è stata una buona esperienza, che mi ha permesso di conoscere un altro pezzo di questo paese e di questa gente venendone fuori senza danni; sono molto contento di come si sta mettendo il mio viaggio.
Ma domani si riparte.
La
maggior parte dei cognomi armeni finisce in –yan, che equivale al nostro
“di”, o “de”, in modo del tutto simile al tedesco von
o all’irlandese o’ , prefissi che indicano quasi sempre l’origine di una
persona. In Italia questo modo di creare cognomi nacque verso la fine ‘800,
quando, in seguito all’unità d’Italia, tutti i cittadini vennero chiamati
all’anagrafe per registrarsi. Moltissimi, però, non avevano un vero cognome
(o non sapevano di averlo): si trattava per lo più di contadini, pastori,
mercanti che non erano mai andati a scuola, magari avevano trascorso tutta la
vita in una valle isolata sulle montagne, senza conoscere nessun altro mondo al
di fuori del loro paesino. Al nord come al sud, questi uomini, analfabeti, che
spesso non capivano nemmeno l’italiano, quando si presentavano all’ufficio
comunale per registrarsi si guardavano intorno spauriti, senza sapere cosa
rispondere alle domande dell’addetto al censimento. Questi, che pure doveva
scrivere qualcosa alla voce “cognome”, chiedeva loro:
“Come
ti chiami?”
“Giuseppe”
“Di
chi sei figlio?”
“Di
Pietro”
E
così il timido pastorello da un giorno all’altro si chiamava Giuseppe di
Pietro. Oppure veniva indicata la professione:
“Di
chi sei figlio?”
“Del
pescatore”
E
allora il ragazzino coi vestiti lisi, indossati e rigirati mille volte,
diventava “Antonio del Pescatore”. Ancora, in caso il padre fosse ignoto, si
usava il nome della madre: “Lucio della Giovanna”, e simili.
Un
discorso molto simile si applica ai cognomi armeni: Davidyan significa “figlio
di David”; Najaryan “figlio del carpentiere”, Melikyan “figlio del
re”. Oppure può essere indicata la città d’origine: Vanetsyan vuol dire
“proveniente da Van”, e così via. Nell’armeno occidentale poi,
caratterizzato da suoni più morbidi, -yan diventa -ian (la differenza nella
pronuncia è incomprensibile per noi), ma il significato rimane inalterato.
Non
fa eccezione la mia padrona di casa, Natasha Grigoryan: un suo antenato,
evidentemente, era “figlio di Grigor”. La casa di Natasha è molto bella,
nonostante dall’esterno sembri solo un casermone di cemento e l’entrata dia
direttamente nel garage. Da qui si attraversa un cortile che dà su un giardino
interno, dove una grande tenda ripara dal sole alcuni tavoli preparati, sembra,
per un imminente banchetto. Poi si arriva in un atrio su cui si affacciano la
cucina, piccola ma completa di tutto, ed un ampio salone, arredato con gusto,
che non manca di nulla: televisore, telefono cordless, libreria. Superata
un’elegante scala a chiocciola, tutta in legno, che porta al piano superiore,
ecco la porta della mia stanza. Anche questa è molto grande: c’è un letto,
un grande divano con un tavolino, un paio di librerie, e perfino un televisore
in bianco e nero che riceve un paio di canali locali.
La
figlia di Natasha, Kristine, con cui ho parlato al telefono per stabilire il
prezzo del soggiorno, parla benissimo l’inglese, così mi sono sistemato per
altri due giorni. Vanadzor, capoluogo della montagnosa regione di Lori, è
un’ottima base per visitare i dintorni, ed essendo vicina al confine
georgiano, sarà (spero) la mia ultima tappa in Armenia.
Sono
arrivato qui con l’unico autobus giornaliero da Dilijan, che ho preso per
miracolo dopo aver lottato nella calca per una mezz’ora buona alla
biglietteria della stazione, scoprendo alla fine che l’autobus per Vanadzor
partiva da un’altra parte e che i biglietti si compravano direttamente in
vettura. Questo non è un mashrutka, ma un vero pullman di linea (si fa per
dire); la folla, però, è sempre formata dal solito colorato, caotico, assurdo
campionario di persone che si possono osservare soltanto su un mezzo di
trasporto pubblico. Un anziano signore siede accanto alla grassissima moglie,
che occupa da sola due posti; una famiglia, padre, madre e figlio piccolo
vorrebbero sedersi vicini, ma non ci sono posti liberi a sufficienza, così il
papà tiene il figlio in braccio, mentre in fondo all’autobus la mamma
custodisce i bagagli. Sono soprattutto persone anziane ad usare il pullman,
tutte col viso affaticato ma molto orgoglioso; indossano vestiti semplici,
cercando però di darsi un tono con uno scialle o un fazzoletto colorato.
Accigliate comari, perse nei loro chiacchiericci, indossano ampie gonne con
motivi a fiori sopra lunghi calzettoni scuri, mentre con le braccia stringono al
petto sporte lacere colme di verdure o di altre cibarie, i cui odori si spargono
presto per tutto il veicolo. Tutti indistintamente sono stracarichi di bagagli:
nei volti dalla pelle bruciata dal sole gli occhi si muovono continuamente in
tutte le direzioni, controllando che gli enormi borsoni riempiti di chissà
quale mercanzia non si rovescino sul pavimento in seguito ai mille scossoni cui
sono soggetti.
Il
pullman è partito quasi vuoto ma, durante il tragitto, come è consuetudine in
molti paesi, si ferma continuamente per far salire persone che a fatica si
tirano dietro borse, valigie, sacchi di vettovaglie forse destinati ai mercati
dei villaggi regionali. E ad un certo punto, quando sembra impossibile che sul
mezzo strapieno possa starci ancora qualcuno, ecco l’ennesima fermata: sale un
vecchietto, vestito di tutto punto, che si fa largo sul predellino (l’unico
posto rimasto libero), cercando poi di issare accanto a sé un enorme
macchinario metallico, dall’aspetto alquanto misterioso (assomiglia un po’
alla batteria di un autotreno). Alcuni uomini, scavalcando gambe e borse,
scendono dal mezzo per aiutare il vecchio a sollevare la pesantissima
attrezzatura, che viene appoggiata in qualche modo sui gradini. Essendo seduto lì
accanto, vorrei alzarmi per cedere il mio posto all’uomo, ma è davvero
impossibile muoversi nella calca, così rimango sul mio sedile ad osservare per
un po’ la folla pigiata, quindi mi dedico al panorama esterno.
E’
davvero rilassante: mentre l’autobus, stracarico, arranca in salita, intorno a
me vedo soltanto boschi che si estendono a perdita d’occhio sulle montagne
circostanti. Di quando in quando, un villaggio di poche case fa capolino nel
verde, ma dopo pochi minuti scompare all’orizzonte lasciando nuovamente la
scena alla natura, che in questa parte del mondo la fa da assoluta padrona. Più
a sud, le imponenti vette dei monti Maymekh e Tekhenik, entrambe al di sopra dei
3000 metri, segnano il confine fisico della regione, che gode di un clima molto
più fresco e ventilato rispetto ai caldi altopiani centrali.
Su
uno dei pendii paralleli alla strada corre la ferrovia, costruita dai sovietici
per collegare Erevan a Baku e chiusa in seguito alla guerra. I binari e i cavi
dell’elettricità sono ancora integri, e infatti il governo sta pensando di
riaprila, ovviamente solo nel tratto armeno, fino a Ijevan. Per il momento, però,
il trasporto su gomma rimane l’unico possibile, anche se in queste zone poco
abitate il traffico non rappresenta certo un problema. Addirittura, incontriamo
un gruppo di mucche che camminano beatamente in mezzo alla strada, e il
conducente deve fare rapide e precise manovre per non investirle, mentre
passeggeri e borsoni vengono sballottati a destra e sinistra.
*
* *
Trovare
un ristorante a Vanadzor non è semplice; ci sono tantissimi negozi, piccoli
supermercati, chioschi e bar dover acquistare del cibo, ma sembra che non ci sia
alcun luogo per mangiare fuori. Il ristorante indicato sulla LP non esiste più,
come altri suoi simili che, insieme a stazioni, uffici postali, Internet point,
compaiono, scompaiono, si spostano vorticosamente senza lasciare scampo alle
guide che inutilmente cercano di aggiornarsi: le informazioni riportate, per
quanto recenti grazie ai continui feedback dei viaggiatori, dopo pochi mesi
diventano già vecchie. Mentre mi aggiro per le vie del centro noto un gran
trambusto. Vedo alcuni poliziotti deviare il traffico ai lati della strada
principale, che è stata chiusa alle auto ed è affollatissima di persone che la
percorrono a piedi, dirette verso la piazza principale. Dapprima penso ad una
manifestazione, un corteo; mi unisco alla folla, e scopro invece un grande palco
sul quale si sta per esibire una famosa cantante rock armena. La folla diventa
sempre più numerosa, e mi sorprendo nel vedere così tante persone, quasi tutte
giovanissime, in una città che invece fino a poche ore prima mi sembrava quasi
deserta. Scopro una piccola pizzeria dove decido di fare uno spuntino veloce, in
attesa dello spettacolo. Ordino e mi siedo ad un tavolino, ma mentre aspetto
noto che la clientela aumenta continuamente, fino a quando tutte le sedie
vengono occupate e si crea persino una ressa di persone in piedi, sempre più
accalcate ad aspettare che si liberi un posto. Io, che per una volta mangio da
solo (è la seconda volta che mi succede da quando sono partito), mi sento quasi
in imbarazzo ad occupare un intero tavolo. Per fortuna, però, vedo due ragazzi
alzarsi dai loro posti e sedersi accanto a me, per bere una birra in compagnia.
A causa della mia “deformazione da occidentale” sono subito allarmato dal
pensiero che stiano cercando di farsi offrire da bere, ma presto mi accorgo che
non è così: queste gente genuina è semplicemente curiosa di conoscere i pochi
stranieri che arrivano da queste parti.
Marcus
parla bene l’inglese, a differenza del suo amico Artur che invece si limita
per lo più a sorridere ed annuire. E’ ben vestito, porta i capelli biondi
tagliati corti ed ha due occhi molto sinceri. Quando scopre che sono italiano,
subito il suo volto si illumina: dice di amare l’Italia, anche se non c’è
mai stato, ma di sapere tutto su di essa al punto di prendere lezioni private
della nostra lingua. Gli mostro la mia guida, che lui cerca di leggere con un
discreto successo, poi gli chiedo di lui. E’ un ingegnere e lavora
nell’impresa edile di suo padre. Gli chiedo se sia facile trovare lavoro da
queste parti.
“Non
ci lamentiamo, anche se le cose potrebbero andare meglio. Negli ultimi anni, i
ragazzi hanno potuto riprendere a studiare, così per loro diventa più facile
trovare loro. Anche se non siamo ricchi come voi italiani”, ma lo dice
sorridendo, quasi scherzando. E’ molto curioso dell’Italia: vuole sapere
dove abito, qual è il mio lavoro, e non evita di affrontare l’argomento più
popolare all’estero:
“Per
quale squadra di calcio fai il tifo?”
“Atalanta.”
“Sì,
la conosco. Giocherà in serie A l’anno prossimo!”
“Sei
molto informato.”
“Sì,
e la Juventus sarà in serie B”. Questa è una cosa che ormai sa tutto il
mondo; sono sicuro che se mi trovassi presso una tribù indigena della Papuasia,
che non conosce il telefono, l’energia elettrica e l’acqua corrente, la
conversazione finirebbe sempre e comunque sulla Juventus e sul calcio italiano.
Marcus
mi chiede se sono fidanzato. Quando gli dico di no, stranamente non mi chiede il
perchè, come di solito fanno gli uomini adulti, sempre sorpresi dall’incontro
con un single.
“E
tu lo sei?” gli domando a mia volta.
“No”,
risponde, gonfiando leggermente il petto in un gesto che potrebbe sembrare di
vanto. Ma nei suoi occhi vedo una luce di malinconia. Voglio capire.
“Perché
no? Con tutte le belle ragazze che ci sono!” Indico la folla di ragazzine che
stipano il locale, molte vestite con magliette scollate e minigonne.
“Io
sto bene da solo, non voglio una moglie. Anche se da noi è un problema, alla
mia età”.
Questa
non l’avevo ancora sentita. “Cosa intendi dire?”
“Io
ho trent’anni, e sono considerato vecchio. Qui in Armenia, è d’abitudine
che gli uomini si sposino al massimo a 27 anni.”
“E
le ragazze?”
“Oh,
loro si sposano molto più giovani, a venti, ventidue anni”.
Marcus
mi spiega che per le donne è ancora molto importante arrivare vergini al
matrimonio. Danno molto valore alla verginità, e nella società armena è raro
(e difficile) per gli uomini essere dei “farfalloni”. Il sesso è un tabù
di cui si parla poco e che si pratica ancora meno, prima delle nozze.
Quando
i due ragazzi fanno per congedarsi, chiedo loro il motivo di tanta ressa.
“Sta
piovendo”, mi rispondono.
Resto
un attimo sorpreso. E’ la prima volta che piove da quando sono in Armenia, e
sembra che questo abbia preso alla sprovvista anche i locali: in effetti osservo
che tutti i ragazzi sono vestiti molto leggeri, senza niente per ripararsi dalla
pioggia, e intuisco che si sono rifugiati al coperto non per mangiare, ma in
attesa che smetta.
Quando
esco dal locale sta letteralmente diluviando; cammino in fretta fino alla
piazza, facendomi largo tra la folla zuppa e pressata contro le pareti delle
case, o sotto le tettoie dei negozi. Gli eleganti porticati intorno alla grande
rotonda sono gremiti di ragazzi e ragazze che si riparano dall’acqua, in
attesa di sviluppi. Di nuovo, sono sorpreso dalla quantità di gente che mi
circonda: sembra quasi che tutti gli adolescenti armeni si siano dati
appuntamento qui come per un raduno epocale. Mi fermo anch’io sotto un
portico, ad aspettare che la pioggia smetta o quanto meno si riduca; voglio
vedere se il concerto riprenderà, e poi la casa di Natasha è lontana dal
centro e non mi va di farmela a piedi sotto l’acqua. Dopo un altro quarto
d’ora di diluvio, avendo delle cartoline da spedire, raggiungo l’ufficio
postale il cui atrio è stato aperto per accogliere un’altra massa di ragazzi
fradici che si strizzano letteralmente i vestiti di dosso. Imbuco le cartoline,
quindi resto a guardarmi intorno. La pioggia non smette, anzi se possibile
aumenta ancora di intensità; quando è chiaro che il concerto è stato
annullato, i poliziotti riaprono la strada al traffico, ma le poche auto
avanzano a fatica sotto il diluvio mentre l’asfalto si è ormai ridotto ad
un’unica, immensa pozzanghera. Di quando in quando compare qualche taxi che
subito viene preso d’assalto da uno sciame di ragazzine in minigonna alla
ricerca di un mezzo per ritornare a casa. Alla fine anch’io devo rassegnarmi
e, stretto nella mia giacca a vento, cammino lentamente per la lunga strada
periferica, non illuminata e piena di buche, che porta verso il mio alloggio. E
mentre inciampo nei marciapiedi, finisco nelle pozzanghere fino al ginocchio e
sento in lontananza un sinistro latrato di cani, per scacciare il disappunto
comincio a cantare a squarciagola la mia canzone preferita. Ed è sulle note di Io,
vagabondo che mi convinco sempre di più di come l’avventura, il disagio,
gli incontri, le esperienze da vivere e da raccontare mi facciano sentire vivo,
felice, arricchito. Questa è la mia strada.
Oggi è il mio ultimo giorno in Armenia, o almeno così spero. Comincio ad essere stanco di questo paese che, pur semplice e genuino, ha ben poco da offrire al viaggiatore. E’ ora di cambiare aria, di andare in Georgia, ma prima ho ancora qualcosa da fare. Il mio programma di oggi prevede di prendere il treno fino ad Alaverdi, una piccola località di montagna, visitare i vicini monasteri di Sanahin e Haghpat, quindi ritornare col treno della sera. Poi, avrò due possibilità: partire per Tbilisi già questa sera, col treno notturno che arriva da Erevan, oppure battermi per trovare un posto sul mashrutka di domani mattina. Deciderò col tempo.
Il
treno per Alaverdi è formato da due sole carrozze, che vengono subito prese
d’assalto da centinaia di viaggiatori ognuno col proprio seguito di bambini
schiamazzanti, bagagli ingombranti, perfino qualche animale. D’altronde questo
è l’unico treno che, ogni giorno, attraversa le montagne fino al confine con
la Georgia per poi fare ritorno alla sera; essendo poi domenica, è naturale che
molta gente abbia deciso di fare una gita fuori porta.
Definire
il treno “scassato” significa fargli un complimento. Le porte non si
chiudono, e rimarranno aperte per tutto il viaggio; molti sedili sono rotti,
hanno l’imbottitura strappata o mancano del tutto; i serramenti sono
arrugginiti da far paura, tanto che io cerco in tutti i modi di non toccarli,
per paura di prendermi qualche strana malattia; i finestrini, dove esistono
ancora, sono talmente lerci da impedire di guardare il panorama, che invece
dovrebbe essere magnifico poiché il treno attraversa la profonda gola del fiume
Debed, in uno degli scenari naturali più belli dell’Armenia; riguardo al
gabinetto, infine, è meglio non esprimersi. In Italia molta gente si
rifiuterebbe di salire su un mezzo simile, ma qui la gente non si formalizza più
di tanto: in fondo, è già bello che un treno ci sia.
Faccio
il viaggio insieme a Karl, un olandese di 36 anni che avevo visto di sfuggita già
a casa di Natasha. Lui va fino ad Ayrum, il capolinea della corsa, da dove spera
di prendere un autobus (o qualsiasi altro mezzo) fino a Tbilisi. Nella vita fa
il giornalista free-lance per alcune riviste di elettronica, e, ogni volta che
può, parte ad esplorare il mondo. Per dirla con parole sue: “When I have
money, I go” (mi ricorda qualcuno che conosco…). Chiacchierando, mi rendo
conto di avere di fronte un vero viaggiatore: Karl ha solo tre anni più di me
ma ha già visitato ottanta paesi. Come ogni vero esploratore, cerca sempre si
spostarsi via terra, o via mare, evitando il più possibile di prendere
l’aereo, questa specie di macchina dello spazio-tempo che ti trasporta da un
punto A ad un punto B privandoti del fascino di raggiungere la tua meta un po’
alla volta, di godere della soddisfazione per aver conquistato il sudato
traguardo. Karl mi racconta che una volta ha fatto un viaggio via terra di due
mesi dall’Olanda attraverso l’Europa orientale e tutta la Turchia fino in
Siria, Giordania, Egitto, Israele, per concludere poi la sua avventura su mare
con destinazione la parte turca di Cipro, dove è stato arrestato per essere
entrato nel paese illegalmente. In un’altra avventura, ancora più
incredibile, è arrivato, sempre via terra, fino in Indonesia, attraversando
tutta l’Asia per quattro mesi su pullman, treni, battelli, mezzi di fortuna, e
qualunque altro mezzo gli permettesse di muoversi tra la gente osservando man
mano l’alternarsi dei paesaggi, dei volti, degli abiti, delle pietanze. Gli
chiedo se abbia mai scritto articoli o libri sui suoi viaggi ma lui scuote la
testa, sorridendo:
“Devo
già scrivere quando lavoro; – mi dice – quando viaggio, non ci voglio
pensare”. E’ giusto così, penso io: unicuique suum.
Ne
approfitto anche per chiedergli di Tbilisi, dove lui è già stato; non mi
stancherò mai di informarmi su quel luogo tanto affascinante quanto ambiguo.
Karl mi rassicura: secondo lui è una città tranquilla e non pericolosa, anzi
anche un po’ noiosa. Bene, un altro punto a favore degli “ottimisti”.
Tra l’altro Karl mi informa che in Georgia c’è un’ora in meno,
perché di recente hanno abolito l’ora legale; queste informazioni pratiche
(spesso non riportate sulle guide), sono davvero preziose per i viaggiatori
indipendenti come noi, la cui sorte può spesso dipendere da dettagli
all’apparenza insignificanti.
Mentre
parliamo, alcuni ragazzi si avvicinano a noi per fare amicizia. Sono
curiosissimi, vogliono sapere tutto: da dove veniamo, dove siamo diretti, perché
siamo venuti in Armenia, e così via. Questo aspetto è senza dubbio quello che
mi ha colpito più piacevolmente di questa nazione: la curiosità della gente
nei confronti degli stranieri. Non una curiosità morbosa, finalizzata alla
richiesta di soldi; bensì un interesse genuino, spontaneo verso chi viene da
fuori, da un mondo lontano e sconosciuto che probabilmente questi ragazzi non
visiteranno mai. Il nostro semplice dialogo è tutto un susseguirsi di domande,
di espressioni stupite, di sorrisi che ognuno qui elargisce in abbondanza ai
forestieri, e rappresenta di certo il bagaglio più importante che riporterò
con me nel ritorno verso casa.
Quando
il treno arriva ad Alaverdi saluto Karl e mi preparo ad accogliere ciò che la
giornata avrà da offrirmi. Nel piazzale di fronte alla stazione vedo i soliti
giovanotti oziosi seduti a chiacchierare e a guardarmi incuriositi, ma ormai non
ci faccio più caso, e comincio a guardarmi intorno. Il paesaggio è stupendo:
mi trovo nella stretta valle del fiume Debed, che scorre placido di fronte a me,
sormontato da un piccolo e traballante ponte pedonale. Tutto intorno, sui due
lati del fiume, si elevano alte montagne granitiche, dipinte di colori verdi e
marroni dalle mille sfumature. Purtroppo lo scenario è rovinato da
un’altissima ciminiera che si staglia netta tra il paese e le montagne, dalla
quale una colonna di fumo si alza fino ad oscurare la vetta. Questo paradiso
naturale è stato massacrato in un modo che non avevo ancora visto, almeno in
Asia: di fianco alla stazione la mole enorme di una fabbrica abbandonata si
estende a perdita d’occhio lungo la strada che porta in centro. L’enorme
scheletro di acciaio arrugginito, le sue finestre infrante, i suoi portoni
corrosi e divelti sono un perfetto simbolo della rovina che l’uomo può recare
alla natura, e quindi anche a se stesso. Tutte queste strutture (compresa la
stazione) furono costruite quando i sovietici aprirono delle miniere di rame
nella zona; e, per poter accogliere tutti i minatori improvvisati che conversero
qui in cerca di lavoro, edificarono anche un intero villaggio sull’altro lato
della valle. Dopo qualche anno, però, le miniere si esaurirono e furono chiuse
e, a parte il piccolo stabilimento collegato alla ciminiera, tutto è stato
abbandonato senza riguardo. La stradina che dalla stazione conduce in paese
scorre di fronte alle rovine, consentendo al passante di “ammirarle” in
tutto il loro degrado. Gli armeni sono da sempre allevatori, frutticoltori,
piccoli artigiani. A cosa mai è potuto servire un simile complesso industriale?
A creare, sul momento, l’illusione di un lavoro sicuro e di stabilità
economica e persone che l’avevano già (anche se sotto altre forme), per poi
abbandonarle a loro stesse e alla loro disoccupazione quando gli impianti hanno
chiuso? E l’aria che adesso respirano? E le falde acquifere inquinate? Coloro
che hanno creato questo degrado avrebbero quanto meno dovuto “rimettere a
posto” prima di andarsene, o mi sbaglio?
Per
raggiungere il villaggio di Sanahin, abbarbicato su di un plateau sull’altro
versante della valle, bisogna prendere una piccola funivia che da Alaverdi porta
alle montagne di fronte. La prospettiva non mi attira molto: prima di tutto
perché soffro di vertigini, secondo perché la manutenzione della cabina ha
poco da invidiare a quella del treno. Però, come amo sempre ripetere, non penso
che il manovratore ci tenga a schiantarsi al suolo, quindi se sale lui, posso
farlo anch’io; in fondo il tragitto è molto breve. Acquistato il biglietto da
una ragazza dallo sguardo magnetico mi decido a fare il grande passo.
Dopo
tre o quattro minuti arriviamo con sollievo all’altro capolinea, da dove una
strada in salita conduce attraverso un villaggio deturpato dall’edilizia
selvaggia. Su entrambi i lati incombono enormi casermoni in stile sovietico che
nulla hanno a che vedere con l’architettura tipica armena. Dai grigi balconi
delimitati da ringhiere arrugginite, massaie di mezza età si sporgono per
appendere il bucato su cavi improvvisati e pericolanti, o più semplicemente per
stare a guardare la gente che passa per la via. Questi condomini, forse un tempo
funzionali ma che ormai da anni non sono soggetti ad alcuna manutenzione, sono
il classico esempio dell’edilizia comunista, secondo cui un edifico non deve
essere bello, ma soltanto efficiente. Mi torna alla mente il giorno in cui,
uscito da un parco alla periferia di Mosca, avevo preso un autobus per
raggiungere una fermata della metro. Per tutto il viaggio non avevo visto altro
che anonimi palazzoni tutti uguali, alti cinque o sei piani, edificati come un
classico quartiere dormitorio, senza la minima attenzione per il senso estetico
o l’impatto ambientale. Le case dovevano essere case, e basta. L’importante
era che servissero al loro scopo, che ospitassero più famiglie possibile in uno
spazio ristretto. Questo è sempre stato l’unico criterio seguito dagli
architetti sovietici; ma questa idea, già deprimente in un quartiere periferico
moscovita, mostra davvero il suo lato peggiore quando viene esportata in luoghi
come l’Armenia settentrionale, un tempo paradiso incontaminato, abitato
solamente da pastori e monaci.
Dalla
cima della collina parte una stradina che porta al monastero. Come tante altre
che ho già visto è abbandonata, dissestata, piena di buche e, come al solito,
affiancata da mucchi di spazzatura abbandonati. Cani randagi frugano tra i
rifiuti azzannando qualche sacchetto qua e là e trascinandolo in mezzo alla
carreggiata; con questo caldo, poi, il fetore emanato dagli scarti in
decomposizione è davvero nauseante. Nessuno però sembra curarsene, nessuno
sembra essere responsabile della pulizia o della manutenzione delle strade: si
comportano tutti come se l’inquinamento non li riguardasse, come se una
persona potesse gettare sotto un albero una lattina vuota, o una bottiglia di
plastica, o un qualsiasi altro rifiuto, e dopo di quella un’altra persona, e
poi un’altra ancora, e così via, senza che questa catena di eventi avesse
un’influenza negativa sulla loro vita e su quella dei loro figli. Mi chiedo
cosa succederà quando comincerà a piovere, quando tutta questa immondizia
scorrerà per le strade e poi giù per il pendio senza controllo. Dove
giocheranno i bambini? Dove pascoleranno gli animali? Sinceramente, comincio ad
essere stanco di questo paese così abbandonato a sé stesso.
Il
monastero di Sanahin, dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità
dall’UNESCO, occupa la copertina della Lonely Planet; anche se, a dirla tutta,
non è diverso dagli altri monasteri che ho visto in Armenia tanto che, se non
ci fosse la didascalia col nome, sarebbe impossibile dire di quale si tratti.
Oltretutto Sanahin, nascosto com’è dal bosco, non offre di sé quelle vedute
particolari tipiche degli altri suoi simili, e l’unico vantaggio del visitarlo
sta nel riparo che gli alberi offrono dal solleone. Pur essendo uno dei
monasteri più antichi del paese, risalente all’anno 928, oggi rimane ben poco
delle antiche tombe, delle gallerie sotterranee usate dai monaci per nascondersi
durante le invasioni, della grande biblioteca e della famosa scuola di medicina
realizzate nel corso degli anni. Sanahin è stata anche sede di un
arcivescovado, ma oggi la chiesa principale, la cappella secondaria e l’ampio
porticato sono come gli altri privi di qualsiasi tesoro o reliquia, e appaiono
desolatamente tristi e spogli in questo luogo tanto sperduto.
Qualche
altro visitatore si aggira tra gli edifici: un paio di ragazze, una famiglia con
bambini, un solitario anziano. Consumo un pasto frugale, poi mi preparo
all’ultima visita armena: si tratta di un altro monastero, quello di Haghpat,
situato nelle vicinanze ma comunque troppo lontano per andarci a piedi. Decido
di tornare ad Alaverdi e cercare un mezzo di trasporto, probabilmente un taxi. E
anche in questo caso, il meglio della giornata deve ancora venire.
Ridiscendo
a valle con la funivia (sic!), e appena scendo dalla cabina vengo avvicinato da
un ragazzone del posto che cerca di fare amicizia e si offre di accompagnarmi al
posteggio dei taxi. Non parla inglese, quindi cerchiamo di capirci in russo. Mi
sembra, però, che questa persona sia diversa dalle altre che ho incontrato: il
sorriso a mezza bocca del furbetto, i suoi tentativi di prendermi per un
braccio, gli occhi in cui intravedo una luce che non mi piace, un’ombra di
malizia, o di bramosia. Tutti segnali che mi suggeriscono di stare all’erta.
Armen, dapprima, mi pone le solite domande: da dove vengo, perché sono venuto
in Armenia, ecc. Ma quando gli dico che le ragazze qui sono molto carine, mi
prende per un braccio con aria compiaciuta e, ammiccando in modo molto
malizioso, mi propone un incontro “particolare”. A questo punto non ci sono
più dubbi: si tratta del primo “cacciatore” che incontro dalla mia
partenza, e devo spostare il mio atteggiamento sulla difensiva. Siamo soli per
la strada, non passa nessuno: in questa situazione comincio sempre a guardarmi
bene intorno, pronto a veder sbucare all’improvviso, da dietro a qualche
angolo, i compari della volpe che ha fiutato la preda. Mi libero della presa e
riprendo a camminare affrettando il passo, e rispondendo alle sue insistenti
proposte con semplici monosillabi. Finalmente arriviamo in centro, ma ancora non
vedo nessuno in giro. Armen mi dice di sapere dove si trovano i taxi, e l’idea
migliore mi sembra quella di seguirlo, pur con molta prudenza. Certo, se mi
dovesse invitare in una casa o in un negozio, sono già pronto a battermela; ma
finché siamo per strada, non ha senso che io me ne vada girando a caso per un
paese che non conosco, mentre lui può andare a cercare amici. Così lo seguo
ancora per un po’, finché arriviamo davvero ad una piazzola con un taxi
parcheggiato all’ombra di alcuni alberi; di fronte, un gruppo di uomini
attempati siede nell’ingresso di una casetta chiacchierando tranquillamente.
Tra l’altro noto che si tratta di un taxi ufficiale, con tanto di insegne, non
uno di quelli improvvisati che ti caricano e poi non sei mai sicuro di dove ti
portano. Armen mi chiede se può venire con noi; l’idea non mi attira per
niente, e so come liberarmi di lui in modo educato: gli rispondo di sì, che può
accompagnarmi tranquillamente a patto che paghi la sua parte della corsa. Il suo
sorriso si spegne subito, ma lui, tenace, fa un ultimo tentativo:
“Dai
i soldi a me, così vado a trattare con l’autista” mi propone, con la
naturalezza di chi mi avesse chiesto l’ora.
“Che
c’ho l’anello al naso, io?” sono tentato di rispondergli; ma purtroppo il
mio russo non arriva a tanto, così mi limito a rifiutare sorridendo e mi dirigo
a grandi passi dal tassista con cui voglio intavolare una trattativa lontano da
orecchie indiscrete. Vedo con sollievo che Armen rimane indietro, così’ posso
patteggiare la corsa tranquillamente. Ma non ce n’è bisogno: scopro che il
taxi è talmente serio da avere addirittura una tabella ufficiale dei prezzi!
L’uomo mi indica la tariffa per Haghpat, che tra l’altro è stata cancellata
e corretta più volte, ma è comunque più bassa di quanto mi aspettassi. Il
vero sollievo, però, lo provo quando l’autista mette in moto e parte
lasciando nel mio passato Armen e gli altri uomini che cominciavano ad aggirarsi
intorno alla macchina con troppa curiosità.
A
dire il vero, non mi sono mai sentito veramente in pericolo; Armen probabilmente
era solo un ragazzo povero in canna che, trovatosi di fronte ad un turista
solitario (di sicuro una rarità), ci ha provato, cercando di sfruttare
l’occasione. Non è mai apparso minaccioso, anche se non ho mai abbassato la
guardia perché quando si è soli si è sempre vulnerabili. Più che altro mi è
dispiaciuto incontrare proprio l’ultimo giorno una persona invadente ed
approfittatrice che ha molto stonato con la gentilezza realmente disinteressata
di tutti gli altri armeni che ho incontrato sul mio cammino.
Il
sito di Haghpat è davvero splendido, e ha cancellato la delusione che finora mi
aveva colpito per essere arrivato così lontano quasi inutilmente. E’
certamente il più meritevole di tutti i monasteri armeni, insieme a quello di
Tatev, e vale davvero la pena di visitarlo. La sua magnifica posizione in cima
ad una montagna, da cui si gode una spettacolare vista della valle sottostante,
e la sua particolare composizione architettonica lo rendono molto interessante,
tanto che nel piazzale antistante non mancano i pullman dei viaggi organizzati.
Haghpat è più recente di Sanahin (il cui nome significa, infatti, “più
vecchio di quello”); fondato nel 976 dalla regina Khosrvanuch, il monastero
conobbe un periodo di grande splendore nel XII secolo, quando alla chiesa
centrale furono aggiunti una biblioteca, un refettorio ed una imponente torre
campanaria, di certo l’edificio più mirabile di tutto il complesso. La chiesa
principale, dedicata a Santa Nishan, è circondata da numerose croci di pietra
scolpite, e intorno vi sono delle sale per lo studio. In effetti questo
monastero, a differenza degli altri, appare vivo: alcuni monaci dalla folta
barba, vestiti nei loro caratteristici abiti neri, si spostano da un edificio
all’altro tenendo in mando grossi libri dall’aria antica, mentre i rosari
pendono vistosamente dal collo; alcuni si scambiano qualche parola, e non
sembrano affatto seccati dalla presenza dei turisti che sicuramente portano
denaro utile alla manutenzione del complesso. Nel parcheggio antistante non
manca nemmeno il negozio di souvenir, piuttosto raro a vedersi qui in Armenia,
che vende cartoline ad un prezzo doppio dispetto ai suoi omologhi della
capitale.
Mi
soffermo volentieri in questo bellissimo sito, sia perché la veduta è davvero
spettacolare, sia perché questa è la mia ultima gita in Armenia, prima di
andare in Georgia, e voglio assaporare ogni attimo che questo paese mi sta
offrendo. Alla fine riprendo il taxi, il cui autista mi ha pazientemente
aspettato (ma dev’esserci abituato), e mi faccio portare alla stazione, dove
dovrò far passare ancora tre ore prima dell’arrivo del treno.
Sulle
pareti della sala d’aspetto spiccano dei coloratissimi mosaici che
rappresentano, in perfetto stile comunista, scene di lotta sociale e di vita
operaia. L’edificio è fin troppo grande per la funzione che svolge, tanto che
una sezione è stata chiusa e transennata. Forse da qui, in passato,
transitavano più dei tre treni giornalieri di adesso, e questa stazione ha
vissuto tempi migliori. Anche ora, comunque, è assolutamente dignitosa; quando
esco, mi soffermo a lungo ad osservare il quadro offerto dal lunghissimo treno
merci fermo qui da chissà quanto tempo, nell’immobilità generale, mentre
sullo sfondo l’imponente sagoma delle montagne svetta sul paese e sulla sua
silenziosa valle, offrendo davvero la sensazione di essere in uno dei luoghi più
remoti del pianeta.
Il
taxista, al ritorno da Haghpat, mi ha chiesto più di quanto pattuito,
accampando come scusa che la tariffa scritta si riferiva al solo viaggio di
andata. Sono riuscito a tirare un po’ sul prezzo finale, ma ho fatto fuori
tutte le monetine che avevo; in tasca mi resta solo una banconota da 5.000 dram
per comprare il biglietto di ritorno, che costa appena 150 dram (più o meno
trenta centesimi di euro). La biglietteria apre soltanto pochi minuti prima
dell’arrivo del treno e, come temevo, quando tiro fuori la banconota il
cassiere mi guarda sconcertato, rivolgendosi a me con una delle frasi che ho
imparato meglio studiando il russo:
“U
vas est’ melochy?” (Ha degli spiccioli?)
“Istvinitie, u menya net
melochy” (Mi dispiace, non
ne ho)
Io
già mi aspettavo che mi restituisse la banconota dicendo di arrangiarmi a
cambiarla; invece l’uomo si precipita di corsa fuori dalla stazione,
ritornando dopo alcuni minuti con un borsellino pieno di monete che rovescia sul
tavolo per contare quelle del mio resto. Penso che sia stato davvero gentile, e
la mia prima impressione su questo popolo è ancora una volta confermata.
Arriva
il treno. Il solito assalto di gente stracarica di merci, borse, cassette di
frutta, pesanti attrezzature, ingombranti arnesi, tutto ciò insomma che può
essere trasportato. Il tragitto di ritorno a Vanadzor richiede almeno due ore,
che sfrutto cominciando a studiare l’alfabeto georgiano, diversissimo da
quello armeno. Queste due lingue, infatti, non hanno niente in comune: la
seconda appartiene al ceppo indoeuropeo, mentre la prima è una lingua
kartveliana, una famiglia linguistica che non ha alcun legame con nessun altro
idioma conosciuto. A questo gruppo appartengono anche lo svan e il mingreliano,
lingue parlate soltanto da poche migliaia di persone nelle remote regioni
montagnose del Caucaso settentrionale.
Ho
anche deciso di dormire qui a Vanadzor questa notte (la stanza da Natasha è già
pagata) e di prendere un mashrutka per Tbilisi domattina presto (o almeno
provarci). Se non dovessi trovare posto, me ne andrò a Gyumri, un’altra
sonnolenta città del nord che pare avere un interessante centro storico.
Questa, comunque, sarà l’ultima alternativa: sono più che mai convinto che
sia ora di cambiare aria.
Ciao,
Armenia, e grazie per ciò che mi hai dato. Sono contento di averti visitata, di
aver aperto una finestra su un paese lontano che, fino a poco tempo prima, era
solo un insieme di scritte e di linee tracciate su un atlante. Ho scoperto una
nazione lontana da noi nel tempo, ho conosciuto un popolo onesto e gentile, in
parte simile a me ed in parte molto diverso. Certo, non ho viaggiato in ogni
angolo, ma penso di essermi creato un’idea piuttosto completa e sicuramente
positiva di una luogo prima sconosciuto e misterioso, adesso più chiaro e
concreto; non mi pento mai di andare in un posto dove non sono mai stato, perché
ogni città, ogni incontro, ogni percorso ha sempre qualcosa da insegnarmi,
qualcosa di diverso dal mondo in cui vivo normalmente e che ogni volta aggiunge
un nuovo tassello al grande puzzle del mondo. Sono contento di essere stato qui,
di aver conosciuto questa realtà. Ma adesso devo andare. Nuove avventure mi
attendono in un nuovo paese.
....................................................................................................
PARTE SECONDA
GEORGIA
“Quando esci devi dirmelo, che chiudo a chiave la porta. Ci sono molti criminali in giro!”. Così mi sgrida Nasi, la mia padrona di casa, al mio ritorno da una rapida serie di commissioni. Questa è la prima cosa che mi colpisce qui a Tbilisi, la famigerata capitale della Georgia, su cui ne ho sentite di tutti i colori. Quale differenza con l’Armenia, dove la gente lascia aperta la porta di casa giorno e notte! La città ha un’aria di opulenza e di miseria insieme, e qui sembrano convivere ricchi giovani con cellulare e occhiali da sole firmati insieme a vagabondi senza fortuna. La folla è consistente, il traffico caotico, e si ha in ogni caso l’idea di una città viva, pulsante, moderna, quasi una metropoli del Caucaso con tutto ciò che, nel bene come nel male, ne può derivare.
Stamattina
sono riuscito a trovare posto su un mashrutka da Vanadzor; ho viaggiato
schiacciato come sempre tra persone, sacchi, borse, bambini che strillavano,
alimenti dall’aspetto nauseabondo attraverso le montagne fino al posto di
frontiera, dove mi hanno semplicemente timbrato in uscita il visto armeno senza
nemmeno guardarmi in faccia. Dall’altro lato del confine mi hanno invece fatto
scendere, ma solo per comunicarmi che gli italiani non hanno bisogno del visto
per entrare in Georgia, cosa che già sapevo. I poliziotti mi hanno timbrato il
passaporto e mi hanno fatto risalire sul pulmino senza nemmeno controllarmi lo
zaino, mentre altri viaggiatori, soprattutto donne georgiane di ritorno da
visite presso i mariti che vivono in Armenia, sono stati oggetto di controlli
molto più minuziosi. Evidentemente i poliziotti cercavano qualche merce di
contrabbando che a Tbilisi può essere rivenduta a prezzi molto più alti
rispetto all’Armenia. Il peggio, però, è venuto dopo: la strada sul versante
georgiano è veramente scassata, e per ore ho dovuto sopportare i sobbalzi del
piccolo pulmino che non mi hanno permesso di mangiare né di dormire. Arrivare a
Tbilisi è stato, inizialmente, un sollievo; poi alla stazione dei pullman, dopo
essermi fatto strada tra centinaia di persone che mi offrivano biglietti per
Erevan, Istanbul, Baku e altre località della regione, sono riuscito a
raggiungere la sala d’attesa, dove ho cambiato i soldi e ho cercato di
telefonare a Nasi, un’anziana affittacamere molto famosa tra i backpackers.
Non avendo ottenuto risposta, non mi è rimasto che prendere un taxi (ad un
prezzo esorbitante) e farmi portare sul posto di persona. Mentre mi aggiravo per
strada, nella calca, cercando l’ingresso giusto, i passanti mi indicavano a
gesti un piccolo cancello che dava sulla strada: non c’è stato bisogno di
chiedere, hanno capito subito chi stavo cercando.
La
grande casa è stata adattata a dormitorio. Ci sono letti dappertutto: in
cucina, nel corridoio, anche fuori dalla porta del bagno. Io sono ancora
fortunato: mi spetta un grosso e scomodo letto nell’anticamera, dove una tenda
pesante pende da una grossa corda appesa a due mobili a mo’ di séparé dal
corridoio. Almeno non devo dividere il mio spazio con nessuno, ma temo che
stanotte, quando gli altri ospiti cominceranno ad uscire ed entrare, ci sarà
molto trambusto.
Nasi
prende accuratamente nota dei miei dati personali (in Armenia nessuno mi aveva
mai chiesto nemmeno il nome), poi mi dice che vuole essere pagata in anticipo.
Dopo che l’esoso tassista mi ha prosciugato devo uscire per cambiare altri
soldi, così ne approfitto per mangiare qualcosa in un McDonald’s, il primo
che vedo da quando sono partito (in Armenia non ce ne sono).
Il menu è scritto solo in georgiano, ma le belle inservienti parlano un
perfetto inglese così non ho problemi ad ordinare un sandwich che comunque si
chiama allo stesso modo in tutto il mondo.
Mi siedo vicino alla grande finestra al primo piano, e guardo la gente che cammina per la strada, sotto di me, osservandone l’atteggiamento. Non mi dà l’idea di essere un posto pericoloso, ma sono appena arrivato ed è sicuramente presto per emettere giudizi.
Dopo
quello che mi hanno raccontato, e che avevo letto prima di partire, mi aspettavo
una città dove le persone camminano armate mentre scippi e aggressioni
avvengono ad ogni angolo di strada. Niente di tutto ciò: è pieno giorno ed i
marciapiedi sono colmi di persone che camminano tranquillamente; molte ragazze
indossano magliette scollate e corte minigonne, e non hanno paura di portare a
tracolla vistose borsette che certamente attirerebbero l’attenzione di
eventuali scippatori. La gente va e viene: donne con la borsa della spesa si
fermano nei numerosi negozietti che vendono un po’ di tutto; uomini in giacca
e cravatta vanno di fretta parlando al cellulare; ragazzine munire di lettore di
mp3 camminano tenendosi per mano fermandosi ogni tanto a guardare le vetrine dei
negozi di moda. Vedo, però, proprio sotto la finestra, un’auto parcheggiata
in doppia fila che ha tutta l’aria di essere stata rubata e poi abbandonata.
Un poliziotto la osserva sospettoso, poi chiama qualcuno al telefono mentre
cerca di regolare il traffico, già molto caotico, che sta impazzendo perché
l’auto sta ostruendo il passaggio. Questa città è tutta da scoprire, e non
vedo l’ora di farlo.
*
* *
Camminando per strada, dopo aver schivato le auto presso un’enorme rotonda priva di qualsiasi segnaletica, mi guardo continuamente intorno, esaminando ogni persona, ogni sguardo, ogni mano con un’aria eccessivamente nervosa che di sicuro dà molto nell’occhio. Ad ogni angolo rallento, aspettandomi che salti fuori qualche brigante armato di randello. E’ assurdo, ma non riesco a farne a meno; dopo tutte le storie che ho sentito, sono prevenuto verso questa città che non conosco ma che mi incute timore senza un’apparente ragione. E’ vero che in giro ci sono tantissimi mendicanti, soprattutto persone anziane, che tendono una mano speranzosa verso i passanti, o se ne stanno semplicemente appoggiati al muro con una ciotola tra le gambe; probabilmente molti sono profughi dell’Abkazia, dalla quale sono fuggiti a causa della guerra. Nessuno però mi importuna, o mi appare minaccioso.
Vicino alla casa di Nasi c’è una stazione della metropolitana, molto comoda per muoversi velocemente in questa città dalla forma stretta e molto allungata. Mi hanno detto che prendere la metro è pericoloso, anche di giorno. Possibile? Fuori dalla stazione c’è un altro nugolo di questuanti, mescolati tra persone che cercano di vendere qualsiasi cosa in un mercato raffazzonato: donne dal volto segnato mostrano tende o tappeti, agitandoli al mio passaggio per invogliarmi a comprare; uomini anziani siedono dietro a banchetti improvvisati ricoperti di noccioline, datteri (?), pupazzi, sigarette, bottiglie d’acqua, qualsiasi cosa possa essere venduta. Alcuni mi offrono giornali dalle incomprensibili scritte; altri cantano a squarciagola una canzone, stonatissimi, nella speranza di una ricompensa. Qualcuno semplicemente bighellona senza far niente, in attesa che succeda qualcosa. Per strada si respira miseria, la si può vedere e toccare mentre, con un forte contrasto, giovani ragazze con ampie scollature e vistosi occhiali da sole, borsette eleganti e scarpe firmate, camminano disinvolte tra i mendicanti con noncuranza, quasi con avversione.
Vorrei dare qualcosa, ma non mi fido a tirare fuori i soldi in mezzo a questa confusione. E quando arrivo alla cassa dei biglietti, mi guardo bene intorno prima di estrarre le monete che conservo in una tasca separata da quella delle banconote.
Percorro a piedi tutto Rustaveli, il lunghissimo viale alberato che unisce la città nuova a quella vecchia. Anche qui, una interminabile fila di mendicanti tende la mano; vedo molti vecchi, alcuni storpi. Tra loro passeggia la gente “normale”, ragazzi e ragazze che hanno avuto la fortuna di non conoscere la guerra, o almeno quella vera. Nel novembre 2003 anche le strade di questa città furono teatro di scontri, anche se di breve durata; il presidente uscente Eduard Shevardnadze fu duramente contestato dalla massa mentre celebrava la vittoria al termine di elezioni chiaramente falsate. Da una iniziale, piccola folla di studenti, la sommossa si estese a tutta la città, al punto che lo stesso parlamento fu letteralmente assediato ed infine invaso dalla moltitudine rabbiosa finché Shevardnadze, in evidente difficoltà, decise di fuggire evitando inutili spargimenti di sangue.
Il nuovo presidente, Mikhail Saakashvili, gode ora di un’indiscussa fiducia tra la gente. Sotto la sua guida la criminalità è notevolmente diminuita (si pensi che, all’inizio del duemila, molte ambasciate straniere sconsigliavano vivamente ai loro cittadini di recarsi a Tbilisi), l’economia è ripresa, l’erogazione dell’energia elettrica e del gas per riscaldamento si interrompe molto più di rado. L’hanno chiamata “La rivoluzione delle rose” per via del carattere non violento che la sommossa ha avuto. Di certo il presente è migliore del passato; ma il futuro? Quello, nessuno può conoscerlo. Mentre faccio queste riflessioni, vedo due ragazzi dare qualche moneta ad un vecchio stretto intorno ad un logoro abito scuro, con una foltissima barba bianca che gli conferisce quasi l’aspetto di un prete ortodosso. Il vecchio intasca i soldi, poi manda dei baci ai suoi benefattori con ampi gesti della mano. Forse la Georgia può ripartire da questo, dalla consapevolezza che la generazione giovane deve avere verso i problemi di oggi ed alle loro cause, e sul fatto che per arrivare a dei risultati buoni ci vogliono delle persone buone, come molti di questi ragazzi mi sono sembrati. Come sempre, il futuro è in mano ai giovani, che prima di tutto non devono ripetere gli errori della generazione precedente.
* * *
Dalla fortezza di Narikala, costruita dai Persiani nel IV secolo, si gode una splendida panoramica della città. La profonda gola scavata dal fiume Mktvari, che attraversa la città da ovest verso est, sembra una ferita inferta alla terra stessa, che taglia nettamente Tbilisi in due parti ben separate. Si racconta che nel 1552, quando i persiani riconquistarono la città, costringessero la popolazione a convertirsi all’islam gettando nel fiume tutti quelli che si rifiutavano. Sull’altra sponda si stagliano le sagome gialle delle grandi chiese cattoliche costruite in epoche diverse, ma tutte col tipico tetto ottagonale molto spiovente, a sembrare quasi una matita rovesciata con la punta appena rifatta.
Una scala permette di raggiungere la sommità delle mura della fortezza, dove cammino osservando il panorama. Raggiungo una campana appesa a delle travi collocate a formare un’elegante torretta: un cartello multilingue avvisa che è proibito suonarla. Dietro di me sopraggiunge un gruppo di chiassose ragazze, che continuano a ridere e a scherzarsi a vicenda. Una di loro, ovviamente, suona il batacchio; un’altra subito la rimprovera. Resto fermo per qualche attimo, per vedere se magari la fortezza crolli improvvisamente in seguito alla profanazione del divieto. Non succede niente. Deluso, scendo per la ripida strada che mi riporta verso il fiume.
Raggiungo la Cattedrale di Sameba, la più grande del Caucaso, costruita sulla sommità di una collina in modo da essere un punto di riferimento per tutta la città. In realtà l’edificio è recentissimo, terminato appena l’anno scorso con molte polemiche dei cittadini perché il luogo era, in origine, un cimitero armeno. Il sito è imponente, e dalla piazza antistante si ha un’altra, diversa, panoramica della metropoli. Vedo molte ragazze coprirsi il capo con un velo prima di entrare, e farsi continuamente il segno della Croce all’ingresso come all’uscita, in modo frenetico, esaltato. Anche qui come in Armenia, dopo tanti anni di ateo comunismo, il Cristianesimo ha ripreso il posto che per secoli aveva occupato nel cuore della gente.
Devo fare presto. Non essendoci l’ora legale, in Georgia viene buio un’ora prima rispetto all’Armenia, e quando ciò avverrà voglio essere già a casa. Mangio un khachapuri, una focaccia al formaggio, in un ristorantino all’aperto situato in una piccola piazza pedonale, confondendo il nome del piatto col khoravats armeno. Quindi ritorno a casa, affrettando il passo fino alla stazione della metropolitana che prendo senza timore: in tutte le fermate ho visto poliziotti aggirarsi per i corridoi, e onestamente mi sono sembrate i luoghi più sicuri della città. Alla fine la giornata è andata bene, non mi è successo niente; ma quando alla sera faccio ritorno da Nasi, vedo che la porta-finestra della mia camera, che dà sul cortile, è chiusa a chiave; una seconda porta, subito dietro, è anch’essa chiusa; e, per maggiore sicurezza, una pesante spranga di legno è stata messa di traverso.
Kazbegi,
22 agosto 2006
Dopo
alcuni tentennamenti decido di andare a Kazbegi, l’unica località montana
della Georgia che sembra non essere affetta da banditismo, e dove pare che si
possano compiere bellissime escursioni a piedi. Mi è sempre piaciuta la
montagna, e ogni volta che posso andare a camminare, a scoprire nuovi angoli e
villaggi caratteristici non ne perdo l’occasione.
Sul
mashrutka sono quasi tutti turisti: un estone con la fidanzata israeliana, che
però intendono fermarsi un po’ prima, perché hanno sentito che di recente
nella zona ci sono state manovre militari (Kazbegi è a pochissimi chilometri
dal confine con la Russia, un posto non sempre tranquillo); un’attempata
coppia di Hannover, anch’essa intenzionata a scendere prima, perché ha
prenotato un comodo albergo nel villaggio di Gudauri da cui esplorare la
regione; ed una famiglia slovacca ma residente a Vienna composta da madre, due
figlie sui vent’anni ed un ragazzino; con queste persone faccio subito
amicizia, ma purtroppo scopro che hanno intenzione di tornare a Tbilisi già in
serata.
Sul
pulmino la conversazione cade sulla religione, prendendo spunto dalle numerose
croci, icone e altre immagini religiose che l’autista ha appeso allo
specchietto retrovisore, appiccicato al cruscotto e appoggiato al parabrezza al
punto da ostruire buona parte della visuale. Secondo Corinna, la madre delle
slovacche, la religione qui non è molto sentita come tale, ma piuttosto vissuta
come una moda, qualcosa che soprattutto i giovani seguono perché si sentono
dire che “è giusto farlo”. Durante il periodo sovietico la religione, in
tutto l’impero, è stata fortemente osteggiata: moltissime chiese furono
chiuse, qualunque espressione di culto vietata o comunque scoraggiata, e nelle
case le persone tenevano le immagini sacre ben nascoste, tirandole fuori solo
per le preghiere; ma c’era sempre qualche mattone smosso o qualche materasso
svuotato dove nasconderle in caso di un’ispezione improvvisa, o magari della
visita di qualche vicino ficcanaso. Partendo dalla ben nota frase di Karl Marx
secondo cui la religione è l’oppio dei popoli, i comunisti si opposero
fermamente a qualsiasi culto, dal cristianesimo all’ebraismo, dall’islam ai
culti tribali delle popolazioni siberiane temendo che il nome di qualsiasi dio
potesse essere usato dalla popolazione per raccogliersi e ribellarsi al regime.
Così tutte le religioni vennero proibite, mentre nelle scuole si insegnava che
ai bambini che “Dio non c’è, non esiste. Non dovete credere in qualcosa che
non esiste. L’unico vostro amore dev’essere per il vostro paese”.
“Ora
che il comunismo è caduto – continua Corinna – la gente ha di nuovo molta
voglia di religione; ma la sente più come una moda, o come un obbligo imposto
dai genitori, non come una vera credenza. Le ragazze vanno in chiesa ma senza
capirne il significato. Lo fanno solo perché ci vanno anche le loro amiche”.
Io non sono d’accordo, e anche la signora di Hannover la pensa come me. La
Georgia, così come l’Armenia, mi sembra un paese con una profonda cultura
religiosa. Avendo visitato diverse chiese, mi sono fermato ad osservare le
persone che le frequentavano. Ho visto moltissime donne, non solo anziane ma
anche ragazze giovani, entrare in chiesa coprendosi testa e spalle con un velo,
simile al chador musulmano. Le ho viste farsi il segno della Croce ripetute
volte, senza mai smettere, come possedute dal desiderio di grazia, chinandosi e
prostrandosi continuamente davanti ad ogni immagine di Gesù o dei santi, in
certi casi arrivando addirittura a baciare i disegni stessi. Anche al momento di
uscire tutti camminano sempre all’indietro per non voltare mai le spalle
all’altare, quasi Cristo si potesse offendere di un simile gesto. Anche, basta
trovarsi su un mashrutka che passa davanti ad una Chiesa che subito si vedono
tutti i passeggeri cominciare a farsi il segno della Croce a ripetizione, mentre
le labbra si muovono rivolgendo silenziose preghiere a chissà quali santi. Un
senso cristiano tanto insito nelle persone, soprattutto in quelle giovani, non
può essere pensato solo come una moda (le mode sono destinate a passare, e ad
essere sostituite con altre); secondo me si tratta di vera convinzione in ciò
che si onora. E forse è stata proprio la repressione comunista, durante la
quale la brace del credo ha sempre continuato ad ardere sotto la cenere delle
credenze oppresse, a far sì che ora la gente, sentendosi di nuovo libera, abbia
voglia di dare sfogo all’amore verso Dio, a quei sentimenti religiosi di cui
ha davvero bisogno in un periodo incerto e niente affatto semplice da
affrontare. In tutte le guesthouse in cui ho soggiornato in Armenia ogni stanza
era arredata con immagini sacre; dovunque ho visto, appesi alle pareti, fogli
con preghiere da recitare, spesso arricchite da immagini di Cristo con scritto
“Gesù ti ama”. Una simile diffusione del credo non può essere puramente
propagandistica; alla base deve avere radici molto profonde, molto sviluppate
nella coscienza delle persone che vedono nella religione una strada, un aiuto
per affrontare questo presente incerto e per costruire un futuro migliore.
*
* *
Kazbegi si trova al termine di un percorso costruito dai soldati russi all’inizio dell’800 per favorire gli spostamenti degli eserciti attraverso le montagne. Da qui fu chiamata Strada Militare Georgiana, e oggi rappresenta una delle principali vie d’accesso alla Russia, anche se il confine è chiuso agli stranieri, che possono arrivare solo fino a Kazbegi. Per i primi chilometri la strada è bella, e risale pian piano la valle del fiume Aragvi con curve e controcurve che l’autista prende a tutta velocità. Arriviamo quindi al lago Zhinvali, un magnifico specchio d’acqua su cui si riflettono le montagne circostanti, in un paesaggio idilliaco non ancora deturpato dall’edilizia di massa. E, non appena superato il lago, ecco sbucare alla nostra destra la bellissima fortezza di Ananuri, un doppio castello rinascimentale che fu spesso al centro di guerre, insurrezioni e intrighi di corte. Ci spintoniamo tutti a vicenda nel tentativo di fotografare una simile meraviglia, ma il mashrutka passa talmente veloce che il castello dopo pochi attimi scompare dietro ad un curva, lasciandoci un po’ di amaro in bocca.
Poi la strada comincia a salire, arrampicandosi sulle alte montagne con tornanti che mettono a dura prova il motore del pulmino. I giri del motore salgono vertiginosamente mentre il piccolo mezzo affronta i passi a più di duemila metri su un asfalto ormai diventato sterrato, con qualche buca, molti sassi e alcuni passeggeri che cominciano a dare segni di malessere, tanto che per due volte dobbiamo fermarci per permettere a qualcuno di liberare lo stomaco.
Finalmente,
dopo quattro ore di viaggio, arriviamo a destinazione. Per quanto sperduto,
Kazbegi è un paese sorprendentemente grande e popoloso. Quando scendo dal
pulmino mi trovo circondato da montagne maestose: a est si staglia, nettissimo,
il monte Kuro, 3250 metri, mentre ad ovest il panorama è ancora più maestoso e
culmina nella vetta del monte Kazbek, a 5047 metri d’altezza. Nel paesaggio
spicca anche una collina (relativamente bassa rispetto alle montagne intorno),
su cui si trova la chiesa di Tsminda Sameba (Santissima Trinità), meta
dell’escursione che ho in programma. Anche le ragazze slovacche restano
impressionate, tanto che stanno considerando l’idea di passare qui la notte,
nonostante si siano portate dietro un bagaglio leggero. L’ultimo mashrutka per
Tbilisi parte alla cinque, ed essendo già l’una dovrebbero fare le cose molto
di corsa. Andiamo alla ricerca
della casa di Vano, un affittacamere indicatomi da Nasi che ospita i numerosi
viaggiatori che transitano da queste parti. La sua casa non ha un indirizzo:
basta fare il suo nome ai passanti, e quelli subito ci indicano la strada.
Vano
è un personaggio a dir poco bizzarro: vive da solo in una casa grandissima,
dove il disordine regna sovrano. Nella stanza principale, un grande salone
adibito a cucina/soggiorno/dormitorio, spicca un tavolino ricoperto di pentole,
piatti, scatolame, tazzine sporche e tutto ciò che una fervida immaginazione può
collocare in una cucina. In fondo allo stanzone vedo un piccolo televisore in
bianco e nero, che dubito funzioni e che serve più che altro a dare un tono
all’ambiente. Accanto campeggia un enorme ritratto di Stalin, davanti al quale
le ragazze fanno subito a gara a mettersi in posa affinché possa scattare loro
una foto memorabile.
Vano
ha trentacinque anni e un’aria bonacciona che lo fa sembrare un bambinone.
Gira sempre a torso nudo, parla bene l’inglese ma ha una pronuncia molto
strana, perché tiene sempre la bocca semichiusa. Con lui c’è una ragazza:
dapprima penso che sia la sua compagna, ma poi scopro che si tratta di una
turista israeliana di nome Mahrit che abita lì da ben tre settimane.
“Così
tanto? – le domando sorpreso. - E cosa fai tutto il giorno?”
“Assolutamente
niente”, mi risponde col sorriso beato di chi ha capito tutto della vita.
Mahrit
mi spiega che la strana pronuncia di Vano è dovuta ad un’operazione
chirurgica che ha subìto da bambino, quando gli hanno tolto le tonsille.
Purtroppo i medici hanno lesionato alcuni nervi, facendogli perdere parzialmente
l’uso dei muscoli facciali. L’operazione sbagliata ha procurato a Vano anche
un altro curioso problema: ogni volta che beve una bibita gassata oppure un
liquido caldo come tè o caffé, perde l’uso dell’udito per qualche ora. Così
a cena, dopo aranciata e tè, chiacchieriamo a gesti più che a parole. Sembra
che esista anche un rimedio a questo problema: se Vano fuma della marijuana le
orecchie gli tornano subito a funzionare.
“Una
volta ne coltivavo un po’ nel giardino sul retro – mi spiega -, ma adesso
non ce l’ho più perché la polizia mi ha fatto storie; e poi ogni tanto i
vicini la rubavano”. Uno come Vano, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.
Mahrit
mi assicura che non pioverà, nonostante il cielo si stia facendo scuro, quindi
decido di andare subito a visitare la chiesa della Tsminda Sameba, abbarbicata
su un’altura che sembra una collina, ma che in realtà si trova a quota 2.170.
Vano mi disegna una piantina per trovare l’inizio del sentiero, che parte da
un piccolo villaggio sopra il paese. La ragazza ha dei dubbi sulla precisione
del disegno, e aggiunge alcune correzioni di sua mano; prima di partire faccio
anche rifornimento dell’ottima e fresca acqua che scorre da una fontanella nel
giardino del mio ospite.
In
effetti la mappa non è precisissima, e giunto ad un bivio alla fine della
strada asfaltata mi guardo intorno spaesato finché alcuni bambini mi indicano
un sentiero che si inerpica tra le semplici case. A metà salita incontro
nuovamente la famiglia slovacca, che si era incamminata prima di me avendo
deciso di salire e scendere in giornata (inoltre, penso che l’arredamento
della casa di Vano abbia influito molto su questa decisone). Anche se la loro
andatura è molto lenta decido di salire insieme alle ragazze, per fare quattro
chiacchiere. Corinna abita a Vienna insieme alla figlia Miriam (sui vent’anni)
e all’ultimo arrivato Beniamino (non più di dodici), mentre l’altra figlia
Franka (anche lei sui vent’anni e nettamente la più carina) abita in
Germania, a Baden-Baden, dove studia medicina alternativa. Sono arrivate in
Georgia una settimana fa e hanno ancora qualche giorno a disposizione così la
madre, che conosce bene il paese essendo questa la sua quarta visita, vuole
sfruttare il poco tempo rimasto per mostrare ai figli più cose possibili. Gli
racconto di me, e restano impressionate quando dico loro di essere arrivato a
quota trentanove stati visitati; anche loro provano a contarli e Corinna rimane
imbarazzata quando si ferma a quota trenta.
Quando
la salita si fa più impegnativa Miriam, che negli ultimi giorni ha accusato dei
malori a causa del cibo, rimane indietro; madre e fratellino restano con lei ad
aiutarla, e io posso continuare da solo insieme a Franka, che ha un ottimo passo
e con la quale spero di creare una bella amicizia. Mi dice di amare molto la
montagna, e che non appena può cerca sempre di andare a camminare, di fare gite
in bicicletta, o anche di nuotare, tutte attività che la tengono in contatto
con la natura. Il suo passatempo preferito è quello di leggere libri stando
appoggiata ad un albero in mezzo a un bosco. Ne sono colpito; vorrei trovare
delle ragazze come questa anche nella mia città, mentre tutte quelle che
conosco pensano solo ad andare in discoteca, stordirsi e tornare a casa alle sei
del mattino.
Durante
il percorso ci scattiamo molte foto reciproche, e dato che la sua macchina
fotografica sta finendo la memoria, mi viene un’idea brillante… ma è ancora
presto; meglio tenerla per dopo.
La
chiesa della Tsminda Sameba è probabilmente lo spettacolo più bello che io
abbia mai visto in tutti e trentanove gli stati che ho visitato. Compare davanti
a noi all’improvviso, quando arriviamo in cima alla salita, costruita su un
piccolo rilievo a circa un chilometro davanti a noi. La sua magnifica sagoma si
staglia contro l’imponente complesso roccioso del monte Kuro, che la circonda
come un anfiteatro, con la stessa maestosità che una corona ingioiellata
conferisce ad una degna regina. Anche Corinna e gli altri, man mano che arrivano
in cima, restano senza parole. Su questo altopiano battuto dal vento, dove non
crescono alberi né arbusti, dove tutto il paesaggio è brullo e pietroso, il
profilo della pur semplice chiesetta risalta magnificamente, molto più di
quanto la Tour Eiffel possa amplificare la bellezza dello skyline di Parigi. Le
foto si sprecano.
Giunti
in cima alla collinetta finale, lo scenario si presenta ancora più imponente:
vette tra i 4.000 ed i 5.000 metri ci circondano da ogni lato, mentre lontano
sotto di noi vediamo il paese col suo piccolo fiume, che ha scavato una
impressionante valle nel corso dei millenni. Si narra che Prometeo, dopo aver
rubato il fuoco agli dei, sia stato incatenato alle pendici del monte Kazbek,
dietro di noi rispetto alla chiesa. La sua prigione sarebbe stata una capanna
eretta a oltre 4.000 metri di quota vicino ad una grotta contenente alcune sacre
reliquie come la mangiatoia della stalla dove nacque Gesù, che però gli uomini
non potevano guardare pena l’accecamento. In effetti molti tabù hanno tenuto
a lungo gli abitanti del posto lontani da queste vette, e solo di recente la
zona è stata scoperta da viaggiatori, soprattutto alpinisti, che pernottano in
un rifugio costruito vicino alla grotta per poi scalare il ghiacciaio perenne
sulla cima del Kazbek.
La
chiesa trecentesca, molto semplice all’interno, è importante soprattutto per
essere stata costruita in un luogo tanto impervio, proprio per simboleggiare la
fiducia incrollabile di queste genti nella fede cristiana. Durante le invasioni
straniere della Georgia, i tesori più importanti delle varie città venivano
portati qui per essere messi al sicuro, e i governatori locali si riunivano nel
prato sottostante per tenere le riunioni. Mentre visitiamo l’edificio, un
monaco ci rimprovera a causa dei nostri pantaloncini corti, e ci porge una
specie di sottana da legare in vita per coprire le gambe. Le ragazze mi chiedono
di scattare loro molte foto da diverse angolazioni, così posso mettere in
pratica il mio semplice piano: approfitto per chiedere a Franka di scambiarci le
e-mail, in modo da spedirle da casa le immagini nel caso la sua macchina avesse
finito le batterie; lei ringrazia ma gentilmente rifiuta… pazienza, almeno ci
ho provato.
Alla
fine della visita l’intera famiglia riparte di corsa: sono le quattro passate,
e non vogliono perdere l’ultimo mashrutka. Io resto ancora un po’ a
guardarmi intorno, immerso in questo spettacolo impressionante; poi durante la
discesa le incontro ancora perché si sono fermate a riposare. Nell’ultimo
tratto Corinna mi parla di Mtskheta, una cittadina vicino a Tbilisi che
rappresenta il centro spirituale della Georgia. Lì si trovano le chiese più
rilevanti della nazione, ed è un importantissimo luogo di culto e di
pellegrinaggio. Vi fu costruita nel IV secolo la prima chiesa georgiana, dopo
che la nazione si convertì al Cristianesimo in seguito ai miracoli di Santa
Nino, la santa più venerata della Georgia. Costei era una schiava romana, ma di
fede cristiana, che viveva in Cappadocia (il nome originale era forse Nounè);
le sue azioni virtuose, sempre rivolte all’umiltà e alla preghiera, le
suscitavano l’ammirazione e il rispetto di tutti, tanto che la sua fama giunse
fino in Iveria (l’antica Georgia, di cui Mtskheta era la capitale), la cui
regina era gravemente malata. La schiava riuscì a guarirla con le sole
preghiere, e la corte rimase tanto impressionata da convertirsi subito alla
nuova religione. Il re ordinò quindi ai suoi operai più abili di costruire una
chiesa sotto le direttive di Nino, che durante i lavori operò un nuovo
miracolo. Il luogo scelto per la costruzione era particolare: secondo la
tradizione, un ebreo georgiano che si trovava a Gerusalemme durante la
Crocifissione di Cristo era tornato a Mtskheta portando con sé la tunica di Gesù.
La sorella, vedendola, l’aveva voluta per sé, ma non appena l’aveva toccata
era morta all’istante. Poiché nessuno era riuscito a staccare la tunica dal
cadavere, la donna era stata sepolta insieme alla veste in un luogo su cui poi
era cresciuto un albero. Questo luogo era stato scelto appunto per la
costruzione della prima chiesa georgiana; ma quando gli operai tagliarono il
tronco a metà questo non cadde, rimanendo fluttuante nell’aria. Solo in
seguito alle preghiere di Santa Nino il tronco tornò a posarsi sul terreno e
rifiorì subito, producendo un olio medicamentoso. Oggi al posto dell’antica
chiesa si trova la cattedrale di Sveti-Tskhoveli, costruita nell’undicesimo
secolo e il cui nome significa appunto “colonna che dà la vita”.
Non
so ancora se visiterò Mtsketa anche se Corinna, che la conosce bene essendoci
stata più volte, me lo consiglia assolutamente.
Quando
la discesa finisce, ci separiamo: loro corrono alla fermata dei mashrutka, io
torno da Vano.
Ciao
belle ragazze, e grazie di aver fatto parte della mia vita per qualche ora. E
ciao anche a te, Chiesa della Tsminda Sameba: se mai un giorno io dovessi vedere
qualcosa di altrettanto bello, stai certa che mai cancellerò dal cuore il tuo
bellissimo ricordo.
Questa mattina ho avuto uno dei migliori risvegli della mia vita: aria freschissima, uccellini cinguettanti, imperiose montagne svettanti nell’azzurro di un cielo che solo a duemila metri può essere tanto terso. Non si sente il minimo rumore: non un’auto, non una sirena; solo i suoni di un villaggio che pian piano si risveglia per cominciare una giornata uguale a tante altre. Qui a Kazbegi non esistono scadenze, orari da rispettare, tabelle di marcia; qui il ritmo della vita è dettato dalla natura, dagli animali da nutrire, dai campi da coltivare, dalle stagioni che si alternano con la loro bellezza ed i loro capricci. Uscendo sul grande terrazzo che dà sulla vallata sottostante, vedo i bambini scortare le pecore al pascolo, aiutati dai fedeli cani. Altrove, giovani uomini robusti armati di falce mietono l’erba alta destinata ai covoni delle cascine. Mi sembra di essere tornato sulle mie montagne, nelle alte valli bergamasche, dove negli ampi spazi aperti intorno a piccoli paesini la vita scorre ancora molto simile a cento anni fa.
La
mia stanza è molto spartana: due brandine fornite di pesanti coperte (questa
notte ne ho avuto davvero bisogno) occupano un ambiente piccolo, molto semplice.
La finestra non si chiude bene; il parquet è sconnesso; in fondo alla stanza
fanno bella mostra di sé nell’ordine: un lavandino arrugginito dal cui
rubinetto non esce niente, una lavatrice adibita a ripostiglio, un fornello
abbandonato il cui tubo del gas, prima di scomparire nel soffitto, è stato
avvolto in una specie di zanzariera che ogni tanto prende sinistramente vita.
All’apparenza il posto può sembrare squallido; nonostante tutto però, questa
è stata sicuramente una delle notti in cui ho dormito meglio in tutta la mia
vita.
Mi
alzo a perlustrare la casa, pensando di essere stato il primo ad alzarmi. Non ci
sono molti ospiti: oltre a me, Vano e Mahrit c’è un ragazzo spagnolo, Albert,
che è tornato ieri sera da un’escursione di due giorni fino al ghiacciaio. Il
gabinetto della casa non ha lo sciacquone: dopo aver fatto i propri bisogni si
deve riempire un secchio da una grande tinozza per poi svuotarlo nella tazza.
Sposto il coperchio di legno massiccio della tinozza, ma è così pesante che mi
sfugge di mano cadendo pesantemente a terra con un frastuono assordante; resto
immobile per molti, lunghissimi istanti, aspettandomi che qualcuno arrivi di
corsa incazzato per averlo svegliato; ma non succede niente e posso riprendere
tranquillo le mie operazioni.
Vado
nel salone dove trovo Vano già alzato, che mi invita a giocare a scacchi
stracciandomi quasi subito, dopo di che accende il bollitore per preparare il tè:
è bene farlo subito, perché qui la corrente elettrica è alternata nel vero
senso della parola (ogni tanto c’è e ogni tanto manca). Intanto mi racconta
di lui: sua nonna era italiana; era andata in Armenia come missionaria, ma poi,
a causa di una delle tante guerre, aveva dovuto scappare in Russia dove era
rimasta uccisa. Lui ha vissuto a Tbilisi per un po’ di tempo, dove lavorava
come perito chimico.
“Ma
il lavoro era duro – mi racconta -, dovevo alzarmi presto alla mattina e
tornavo a casa la sera tardi. Così l’ho lasciato”.
Lo
capisco bene, perché è la stessa cosa che ho fatto io. Ora Vano vive così,
solo come un eremita, in questa grande casa di montagna, dove ogni tanto sua
madre viene a trovarlo e gli prepara un po’ di cibo, che lui fa durare per
diversi giorni. Ma qui sostano anche tantissimi viaggiatori, interessati
soprattutto a scalare le montagne dei dintorni, tanto che questa casa è citata
anche sulla Lonely Planet. Per tutto l’anno c’è un continuo viavai di
persone.
“Anche
d’inverno?” gli chiedo.
“Sì,
anche d’inverno. Arrivano turisti dall’Australia, dal Sud Africa e
dall’Iran per fare alpinismo; si fermano qui a dormire e a mangiare, poi
ripartono. La scorsa primavera c’era così tanta gente che tutto il soggiorno
era occupato dai sacchi a pelo”.
Così
Vano non è mai realmente solo, e non esita a dividere con chi passa da casa sua
tutto ciò che possiede. La casa, il cibo riscaldato e perennemente accatastato
sul tavolo, le scodelle, l’acqua della sua fontana, ma soprattutto il calore
di una persona aperta e disponibile con tutti. Vano ti accoglie sempre con un
sorriso, ti ripete sempre: “Fai come se fossi a casa tua”, non esita ad
offrirti quel poco che ha, o ad uscire in piena notte per riempirti la bottiglia
con la sua acqua (sempre a torso nudo, naturalmente).
Arrivano
altri turisti: sono anche loro israeliani, di ritorno da una tre giorni sulle
montagne, con tenda e sacco a pelo. Ma io sto partendo, devo tornare a Tbilisi.
Mentre scatto le foto di rito, mi fermo a pensare a quante persone, quante
storie sono passate da questa casa rimasta immutata nel tempo da chissà quanti
decenni. Appare quasi un paladino del romanticismo contro la frenesia del nostro
mondo, delle nostre città, dove tutto succede talmente in fretta che non ci
accorgiamo nemmeno che sia successo; dove la mattina è subito seguita dalla
sera, e poi dalla mattina successiva; dove le persone che incontri hanno sempre
addosso un’espressione stanca, stressata, ostile. Vano, invece, è sempre qui,
pronto ad accoglierti con un sorriso senza nemmeno chiederti chi sei; ti da il
suo cibo, ti offre il suo letto perché sa che sei stanco ed affamato, e questo
basta a fare di te un suo amico. Certe volte mi domando se il progresso della
nostra civiltà valga davvero il prezzo che lo paghiamo.
Sfrutto
la mattinata per fare una passeggiata nei dintorni; il cielo è azzurrissimo, e
le valli intorno al paese offrono lo scenario a magnifiche escursioni. Cammino
per un’oretta fino a raggiungere una specie di piscina scavata nella terra,
dove alcune famiglie con bambini sono venute a fare il bagno e a prendere il
sole. Scatto molte foto, anche se, purtroppo, quando riesco a inquadrare la
vetta del Kazbek, spesso nascosta dietro altri monti, alcune nuvole l’hanno già
ricoperta impedendomi così di ritrarre uno scenario da favola.
Mi
dispiace dover ripartire; potrei restare qui un’intera estate, ma altre tappe
mi attendono ed è meglio non restare troppo nello stesso posto, perché
l’abitudine e la noia, presto o tardi, ne rovinerebbero di certo il
fascino.
Arrivo
a Tbilisi nel pomeriggio, dove l’afa mi assale con i suoi invisibili
tentacoli, facendomi subito rimpiangere di aver lasciato le montagne tanto
fresche ed accoglienti. Il nome stesso della città deriva da tbili,
che in un’antica lingua significa caldo, e mai un toponimo è stato più
azzeccato. Nella zona si trovano infatti numerosi sorgenti sulfuree, che
attirano migliaia di visitatori (non certo me). Secondo la leggenda, la città
sarebbe stata fondata nel V secolo dal re Gorgasali, il quale durante una
battuta di caccia stava inseguendo un fagiano che, caduto in una di queste
sorgenti, fu ritrovato cotto a puntino; secondo un’altra variante, invece, fu
un cervo ferito a cadere nella sorgente e ad uscirne miracolosamente guarito. In
ogni caso, l’aria è quasi irrespirabile, anche peggio che a Erevan.
Non
ho voglia di tornare da Nasi. Sono diversi giorni che non mi lavo, e una volta
tanto voglio fare una bella doccia e dormire in un letto decente; così mi
dirigo verso un alberghetto che avevo visto già l’altro ieri, all’apparenza
pulito ed economico. Quando entro mi accoglie una ragazza carina e gentile, che
mi mostra una bella camera spaziosa, con un letto matrimoniale, un tavolino
posto di fronte ad un grande divano dall’aspetto accogliente, ed un bel bagno
arredato di tutti gli accessori. Solo per dormire mi chiede cinquanta lari,
circa venti euro, un prezzo decisamente esagerato (da Vano avevo speso dieci
lari compreso il cibo), ma so che gli altri alberghi mi chiederanno ancora di più
così, per una volta, decido di accettare. La ragazza mi accompagna in fondo al
lungo corridoio, dove mi fa entrare in un cubicolo di pochi metri quadri che
dovrebbe essere la reception, ma che in realtà funge da
abitacolo/cucina/dormitorio: una ragazzo dorme buttato su un divano, un bambino
fa i compiti chino su un piccolo tavolo che gli arriva alle ginocchia, una donna
allatta un neonato. Nella confusione generale, la ragazza annota i dati del mio
passaporto, quindi mi dà la chiave della stanza. Non ho visto altri ospiti, né
penso che ce ne siano. Solo dopo aver pagato scoprirò che c’è solo l’acqua
fredda; per un attimo penso di andare a protestare, poi mi convinco che non
servirebbe.
Oggi
devo fare un po’ di commissioni. Prima di tutto devo riparare gli occhiali:
una delle piccole viti che tengono le asticelle attaccate alla montatura è
andata persa, e sono diversi giorni che continuo a tenere insieme gli occhiali
con accrocchi improvvisati; così decido di approfittare della pausa per
escogitare un rimedio serio. Seduto sul comodo divano,
strappo un filo di tessuto che penzolava da una maglietta cercando di
infilarlo nelle crune della montatura per legarvi la bacchetta; non è così
facile come sembra, e mi ci vuole più di un’ora per farlo passare. Alla fine
faccio un paio di piccoli nodi, stringendo più che posso per non lasciare
troppo gioco. Non è un granché, ma almeno per qualche giorno dovrebbe tenere.
Decido
poi di andare alla stazione ferroviaria per studiare l’orario dei treni; ci
sono ancora molte mete che voglio raggiungere, e spero di trovare un convoglio
utile: preferisco sempre usare le ferrovie quando c’è scelta, e so di un
comodo treno notturno che ogni giorno raggiunge Batumi, sul Mar Nero.
La
stazione è un edificio enorme, costruito su due piani per dare un’impressione
di grandezza del tutto immeritata. Ovunque ci sono mendicanti, soprattutto
zingari che tendono la mano verso tutti quelli che passano, tenuti d’occhio da
attenti poliziotti in un clima quasi surreale da guardie e ladri. Giro per molto
tempo in lungo e in largo alla ricerca del tabellone con gli orari, e quando
infine mi siedo esausto su una panchina nel grande atrio della biglietteria
scopro che non esiste; l’orario è scritto a mano su alcuni pezzi di carta
appiccicati alle vetrate accanto alle casse. Mi rassegno quindi a trascrivere
sul mio taccuino i nomi delle città e gli orari per guardarli poi con calma in
albergo, imitando al meglio che posso i caratteri georgiani mentre una
zingarella non mi lascia in pace con le sue insistenti richieste di denaro. Alla
fine riesco a liberarmene, ma sono talmente scoraggiato dalla confusione e dalla
mancanza di informazioni che mi rassegno a usare ancora il trasporto su gomma.
Mentre
cerco un locale per cenare, mi accorgo che in tutta la città non esiste un solo
posto dove comprare cartoline. Ci sono molti negozi di souvenir, dove vendono
magliette, portachiavi, bambole o plastici della città, ma da nessuna parte
sono riuscito a trovare una sola cartolina, nonostante i turisti stranieri siano
molto numerosi: ho incontrato perfino dei pisani, ai quali ho tenuto d’occhio
la macchina fotografica mentre si ritraevano con l’autoscatto davanti ad una
delle principali chiese della città.
Passo
la serata in un locale all’aperto, dove bevo una fresca birra georgiana
accompagnato da un duo che suona dell’ottimo jazz. In questa città non sono
ancora riuscito a togliermi di dosso la sensazione di allarme, a non abbassare
mai lo sguardo vigile con cui mi scruto sempre intorno alla ricerca di un
pericolo che, oggettivamente, non è mai arrivato. Se prima di partire non
avessi letto tutte quelle brutte storie sulla città, avrei considerato Tbilisi
un posto tranquillo e sicuro come tutti gli altri, e probabilmente l’avrei
apprezzata di più.
Ma
la serata, naturalmente, non è ancora finita e non bisogna mai parlare troppo
presto. Quando esco dalla stazione della metropolitana vicina al mio albergo,
scopro che l’intero isolato è al buio. L’energia elettrica è mancata,
facendo precipitare una parte di città nell’oscurità più totale: le
finestre di tutti i palazzi sono buie, ma non solo quelle: le insegne dei
negozi, i lampioni, perfino i semafori sono completamente spenti, abbandonando a
sé stesse le auto e i pedoni che (come me) devono attraversare la strada.
Stranamente (o no?), il McDonald’s è l’unico edificio illuminato, isola
felice nell’oscurità del quartiere. Cammino evitando il marciapiede per non
inciamparci, e stando attento nello stesso tempo a non farmi investire. Quando
finalmente raggiungo l’entrata dell’albergo, trovo ad accogliermi una
signora (forse la madre della ragazza di prima) che è rimasta ad aspettarmi sui
gradini munita di una piccola torcia elettrica. Mentre mi fa strada fino alla
mia stanza vorrei chiederle se succede spesso di restare al buio, ma il mio
russo non arriva a tanto. Ci fermiamo di fronte alla porta, dove la signora
illumina la serratura per aiutarmi a infilarci la chiave; quindi mi domanda:
“Dormire?”, e io rispondo meccanicamente di sì. Rifletterò poi, steso sul
letto ad ascoltare i rumori del traffico, su quali fossero le alternative a mia
disposizione.
Sighnaghi,
24 agosto 2006
Sulla
Lonely Planet c’è scritto chiaramente: la gente del Caucaso è molto
ospitale, ma bisogna stare attenti al pericolo numero uno: la cultura del bere.
Oggi ho potuto verificare quanto ciò sia vero.
Sono
arrivato a Sighnaghi, antica cittadina nell’est della Georgia, vicino al
confine con l’Azerbaijan. Il viaggio da Tbilisi è stato piuttosto scomodo:
arrivato alla immensa stazione degli autobus di Tbilisi, dove i mashrutka si
confondono tra i banchi del mercato, i venditori ambulanti, i mendicanti, gli
strilloni che vendono biglietti per Istanbul, Mosca o Erevan, le auto private
che arrivano e partono senza sosta, ho chiesto informazioni a decine di persone
che mi hanno indirizzato ogni volta nella direzione da cui arrivavo; mi sono
fatto strada tra le ceste, le casse, il bestiame caricato e scaricato dai
furgoni; ho arrancato sotto il sole, attraversato strade e piazzali a mio
rischio e pericolo finché ho trovato il mashrutka per Signaghi nel momento
stesso in cui stava partendo. Subito uno nuovo ha occupato il posto lasciato
libero, ma ci sono volute due ore prima che si riempisse. Due ore passate ad
aspettare sotto il sole cocente, continuamente importunato da un’anziana
signora che, a turno, faceva il giro di tutti i pulmini mostrando un grande
piatto ricoperto da fette di ananas ormai rinsecchite.
Sono
quasi le undici quando il mashrutka si riempie, ma sono arrivate troppe persone
tutte insieme; l’autista non le ha certo mandate via, così ci siamo stretti
in tre su due soli sedili. Nonostante siamo seduti sulla fila anteriore, ben
visibili di fianco all’autista, nessuna delle tante pattuglie di polizia che
vedo lungo la strada ci degna di uno sguardo; mi chiedo cosa succederebbe in
Italia nella stessa situazione.
Avevo
programmato di fare qui solo una breve sosta, per poi ripartire e passare la
notte a Telavi, centro principale di questa regione, il Kakheti, nota
soprattutto per le sue zone vinicole. Invece, vista l’ora, la stanchezza dopo
il viaggio, e la scarsità di mezzi di trasporto, decido di fermarmi per la
notte. Nella piazza principale c’è un piccolo ufficio turistico (il primo che
vedo in Georgia), dove mi accolgono molto gentilmente, anche se parlano solo in
russo: mi informano sugli orari dei mashrutka, mi danno dei depliant con la
piantina del villaggio e mi offrono una tazza di tè. Nel frattempo arriva Lali,
una simpatica ragazza che abita in città e che viene spesso chiamata per fare
da interprete con i turisti dato che parla inglese; quando le dico che intendo
trattenermi per la notte mi trova posto presso una famiglia del paese, e mi
accompagna fino a casa loro. Si tratta di una simpatica coppia di mezza età: il
marito, Guram, è alto e magro, con capelli grigi e una faccia simpatica; la
moglie Natalia, detta Nati, è una donna piccola e bruttina, che mi sembra un
po’ sottomessa al marito e si sforza di sorridere mentre apparecchia veloce la
tavola per il pranzo. Mi portano subito da mangiare: insalata, pomodori, patate
e anche qualche fetta di carne, segno che se la passano bene. Come al solito mi
fanno molte domande, e anch’io mi informo su di loro chiedendo dei figli, che
vedo ritratti in molte foto e che, come scopro, vivono e lavorano a Tbilisi.
Sighnaghi
merita senz’altro una visita: è un piccolo paese di circa duemila abitanti,
ma costruito sulla sommità di una collina da cui lo sguardo, nelle giornate
limpide come oggi, può spaziare su tutta la campagna circostante, fino all’Azerbaijan
e alla repubblica russa del Dagestan. Il villaggio è circondato da alte mura,
perfettamente intatte, lunghe più di cinque chilometri e intervallate da
ventiquattro torri: secondo la gente del posto (ma io credo che possa essere
vero) si tratta della seconda muraglia più lunga al mondo dopo quella cinese.
Nei tempi antichi, in caso di attacco nemico, la gente dei villaggi vicini si
rifugiava in queste torri, ognuna delle quali porta il nome del villaggio cui
era stata assegnata.
Faccio
il giro completo della città, passando sotto gli archi in muratura e
raggiungendo ogni angolo della cinta, da cui si gode di un panorama davvero
eccezionale.
Il
centro storico, invece, ha tutto un altro stile: le case sembrano quelle dei
film western americani, tutte disposte sui due lati di una lunga e stretta
strada polverosa. Ai piani alti si aprono ampie balconate color pastello che
poggiano su alti porticati di legno, e ci si aspetta che da un momento
all’altro compaia sul tetto il pistolero di turno il quale, come in ogni
sparatoria che si rispetti, viene immancabilmente colpito per poi cadere
rotolando fino a terra.
Mi
piacerebbe anche andare a visitare il Monastero di Bodbe, che si trova qui
vicino, dove sono conservate le spoglie di Santa Nino. E’ un luogo molto
venerato, e so che diverse comitive di turisti, sia georgiani sia stranieri, vi
si recano in visita. Il problema è che si sta facendo sera, e non mi è chiaro
quanto sia lontano. La LP dice due chilometri; i depliant turistici che mi hanno
dato all’arrivo parlano di cinque; Guram, a cui ho chiesto prima, mi ha detto
dieci. Sono stanco dopo aver camminato diverse ore sotto il sole, e penso che
rimanderò a domani. Compro dell’acqua fresca e dei biscotti in un negozietto,
e mi siedo a prendere fiato su una panchina nel grande parco costruito nel
centro della piazza principale, dove posso godermi un po’ d’ombra aspettando
l’ora di cena, e pensare alle tappe successive. Le alternative per domani sono
di andare a Telavi o tornare a Tbilisi per poi proseguire verso l’ovest del
paese, eventualmente dopo aver visitato il monastero. Tra l’altro Lali, prima
di lasciarmi, mi ha avvisato che stasera i miei ospiti andranno ad una festa di
paese qui vicino, e io non potrò rifiutarmi; quindi molto dipenderà
dall’esito della serata.
La
sera, aspettando che anche Guram torni dal lavoro, mi siedo nel soggiorno con
Nati, che guarda con intenso coinvolgimento una telenovela brasiliana, in cui la
protagonista sembra essere una signora di mezza età che organizza intrighi a
non finire. Come da noi, ogni volta che un situazione raggiunge il pathos viene
trasmessa la pubblicità, e Natalia si scoccia vistosamente per
l’interruzione. E’ la classica donna di casa, che si occupa dei lavori
domestici regolando i propri orari in base a quelli del marito, che lavora e
porta a casa l’unico stipendio.
A
cena viene il bello. La tavola è stata preparata all’aperto, su una terrazza
da cui si vede tutta la valle. Ci sono molti piatti, anche di carne, e vedo con
piacere due fresche bottiglie di birra; subito dopo, però, Guram fa comparire
dal nulla un’ampolla dall’aspetto esotico: secondo lui contiene un liquore
molto forte che noi italiani chiamiamo “grappa”. Dubito dell’autenticità
del prodotto, e comincio ad insospettirmi. Per noi due, oltre ai bicchieri per
la birra, ci sono due bicchierini mignon che l’uomo subito riempie di
“grappa”, quindi subito vuota il suo tutto d’un fiato invitandomi a fare
altrettanto. Essendo ancora a stomaco vuoto, decido di assaggiarne solo un
goccio, e lo sguardo di Guram diventa scuro quando si accorge che il mio
bicchiere è ancora pieno. So bene quanto nei paesi caucasici l’ospitalità
sia sacra, e quanto sia offensivo verso il padrone di casa rifiutare ciò che ci
viene offerto; d’altra parte non voglio passare la notte sul cesso dopo una
gara a “bevi di più” (che tra l’altro sarebbe sicuramente impari). Così
decido di respingere gentilmente, ma fermamente, ogni sua insistenza a darci
dentro. Per tutta la durata della cena l’uomo continua a riempirsi il
bicchiere, proponendo un brindisi dopo l’altro: a mia madre, agli amici che mi
aspettano a casa, alla fidanzata che un giorno spero di trovare. Ogni volta,
regolarmente, svuota il bicchiere tutto d’un fiato, mentre io mi limito a
fingere o al limite ad assaggiare un goccio, giusto per farlo contento. Dopo il
terzo bicchiere la voce di Guram si fa impastata; dopo il settimo perdo il
conto, mentre Natalia comincia a fissarlo con uno sguardo che non promette
niente di buono. Intanto, dopo aver ascoltato allo stereo “Caruso”, cantata
da Andrea Bocelli, il mio ospite mette un CD di musica classica, sfidandomi a
riconoscere i brani. Ma la gara, tra me che non sono certo un intenditore e lui
che ad ogni incipit cerca di richiamare al cervello brandelli di lucidità,
perde subito di significato. Alla fine esco sconfitto, ma ho portato a termine
il mio intento di non bere.
Per
fortuna sembra che la fantomatica festa di paese di cui mi aveva parlato Lali
non si faccia più. In compenso, dopo mangiato Guram mi invita a fare una
passeggiata per il paese, e io decido di seguirlo con prudenza; la mia curiosità
di vedere persone è sempre insaziabile, e in casa poi non saprei proprio cosa
fare. Prima di uscire però, lo sento litigare animatamente con la moglie: non
capisco una parola, ma non mi è difficile immaginare i motivi della lite.
La
strada, appena usciti dal cortile, si fa buia e dissestata, e Guram, che a mala
pena si regge in piedi, mi prende a braccetto indicandomi uno per uno i vari
edifici e spiegandomene la storia col suo alito non esattamente profumato. La
piazza è una piacevole sorpresa: tutti i palazzi attorno sono illuminati, ed è
piena di giovani che passeggiano nel piccolo parco ricavato all’interno.
Questa è una grande differenza con l’Armenia, dove, a parte Erevan, le altre
città sembravano disabitate; in questo semplice paese di campagna, privo di
locali o di qualsiasi attività ricreativa, vedo una quantità incredibile di
ragazzi e ragazze che cercano di dare un senso alla serata, chiacchierando sulle
panchine, passeggiando mano nella mano, e creando una mini vita notturna
semplice ma molto allegra e coinvolgente. Su un lato del parco c’è un grande
muro dove è stata incisa una lunga serie di nomi. Guram mi spiega che sono i
nomi delle 4.301 persone originarie della provincia di Sighnaghi che sono state
deportare da Stalin in quanto dissidenti o presunti tali. A quanto pare il
grande dittatore, che pure era nato a Gori, qui in Georgia, non fece particolari
favoritismi nemmeno per i suoi conterranei. Più avanti incontro un ragazzo
turco che avevo già conosciuto alcuni giorni prima a Tbilisi, nella casa di
Nasi. E’ in compagnia di due belle ragazze, due sorelle presso cui alloggia.
Una delle due parla un po’ di italiano, e
si ferma a chiacchierare con me della sua città, lodandone i monumenti e
la storia. Si offre anche di accompagnarmi l’indomani a vedere il monastero di
Bodbe, dove tra l’altro il giorno prima aveva trovato una comitiva di
italiani. Io però ho già deciso di ripartire, così il trio si congeda prima
che io riesca a chiedere al turco come ha fatto a trovare una simile
sistemazione, mentre io sono stato appioppato a questo vecchio ubriacone. Mentre
ci rifletto, ecco che Guram prontamente mi afferra per un braccio e mi trascina
via, chiedendomi se voglio andare a bere qualcosa con lui. Rifiuto cercando di
essere il più gentile possibile, e invitandolo a dirigerci verso casa. Sulla
via del ritorno, ci imbattiamo in un gruppo di uomini anziani uno dei quali,
visibilmente alticcio, sta tentando di cantare a squarciagola O
Sole Mio, senza azzeccare neanche una parola. Mentre trascino via il mio
accompagnatore, che già mi invitava a sedermi con loro, arriva Nati, che
squadra il marito con un’occhiataccia di quelle che solo le mogli furenti
sanno scoccare, per poi proseguire a testa alta nella direzione opposta.
Comincio a chiedermi se la Georgia sia un paese di ubriaconi; forse no, ma se
l’unico svago dopo il lavoro è quello di intontirsi con l’alcol, temo che
per le ragazze di Sighnaghi ci sia un futuro difficile dopo il matrimonio.
Borjomi,
26 agosto 2006
Borjomi
rappresenta per la Georgia quello che San Pellegrino rappresenta per l’Italia:
il paese dell’acqua minerale. Nei supermercati di tutta la nazione si trovano
bottiglie d’acqua di marca Borjomi: quella naturale, di qualità discreta, e
quella gassata, ripugnante col suo fortissimo sapore di zolfo.
Sono
giunto qui ieri sera dopo un lunghissimo viaggio da Sighnaghi, cambiando
mashrutka a Tbilisi. Durante il tragitto ho osservato con dispiacere
l’ennesimo segno di incuria ambientale. Spesso, seduto sul pulmino, sentivo
degli scoppi, dei suoni sordi simili a botti, che le prime volte mi avevano
fatto temere una foratura. In realtà questi scoppi erano troppo frequenti per
essere dei guasti meccanici, e infatti dopo un po’ ho capito di cosa si
trattava: bottiglie di plastica vuote, che i passeggeri buttano tranquillamente
fuori dal finestrino dopo averne bevuto il contenuto. Giorno dopo giorno,
mashrutka dopo mashrutka, i bordi delle strade si riempiono di questi rifiuti
abbandonati, che inevitabilmente finiscono sotto le route degli automezzi con un
continuo stillicidio. PUM! PUM! PUM! è la incessante colonna sonora di ogni
spostamento, suonata da un’orchestra di centinaia di bottiglie che esplodono
sotto le route. Nessuno, però, sembra preoccuparsene, e anche i passeggeri del
mio pulmino, dopo essersi scolati la coca-cola o l’acqua minerale di turno,
abbassano il finestrino e buttano fuori la bottiglia, come se la strada non
fosse di nessuno, e quindi tutti fossero autorizzati a sporcarla quanto
vogliono; senza contare poi il rischio di incidenti che aumenta esponenzialmente
con tutti questi ostacoli, i quali magari ogni tanto qualche gomma la fanno
scoppiare davvero. Anche qui nel Caucaso, come in quasi tutti i paesi del mondo,
le bottiglie di plastica rappresentano un problema ben lungi dall’essere
risolto, o anche sono affrontato seriamente.
Questa
cittadina è molto rinomata tra i georgiani, per i quali è una meta di
villeggiatura tra le più gettonate; non soltanto per le sorgenti di acqua e per
i centri termali, ma anche per il parco nazionale che si estende sulle montagne
dei dintorni. Borjomi ricorda (a parte il mare, che ovviamente non c’è) le
classiche località turistiche della riviera romagnola, costruite intorno ad una
lunghissima strada su cui affacciano due ali di casette basse, molte delle quali
adattate ad alberghetti o con il cartello “camere in affitto” esposto
all’esterno; qualche negozietto di souvenir, un supermercato, e di fronte alla
stazione dei pullman vedo perfino un casinò in bella mostra, affacciato sulla
piazza principale.
La
LP consiglia un buon albergo molto economico, ma purtroppo non c’è la cartina
della città, e orientarsi è come sempre difficile perché gli abitanti
conoscono i nomi vecchi delle strade, mentre le indicazioni sono fornite usando
quelli nuovi e quindi sono del tutto inutili. Quando chiedo a una passante dove
si trovi uliza Kostava (la strada dell’albergo che cerco), mi fissa allibita
come se le avessi domandato la strada per Marte. Per fortuna incontro Sasha, un
giovane del posto che parla francese, avendo vissuto per alcuni anni nei pressi
di Parigi, e che mi offre un passaggio sulla sua auto. Non sa dove si trovi
l’albergo, però comincia a chiedere in giro fin quando mi porta di fronte
all’ingresso. Naturalmente scopro che si trova a un centinaio di metri dal
punto di partenza, ma in questa cittadina collinare, con le stradine che sono
tutte un saliscendi e priva di ogni segnaletica, orientarsi è veramente
difficile. Non ho dubbi sul fatto che Sasha non mi chiederà soldi per il
passaggio, e infatti si accontenta di una stretta di mano.
L’albergo,
come tutti quelli di Borjomi, è un ex-sanatorio. In epoca zarista prima, e in
quella sovietica poi, la città è sempre stata meta di villeggianti,
soprattutto ricchi esponenti dell’aristocrazia russa (o, più tardi, del
partito comunista) ed ha conosciuto un periodo molto florido; oggi è un po’
depressa, ma molti alberghi funzionano ancora, e sono gestiti nello stile dei
vecchi impianti termali. Ad ogni piano un’anziana babushka
ti accompagna alla tua stanza, ti viene a prendere quando ne esci, ti
informa sugli orari di funzionamento delle docce e della sauna. Infatti, dopo
pochi minuti che sono entrato in possesso della mia camera, sento bussare alla
porta; apro e vedo entrare una donna sulla quarantina, vestita come una
cameriera, che scopro essere una delle proprietarie. Mi chiede quando partirò,
e mi informa che, ogni volta che lascio l’albergo, devo consegnarle la chiave
della stanza. Le chiedo se abbia una piantina del paese, e lei scompare verso la
reception per tornare poco dopo con un depliant che dovrò riconsegnare alla mia
partenza. I modi decisi, lo sguardo serio ed i corti capelli rosso fuoco la
rendono molto affascinante; sul momento ricambio i suoi modi spicci, ma dentro
di me spero di rivederla più avanti.
Nonostante
il tempo si stia mettendo al peggio, vado a visitare il Parco delle Acque
Minerali, dove passeggio tra le sorgenti di acqua calda mentre premurose addette
mi riempiono la tazza che mi è stata fornita all’ingresso. Qui si può
camminare per ore, lungo i sentieri acciottolati che si inerpicano su per le
colline, tra i gruppi di ragazzi, le famiglie coi bambini, gli anziani che
passano qui le serate, comprando da mangiare nei numerosi chioschi di dolci e di
spiedini e sedendosi ai numerosi tavolini, curatissimi nella loro pulizia ed
eleganza. Mi ricorda un po’ la località di Karlovy Vary, in Boemia,
anch’essa nota per le sorgenti d’acqua che sgorga calda (fino a 70 gradi)
dai muri o dal marciapiede, e che si può raccogliere in una tazza per poi berla
con tutta tranquillità. Vorrei stare qui più a lungo, ma il temporale che
temevo arriva e mi costringe a tornare di corsa in albergo, dove i miei
affannosi tentativi di chiudere una finestra rotta non
impediscono al pavimento di trasformarsi in un lago.
In
albergo ritrovo anche Albert, il ragazzo spagnolo che avevo conosciuto a casa di
Vano, a cui è stata assegnata la camera in parte alla mia. Ogni tanto capita di
rivedere le stesse persone anche senza darsi appuntamento: i viaggiatori
indipendenti usano quasi sempre la Lonely Planet, e di conseguenza vanno a
visitare gli stessi luoghi, dormono negli stessi alberghi, mangiano negli stessi
ristoranti, e si finisce col reincontrarsi sempre qua e là. Troviamo un piccolo
ristorante dove mangiamo insieme, e mi faccio dire qualcosa di lui. Viene da
Barcellona, dove studia architettura e si mantiene gli studi dipingendo dei
semplici quadri che poi rivende ai turisti. Sta viaggiando nel Caucaso da una
settimana, e tra pochi giorni ripartirà alla volta della Turchia dove lo
aspetta il volo verso casa. Vuole anche fermarsi a Vardzia, un’imponente città
rupestre risalente al XII secolo composta da decine di case ricavate nella
roccia, alcune anche di diversi piani. Sembra che nel suo periodo di massimo
splendore ospitasse cinquantamila abitanti, e vi fossero anche una caserma ed un
monastero, tutti ricavati in grotte scavate nella nuda roccia. Ne ho sentito
parlare, ma non so se ci andrò perché si tratta di un posto molto isolato,
lontano dai percorsi che vorrei seguire. Invece mi faccio raccontare di Batumi,
la mia prossima meta, dove Albert è già stato e che mi conferma essere davvero
un bel posto. Questa Georgia mi sorprende ogni giorno di più, e le difficoltà
che i viaggiatori incontrano in questo paese così poco organizzato per
accogliere turisti sono davvero ripagate dalla vista di meraviglie della natura
e dell’uomo. Anche la cena è squisita: uno shashlik,
succulento spiedino di carne e verdure grigliate in un letto di cipolle,
straborda dal mio piatto mentre il mio amico ha ordinato i khinkali,
delle squisite polpette ripiene di carne, formaggio, uova e qualsiasi altro
ingrediente che possa rimpinzare uno stomaco a dovere. Alla fine della cena,
quando chiediamo il conto, non riesco a credere ai miei occhi: la padrona sta
facendo i conti usando un abaco! Per chi non lo sapesse si tratta di una piccola
tavoletta con un pallottoliere, che veniva utilizzata dai nostri antenati quando
le calcolatrici non esistevano. La donna usa l’attrezzo con disinvoltura,
spostando rapidamente a destra e a sinistra le piccole palline e riportando su
un pezzo di carta i risultati parziali, seguendo movimenti che da noi sono
andati dimenticati nella notte dei tempi. Resto a fissare la signora mentre usa
quello strumento tanto antico con la stessa bravura con cui un ragazzino
italiano saprebbe inviare foto digitali con un telefonino… Dopo alcuni minuti,
scarabocchia il totale su un pezzo di carta che ci porge con gentilezza; mentre
paghiamo mi sorprendo a pensare a come nella vita non si finisca mai di
stupirsi.
*
* *
Oggi
ho visitato il Parco Nazionale Borjomi-Kharagauli, una riserva protetta che
occupa l’uno per cento dell’intero territorio nazionale. Il Parco comprende
una decina di sentieri ben segnalati che si snodano attraverso le foreste della
zona, dove è possibile incontrare animali selvatici che vivono in assoluta
libertà: scoiattoli, castori, ma anche cervi, stambecchi e perfino piccoli
orsi. I sentieri più lunghi si arrampicano per diversi chilometri fino a
raggiungere rifugi di montagna costruiti fin sopra i tremila metri di quota,
dove, prenotando in anticipo, è possibile mangiare e dormire. Io mi accontento
di un semplice giro sul sentiero numero uno, quello più breve, che partendo
dagli uffici centrali del parco, costruiti qui a Borjomi, compie un giro ad
anello percorribile in un paio d’ore. Il percorso sale in cima ad una collina,
da cui si gode di un bellissimo panorama dell’intera regione, con la piccola
città chiusa tra le montagne circostanti, ed il fiume che la taglia in due
serpeggiando sinuoso sotto i numerosi ponti. Il tracciato è ben segnalato, e
spesso incontro dei cartelli multilingue che descrivono la fauna e la flora
locale; ogni tanto si vedono anche delle panchine, o addirittura dei tavolini da
pic-nic con annesso cestino dei rifiuti. E’ un peccato, però, che tutto
questo patrimonio naturale sia poco utilizzato; in tutto il mio giro, durato
diverse ore, ho incontrato solo un’anziana signora a passeggio con la
nipotina, che mi ha indicato un sentiero secondario diretto ad una piccola
cappella costruita tra gli alberi; per il resto, ho camminato in solitudine nel
silenzio più assoluto.
Verso
le undici, quando il mio giro è finito e sto uscendo dal parco, incontro Albert
che, fatta scorta di acqua e cibo, sta entrando negli uffici a chiedere
informazioni. Lo accompagno; troviamo un’impiegata molto gentile che, parlando
inglese, ci dà una cartina molto dettagliata dei percorsi e ci spiega come
raggiungerli. Il mio amico vuole percorrere il sentiero numero quattro, uno dei
più lunghi, raggiungere il rifugio al centro del parco e poi ritornare in
serata. Scopriamo però che il sentiero non comincia a Borjomi, ma in un paese
ad alcuni chilometri di distanza, quindi Albert dovrà prima trovare un mezzo
che lo porti lì, quindi cercare l’inizio del percorso, raggiungere il
rifugio, tornare indietro per un altro sentiero (si può fare un giro ad
anello), quindi trovare un mezzo per ritornare a Borjomi. Questi imprevisti
complicano i suoi piani, ma non si lascia scoraggiare e, zaino in spalla, mi dà
l’arrivederci e comincia a camminare lungo la strada, sperando in qualche
mashrutka di passaggio.
Nel
pomeriggio, dopo il solito improvviso acquazzone (penso ad Albert che se lo sarà
sorbito tutto), devo prelevare un po’ di soldi. Ci sono voluti quindici
giorni, ma alla fine i 350 euro che avevo con me quando sono partito
dall’Italia sono terminati, e ho bisogno di contanti. Entro in una banca, dove
trovo uno sportello che fornisce contanti dietro presentazione di una carta di
credito. Dall’altra parte del vetro, una vecchietta dall’aspetto arcigno mi
guarda male, poi si mette a fare altro. Deposito la mia carta nel carrello, ma
quando lo faccio scorrere dall’altro lato del separè la vecchia prima prende
in mano la carta, esaminandola con disprezzo, poi la rimette nel vassoio
spingendolo verso di me con un secco gesto di disprezzo, quasi di odio,
blaterando alcune parole che non capisco. Rimango un attimo perplesso, mentre un
impiegato di passaggio le chiede spiegazioni, quindi mi dice che l’orario di
chiusura è passato da quattro minuti. Questo certo non giustifica la
maleducazione dell’impiegata! Rifletto, comunque, su come vivano gli abitanti
di questo paese, che sono soggetti a questo modo di fare ogni giorno della loro
vita. D’altronde i cittadini che abitano in un paese comunista, ogni volta che
entrano in un ufficio statale (banche comprese), si trovano di fronte a tristi
impiegati che lavorano poco e male, poiché il loro magro stipendio non dipende
in alcun modo dal loro rendimento.
Trovo
una seconda banca, non lontano dalla prima, dotata di uno sportello bancomat
all’esterno. Mi avvicino, ma quando sto per inserire la carta sento
picchiettare sul vetro, e vedo un signore che, dall’interno della banca, mi fa
cenno di no con un dito spiegandomi poi, sempre a gesti, di ritornare alle
quattro.
Non
avendo altro da fare decido di fare un giretto per il paese. Lungo il cammino
assisto alla scena sicuramente più triste e deprimente di tutto il mio viaggio:
alcune mucche “randagie” hanno vagato senza padrone né guida per la strada,
fino a raggiungere un cassonetto dei rifiuti dal quale stanno “brucando”
tutto ciò che trovano. Coi loro lunghi musi sollevano i sacchetti di immondizia
dal cassone per poi rovesciarli sull’asfalto e mangiarne il contenuto. Sono
passato diverse volte da quella strada, tra l’altro una delle principali, e
ogni volta ho ritrovato le mucche sempre lì a mangiare. Nessuno, né i passanti
né i poliziotti sembrano interessarsene minimamente; e davvero non so se
provare più pena per quei poveri bovini abbandonati a loro stessi, e ridotti a
cibarsi di rifiuti pur di sopravvivere, o per un paese che sprofonda ogni giorno
di più in un degrado ambientale che prima o poi darà i suoi frutti amari a
tutti coloro che lo popolano.
Alle
quattro ritorno in banca. Non faccio nemmeno in tempo a salire i gradini di
fronte all’ingresso, che l’omino di prima mi si fa incontro, facendomi
nuovamente segno di no e dicendomi di tornare alle cinque. Ho capito che sarà
meglio prendersela comoda, così faccio ritorno in albergo.
Scopro
che Albert è stato spostato nella mia stanza, perché la sua era già prenotata
e deve liberarla. Io non ho problemi: nella mia c’è un letto singolo, che uso
io, più uno matrimoniale che lascio tutto a lui. Inoltre, è sempre piacevole
avere un compagno di camera con cui scambiare quattro chiacchiere. Lo spagnolo,
invece, non è tanto contento: non tanto per la nuova sistemazione ma perché,
dopo essere tornato fradicio dalla sua camminata (ha preso in pieno il
temporale), ha scoperto che l’orario della doccia è terminato e che dovrà
aspettare due ore prima di potersi lavare.
Scendo
nella piccola cucina del seminterrato, nel cui frigorifero ho lasciato un po’
di cibarie che avevo comprato ieri. Un uomo sulla quarantina si sta preparando
da mangiare sul grande tavolo, e mi invita a fargli compagnia. Si chiama Anton e
viene dallo Svaneti, la regione più remota, arretrata e affascinante della
Georgia. Non ci sono strade che la raggiungono, ma soltanto mulattiere; i suoi
piccoli villaggi distano ore e ore di fuoristrada l’uno dall’altro, e sono
caratterizzati da alte torri di guardia, costruite interamente in pietra, la cui
facciata è interrotta solo da qualche feritoia costruita subito sotto il tetto.
Ce n’è una per ogni casa; sono usate per avvistare i nemici e per offrire
rifugio agli abitanti in caso di attacco nemico, oppure per ripararsi in caso di
faide tribali, avvenimenti molto comuni in questa terra priva di leggi scritte,
dove la vita è regolata da un codice d’onore basato sui legami di sangue e
sulla giustizia sommaria. Anche Ella Maillart, famosa viaggiatrice del
Novecento, ci era passata in una delle sue interminabili peregrinazioni,
descrivendone gli abitanti come poverissimi ma estremamente ospitali. Chiedo al
mio nuovo amico di parlarmene, perché le informazioni che possiedo sono molto
scarse. Gli uomini vanno a caccia calzando i caratteristici mocassini, che
vengono riempiti d’erba per attutire il rumore dei passi; le donne, vestite
sempre di nero, si occupano della casa con grande dignità, e cuociono la carne
procacciata dai mariti. Molte case però non hanno il camino, e il fumo esce
passando tra le assi di legno e le pietre, dando l’impressione, guardando
dall’esterno, che l’intera casa stia andando a fuoco.
Mi
piacerebbe molto visitare lo Svaneti, ma la sua posizione tanto remota e la
presenza del banditismo mi scoraggiano. Mentre racconta, Anton stappa un fiasco
di vino e ne riempie due grossi bicchieri da acqua, uno per me e uno per lui;
come al solito, scola il suo tutto d’un fiato invitandomi a fare altrettanto.
Ne bevo alcuni sorsi, mangiandoci sopra alcune fette del buon formaggio che
Anton mi offre, insieme a pezzi d’anguria. L’uomo lavora al parco delle
acque minerali, dove è una specie di factotum: guardiano, addetto alle pulizie,
gestore della distribuzione d’acqua, giostraio (?). Parla anche un po’ di
italiano, perché certi suoi zii vivono in Sicilia e ogni tanto lo vengono a
trovare, portandogli dei dolci e altri prodotti tipici. Intanto il suo bicchiere
continua a riempirsi e a svuotarsi ritmicamente, e, dietro le sue insistenze, il
mio lo imita anche se ad un ritmo più blando. Comincio a temere che dovremo
finire l’intero fiasco per fare contento Anton, quando finalmente l’uomo lo
richiude e si alza per andare a lavorare. Ne ha bevuto da solo una buona metà,
ma sembra che non gli abbia fatto alcun effetto. Raccoglie le sue cose, mi
saluta e comincia a salire le scale senza la minima esitazione.
Quando
mi volto vedo la signora di ieri, quella dai capelli rossi, che, senza che me ne
accorgessi, è scesa in cucina a lavare i piatti. Qualcosa si risveglia dentro
di me; mi offro di aiutarla, e cominciamo a parlare. Si chiama Irina, è di
chiare origini russe e vive a Borjomi da sempre, dove fin da bambina si è
occupata di gestire sanatori. Si ricorda di quando gli alti dirigenti del PCUS
venivano a soggiornare negli alberghi di lusso, e lei era incaricata di far
entrare e uscire di nascosto le altissime bionde che andavano a visitare le
stanze ogni notte. Mi domando se anche lei sia stata una prostituta, anche se
non ne ha affatto l’aria. Questi pensieri cominciano a farmi girare la testa:
non so se sia conseguenza del vino, o di quello sguardo così severo ed allo
stesso tempo eccitante, o di quei capelli che fanno venir voglia di accarezzarli
per ore, o il fatto che mi piacciano le donne più grandi di me, così mature,
così esperte…
mentre
asciuga gli ultimi piatti, fingendo di aiutarla chiudo le mie mani sulle sue…
lei mi guarda, sorpresa, io la fisso intensamente; le tolgo dolcemente di mano
il piatto poggiandolo nel lavello, le accarezzo il viso meraviglioso, la sua
freddezza si scioglie, io la stringo e avvicino le mie labbra alle sue…
Quando viaggio da solo, cioè quasi sempre, ci sono due cose che mi spaventano: gli incidenti d’auto e le malattie degli organi interni; e in questo viaggio mi sono capitate entrambe. Ma andiamo con ordine.
La
mia ultima tappa in Georgia è Batumi, nota località turistica sul mar Nero,
molto frequentata dai giovani. Mi fermerò qui qualche giorno, per poi
proseguire in Turchia.
A
Borjomi trovo subito il mashrutka giusto ma, quando infilo lo zaino nel solito
scompartimento sotto i sedili posteriori, l’autista me lo fa togliere e lo
carica sul tetto. Questa nuova posizione non mi convince molto: il bagaglio non
è assicurato al portapacchi, e col suo volume ha tutta l’aria di cadere giù
alla prima curva; come già altre volte, devo sperare che l’autista sappia
quello che fa (forse da noi siamo semplicemente abituati troppo bene). Quando
partiamo, fortunatamente, il portapacchi sul tetto è strapieno di valigie e
sacchi vari, tutti ben legati ed assicurati (almeno spero). Non mi sento molto
tranquillo, ma non posso ancora immaginare che questa sistemazione sarebbe stata
invece la salvezza per il mio zaino!
Il
mashrutka parte per un viaggio che, nelle previsioni, dovrebbe durare circa
quattro ore. Come sempre procediamo a velocità folle zigzagando tra gli altri
veicoli e facendo strage delle solite bottigliette di plastica. Percorriamo il
principale asse stradale del paese, la direttrice Tbilisi-Kutaisi-Batumi, che
sulle carte stradali sembra una grande autostrada; invece si tratta di una
normalissima strada a due corsie, dove il pulmino fa un continuo slalom fra tir
stracarichi di qualsiasi cosa, carretti trainati da cavalli, buche che compaiono
all’improvviso nel manto stradale, e tutto evitando di scontrarsi con i mezzi
che arrivano dall’altra direzione, i quali ovviamente compiono le nostre
stesse spericolate manovre. Dopo un paio d’ore il mashrutka deve svoltare a
sinistra, dove una stradina conduce ad uno spiazzo con annesso ristorante.
Dovendo dare la precedenza alle auto che arrivano dall’altra parte, il pulmino
si ferma in mezzo alla strada, in un punto che non mi piace per niente: siamo
nel bel mezzo di un lunghissimo rettilineo, dove tutti vanno sparati come pazzi,
e ho una brutta sensazione. Dopo pochi istanti sento dietro di noi
l’inconfondibile stridio di una frenata disperata: qualcuno ci sta venendo
addosso. Mi faccio piccolo piccolo, staccando la schiena dal sedile e
aggrappandomi a quello di fronte a me, nella speranza di attutire l’urto; per
alcuni, interminabili, secondi prego che tutto vada bene, finché arriva
l’inevitabile schianto, così forte che il mashrutka, carico di quindici
persone e relativi bagagli, viene proiettato in avanti di un paio di metri fin
nella corsia opposta, dove, per grazia di Dio, non stava arrivando nessuno.
Mentre tutti gridano spaventati, l’autista riesce a guidare il mezzo fuori
dallo stradone, parcheggiando in un prato. Io e gli altri passeggeri ci
guardiamo in faccia, pallidissimi: siamo tutti interi, anche se una donna
grassa, seduta sull’ultima fila (quella colpita direttamente) si sente male
dallo spavento e viene sollevata di forza per farla uscire dal veicolo. Uno alla
volta scendiamo tutti, facendoci ognuno un sommario check-up. Sul momento sto
bene, non ho alcun dolore, ma nutro un certo timore per i prossimi giorni;
spesso i postumi degli incidenti stradali si avvertono non subito, ma a distanza
di alcuni giorni. Sto pensando che forse a Batumi farò bene a farmi visitare in
un ospedale, ammesso che ce ne siano di affidabili: mi converrà chiamare
l’assicurazione in Italia e sentire cosa mi dicono. Per ora, comunque,
l’importante è che stiamo tutti bene; lo stesso vale per i nostri
tamponatori, che incredibilmente scendono illesi da un’auto completamente
distrutta, e subito cominciano a litigare furiosamente col nostro autista. Io
non capisco una parola, e sinceramente non vedo quali ragioni possano accampare
a loro favore, ma assisto ad una lite furiosa che temo possa degenerare in una
scazzottata. Gli autisti degli altri mashrutka, che hanno assistito alla scena,
arrivano a dar man forte al nostro, e la discussione diventa sempre più animata
finché arriva un’auto della polizia a sedare gli animi. Mentre il guidatore
compila le carte burocratiche, gli altri tizi spingono quel che resta della loro
auto verso una carrozzeria nei paraggi.
Nel
frattempo io e gli altri passeggeri controlliamo i danni al nostro veicolo:
niente di irreparabile, soltanto una gran botta nel portellone posteriore,
proprio nel punto in cui avevo inizialmente sistemato il mio zaino… come
diceva sempre mio padre, non bisogna mai opporsi al destino quando sembra
schierarsi contro di te (se ne convinse quando da giovane, durante la guerra,
aveva cercato di imbarcarsi clandestinamente su una nave diretta in Italia ma
per ben due volte era stato scoperto e rispedito a terra; deluso ed arrabbiato,
aveva saputo poi che la nave era stata silurata durante il viaggio e che tutti
quelli a bordo erano morti).
Dopo
oltre due ore di sosta, ripartiamo. Mancano alcuni passeggeri, come la donna che
era stata male, che si sono fatti venire a prendere da parenti o amici; resto io
e un gruppo di ragazzi diretti sulla costa del mar Nero. Arriviamo a Kobuleti,
ridente località di villeggiatura dove per la prima volta nel mio viaggio vedo
il mare, a pomeriggio inoltrato. La strada corre parallela alla costa, ed i
trenta chilometri che la separano da Batumi sono un continua sequenza di basse
casette da spiaggia, ognuna col proprio giardinetto, le sedie a sdraio, i
costumi da bagno stesi ad asciugare al sole. Ovunque passeggiano ragazzi in
costume, bambini con i classici ciambelloni a forma di anatra, anziani con la
pelle abbronzata su cui contrastano molto i candidi capelli.
In
ogni paese qualcuno scende, andando a raggiungere amici o parenti che hanno la
casa al mare, e quando il mashrutka arriva alla sua destinazione finale io sono
rimasto l’unico passeggero. Quando scendo, mi ritrovo in una grande piazza il
cui traffico caotico quasi intimidisce. Ma, non appena mi volto, il mar Nero
(che, a dispetto del nome, qui è di un blu molto acceso) mi appare in tutto il
suo fascino, costeggiato da un elegante lungomare arredato da panchine,
lampioni, siepi, tutti ben tenuti e curati. La passeggiata finisce alla
capitaneria del porto, un elegante edifico bianco col tetto blu, la cui entrata
è nascosta dietro un altissimo porticato che rivela alte finestre retrostanti.
Più a sud, le alte cime delle ultime propaggini delle catene caucasiche
incorniciano più che degnamente lo scenario con loro vette immerse nelle nuvole
o nella nebbia.
Trovo
un piccolo albergo dove mi danno una stanza con l’aria condizionata, una cosa
che io non amo molto ma che con questa afa è davvero la benvenuta. C’è anche
una doccia funzionante, mentre nella grande hall un bar ed un televisore sono a
disposizione degli ospiti (non molti, peraltro).
In
seguito alla secessione dell’Abkazia, la città di Batumi, ufficialmente
capitale della repubblica dell’Adjara, è diventata la principale località
balneare della Georgia. Per noi cittadini del mondo questi confini artificiali e
queste beghe infantili non hanno alcuna importanza; ciò che conta sono il mare,
il sole (che, a dirla tutta, va e viene da dietro le nuvole), i bar all’aperto
e le ragazze in costume. Ogni giorno mi convinco che la Georgia sia molto più
interessante dell’Armenia, anche se le armene sono sicuramente più carine.
La
cosa che più mi colpisce è la quantità di giovani che si vedono in giro,
giorno e notte. Il lungomare è in realtà una scacchiera di stradine parallele
e perpendicolari alla spiaggia, tutte rigorosamente pedonali, sulle quali di
sera si riversa una quantità incredibile di persone: molte famiglie, ma
soprattutto ragazzi e ragazze che passeggiano magari con un gelato in mano,
ascoltando la musica che proviene dai locali all’aperto, dove alcuni complessi
suonano senza interruzione. Le piazze sono gremite di gente all’inverosimile,
ovunque ci sono chioschi di panini, o semplici locali dove si possono mangiare
spiedini e khoravats. Passeggio
pigramente lasciandomi trascinare dalla folla, finché raggiungo un immenso
parco a sud della città, le cui luci si vedevano già da lontano, e nel cui
centro gira una grande ruota panoramica, tutta illuminata a giorno. E’ bello
vedere così tanta gente in giro, dopo le desolanti serate armene. Ritorno verso
il porto per non perdere l’orientamento, quindi decido di lasciarmi alle
spalle luci e musica e mi dirigo verso la spiaggia, camminando sulla sabbia
finissima e sdraiandomi ad un paio di metri dal mare. Resto a lungo disteso
nell’oscurità, completamente rilassato, ascoltando il suono delle onde che
muoiono sulla riva… lascio scorrere liberamente i pensieri, mi sento parte del
mondo, della natura, di una semplicità disarmante per il suo fascino. Di fronte
a me, a mille chilometri di distanza, ci sono le spiagge della Bulgaria; forse
anche là in questo momento c’è qualcuno che sta meditando sulle stesse cose.
Penso a Daniela, la mia amica siciliana verso cui provo da sempre sentimenti
contrastanti: in certi momenti mi sento fatalmente attratto, ma un attimo dopo
la detesto con tutti i miei sensi. Lei ama moltissimo il mare, e se sapesse dove
sono mi invidierebbe da morire; so che sta ancora lavorando (in Italia ci sono
due ore in meno) così cedo alla tentazione di mandarle un messaggio fintamente
malinconico, giusto per farle un po’ rabbia.
Dopo
un po’ mi rialzo e mi rituffo nella calca. Mi torna alla mente un’estate di
molti anni fa, l’estate dopo l’esame di maturità, quella in cui ti senti
libero di fare tutto quello che ti passa per la testa. Ero a Rimini con alcuni
amici, e la sera passeggiavamo per viale Regina Margherita dove c’era la
stessa folla, la stessa vita notturna. Solo fino al quindici agosto, però,
perché ricordo benissimo come la sera del giorno sedici le strade si fossero
improvvisamente svuotate: molti negozi erano già chiusi, un silenzio ed una
calma irreali erano calati all’improvviso sulla città. Qui no, invece: siamo
quasi a settembre, eppure la vita è sempre attiva, la folla infinita, la voglia
di vivere senza calendario.
Raggiungo
Eras Moedani, la grande piazza che fa da spartiacque tra la zona del lungomare e
la città vera, quella con auto e traffico, che adesso sta già dormendo. Sul
lato ovest, quello vicino al mare, è stato allestito un palco dove tra poco
comincerà un concerto, mentre a est, verso la città, un maxischermo replica le
immagini riprese in diretta. Più avanti ecco un’altra piazza, dal cui
pavimento escono, a ritmo di musica, alti getti d’acqua sotto cui i bambini si
divertono un mondo a schizzarsi ed a rinfrescarsi per combattere l’afa che,
nonostante sia quasi notte, è ancora asfissiante.
Ritorno in albergo con il cuore pieno di quelle emozioni che solo il mondo, quello con la M maiuscola, è capace di elargire; a patto, naturalmente, di essere pronti a riceverle.
Batumi, 28 agosto 2006
Per i pochi occidentali che conoscono l’esistenza dei paesi caucasici, Armenia, Gerorgia ed Azerbaijan sono più o meno la stessa cosa. Non si distinguono bene i confini, la storia, i popoli; molti litigano perfino se collocarli in Europa o in Asia. La realtà, invece, è ben diversa: questi tre stati hanno storia, popoli e tradizioni molto diverse, e solo l’occupazione russa li ha accomunati, imponendo a tutti la stessa lingua ufficiale e le stesse leggi.
L’Armenia,
per esempio, è un paese con un radicato senso di unità nazionale: ovunque io
sia stato, dalla boscose montagne del nord ai desertici altipiani del sud, ho
sempre incontrato persone molto fiere della propria “armenicità”. Tutti gli
armeni si identificano in uno stato ed in un popolo armeno, e sono orgogliosi di
essersi sempre liberati dai vari conquistatori (mongoli, turchi, russi) che nel
corso dei millenni hanno occupato il loro territorio. Questo non significa che
siano razzisti, o xenofobi, tutt’altro: tutti sono sempre stati molto gentili
e disponibili con me e con gli altri viaggiatori. Semplicemente, gli armeni sono
un popolo molto fiero della propria identità e della propria cultura.
Il
discorso, invece, è molto diverso per la Georgia. Questo stato è più che
altro un puzzle di varie nazioni, di vari popoli molto diversi tra loro, che un
bel giorno si sono trovati costretti a vivere insieme nella Repubblica
Socialista Sovietica di Georgia. I veri georgiani sono gli abitanti della
capitale e degli altopiani centro-orientali; per il resto, il paese comprende
diverse mini-repubbliche più o meno autonome, ognuna con la propria bandiera,
la propri lingua e, com’è il caso dell’Adjara, anche la propria dogana.
Nelle montagne del nord, per esempio, le remote regioni dello Svaneti e del
Racha sono abitate da popolazioni che parlano una lingua completamente diversa
dal georgiano, e sulle quali l’autorità centrale ha ben poco potere. In
queste lande, la costituzione georgiana è carta straccia, e le sole leggi che
contano sono quelle dettate dai codici d’onore e dai vincoli di sangue; la
gente, dedita soprattutto alla caccia e alla pastorizia (e anche al banditismo),
vive ancora in un modo che molti definirebbero “medioevale”. Le autorità di
Tbilisi laggiù non hanno alcuna influenza (come non ne avevano prima quelle di
Mosca), anche se per loro ciò non rappresenta un problema data la povertà e la
scarsa importanza di quei territori.
Diverso
è il caso di un’altra zone di montagna, la repubblica autonoma dell’Ossezia
meridionale che, forse nel tentativo di abbattere la fiera autonomia degli
osseti, Stalin separò dall’Ossezia settentrionale assegnata invece alla
Russia. Questa regione ricopre un’altissima funzione strategica, poiché vi
passano le principali vie di comunicazione tra la Georgia, la Russia e le sue
instabili repubbliche caucasiche dell’Inguscezia e della Cecenia. L’esercito
di Tbilisi qui è presente in quantità massicce, sempre pronto a sopprimere
qualsiasi velleità di autonomia della fiera popolazione locale, gli osseti
appunto, che a più riprese ha manifestato violentemente chiedendo
l’indipendenza e la riunificazione coi fratelli del nord. Qui si parla il
russo, si usa il rublo e gli “immigrati” georgiani devono tenere gli occhi
bene aperti quando girano per strada. L’Ossezia meridionale ufficialmente è
aperta al turismo, ma molti georgiani che ho incontrato mi hanno
“sconsigliato” di andarci.
La
repubblica, poi, che ha causato maggiori problemi al governo centrale è quella
dell’Abkazia, che si trova nel nord-ovest del paese e contiene la maggior
parte della costa sul mar Nero. Abitata per secoli da un popolo musulmano fiero
ed indipendente, non ha mai sopportato la forzata convivenza con i vicini
georgiani, la cui lingua e religione (ortodossa) è stata loro imposta con la
forza dai russi. Approfittando dei disordini scoppiati a Tbilisi subito dopo il
crollo dell’impero sovietico, il presidente abkazo Vladislav Adrzinba prese la
situazione di petto e ordino al proprio esercito di distruggere tutti i ponti
stradali e ferroviari tra l’Abkazia e la Georgia (il confine corre lungo un
fiume). Nel giro di una sola notte i due paesi si ritrovarono fisicamente
divisi, secondo la regola che "“chi è di qua, è di qua; chi è di là,
è di là”. Questa situazione, però, non poteva essere tollerata
dall’allora presidente georgiano Shevardnadze il quale, ristabilito l’ordine
a Tbilisi, cominciò subito ad occuparsi della questione. L’Abkazia, infatti,
è strategicamente troppo importante per la Georgia, per almeno tre motivi.
Prima di tutto, costituisce (o almeno, costituiva) la più importante zona
balneare e turistica di tutto il mar Nero orientale, con tutti i profitti che ne
derivano; in secondo luogo è attraversata dalla strada più importante e più
veloce che corre fra Tbilisi e Mosca; infine, il suo sottosuolo ospita gli
oleodotti e i gasdotti in cui viaggia il petrolio estratto nel mar Caspio e
diretto verso la Turchia e l’Europa. Shevardnadze inviò l’esercito
avio-trasportato ad occupare la capitale del nuovo stato, Sokhumi, costringendo
gli abkazi a rifugiarsi sulle montagne e ricostruendo i collegamenti terrestri
interrotti. A questo punto, però, intervenne la Russia, che non vedeva certo di
buon occhio la preziosa Abkazia occupata da una Georgia filo-americana.
L’esercito russo aiutò gli abkazi a riconquistare i territori perduti,
ricacciando le truppe di Shevardnadze oltre il fiume. La rappresaglia fu
terribile, e costrinse decine di migliaia di civili georgiani ad abbandonare le
loro case e a ritornare disordinatamente nella terra d'origine. Secondo molti
abitanti di Tbilisi, fu proprio questa ondata di profughi ad aumentare il
livello di criminalità nella capitale. Si calcola che almeno centocinquantamila
persone prive di casa e lavoro si riversarono per le strade della città,
aggiungendo ovviamente molti problemi ad un paese appena uscito dalla guerra
civile.
Ora
la situazione è più tranquilla, e non si combatte più. Il confine tra Georgia
ed Abkazia è ovviamente chiuso, e i soldati fermano chiunque si avvicini,
perquisendoti ed interrogandoti a lungo. Nella regione di frontiera del
Samegrelo, appartenente alla Georgia, una delle più povere all’interno di un
paese non certo ricco, sono insediati altri centomila profughi, e la autorità
locali possono fare ben poco per sistemare tutte queste persone. Molti alberghi
e sanatori sono stati requisiti per ospitare questi rifugiati, ed è davvero
triste aggirarsi per le località di questa zona, dove le strade sono abitate da
migliaia di persone che tirano a campare, chiedendo l’elemosina e vendendo
merci improvvisate ai pochissimi stranieri.
Tecnicamente
anche Batumi non va considerata Georgia, perché è la capitale della Repubblica
dell’Adjara (chiamata anche Adjaristan), un’altra che col governo centrale
di Tbilisi ha ben poco da spartire. Quando, nel gennaio 2004, il neo-eletto
presidente Mihkail Saakashvili tento di entrarvi col suo corteo di auto, le
truppe adjare lo fermarono al confine costringendolo a tornare indietro.
Tutt’ora i rapporti tra i due governi sono molto tesi, anche se Tbilisi ha
fatto alcune concessioni per non perdere anche il controllo di questa zona, che
rappresenta ora l’unico sbocco sul mare della Georgia, nonché la sua
principale zona balneare e turistica. Sugli edifici pubblici sventolano le
bandiere di entrambi gli stati, e prima di uscire verso la Turchia bisogna
attraversare due dogane.
*
* *
Oggi,
probabilmente, è stato il mio ultimo giorno in Georgia. Stamattina ho
passeggiato sul lungomare, dove pochi bagnanti alternavano nuotate nell’acqua
tiepida a momenti rilassanti sulla sabbia, mentre il sole andava e veniva tra le
nuvole. Mi sono fermato a bere una coca in uno dei tanti barettini, seduto ad
osservare il mare mentre alla radio andavano le canzoni italiane degli autori più
classici: Celentano, Cotugno, i Pooh. Ho trovato alloggio presso l’hotel Bebo,
in realtà una casa privata gestita da una signora molto grassa e molto pigra,
che gira sempre vestita di nero e passa le sue giornate a guardare la
televisione. La casa è al completo (mentre tratto sul prezzo, osservo alcune
ragazze dal marcato accento australiano uscire in bikini dirette alla spiaggia),
così la padrona mi dà una stanza esterna, in una dependance che si raggiunge
salendo una scala in legno a cui mancano alcuni gradini. La stanza è molto
semplice: due materassi cigolanti senza lenzuola né biancheria, un tavolino, un
lucchetto per chiudere la porta quando esco. E’ decisamente un posto
squallido, ma il prezzo basso mi evita di cambiare i dollari che infine sono
riuscito a prelevare a Borjomi, e in fin dei conti qui devo solo dormirci.
Nel
pomeriggio vado in un internet point per cercare un ostello a Istanbul, la mia
prossima tappa dove conto di giungere tra un paio di giorni. Il locale è
gestito da una bionda stupenda, uno schianto di ragazza che sa installare sui PC
le ultime patch di explorer e gli antivirus più aggiornati con la stessa
nonchalance con cui, in Italia, una ragazza di uguale bellezza saprebbe
scegliere le scarpe più intonate alla mise da discoteca più alla moda. Scopro
che parla un ottimo inglese e così, con la scusa che il mio computer è lento,
comincio ad attaccare bottone fino a quando arriva il fidanzato a darle il
cambio… è davvero destino che tutte le ragazze che valgono qualcosa siano
sempre impegnate. Comunque, prenoto un ostello nel quartiere più turistico di
Istanbul a nove euro a notte, una cifra più che ragionevole considerata la città.
L’unica mia preoccupazione è la salute: come temevo, il collo e la schiena
hanno cominciato a farmi male in seguito all’incidente di ieri, anche se il
dolore è contenuto. Per ora aspetto: se domani il dolore dovesse aumentare,
chiamerò l’assicurazione in Italia, anche se certo preferirei essere visitato
ad Istanbul piuttosto che in questa città dove, spiaggia e divertimenti a
parte, i servizi sono molto arretrati. Mi piace stare qui, ma per noi
viaggiatori l’unico imperativo è: partire e non fermarsi mai, perché magari
il prossimo posto ti piacerà ancora più di questo, ma non potrai mai saperlo
se non ci vai.
Alla
sera, dopo una cena luculliana a base di spiedini e verdura servita da una
bionda molto carina ma che non parla inglese (questo è, purtroppo, il
principale limite della popolazione locale), torno a rilassarmi sulla spiaggia,
nuovamente sdraiato ad ascoltare le onde nel buio.
Passo
la mia ultima notte sul sacco a pelo che svolto, aperto, sopra il materasso.
L’afa è soffocante, ma cerco di resistere alla tentazione di attaccarmi alla
bottiglia dell’acqua che ho deposto accanto a me, perché bere vorrebbe dire
solo sudare ancora di più, creando un circolo vizioso da cui sarebbe sempre più
difficile uscire.
La
stanza è illuminata a giorno dalle luci della grande Chiesa della Vergine Maria,
la cui facciata risplende in maniera davvero magnifica. Lo spettacolo è
grandioso; e anche se non riesco a dormire, non mi dispiace restare sveglio a
riflettere sul mio viaggio, ripercorrendo con la mente e con il cuore le varie
tappe. Ora che la mia avventura è quasi al termine, ho tante esperienze su cui
riflettere, tanti ricordi da far riaffiorare.
Domani
c’è la Turchia, ma per questa notte voglio fermarmi a pensare.
Buona
notte, Georgia.
....................................................................................................
PARTE TERZA
TURCHIA
E’ sempre emozionante attraversare un confine a piedi: ti procura un netto senso di cambiamento, ti fa capire che stai lasciando un paese, una nazione, una cultura, e stai entrando in un nuovo paese, dove troverai una nuova nazione e una nuova cultura. Cambiano le uniformi, cambiano le bandiere, cambiano le scritte e la lingua; hai quella sensazione di passaggio, di transito, che premette sempre a nuove scoperte, come se cominciasse un nuovo viaggio. Questo posto di frontiera, poi, è molto particolare: con il mare e la sabbia a pochi metri dalle barriere che luccicano al sole, ti appare meno brutto dei soliti; e mentre lo oltrepassi ecco i gabbiani che, con i loro versi, sembrano venire a salutarti festosamente.
Lasciare la Georgia è stato facile; entrare in Turchia un po’ meno. Al controllo passaporti mi hanno detto che dovevo procurarmi il visto all’apposito ufficio, dove mi hanno indirizzato. Dopo avermi appiccicato il pezzetto di carta sul passaporto, non mi hanno detto che dovevo tornare indietro a farlo timbrare, e io stupidamente non ci ho pensato; quindi ho camminato sotto il sole già bollente del mattino per un lunghissimo marciapiede che collega le due caserme, osservando accanto a me l’interminabile fila di TIR in attesa di entrare in Georgia. Ai tempi dell’Unione Sovietica questo confine era blindatissimo: i due imperi non si andavano affatto simpatici, e spesso truppe di soldati venivano stanziate minacciosamente presso il confine da una parte e dall’altra, con la solita scusa di effettuare esercitazioni. Nessun viaggiatore poteva sognarsi di oltrepassare questa frontiera. Oggi, invece, tutto è cambiato, e il confine di Sarpi-Gonio è la principale porta fra Turchia e Caucaso. Di qui passano autocarri, autobus carichi di frontalieri, e anche molti viaggiatori (quelli veri, che si muovono via terra). Buona parte di questo traffico di persone e di merci è diretto in Armenia; essendo ovviamente chiusa la frontiera che collega direttamente i due stati, l’unica strada percorribile passa di qui.
Quando arrivo al posto di confine turco trovo due gentili soldati che esaminano il mio passaporto, quindi mi fanno notare che il visto non è timbrato; devo ritornare alla dogana e farmelo timbrare, altrimenti non potrò entrare in Turchia. Così, armato di pazienza, ripercorro tutta la strada a ritroso (sarà almeno un chilometro) fino al gabbiotto della polizia, dove nel frattempo c’è stato il cambio di turno e il nuovo poliziotto turco pensa che io stia uscendo dal suo paese, dato che sono arrivato da ovest; non capisce perché dovrebbe timbrarmi il visto in entrata anziché in uscita, e io ho il mio bel da fare a spiegargli la situazione. Quando, infine, riesco a ottenere il tanto desiderato timbro, mi incammino per la terza volta lungo l’interminabile stradina di collegamento, mentre il sole e lo zaino mi stanno già facendo sudare abbondantemente.
Alla fine passo il confine ed entro ufficialmente in Turchia dove, dopo aver chiesto conferma ai due soldati, tiro indietro l’orologio di un’altra ora. E’ strano dover abituarsi a un nuovo orario mentre il sole dall’alto ti guarda con la stessa intensità e la stessa brillantezza, ridendo di queste buffe convenzioni che separano i confini tracciati dagli uomini, che a lui devono sembrare tanto piccoli.
* * *
Non appena arrivo a Hopa, la prima cittadina turca oltre il confine, noto subito tre grandi differenze rispetto ai paesi caucasici che ho appena lasciato.
Prima
di tutto, le scritte sono in caratteri latini. Non che questo semplifichi molto
le cose, perché per me il turco è incomprensibile; ma, almeno, è
incoraggiante riuscire a leggere le scritte, ci si sente più vicini a casa. E
poi, alla stazione dei pullman, orari e destinazioni dei mezzi sono subito
chiari, e questo rappresenta sempre un prezioso aiuto.
Secondo:
tutti i negozi, anche quelli più piccoli, espongono gli adesivi di accettazione
delle carte di credito, queste piccole tessere plastificate che nel Caucaso sono
del tutto prive di valore.
Terzo: tutte le donne indossano la kefiah. Non soltanto quelle avanti con gli anni, ma anche le più giovani, compresa la cassiera del supermercato dove vado a fare un po’ di spesa (mi aspettano ventuno ore di pullman fino ad Istanbul). Sono veli colorati, allegri, spesso in tinta col vestito, ben diversi da quelli scuri, quasi tetri, che ho visto in altri paesi musulmani; ma in ogni caso spiccano intorno al volto di ogni persona di sesso femminile. In Turchia non è certo un obbligo: nel 1923 Ataturk, fondatore della Repubblica Turca, il cui volto serio e dallo sguardo fiero fa bella mostra di sé in ogni negozio, edificio pubblico e anche sulle fiancate dei pullman, abolì la costrizione di portare il velo; e in seguito lo stesso è stato fatto in molti altri paesi di fede islamica. Moltissime donne, però, non si sognerebbero mai di toglierselo: per loro è qualcosa di molto sentito, senza cui non riuscirebbero a stare. A noi occidentali, abituati a vestirci (e soprattutto a svestirci) come vogliamo, una donna con la kefiah sembra una prigioniera; per loro, invece, è un indumento fondamentale, senza il quale si sentirebbero nude. Questo concetto mi è stato ben spiegato da una ragazza marocchina, molto carina, che tempo fa avevo incontrato in Tunisia. Chiacchierando, le avevo domandato:
“Ma
perché porti il velo? Non ti senti a disagio?”
La
sua risposta era stata prontissima e, per me, sorprendente.
“Le
donne italiane mostrano la loro vagina in pubblico?”, mi aveva chiesto a sua
volta.
“Certo
che no!”
“Vedi,
per noi la testa è come vagina. Non possiamo stare senza coprirla”.
E questo è quanto.
Nella mia immaginazione la parola “Istanbul” ha sempre evocato un po’ di magia, con quella sua posizione a cavallo tra due continenti, mentre i battelli attraversano i mari che la circondano e le cupole delle moschee svettano alte sull’orizzonte, riflettendo la luce rossastra del tramonto. E’ un posto in cui ho sempre voluto venire, e adesso che ci sono me lo sto godendo appieno.
Certo,
rispetto a prima qui tutto è più facile: le persone parlano inglese (e molte
anche l’italiano); ovunque ci sono ristoranti aperti fino a notte fonda, con i
procacciatori di clienti che fanno di tutto per tirarti dentro; tutti i luoghi
turistici alla sera vengono illuminati da riflettori di vari colori, mentre una
voce registrata, diffusa dagli altoparlanti in varie lingue, rievoca antiche
vicende che si sono svolte nelle varie moschee, o nei cortili, o nelle torri.
Qui
tutto è moderno, o almeno cerca di esserlo: da un lato c’è il lussuoso tram
che attraversa la parte europea della città, con le grandi vetrate e
l’altoparlante che annuncia le fermate; dall’altra parte del corno d’Oro,
nel quartiere (che fu costruito dai genovesi) di Galata, sulle strette viuzze
acciottolate che vanno su e giù per la collina si affacciano antiche botteghe:
macellai, tappezzieri, maniscalchi, ceramisti, tutti partecipano alla vita del
quartiere picchiando su attrezzi da noi dimenticati, diffondendo ovunque i
suoni, gli odori, le grida rivolte ai garzoni, mentre moderni furgoni (che
stonano notevolmente con l’ambiente) restano intrappolati negli stretti
passaggi bloccando il traffico.
A
Sultanhamet, il quartiere più turistico della città, dove si trovano le
moschee più famose, ci sono moltissimi ostelli della gioventù che, anche in
questa stagione, pullulano di backpackers provenienti da ogni angolo di mondo.
Nel mio incontro biondissime ragazze neozelandesi già in procinto di tornare a
casa; giovani americani, poco più che ragazzini, che già si informano sui
treni diretti in Bulgaria; la coppia di londinesi partita ieri per un viaggio di
nozze di un mese attraverso tutta la Turchia. Questo ostello, come tanti altri,
è dotato di una grande terrazza panoramica da cui si può ammirare l’intera
città: le moschee della parte europea, l’alta torre di Galata, le navi che
percorrono il Mar di Marmara dirette a oriente. In estate, ogni sera organizzano
una grigliata all’aperto, che diventano delle grandi feste a cui tutti gli
ospiti sono invitati. Adesso, però, la sera comincia a fare fresco, tanto che
dopo il tramonto è bene mettersi un bel maglione per andare in giro; spesso poi
il cielo si rannuvola improvvisamente, e rapidi acquazzoni sorprendono gli
incauti turisti in maniche corte.
A
Istanbul ci sono tantissime cose da vedere, ma è difficile osservare il vero
spirito della città. Nel remoto Caucaso, ogni occidentale che incontravo per
strada era un potenziale alleato, un amico con cui affrontare le mille difficoltà
quotidiane; qui, invece, ci sono talmente tanti stranieri che diventa
impossibile essere viaggiatori, e ci si abbassa al rango di semplici turisti.
Ogni edifici di interesse è indicato da cartelli stradali multilingue; molti di
questi sono comunque inutili perché ad ogni angolo di strada trovi qualcuno che
si offre di accompagnarti. In questa città non ci sono cose da “scoprire”:
tutto è già pronto e confezionato per il turista, che può vedere tutti i
monumenti principali seguendo semplicemente i percorsi già riportati sugli
opuscoli, ed il suo ingegno viene messo alla prova solo quando viene il momento
di cercare l’angolazione migliore per scattare una fotografia.
Andando
alla ricerca di qualcosa di genuino, ammesso che esista ancora, mi avventuro nel
quartiere delle Blacherne, un antico dedalo di stradine dall’atmosfera
medievale situato all’estremità occidentale della città, subito
all’interno delle mura teodosiane. Questa zona, poco visitata dai turisti,
conserva ancora un fascino dal sapore antico: qui le strade non hanno un nome, e
per orientarsi bisogna chiedere informazioni ai passanti, molti dei quali non
capiscono nemmeno l’inglese. Gli abitanti, qui, non sono abituati a vedere dei
forestieri camminare da soli, e quando passo mi guardano incuriositi, alcune
donne anche con diffidenza. Questa è la loro città, non ancora contaminata dal
turismo di massa, quindi ci tengono, giustamente, ad avere un po’ di
“privacy”.
Questo
quartiere fu costruito nel V secolo dall’allora reggente al trono, Pulcheria,
donna molto pia e devota, che volle erigere un quartiere clericale dove preti,
monaci e (ben separate da quelli) monache potessero vivere e pregare.
All’inizio del XII secolo vi fu costruito un grande palazzo, una vera fortezza
dove la corte reale si trasferì, abbandonando il vecchio palazzo imperiale. Qui
si trovavano l’icona più importante del tempo, la Vergine Odighitria (“che
indica la via”), e per un certo tempo vi sono state conservate alcune
fondamentali reliquie, come il velo di Maria e la Sacra Sindone.
Nella
mia guida non c’è una piantina dettagliata del quartiere, così devo
orientarmi a sensazione per raggiungere le antiche mura teodosiane, che
rappresentavano il più esteso (e più solido) baluardo difensivo dell’antica
Costantinopoli. Sto cercando la Porta del Cannone, quella che gli ottomani di
Mehmet II riuscirono a sfondare nel 1453 grazie ad un potentissimo cannone fatto
costruire in Germania. Il cannone era lungo nove metri, aveva un diametro di
venti centimetri e sparava palle da sei quintali a più di un chilometro di
distanza. L’enorme arma poteva sparare solo un colpo ogni tre ore, ma faceva
danni enormi alle mura: tra un colpo e l’altro i difensori uscivano allo
scoperto per ricostruire la breccia, ma dopo ogni colpo diventava sempre più
difficile, mentre gli assedianti prendevano di mira i bizantini che ogni volta
erano sempre di meno. Solo l’arrivo di alcune navi amiche, inviate dal Papa,
permise ai greci di trarre un sospiro di sollievo, mentre queste sconfiggevano
l’armata dei turchi costringendoli alla tregua. Ma il sultano non si arrese:
comprendendo che non avrebbe mai preso la città senza avere prima il predominio
sul mare, nella notte tra il 21 ed il 22 aprile dello stesso anno fece costruire
dai suoi ingegneri una grande strada ferrata che, salendo dal Mar di Marmara,
risaliva la collina alle spalle di Galata per poi ridiscendere nel Corno
d’Oro. Lungo quella strada fece issare da traini buoi le sue navi,
accerchiando così il porto della città senza colpo ferire. Mentre i difensori,
atterriti, non credevano ai loro occhi, Mehmet II trasportò centomila soldati
fuori dalle mura teodosiane preparandosi a sferrare l’attacco finale. In città,
l’imperatore Costantino XI poteva contare solo su settemila uomini. La notte
tra il 27 ed il 28 maggio fu quella decisiva: i soldati turchi si lanciarono
contro le mura senza sosta, indifferenti alle frecce che venivano loro tirate
contro dall’alto. Si gettavano contro le palizzate, issavano scale, si
lanciavano nella mischia senza sosta, finché, ad un ordine prestabilito, una
schiera si ritirava per fare posto ad una nuova ondata, fresca, che arrivava a
dare il cambio alla precedente. Così continuarono tutta la notte, schiera dopo
schiera, mentre i difensori non avevano tregua, e per quanto fossero valorosi,
era chiaro che non potevano continuare all’infinito. Ogni tanto alcuni gruppi
di coraggiosi uscivano dalle mura attraverso delle porte secondarie per aggirare
gli assedianti e sterminarli, ma proprio una di queste uscite fu decisiva: gli
ottomani, ormai preponderanti, riuscirono a respingere un gruppo di incursori e
a passare oltre le mura prima che la porta venisse richiusa. All’alba le
insegne turche sventolavano sui torrioni, mentre dalle brecce aperte ormai
ovunque la marea di invasori penetrava inarrestabile nella città. Lo stesso
imperatore si gettò nella mischia e cadde, mentre i pochi uomini sopravvissuti
abbandonarono le mura per correre a difendere le loro case e le famiglie,
inutilmente. Già a mezzogiorno non rimaneva alcun bizantino vivo, e alla sera
del primo giorno Mehmet II pose fine al saccheggio, che di solito durava tre
giorni, perché non era rimasto più niente e nessuno da saccheggiare. Aveva così
termine l’Impero Romano d’Oriente.
Le
mura esistono ancora anche se oggi, nel punto in cui una volta c’era la porta
principale, ora passa una trafficata superstrada che porta diritta in centro;
sotto di questa, corre veloce la metropolitana che collega la città con
l’aeroporto. Cerco di ricostruire con la fantasia quei momenti, di immaginare
la scena in cui migliaia e migliaia di soldati entrano in città avidi di
bottino e saccheggi, mentre gli atterriti cittadini superstiti scappano in ogni
direzione, cercando inutilmente un rifugio dalla furia dei conquistatori. Ma è
difficile, nel trambusto dei TIR, dei taxi, dei clacson e dei semafori,
immaginarsi quelle grida, quelle fughe disperate, la furia, lo sciamare dei
soldati per le vie e le case.
Quanto
lontani sono oggi quegli eventi, eppure quanto peso hanno avuto nella storia, e
quanto di essi c’è ancora nella realtà odierna!
Purtroppo
non trovo posto sul volo per Bergamo a prezzi ragionevoli fino a lunedì, quindi
dovrò restare in questa città ancora per qualche giorno. Tanto meglio: potrò
esplorare altri angoli poco conosciuti: l’imponente acquedotto di Adriano, le
lontane fortezze di Kadikoy (con tanto di crociera sul Bosforo), la sponda
asiatica della città, meno turistica e più “turca”.
L’altra
sera stavo appunto programmando le prossime giornate in modo da organizzare al
meglio il tempo (in una città tanto grande gli spostamenti richiedono ore, e
per vedere tutto bisogna organizzarsi al meglio), quando mi capita il secondo
incidente, decisamente il peggiore che mi sia mai occorso in tanti anni di
peregrinazioni.
Venerdì
sera ho cominciato a sentirmi male: avevo nausea e mi sentivo molto debole.
All’inizio ho pensato ad una indigestione, ma dopo aver rimesso l’intera
cena, i conati di vomito sono continuati tutta la notte, facendomi tirare su
anche una tazza di tè che una gentile impiegata mi aveva preparato alle quattro
di mattina. Evidentemente qualcosa mi ha preso allo stomaco, che è sempre stato
il mio punto debole: continuo ad avere attacchi che mi fanno tirar su bile,
succhi gastrici e non so che altro per tutta la notte, senza lasciarmi un attimo
di tregua. Sabato mattina, stremato, chiamo la mia assicurazione in Italia,
chiedendo che mi mandino un medico. Dopo circa un’ora arriva un’ambulanza
con due paramedici che mi visitano, mentre il ragazzo dell’ostello traduce la
conversazione. Mentre rispondo alle domande, vengo colto da altri attacchi; i
due paramedici allora mi sistemano su una barella, mi attaccano una flebo e mi
caricano su un’ambulanza. Prima che si chiudano le porte, il ragazzo
dell’ostello mi chiede:
“In
quale ospedale vuoi andare?”
Rispondo
che non ne ho idea, basta che mi curino, allora mi chiede se sono assicurato e
poi dice all’autista di portarmi all’ospedale Internazionale. Le porte si
chiudono, e l’ambulanza con la mezzaluna rossa dipinta sulle fiancate parte a
sirene spiegate, mentre accanto a me i due medici mi osservano, seduti sulla
panca dell’abitacolo. Non sanno una parola d’inglese, ma cercano di
incoraggiarmi con sguardi comprensivi e sorrisi amichevoli. Il viaggio è molto
lungo, ci vorrà più di mezz’ora prima di arrivare a destinazione, e nel
frattempo i pensieri si accavallano nella mia mente, portandomi allo scoramento:
sono solo, malato, su un’ambulanza che mi sta portando in un ospedale di una
città straniera, dove non conosco nessuno, e non so cosa mi accadrà, magari
dovranno operarmi… mi viene da piangere, ma so che devo tenere duro, perché
il peggio forse deve ancora arrivare. Non ho idea di quanto tempo resterò in
ospedale: il mio aereo parte lunedì, e spero di riuscire a prenderlo. Ho
lasciato tutti i miei bagagli all’ostello, ho con me solo il passaporto ed il
cellulare. Non c’è nessuno con me: mai come adesso dovrò contare solo su me
stesso, quindi non è questo il momento di piagnucolare. Le grandi difficoltà
si affrontano con grandi energie, e alla fine il premio sarà una grande
crescita interiore. Qualcosa dentro di me mi dice che, in un modo o
nell’altro, alla fine tutto si sistemerà, e che tra un po’ di tempo guarderò
indietro a questa terribile esperienza come ad un lontano ricordo.
Arriviamo
in ospedale. Un medico che per fortuna parla un ottimo inglese mi visita subito,
quindi mi diagnostica una gastro-enterite e mi dice che mi faranno degli esami.
Si allontana, poi arriva un’infermiera che prepara le provette per gli esami
del sangue: le spiego di andarci piano, perché quando faccio un prelievo ho
sempre forti cali di pressione, ma lei non capisce e mi guarda con
un’espressione interrogativa che non promette nulla di buono. Infatti, proprio
nel momento culminante in cui ho una flebo in un braccio e una siringa da 20 cm.
nell’altro, mentre l’infermiera continua a riempire provette e io comincio
ad avere la vista annebbiata, un altro attacco di vomito mi colpisce
all’improvviso, facendomi piegare in due dai conati… la donna lascia in
sospeso il prelievo e mi inietta qualcosa nella flebo, ma io non ho più il
controllo del mio corpo. Sto male, ho la nausea, vedo tutto sfocato, grido di
smettere di togliermi sangue e di iniettarmi roba ma è inutile, non mi
capisce… per fortuna ad un certo punto le luci si spengono e cado
nell’oblio.
Non
ho capito di essere svenuto fino a quando non mi sono risvegliato. Davanti ai
miei occhi vedo il volto del medico, chino su di me, che mi chiede: “What’s
happened?” mentre io cerco di ricordarmi chi sono e dove mi trovo. Provo
quella strana sensazione di quando ci si sveglia da un sogno, e ancora si fatica
a distinguere la realtà dalla scena sognata. Poi, un po’ alla volta, la mia
mente si fa più lucida. Mi rendo conto di essere svenuto, e spiego al medico
che è accaduto per colpa del prelievo troppo veloce. Lui si tranquillizza, dà
delle istruzioni all’infermiera e dice che mi farà sapere riguardo
all’esito degli esami; dopo di che se ne vanno tutti, e io resto solo sul mio
letto, in una grande stanza dove solo una pesante tenda mi separa dal resto del
mondo. Oltre quella tenda, intravedo che viene portato un altro letto con un
paziente di mezza età. I familiari gli si fanno subito intorno, cercando di
consolarlo. Una signora piange, spaventata, mentre le infermiere cominciano a
visitarlo. La conversazione si anima, poi, dopo un po’, se ne vanno, lasciando
l’uomo da solo.
Anch’io
sono solo. Ogni tanto, da dietro la tenda, fa’ capolino un’infermiera che
viene a controllarmi; guarda la flebo, poi se ne va. Sto tremando di freddo;
alla visita successiva chiedo una coperta, ma la donna non capisce. Faccio segno
di tremare, col gesto di strofinarmi le mani sugli avambracci; lei allora
annuisce, scompare e subito ritorna con un termometro, uno di quelli moderni che
si infilano nell’orecchio. Dopo pochi secondi lo estrae, lo guarda, poi mi
fissa preoccupata: “Termometer maximum” mi dice, ed è chiaro che non è una
cosa buona. Poi se ne va di nuovo.
Ritorna
il medico. Mi dice che ho una gastro-enterite batterica, e che mi daranno una
flebo di antibiotico. Più tardi, per sicurezza, mi faranno anche delle lastre
all’addome, poi si vedrà.
Il
tempo passa. Sono di nuovo solo. A questo punto non posso davvero fare più
niente: la mia parte l’ho fatta, ora sono totalmente nelle mani di queste
persone. Ed e’ proprio in questa fase di attesa, quasi di rilassamento, che mi
lascio andare allo sconforto, e alcune lacrime scorrono sulle mie guance. Erano
anni che non piangevo, ma adesso non riesco più a trattenermi. Non mi sono mai
sentito tanto solo e indifeso come adesso, e mai come ora vorrei avere qualcuno
accanto a me, qualcuno che mi stringa la mano, che mi faccia coraggio. Ma non è
così: me la sono cercata, sono andato all’avventura da solo, e devo cavarmela
da solo. La mia situazione è semplicemente la conseguenza delle mie azioni; non
posso che prendermela con me stesso, ma dentro di me, passato lo sconforto,
trovo la consapevolezza che questa è la vita che mi sono scelto, e che devo
accogliere tutto ciò che mi dà, nel bene come nel male. “Ciò che non
uccide, fortifica” si dice, e questa frase per me non è mai stata tanto vera
come adesso. Mai come ora sto imparando a stare al mondo, a cavarmela da solo;
questo è l’insegnamento che devo trarre, che devo aggiungere al mio bagaglio
di esperienza di viaggiatore e di uomo.
Sono
sicuro che, se tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto senza
esitazioni, perché questo è il mio destino.
Questa
è la mia via.
....................................................................................................
EPILOGO
Bergamo,
6 settembre 2006
E così eccomi a casa, sano e salvo dopo tante peripezie, a stilare il bilancio dell’ennesima avventura. Come speravo, le cose alla fine si sono concluse bene, anche se questa volta me la sono vista davvero brutta. Adesso sono qui, in casa mia, al caldo e al sicuro, ma mi sto già annoiando, e sto programmando il mio prossimo viaggio, forse in Asia, forse in America, forse in Africa. Di sicuro non in Turchia, dopo tutto quello che mi è successo, prima e dopo il ricovero in ospedale; sì, perché, anche da guarito, ripartire verso casa è stata un’altra impresa. Ma andiamo con ordine.
Sono
stato dimesso dall’ospedale sabato stesso, nel primo pomeriggio, dopo che il
medico mi ha dato una ricetta con alcune medicine da prendere nei giorni
successivi, e mi ha anche ordinato di mangiare sebbene il solo pensiero del cibo
mi desse la nausea. Il dottore è stato anche tanto gentile da chiamarmi un taxi
che mi riportasse in ostello, ma non l’ho mai preso perché altri problemi si
sono presentati ancora prima di varcare la soglia verso la libertà. La
segretaria dell’ospedale, una ragazza bruna molto affascinante, mi ha
trattenuto dicendomi che non potevo andare finché la mia assicurazione non
avesse pagato il conto. Sul momento sembrava una cosa da poco, ma mi sono
ritrovato a dover aspettare sul divano della hall per quasi due ore, poiché
dall’Italia tutto era bloccato. Ancora debilitato, ho dovuto telefonare io
stesso all’agenzia per sollecitare lo sblocco della situazione, altrimenti
sarei rimasto lì chissà quanto (e per fortuna avevo ancora un po’ di carica
nella batteria del cellulare).
Chiaramente
il tassista non aveva aspettato tutto questo tempo, così sono dovuto uscire a
piedi, in camicione e pantofole, a cercare una farmacia dove comprare le
medicine; poi, per fortuna, è arrivato un altro taxi dal quale mi sono fatto
portare in ostello.
Qui
sono dovuto rimanere due giorni (sabato e domenica), e non avendo nemmeno la
forza di camminare ho fatto una vita da recluso: un po’ chiacchieravo con gli
altri ospiti, un po’ leggevo, un po’ mandavo e-mail dalla connessione
Internet della hall (l’unica cosa che funzionasse bene); un po’ cercavo di
buttar giù qualcosa da mangiare contro il senso di nausea ancora fortissimo. La
sola vista del cibo mi faceva star male, ma sapevo di dover recuperare le forze
e quindi ogni tanto chiedevo un piatto riso in bianco, o qualche patata lessa.
Avevo anche paura di riammalarmi: non sapevo (e non ho mai capito) quale fosse
stata la sorgente dei batteri che avevo preso, e quindi non mi fidavo di nessun
alimento.
Trascorso
un week-end da vecchietto all’ospizio, col rammarico di non aver visto tutto
ciò che avevo in programma, venne il giorno della partenza. Stavo meglio, ma
non ero certo guarito: mi sentivo ancora debole, e riuscivo a mangiare molto
poco. Ero contento di tornare a casa, ma sapevo anche che quello che avevo
davanti sarebbe stato uno dei giorni più lunghi. Il mio aereo partiva infatti
dal piccolo aeroporto di Sabiha, situato addirittura fuori Istanbul, in un paese
a più di 40 km dal centro, sulla sponda asiatica.
L’unico
pullman giornaliero che raggiunge Sabiha dal centro parte alle 23, orario per me
inutile visto che il mio volo partiva alle 20. A questo punto mi restavano due
scelte: taxi oppure mezzi pubblici. Il primo sarebbe stato sicuramente più
comodo, ma anche terribilmente costoso. Non volevo prelevare altri dollari per
poi cambiarli, e poi mi sentivo abbastanza in forze da raggiungere l’aeroporto
da solo, con calma. Ho sempre odiato i taxi, e il mio istinto di conservazione
del denaro (che, poco o tanto che sia, mi guadagno lavorando), mi ha spinto a
usare i mezzi. Avevo tutto il giorno a disposizione, così potevo prendermela
comoda e fare un pezzetto alla volta.
Prendere
il tram fino all’imbarcadero e quindi il traghetto fino alla sponda asiatica
è stato facile. Lì mi sono ritrovato in una grande piazza, dove mi sono seduto
su una panchina a riflettere. Sapevo che c’era un treno diretto a Pendik, il
paese dove si trova l’aeroporto; ma la stazione era lontana, troppo lontana
per raggiungerla a piedi sotto il sole di mezzogiorno. Mentre riflettevo
mangiando alcuni biscotti secchi, vedo passare un pullman di linea con
destinazione Pendik, e ho pensato che fosse un’ottima alternativa. Così mi
metto in coda alla fermata, e quando arriva il successivo salgo a spintoni tra
la calca, ma l’autista mi fa scendere indicandomi il chiosco dei biglietti. Mi
rifaccio largo nella ressa, questa volta per scendere, poi mi rimetto in coda
alla biglietteria: ma quando arriva il mio turno, l’addetto non ne vuole
sapere. “Pendik! Pendik!” gli grido, indicando l’autobus fermo, ma quello
continua a scuotere la testa. Eppure era questo l’ufficio indicatomi
dall’autista! Mi guardo intorno per vedere se ci sono altre biglietterie, ma
non ne vedo, così devo rinunciare. Sono un po’ scocciato, ma non sorpreso:
per esperienza so che comprare un biglietto dell’autobus in molti paesi è
sempre una prova molto difficile, anche se non ne ho mai capito il motivo.
Comunque non ho scelta: pian piano mi incammino verso la stazione, quando passo
accanto a una fermata di dolmus (l’equivalente turco dei mashrutka), tutti con
un cartello con scritto “Pendik” e in partenza a getto continuo. Colgo
l’occasione al volo: salto sul primo della fila e allungo delle monete al
conducente (come si fa di solito), dicendogli il nome dell’aeroporto.
L’uomo, però, non sembra molto sveglio e non capisce cosa voglio,
restituendomi i soldi. Per fortuna un altro passeggero, un ragazzo che parla
inglese, viene ad aiutarmi. Spiega all’autista dove devo andare, poi mi fa
sedere accanto a lui e mi scrive su un pezzo di carta il nome della
destinazione. Si chiama Karim ed è uno studente universitario all’ultimo
anno; per mia fortuna si sta laureando in inglese così possiamo chiacchierare
un po’.
Il
mio nuovo amico scende poco dopo, ma io ormai mi sento tranquillo, pensando che
la parte difficile del percorso sia già alle mie spalle. Sono su un mezzo
diretto al paese dove si trova l’aeroporto, quindi non dovrebbero esserci più
intoppi… Quanto mi sbagliavo! Il pulmino, infatti, procede molto a rilento nel
traffico caotico di una città che sembra non finire mai. Per oltre un’ora
attraversiamo una periferia infinita, tutta uguale a sé stessa, con incroci
intasati, casermoni popolari, negozietti scalcinati, e sembra quasi di girare a
vuoto nel traffico, senza arrivare mai da nessuna parte. La guida
dell’autista, poi, peggiora la situazione: le continue accelerazioni e
frenate, gli scossoni, i bruschi spostamenti di corsia mettono il mio già
tormentato stomaco a dura prova, tanto che ho paura di sentirmi di nuovo male.
Quando finalmente arriviamo a Pendik, dopo quasi due ore di tortura, esco
stremato dal dolmus e mi siedo in terra, appoggiato ad una parete, con lo
stomaco sconvolto. Resto lì seduto per una mezz’ora buona, mentre intorno a
me gli avventori delle autolinee mi passano intorno continuamente, senza
degnarmi di uno sguardo. Immagino di essere pallidissimo e di avere un’aria
sconvolta, e nessuno sembra accorgersi di me… ma forse è meglio così.
Sto
cominciando ad odiare la Turchia, e non vedo l’ora di andarmene. Rimane
l’ultima tappa: raggiungere l’aeroporto dalla stazione delle autolinee.
Mostro in giro il mio foglietto finché un tizio dall’aria gentile, con
indosso il berretto caratteristico di molti turchi, mi dice che posso prendere
un autobus oppure mi porta lui col suo taxi. Sono stremato, così accetto il
taxi ma lui capisce “autobus” e mi infila su un mezzo in procinto di
partire, quasi spingendomi sopra per paura che lo perda. Ormai sono sopra, e mi
devo adattare. L’autobus, però, mi fa rimpiangere il dolmus: è pieno
all’inverosimile, tanto che devo restare in piedi, schiacciato contro il
finestrino, mentre i passeggeri aumentano sempre di più. Io prego che ogni
fermata sia quella buona, che dietro alla prossima casa spunti una pista
d’atterraggio, con una torre di controllo. E, invece, niente: il pulmino
continua ad accelerare e frenare, a fermarsi e ripartire, e dopo ogni sosta
continua a salire gente, gente, gente anche se ormai non ci sta più nessuno,
anche se l’ultimo salito è rimasto aggrappato (da fuori) alla maniglia del
portellone perché questo non si chiude più… eppure continuano a salire, ed
essendo io vicino all’autista molte persone mi allungano i soldi della corsa
dicendomi la loro destinazione affinché io la ripeta al guidatore… a questo
punto non posso fare altro che prenderla con filosofia e mettermi a ridere! Solo
io potevo cacciarmi in una situazione simile, quando avrei potuto prendere un
taxi fin dall’inizio e risparmiarmi tutta questa tortura! D’altra parte,
come potevo pensare che raggiungere un aeroporto internazionale di una metropoli
come Istanbul fosse tanto difficile!
Finalmente l’autobus comincia a svuotarsi, un po’ alla volta, mentre raggiunge la periferia di questo paese periferico. Dopo un’altra ora buona di sballottamenti finalmente riesco a sedermi: dell’aeroporto, però, ancora nessuna traccia. Fino a quando, arrivati ad una grande rotatoria, ecco il gran finale che incornicia degnamente una giornata perfetta: l’autista fa tre quarti di giro introno alla rotonda, poi mi indica una superstrada ed un cartello che segnala l’aeroporto a 1 km. Non mi resta che scendere e… andare a piedi!!!!
Mentre
attraverso a piedi la corsia di accelerazione e trovo rifugio nel prato in parte
alla superstrada, guardo l’autobus allontanarsi e comincio a maledire i turchi
e tutta la Turchia per la loro inettitudine: non potevano dirmelo prima che
l’autobus non arrivava all’aeroporto? Sembrava a tutti così ovvio
scaricarmi in mezzo all’autostrada e farmi proseguire a piedi, sotto il sole,
con lo zaino pesante e il mal di stomaco? Possibile che siano tutti così
stupidi?
Sconsolato,
guardo se per caso, nei paraggi, passa qualche altro taxi, o almeno qualche auto
cui chiedere un passaggio, ma invano. Sembra di essere nel deserto. Così mi
incammino lungo la superstrada, stanco e rassegnato, incerto se sentirmi più
arrabbiato o divertito. Ad un certo punto passa un camion: chiedo un passaggio,
e il ragazzone alla guida si ferma e mi fa salire; purtroppo, però, non va
all’aeroporto, ma uscirà alla prossima uscita della superstrada: va beh,
meglio che niente. Mi porta per un mezzo chilometro, poi mi lascia scendere e
riparto per l’aeroporto. Non vi racconto la faccia del poliziotto di guardia
che mi vede arrivare a piedi, stanco e sudato, con lo zaino in spalla, lungo
l’autostrada…
Alla
fine, eccola qui la mia Turchia. Fatta da gente semplice, per la maggior parte
gentile e disponibile, ma anche (e mi dispiace dirlo) decisamente stupida.
Certo, la cosa non vale per tutti, ma i molti che lo sono stati mi hanno creato
davvero forti disagi. E’ anche vero che un po’ me la sono andata a cercare;
ma ho viaggiato da solo, all’avventura, per tre continenti e soltanto in
Turchia ho incontrato tante difficoltà, senza poi contare la malattia. Mi
dispiace, nonostante tutto sono convinto che Istanbul sia un luogo magico, che
ti strega e che ti lascia qualcosa che non trovi da nessun’altra parte del
mondo; e consiglierò di andarci a tutti gli amici e a tutti i viaggiatori che
incontrerò. Ma, per quanto mi riguarda, con quel paese ho chiuso.
In fondo ormai tutto ciò è passato, ed è già ora di pensare ad un nuovo viaggio.
Massimiliano Gallina
professore@nobiltarossoblu.com