B O L I V I A
Racconto di viaggio 2006
Quelli che come me hanno avuto la fortuna di visitare il Nicaragua, non potranno non amare la Bolivia, che si presenta al viaggiatore
senza fronzoli né comodità, senza alcuna concessione al turismo dei gruppi
organizzati e del tutto compreso.
Questo è un paese difficile, sia per l’altitudine che
sugli altipiani andini non scende quasi mai sotto i tremila metri, sia per il
freddo che nella zona desertica del salar de Uyuni e del deserto di Soliloi
(l’omologo del vicino Atacama cileno), tocca dopo il tramonto i 30 gradi sotto
lo zero.
Una volta acclimatati però, si rimane letteralmente
affascinati dalla bellezza dei paesaggi di una natura estrema, ma soprattutto
dalla sincera umanità di un popolo
ancora puro, che, pur vivendo in
uno dei paesi più poveri dell’America Latina, è capace ancora di sorridere
con gli occhi.
Siamo partiti in tre, io, mia moglie Paola e Tommaso che ha più viaggi che anni, avendo cominciato nella pancia della mamma in Guatemala dieci anni fa, al solito senza fare prenotazioni e solo con una idea di massima dell’itinerario che avremmo percorso.
Questa volta, però siamo partiti senza neanche il biglietto aereo sicuro…
Raggiungere la Bolivia con un budget abbastanza limitato, infatti non è facile.
Siamo arrivati a Madrid con un volo low cost (MyAir) e da lì, il giorno seguente abbiamo raggiunto Lima con la LAN. Lì finivano le nostre certezze, infatti la ricerca dall’Italia di un volo per La Paz si scontrava inesorabilmente contro il muro del costo eccessivo, ma con una buona dose di ottimismo seguendo il principio che una volta sul posto la soluzione si trova sempre, siamo usciti dalla zona arrivi e siamo subito rientrati nell’atrio delle partenze dell’aeroporto “Jorge Chavez” di Lima.
Un’ora dopo eravamo già in volo con la TACA, verso La Paz che abbiamo raggiunto in serata.
L’aeroporto “El Alto” fa fede al suo nome essendo, a 4050 m, lo scalo internazionale più elevato al mondo , dove gli aerei, a causa dell’aria più rarefatta, necessitano di un maggiore spazio di frenata e conseguentemente di pneumatici speciali, ma noi l’impatto più duro l’abbiamo avuto una volta scesi.
Un leggero senso di stordimento accompagnato dalla sensazione di oppressione al petto ci ha subito fatto comprendere che il soroche, il mal d’altitudine, non sarebbe stato solo un fastidio come già riscontrato per esempio a Quito, ma ci avrebbe imposto ritmi e comportamenti diversi dal solito…
Fatti pochi passi si sentiva già la stanchezza e la mancanza d’ossigeno che tutti conosciamo dopo aver fatto alcune rampe di scale di corsa, ma noi eravamo solo in coda alla dogana…
Una volta usciti, a tutto ciò si è aggiunto il freddo pungente della notte invernale andina, che ci ha consigliato la precipitosa apertura dello zaino alla ricerca delle giacche da neve e dei cappelli di lana. Era il 13 giugno.
Subito su un taxi, abbiamo percorso la lunga superstrada in discesa che raggiunge il centro città, cinquecento metri più in basso. La Paz infatti sorge lungo un canalone e la parte centrale è rappresentata dal fondo di questo, dove il clima è più mite. Orientarsi è quindi abbastanza facile, per il centro basterà andare sempre in discesa…
Abbiamo trovato subito la sistemazione per la notte all’Hostal “Tambo de Oro”, vicinissimo alla stazione centrale dei bus (e per questo molto comodo per gli spostamenti), dove si possono trovare gli uffici per la prenotazione dei viaggi, internet veloce, caffè e ristorantini oltre a negozietti di vario genere. Il centro città è a circa 10 minuti di cammino. Il prezzo per una tripla con bagno ed acqua calda è stato di 15 dollari a notte.
Nel prenotare gli hotels, è essenziale accertarsi della effettiva presenza dell’acqua calda che, negli alberghi che abbiamo utilizzato, in genere è prodotta da piccoli scaldaacqua elettrici posti sopra la doccia. Spesso bisogna accontentarsi di acqua appena tiepida o di erogazione solo in certi orari. L’esperienza di rimanere insaponati senza più acqua calda, come ci è capitato in un paio di occasioni, non è certo raccomandabile quando fuori la temperatura è sottozero ed in camera è solo di poco superiore… provare per credere!
La prima notte, oltre alle difficoltà legate alla differenza del fuso orario, abbiamo sofferto il freddo nonostante le cinque coperte il cui peso dava una sensazione di oppressione, acuita dalla mancanza di ossigeno che imponeva spesso di annaspare cercando aria con profondi respiri.
Ovviamente l’abbiamo passata quasi in bianco rigirandosi tra le lenzuola o in un esasperante dormiveglia.
L’unico che è riuscito a dormire beatamente è stato proprio Tommaso, che durante tutto il viaggio ha risentito poco o nulla dell’altitudine e del freddo, e non ha mai smesso di cercare animali e di fare domande anche quando noi boccheggiavamo sotto il peso di due zainetti…
Avevamo già riscontrato in altre occasioni come nostro figlio si adatti agevolmente all’altitudine, deve essere proprio vero che i bambini hanno delle risorse inaspettate che noi abbiamo sopito in anni di vita sedentaria.
La Paz merita qualche giorno di sosta, sia per abituarsi al clima, sia per alcuni luoghi interessanti in città e nei dintorni, raggiungibili facilmente con minibus o taxi.
E’ piacevole e comodo girare in centro a piedi perché è abbastanza circoscritto e si possono vedere un sacco di cose interessanti come ad esempio Plaza San Francisco con la bella chiesa barocca, sempre frequentata a tutte le ore, dove si possono incontrare grandi capannelli di persone che ascoltano i cantastorie recitare in modo teatrale i loro racconti catturando così per ore l’attenzione di un folto pubblico attentissimo e partecipante.
Oltre ai venditori ambulanti di cibo e bevande di vario genere, le indie con le ampie gonne coloratissime ed in testa la tipica bombetta, si ritrovano in una zona della piazza, gli indovini che riescono a “leggere” il futuro nei modi più disparati, dall’uovo nella birra allo stagno fuso e rappreso nell’acqua fredda, fino ai più classici fondi di caffé. Tutto questo non è assolutamente fatto ad uso turistico, ma è utilizzato dai boliviani stessi.
Anche il vicino “mercato de la hechiceria” , ovvero della stregoneria, non ha quasi nulla di turistico anche se è molto frequentato dai viaggiatori stranieri, che certamente non si porterebbero a casa i feti di lama e i rospi imbalsamati che abbondano tra le bancarelle insieme alle erbe per le pozioni e le statuette di vario genere per i riti, dalla “pachamama”, la madre terra, al giaguaro ecc…
Affrontando la salita di calle Sagàrnaga, di fianco alla chiesa, si scopre una serie di viuzze intricate dove sorgono diversi hotel economici, piene di negozietti dove si può trovare di tutto, dalla pesante pasticceria boliviana ai cambiavalute, ai CD masterizzati e all’artigianato che abbonda di capi di lana in alpaca di varia qualità, ma tutti abbastanza belli e fatti a mano che si possono acquistare con pochi soldi. Camminando ancora in salita, si arriva al “mercado negro” dove, tra una miriade di bancarelle piene di merci di ogni tipo, spesso ostentate imitazioni di prodotti di marca, si possono trovare le venditrici di foglie di coca.
A proposito di ciò, è necessario chiarire che la coca in foglie non è di per se una droga (infatti la cocaina si ottiene dalla lavorazione di queste foglie con l’aggiunta di sostanze chimiche) e viene utilizzata comunemente per fare un infuso, il mate di coca, ottimo rimedio contro l’affaticamento, il raffreddore ed il mal di testa da altitudine. Le foglie vengono anche masticate dai locali, in modo da estrarne il succo, ma il loro sapore è molto amaro e lontano dai nostri gusti.
Ho portato in Italia una confezione di foglie di coca, che utilizzo a volte per fare una tisana corroborante dopo una giornata di lavoro, ma quando provo ad offrirla a qualcuno, vengo guardato con sospetto, come se proponessi chissà che di proibito, ma non saremo noi occidentali che riusciamo ad ottenere spesso il peggio da qualunque cosa?
Proseguendo la passeggiata a piedi per il centro di La Paz, si può arrivare fino a Plaza Murillo con la Cattedrale, il palazzo presidenziale e quello del Parlamento. Nel corso della sua storia questa piazza è stata teatro di molte violente manifestazioni ed esecuzioni a furor di popolo di governanti e di qualche presidente. Anche quando l’abbiamo visitata noi, era in corso una manifestazione per fortuna pacifica, ma l’abbigliamento (e l’armamento) della polizia antisommossa era impressionante anche se l’atteggiamento era cordiale, tanto che Tommaso è riuscito ad intenerire un gruppo di poliziotti facendo loro prender in braccio un gattino trovato per strada.
Altri luoghi interessanti, sempre in centro, sono le belle chiese coloniali, i musei d’arte e cultura precolombiana nonché quello tutto dedicato alla coca. Anche il carcere di San Pedro si può visitare, ma solo da fuori, non all’interno con i detenuti che fanno da guida come invece sostiene la guida LP, evidentemente da aggiornare. I carcerati si accalcano al cancello di entrata per parlare con i familiari all’esterno ed è possibile perciò comunicare con loro in questo modo, anche se le guardie armate non tollerano molto la presenza di stranieri.
In generale La Paz è piacevolmente vivibile a tutte le ore, camminando per le strade del centro sempre affollate o esplorando i tanti mercati dove vecchie indie vendono pane e dolci fatti in casa o strani frutti dolcissimi (i chirimoja), mai visti prima.
Per muoversi è abbastanza facile utilizzare i minibus (i micros) che gridano a più non posso la loro destinazione o gli economici taxi, con i quali però è sempre consigliabile stabilire la tariffa prima della partenza.
Abbiamo fatto, nei pochi giorni di permanenza in città, due escursioni nei dintorni, entrambe interessanti: a sud la Valle della Luna e a nord, il sito archeologico di Tiahuanaco.
La Valle della Luna è raggiungibile in taxi e per pochi bolivianos in più ci si può accordare con l’autista per farsi aspettare un’ora e tornare indietro dopo la visita del posto, uno strano labirinto di calanchi e pinnacoli che ricordano molto un paesaggio lunare. Ci sono dei percorsi ben segnalati che permettono di fare un giro breve o lungo toccando i punti con la vista panoramica migliore.
Si incontrano facilmente indios di varie etnie che propongono senza troppa insistenza, l’acquisto dei loro manufatti artigianali o che suonano il flauto, con i quali si può fare tranquillamente una chiacchierata. Abbiamo così conosciuto Juan, l’”uomo condor”, per il fatto che nelle rappresentazioni tradizionali indossa il costume e interpreta questo uccello e forse anche per l’importanza del suo naso!
Per raggiungere Tiahauanaco, che dista circa 40 chilometri dalla città, è invece necessario prendere un micro in partenza dalla zona del cimitero che arriva a destinazione dopo un’ora circa di viaggio. E’ bene arrivare presto, prima delle nove, in quanto le corse non sono molto frequenti e il posto merita una lunga visita. Questo è un sito archeologico le cui origini e storia sono ancora avvolti nel mistero. Le rovine pare risalgano al 600 a.C. e costituiscono uno dei siti più grandi risalenti alla civiltà preincaica del sudamerica. Nonostante i numerosi saccheggi che hanno disperso monili e suppellettili senza che ormai si possa ricostruire completamente la sua storia, il luogo rimane affascinante, così disperso in mezzo ad un brullo altipiano nei pressi del paesino di Tiahuanaco da cui prende il nome e che sembra un villaggio del far west.
Notevoli sono le mura adornate di teste scolpite, il monolito centrale e la grande “puerta del Sol” con il calendario in bassorilievo. Poco distante si può vedere anche una “puerta de la Luna” che fa da cornice ad un cielo azzurrissimo.
Gli scavi sono ancora in corso e dalla terra sta tornando alla luce una grande costruzione di pietra ancora in parte ricoperta da una collina.
Girando tra le rovine abbiamo visto il nostro primo lama in libertà che abbiamo seguito per un po’ tra i cespugli. Nel corso del viaggio, lama, alpaca e vigogne diventeranno per noi molto comuni.
Dopo il pranzo consumato in un localino nei pressi dell’ingresso, nel pomeriggio siamo ritornati a La Paz in bus, per trascorrere l’ultima notte in città prima di partire per il lago Titicaca e l’isla del Sol.
Il mattino seguente, dal vicino terminal abbiamo preso il bus per Copacabana, la più importante cittadina boliviana, sulle rive del lago più alto del mondo, a pochi chilometri dal confine con il Perù.
Durante il tragitto in autobus abbiamo potuto fare la conoscenza di un grande viaggiatore, Franco di Cagliari, insegnante in pensione che da anni percorre in lungo e in largo i paesi dell’America latina alla ricerca di tutte le espressioni artistiche, che lo interessano in modo particolare. Dal nostro rientro dalla Bolivia, ci ha mandato già diverse email, dal Nicaragua, dall’Argentina e dal Cile.
Quando la strada ha cominciato a costeggiare il lago, abbiamo potuto vedere i primi notevoli panorami delle sue sponde e, dopo aver attraversato l’istmo di Tiquina tra San Pablo e San Pedro per mezzo di alcuni barconi che hanno trasportato anche il bus, siamo finalmente arrivati a Copacabana, dove, salutato Franco che proseguiva per il Perù, ci siamo sistemati all’hotel “Brisas del Titicaca”, direttamente sulla piccola spiaggia, con le finestre delle camere che permettevano godere dei bellissimi tramonti sul lago. Il prezzo della stanza per tre, con bagno e teoricamente agua caliente, è stato di 120 bolivianos (circa 14 dollari) che sarebbe stato quasi una costante per tutto il resto del viaggio.
Abbiamo così trascorso un paio di giorni facendo escursioni nei dintorni, fino alla punta estrema di Yampupata, salendo sul Cerro Calvario da cui si domina il paese e si hanno splendide vedute del lago che sembra infinito e della Cordillera Real con le cime già innevate o passeggiando tranquillamente per le stradine di Copacabana, che abbiamo trovato però troppo turistica, almeno per gli standard boliviani, molto frequentata com’è da “fricchettoni”prevalentemente nordamericani con le solite bancarelle di collanine e ciondoli un po’ demodè.
Simpatica invece la cerimonia, che si svolge ogni giorno sul sagrato della candida cattedrale ornata di azulejos, dove le nuove automobili portate lì dai proprietari pulitissime e addobbate di fiori, vengono prima benedette e poi più laicamente “annaffiate” di birra e di rum come augurio di buona fortuna. Visto lo stato generale delle strade e i ripidi tornanti lungo le montagne, direi che questa usanza non è proprio campata per aria. Tra l’altro, in Bolivia c’è la cosiddetta strada più pericolosa del mondo, che va da La Paz a Coroico con una serie di ripidi tornanti a strapiombo lungo le pendici della cordigliera, senza alcuna protezione e con una carreggiata molto stretta. Gli autisti dei micros fanno offerte votive agli antenati prima di affrontarla in modo da ottenerne la loro protezione. Nonostante i frequenti, gravissimi incidenti, anche questa è considerata un’attrazione turistica e qualcuno l’affronta anche in bicicletta.
Proseguendo il nostro viaggio, la mattina del 17 giugno abbiamo preso un barcone ed abbiamo raggiunto l’Isla del Sol, la più grande del lago Titicaca.
Molti viaggiatori raggiungono questa isola facendo un’escursione da Copacabana con rientro in serata, perdendosi così il meglio, cioè la vita ferma al secolo scorso nel villaggio di Yumani senza elettricità, il rientro dei pastori la sera, gli stupefacenti tramonti sull’immenso lago e i percorsi lungo il crinale dell’isola che permettono di ammirare stupendi panorami di entrambi i lati e di raggiungere a nord gli insediamenti più belli, come il labirinto e il tempio del sole.
Appena sbarcati abbiamo dovuto affrontare, con tutte le borse in spalla, la “scalera dell’inca”, una ripida scalinata che si inerpica fino al villaggio di Yumani posto sulla sommità di un monte. La mancanza di ossigeno, data l’altitudine di oltre 4000 metri e il peso degli zaini, ci hanno costretto a frequenti soste, trasformando il breve tragitto di poche centinaia di metri, in una sorta di via crucis, tra le esperienze più faticose mai fatte fino ad allora.
Come ho già potuto constatare in altre circostanze, come sul lago Atitlan in Guatemala ad esempio, le popolazioni indigene, poco inclini alla navigazione e più propense alla vita campesina, tendono, anche vivendo in prossimità dell’acqua, a distanziarsene il più possibile, costruendo i villaggi lontano dalla riva, possibilmente su di un’altura. Infatti, nessuna delle civiltà precolombiane (Maya, Aztechi, Incas) è passata alla storia della navigazione…
Siamo rimasti sull’isola ben tre giorni, durante i quali abbiamo alloggiato, unici ospiti, all’hostal Inka Paca (prezzo i soliti 14 dollari a notte). La sera venivamo letteralmente chiusi all’interno da Sandra, l’unica cameriera tuttofare che, abitando nel villaggio, tornava il giorno successivo per prepararci la colazione. Addirittura una mattina, essendo lei in ritardo mentre noi avevamo appuntamento molto presto con un barcaiolo, siamo dovuti “evadere” calandoci da una finestra. Devo riconoscere che trovarsi da soli in un hotel senza luce elettrica in un villaggio buio ad oltre 4000 metri sul lago più alto del mondo, può essere una esperienza inquietante e il pensiero correva di notte alle immagini del film Shining, mentre prima di addormentarmi rimanevo attento al più piccolo scricchiolio…
Comunque, siamo rimasti vivi ed abbiamo potuto così effettuare tutti i percorsi lungo i sentieri fino al villaggio di Challapampa, con i grandi insediamenti archeologici del Labirinto e Templo del Sol, che abbiamo visitato in completa solitudine facendo un trekking di oltre otto chilometri, piaciuto anche al nostro Tommy, di solito poco incline alle lunghe camminate.
Un’altra bellissima escursione l’abbiamo effettuata di mattino verso la baia di Kona, dove abbiamo scoperto che un gruppo di ragazzi stava ultimando la costruzione della barca di papiri gemella della Ra II, resa famosa negli anni ottanta dal navigatore norvegese Thor Eyerdhal.
In questa parte del Titicaca non sono così frequenti come sulla sponda peruviana, le comunità di indios che vivono sulle totora, le isole artificiali di papiro relegate ormai solo a curiosità per i turisti, ma il giunco viene comunemente utilizzato per costruire piccole imbarcazioni usate per la pesca sul lago.
Nonostante le serate al lume di candela, i panorami da sballo e le camminate giornaliere, era ormai venuto il momento di lasciare il Titicaca ed affrontare un altro tipo di natura estrema della Bolivia, il deserto di sale.
La mattina del 20 giugno, giorno del mio compleanno, siamo ritornati in barca a Copacabana, raggiungendo poi La Paz in bus fino al terminal, da dove in serata sarebbe partito un altro bus per Uyuni, che abbiamo raggiunto il mattino seguente all’alba.
Credo che ricorderò per un bel pezzo questo viaggio notturno dentro l’autobus affollato, come nella migliore tradizione sudamericana, da uomini, donne e animali, borse, ceste ed enormi fagotti che occupavano all’inverosimile il corridoio centrale, dove come agili anguille, ad ogni fermata sgusciavano venditori di cibi vari, bevande e dolciumi. A tutto questo si deve aggiungere un freddo pungente che faceva gelare sui finestrini il vapore del fiato dei passeggeri, tanto da dover essere grattato via per poter guardare fuori. Praticamente, una notte in bianco, almeno per me, mentre Paola e Tommaso, accucciati ai loro posti e avviluppati in una coperta, sono riusciti a riposare meglio.
Ma il bello doveva ancora arrivare…
Una volta scesi all’arrivo, ci siamo trovati in un paese spettrale, con le polverose strade deserte, spazzate da un vento gelido in mezzo al quale, battendo i denti, rimpiangevamo il relativo tepore del bus e non osavamo neanche pensare che a casa nostra ormai le spiagge erano affollate e si faceva il bagno. Gli unici esseri viventi, alcuni scarni cani randagi, ci guardavano distrattamente mentre, tremanti sul marciapiede, noi disfacevamo le borse alla ricerca di guanti, cappucci e giubbotti.
Abbiamo così capito lo scopo di tutti i fagotti caricati sull’autobus dai nostri compagni di viaggio, ora avvolti, uomini e donne, nelle loro caldissime coperte colorate.
Ma eravamo ad Uyuni, la base di partenza per il viaggio nel deserto di sale più grande del mondo e una calda ed abbondante colazione è bastata a farci tornare il buonumore.
Siamo stati avvicinati da diversi procacciatori di clienti delle sempre più numerose (e sempre meno organizzate) agenzie che offrono la visita dell’immenso salar. La scelta dell’agenzia è fondamentale per la buona riuscita dell’escursione che di solito si prolunga per quattro o cinque giorni, durante i quali bisogna essere del tutto autosufficienti. Basilare è l’efficienza dei mezzi, solitamente grossi fuoristrada Chrysler o Toyota, perché qualsiasi banale guasto potrebbe mettere seriamente a repentaglio la vita dei passeggeri, come pure importante è l’autista-guida che deve essere efficiente e sobrio in quanto i boliviani solitamente bevono molto; in alcuni contratti c’è addirittura scritto che si ha diritto ad un rimborso di parte della quota pagata qualora il conducente si sia ubriacato durante il viaggio (però per ottenere il rimborso bisogna poter tornare…).
Bisogna infine assicurarsi che la cuoca che vi accompagna porti tutte le provviste e le bevande necessarie per il tempo da trascorrere nel deserto.
Tutto questo si accerta però solo durante l’escursione, quindi bisogna affidarsi molto all’impressione iniziale che si ha dell’agenzia, è bene comunque farsi firmare un contratto dove siano specificati chiaramente tutti i luoghi da visitare e i pasti a cui si ha diritto. Vengono formati equipaggi di sei passeggeri per auto, oltre all’autista ed alla cuoca.
Noi ci siamo fidati di una nuova agenzia, la Elisabeth, con ufficio di fianco all'hotel Avenida, lungo la via della stazione ferroviaria, con la quale abbiamo concordato una escursione di quattro giorni, dove avremmo toccato tutti i punti caratteristici del salar, arrivando fino al confine col Cile, con solo un altro passeggero oltre noi tre, un ragazzo coreano molto simpatico Un-Hia, che avremmo lasciato proprio al confine. Il prezzo totale pagato è stato di 360 dollari, compresa la notte all’hotel Sayama, perchè saremmo partiti l’indomani.
Non sto qui a descrivere nei particolari tutte le cose viste durante il nostro itinerario nel salar, perché ritengo impossibile poter dare anche lontanamente un’idea delle profonde emozioni provate, cercherò solamente di raccontare alcuni momenti salienti durante percorso, legati semplicemente a ricordi personali, come la sensazione di infinito, provata in mezzo all’accecante biancore dell’immensa distesa di sale o l’accoglienza avuta la prima sera, nel piccolo pueblo di Coqueza dove siamo stati ospitati da una famiglia di indios in una improvvisata camera senza luce né riscaldamento, di come il pomeriggio seguente ci siamo “persi” sulle pendici del vulcano dove eravamo andati alla ricerca di una grotta e come la guida ci abbia poi recuperati quando era già buio.
Altri momenti importanti sono stati la vista di branchi di vigogne che scappavano all’arrivo della nostra jeep o la fugace visione della viscaccia, una specie di incrocio tra un gatto ed un coniglio che vive nel deserto, di come Paola e l’autista siano andati a recuperare ormai paonazzo e allo stremo delle forze, l’improvvido Un-Hia avventuratosi da solo verso una laguna con indosso soltanto un paio di felpe e di come, dopo un mate di coca con alcuni biscotti, lo stesso li abbia ringraziati con la cerimoniosa cortesia degli orientali.
Ricordo la notte più fredda, nei pressi della laguna Colorada con gli stormi di fenicotteri rosa,
passata dentro il sacco a pelo sotto molte coperte, con -30 gradi all’esterno e ben… 2 gradi nella nostra stanza, della levataccia alle quattro del mattino per andare a vedere un geyser a quasi 5000 metri di altitudine, della notte di san Giovanni, passata proprio nel villaggio San Juan del Rosario, con i fuochi accesi agli incroci delle strade e con la processione guidata da una improvvisata banda musicale culminata in piazza con balli e grandi bevute.
Ricordo il tragitto nel deserto di Soliloi, con le pietre affioranti dalla sabbia come nei quadri di Salvador Dalì, del cartello al confine col Cile che diceva “Esta es mi Tierra, bievenidos in Bolivia”, del villaggio di Villamar, ovviamente senza il mar, dell’ultima cena di sola zuppa, perché la cuoca si era mangiata il resto e del ritorno infine, ad Uyuni passando dal “Cementerio de trenes”, che raccoglie le rugginose carcasse delle locomotive che hanno fatto la storia ferroviaria boliviana.
Dopo quattro giorni in viaggio attraverso deserti di sale e di sabbia, i pasti consumati all’aperto e le notti passate in sperduti villaggi di pastori, eravamo quindi tornati alla “civiltà” con la sensazione di aver superato una prova e con il ricordo di immagini uniche al mondo che neanche la perfezione della memoria digitale riuscirà a trasmettere ad altri.
Avevamo ancora molte strade da percorrere prima della fine del nostro viaggio, quindi eccoci, alle due di notte, in partenza per Potosì, la città più elevata al mondo con i suoi 4100 metri.
Questa volta il viaggio notturno in autobus è stato “allietato” anche dall’acqua di una bottiglietta incautamente chiusa male da Tommaso, versatasi sul mio sedile, che mi ha permesso di trascorrere la notte insonne ancora più “al fresco” del solito…
Ma, a parte i piccoli contrattempi, la mattina del 26 giugno ci trova a Potosì, la città mineraria dell’argento, “il tesoro del mondo, l’invidia dei re”.
Il Cerro Rico che la sovrasta è un gigantesco formicaio di gallerie della grande miniera d’argento, depredata dagli spagnoli che la occuparono alla fine del XVI secolo e ormai quasi esaurita, ma che non smette ancora di regalare cancro e silicosi ai minatori che vi lavorano oggi con turni massacranti ed in condizioni precarie di sicurezza.
Nelle piazze della città molti di essi si ritrovano, ormai inabili perché colpiti da gravi malattie respiratorie dopo pochi anni di lavoro, a passare il tempo masticando coca e tossendo in continuazione.
La permanenza in questa bella città coloniale ancora in grado di mostrare tutta la ricchezza di cui ha goduto nel tempo passato, si è caratterizzata in due momenti importanti, la visita della “Casa Nacional de Moneda”, ovvero la zecca, attiva fino alla prima metà del 900 dove venivano coniate le monete dell’impero spagnolo prima e della repubblica boliviana poi, e la toccante visita all’interno delle miniere dove abbiamo potuto condividere, almeno per un brevissimo periodo, la fatica ed i pericoli a cui sono sottoposti ogni giorno i lavoratori.
Abbiamo alloggiato all’hostal Santa Maria, nei pressi del centro, per i soliti 120 bolivianos a notte.
La visita alla zecca è stata molto interessante per me, che mi diletto di numismatica, nel vedere tutti gli antichi procedimenti che portavano alla coniazione delle monete metalliche e anche per Tommaso che alla fine ha potuto coniarne lui stesso una, battendo con la mazza un conio a mano e ricevendone in premio la moneta che a suo dire lo ha fatto sentire “ormai un vero bancario”.
Tutt’altro impatto emotivo ha avuto invece la visita della miniera del Cerro Rico.
Ci siamo rivolti per questo all’agenzia “South American”, di fronte alla Casa de la Moneda, dove lavora Cristian, una guida che parla anche un po’ di italiano, che conosce molto bene la miniera ed i minatori.
Per prima cosa abbiamo comperato dei piccoli regali, cioè foglie di coca, rum e sigarette, da offrire una volta all’interno, a quelli a cui avremmo intralciato il lavoro con la nostra presenza. Abbiamo comprato anche della dinamite, in candelotti con la miccia come nei cartoni animati, liberamente in vendita al mercato.
Successivamente ci siamo dovuti vestire con una tuta ed indossare stivali di gomma nonché l’indispensabile casco di sicurezza (quante testate abbiamo dato nelle basse volte dei cunicoli!) con la lampada, per noi elettrica a differenza di quella “vera” ad acetilene.
Ed ecco, poco oltre l’ingresso del cunicolo principale che ci portava all’interno del monte con la luce sempre più fioca, dentro i meandri della miniera dove si sentiva già lo sferragliare dei carrelli che portavano fuori il minerale estratto, davanti all’incessante spingere delle carriole di detriti, davanti al ritmico martellare della roccia, davanti a ragazzi poco più che bambini e ad adulti invecchiati troppo presto, il gioco è finito, con la consapevolezza di essere al cospetto di esseri umani che lavorano oltre dodici ore al giorno col solo sollievo delle foglie di coca da masticare in continuazione, giorno dopo giorno, anno per anno con la certezza di ammalarsi, svolgendo questo durissimo lavoro per poco meno di 70 euro al mese che permette loro, solo di sopravvivere. Ogni giorno il turno finisce con una visita al “Tio”, figura della mitologia andina che domina sul mondo sotterraneo, scolpito nella profondità dei cunicoli, che protegge i minatori che lo ringraziano per il fatto di essere ancora vivi, in attesa del rituale di ogni venerdì sera, quando gli portano in offerta rum, coca e tabacco durante la festa che si prolunga nella notte fino al completo stordimento bevendo tragos, alcool quasi puro a 96°, quasi per poter dimenticare per un po’ che il lunedì successivo riprenderà, ancora una volta, il solito lavoro…
Mentre da qualche parte, vicino a noi, scoppiavano alcune cariche di dinamite riempiendo l’aria delle gallerie di polvere e dell’odore di cordite, abbiamo potuto parlare con qualche minatore, dare loro i nostri regali, che hanno accettato con timidi ringraziamenti, e pagato volentieri per una foto ricordo.
Dopo aver percorso ancora parecchie gallerie nei vari livelli del sottosuolo, l’aria più fresca e un flebile chiarore ci annunciava che eravamo nei pressi dell’uscita e dopo qualche minuto, noi, eravamo fuori...
Siamo rimasti tutti piuttosto scossi da questa esperienza, Tommaso ci ha fatto molte domande sul lavoro nelle miniere, ma come spiegare ad un ragazzino di dieci anni i problemi di quelle persone?
Spero vivamente che questo ricordo un giorno possa riemergere in lui e lo aiuti a comprendere meglio il mondo in cui vive e lo spinga verso un maggior senso di solidarietà per i suoi simili.
Era giunto però il tempo di muoversi ancora, i giorni a nostra disposizione erano ormai rimasti pochi, per cui abbiamo dovuto fare delle scelte, decidendo di proseguire verso nord con una veloce sosta a Sucre, per proseguire verso la zona amazzonica e ritornare infine a La Paz per il volo di rientro. In questo modo, a malincuore abbiamo dovuto rinunciare ad andare fino a Vallegrande e La Higuera, i luoghi della morte di Che Guevara e alla zona delle missioni gesuite nell’estrema parte orientale del paese.
Quando si progetta un viaggio come i nostri, organizzato autonomamente con un budget abbastanza limitato e della durata di non più di tre/quattro settimane, inizialmente si lasciano aperte molte possibilità di movimento, poi una volta sul posto, spesso si è costretti a ridurre l’ampiezza del percorso, sia per difficoltà o lentezza dei trasporti o a condizioni sfavorevoli e prezzi troppo alti, ma soprattutto per non ridurre il viaggio ad un “mordi e fuggi” superficiale come fanno i gruppi organizzati in corriera.
A Sucre siamo rimasti poco più di un giorno (Hotel Veracruz, 120 bolivianos), apprezzando la piacevolezza del grande Parque Central con la Casa de la Libertad dove venne firmata l’indipendenza della Bolivia, i ritratti di Bolivar e Sucre, le passeggiate per le vie del centro con le splendide abitazioni coloniali ben conservate, fino alla parete di roccia con le impronte fossili di dinosauri, che si trova in un cementificio!
Siamo stati anche al Convento di Santa Teresa, dove abbiamo incontrato, attraverso la ruota, le invisibili suore di clausura, contente di poter parlare con noi che venivamo dalla “tierra donde vive el Santo Padre”, e che alla fine hanno regalato a Tommaso biscotti e ritagli di ostie…
Il 30 giugno, scendendo dal piccolo aereo della compagnia interna Aerocon, siamo giunti a Trinidad, la capitale del Beni, nell’amazzonia boliviana.
Eravamo finalmente al caldo e a “piano terra” a soli 230 metri sul livello del mare. Sul piazzale in terra battuta del piccolo aeroporto, abbiamo incontrato il primo dei tanti animali che avremmo visto nei giorni seguenti: uno scarafaggio poco più piccolo di una scarpa di Tommy (che porta il 38).
Nonostante Trinidad sia la capitale della regione, non ha perduto l’aspetto di città di frontiera, ai limiti dell’intricato groviglio di foreste e fiumi tortuosi che arriva fino al Brasile. Le strade polverose continuamente percorse da vecchi camion anni 50 e pik-up che trasportano merci e persone lungo le piste appena accennate nella vegetazione, le case basse un po’ scrostate con i canali di scolo a cielo aperto dove pare che durante la stagione delle piogge vivano gli anaconda, gli abitanti, in maglietta e pantaloni corti, che si muovono con la tipica indolenza della gente nei paesi caldi, ci hanno proiettato immediatamente in una atmosfera completamente diversa da quella degli altipiani andini.
Le vie della città, piene di negozi e magazzini con le merci esposte sul marciapiede, che a scacchiera portano fino alla piazza centrale alberata, attorniata dalle vecchie costruzioni coloniali con le tettoie di legno e dalla massiccia cattedrale, ricordavano da vicino il set di un film di avventura, e non ci saremmo stupiti se fosse arrivata una diligenza trainata da coppie di cavalli.
Non lontano dalla piazza, ci siamo sistemati in un simpatico hostal, il Sirari, che per i soliti 120 bolivianos, oltre alla camera con acqua veramente calda, offriva un patio interno pieno di piante tropicali e fiori, dove vivevano in libertà un gatto bianco, Luciano, che ci ha subito adottati e una coppia di tucani, Cindy e Luca con i loro portentosi becchi colorati, per la gioia nostra e di Tommy in particolare, sempre attirato da ogni specie animale, dalle cimici in avanti…
Completava il tutto un internet point proprio di fronte all’albergo, da dove potevamo comodamente comunicare con parenti ed amici a casa e ricevere notizie.
Caffè, tè e mate erano a disposizione dei clienti (solo noi, in verità) a tutte le ore, veramente un ottimo posto per rilassarsi qualche giorno.
Ci siamo quasi subito adattati al nuovo clima facendo un giro per tutta la città, girovagando tra i negozietti ed assaggiando qua e là dolci e prodotti fatti in casa. Come in tutti i paesi caldi, la vita della gente si svolgeva prevalentemente fuori di casa e la sera era d’obbligo il passeggio sotto gli alberi della plaza central, tra le venditrici di gelato e di granite. Cenavamo in un buon ristorantino, all’angolo della cattedrale, da dove si poteva godere del via vai delle famigliole o delle corse dei motorini intorno alla piazza.
Durante i quattro giorni trascorsi in città, abbiamo effettuato diverse escursioni nella giungla, la prima organizzata tramite un’agenzia del posto, alla quale abbiamo partecipato insieme ad una coppia di fratelli olandesi, effettuata in navigazione su di una canoa a motore lungo il Rio Iacarè, dove abbiamo potuto vedere da vicino animali come le gru, i becchi a spatola ed altri grandi trampolieri, i caimani che scivolavano lentamente in acqua al nostro arrivo, i capibara, specie di grossi ratti, oltre alle scimmie sulla cima degli alberi e ad un grosso serpente col quale ho fatto un incontro un po’ troppo ravvicinato durante una mia esplorazione nei pressi dell’accampamento per il pranzo, a base di banane fritte, pollo allo spiedo e dolcissimi mandarini, preparato da Marcelo, la nostra guida, in uno spiazzo tra la vegetazione. Altri animali visti, che per causa nostra sono divenuti da predatori a prede, sono stati i piranhas che abbiamo pescato nel pomeriggio. La voracità di questi pesci non è solo una leggenda, tanto che all’inizio mi hanno letteralmente strappato di mano la lenza armata con un pezzo di carne cruda.
Ma la battuta di pesca ha avuto poi un discreto successo e anche Tommaso, dopo alcuni tentativi, ha potuto pescare il suo primo pesce, mentre Paola, convinta animalista e vegetariana, non ha minimamente collaborato alla produzione della cena, controllando solo che Tommy non venisse a sua volta mangiato nel togliere l’amo da quelle bocche fameliche…
Un altro animale presente ovunque nella giungla sono le zanzare e, nonostante avessimo provato ad allontanarle spalmandoci la pelle con repellenti e accendendo un grande fuoco al centro dell’accampamento, non siamo rientrati in hotel con meno di un centinaio di punture a testa, molto fastidiose ma non pericolose, per nostra fortuna. Marcelo ci ha spiegato come sarebbe stato meglio difendersi, indossando ampie camicie al posto delle nostre polo aderenti che non riuscivano a proteggerci dalle punture degli insetti.
Nei giorni seguenti non abbiamo più avuto bisogno di guide e organizzazione, siamo andati da soli a fare il bagno nelle acque della laguna Sanchez, al balneario Tapacarè, ad alcuni chilometri dalla città. Nel tardo pomeriggio, non essendo mai arrivato il taxi con cui avevamo concordato l’ora del rientro, ci siamo dovuti incamminare a piedi e, solo all’imbrunire, quando ormai pensavamo di essere divorati da qualche grosso predatore notturno e con gli avvoltoi che volavano in cerchio sopra le nostre teste, abbiamo approfittato del passaggio dell’unico pickup che passava da quelle parti.
Il giorno dopo quindi, forti dell’esperienza fatta, siamo andati alla ricerca del Rio Mamorè che abbiamo raggiunto facendo l’autostop ai camion di passaggio e facendo alcuni tratti a piedi. Le nostre fatiche sono state premiate, quando, arrivati sulle rive del fiume, abbiamo potuto ammirare i delfini rosa che popolano queste acque.
Nei pressi di un guado dove enormi chiatte consentivano l’attraversamento del fiume ai grossi camion che trasportavano le loro merci nei più sperduti villaggi all’interno della foresta, abbiamo pranzato tra i banchetti del cibo preparato al momento e ci siamo riempiti gli occhi, unici stranieri tra i pochi esseri umani presenti, dell’enormità della foresta amazzonica riflettendo su quanto tutto ciò fosse prezioso per tutti e su questa esperienza fatta senza la benché minima concessione al turismo.
Abbiamo potuto scambiare alcune parole con le proprietarie dei piccoli chioschi, stupite nel vedere stranieri per di più con un bambino e passato un po’ di tempo a guardare il districarsi di un camion rimasto impantanato in un tratto fangoso della pista al quale abbiamo poi chiesto un passaggio che ci ha permesso di rientrare a Trinidad in tempo per la cena.
Dopo l’ultima sera passata nella plaza central, colma di gente che festeggiava con musica, balli, caroselli di auto e motorini strombazzanti, la vittoria alle elezioni amministrative del partito del presidente Evo Morales (il primo indio, presidente di una nazione sudamericana), dopo l’ottima cena a base della migliore bistecca assaggiata in Bolivia al ristorante del Club Social, siamo tornati al nostro hostal, per dare un ultimo saluto al gatto Luciano ed a i tucani e preparare i bagagli per la partenza del giorno successivo, col piccolo bimotore che ci avrebbe riportato a La Paz.
Abbiamo passato ancora qualche ora nella capitale, alloggiando all’hotel Sagàrnaga (150 bol.) nell’omonima via nei pressi del mercato della stregoneria e, proprio quel pomeriggio, abbiamo potuto guardare in TV la semifinale di calcio mondiale Italia – Germania, assieme ad un gruppo di ragazzi israeliani coi quali abbiamo gioito per la vittoria della nostra squadra!
La sera ci siamo infine concessi la cena in una peñas, tipico locale dove si svolgono spettacoli folkloristici a base di canti e balli di musica popolare, che però ci ha deluso, essendo lo spettacolo un po’ troppo turistico, nonché la cena molto cara.
Il mattino seguente di buon ora, dall’aereo della Taca ammiravamo ancora una volta La Paz dall’alto, per arrivare poi a Lima dove saremmo stati l’ultimo giorno di viaggio prima del lungo volo che passando da Madrid, ci avrebbe riportati a casa, l’8 luglio.
P.S. a Lima abbiamo alloggiato all’Hostal Turistico Eiffel, nel quartiere di Miraflores (15$) centrale e tranquillo, ma prima di prendere la camera consiglio di verificare bene la pulizia delle lenzuola...
Abbiamo potuto visitare la zona sul mare della città, la più moderna e “sicura” e siamo andati fino alla splendida “Plaza de Armas”, ma questo sarà un altro viaggio…
Claudio Giacchetti