Birmania
Diario di viaggio 2008
di Antonella
21/3/2008
Partenza. Io e Ginevra ci diamo appuntamento agli imbarchi. Ci mettiamo in coda per il check in e, brontolando che sta valigia che mi porto appresso è troppo pesante, che dai cinesi non comprerò più nulla perché mi sa che si è già rotta ecc. ecc., faccio per estrarre da una tasca la guida lonely planet da restituire a Ginevra e mi rendo sciaguratamente conto che “sta valigia” non è proprio la mia!..
Panico.. Realizzo che potrebbe esserci stato uno scambio al ritiro dei bagagli dallo shuttle che ho preso da stazione Centrale a Malpensa..
Ginevra, con una davvero ammirevole calma, cerca di tranquillizzarmi e di convincermi che riusciremo a risolvere. Mancano due ore all’imbarco.. Ci lanciamo velocemente al piano inferiore ad uno dei banchi shuttle per Malpensa, spieghiamo e chiediamo informazioni. Ci dicono che poco prima hanno ricevuto una simile
segnalazione da un altro passeggero. Danno l’annuncio per convogliarlo a questo banco e dopo una quindicina di minuti arriva tutto trafelato e piuttosto incavolato un
pakistano (?) che mi dice che “questa cosa non gli è proprio piaciuta”, al chè gli chiedo “se per caso questa faccia qui gli pare invece divertita!”. Ginevra incalza che almeno poteva mettere l’etichetta con un telefono su questa valigia, nella mia c’era e potevo essere rintracciata, se solo l’avesse letta!” ..
Di corsa risaliamo al piano superiore e finalmente possiamo fare il check in.
Adesso possiamo finalmente rilassarci e.. cominciamo a ridere sull’accaduto…. Penso infatti solo a un’ora prima - con quella valigia pesante almeno 5 kg in più della mia (!) e per giunta con il gancio trolley rotto e ovviamente faticosa da trainare su e giù da bus e navette – mentre andavo agli imbarchi, in ascensore, un signore molto
gentilmente si era offerto di aiutarmi e, scivolatogli il macigno.. mi aveva chiesto se in quella valigia mi stessi portando dietro la casa!.. Ginevra poi mi confessa che “le era sembrata strana quella valigia piuttosto scassata e che non mi ci vedeva molto”..
Acc!..: come avrò fatto mai a non accorgermi prima di questo scambio?! .. Regola numero uno: in viaggio, valigia colorata o con chiari segni di riconoscimento..
Il volo Singapore Airlines è confortevole e molto tecnologico.
Ogni posto è personalizzato con computer e possibilità varie di intrattenimento. Il ragazzo singaporese che mi siede accanto mi aiuta a smanettare.. Mi vedo 4 film..
Ascolto cd, consulto programmi per l’apprendimento di parole base di lingua malese, di tutto e di più.
22/3
Dopo 11 ore e mezza di volo arriviamo al Changi Airport di Singapore. Il Changi è noto come il fiore all’occhiello degli aeroporti, davvero avveniristico, immenso, luminoso, organizzatissimo, esemplare modello di efficienza e tecnologia. Ha una infinità di negozi grandi firme, un parco interno con alberi tropicali, addirittura un piccolo lago con pesci rossi enormi..
E’ l’alba di un meraviglioso sabato.. Presso uno degli uffici dell’ aeroporto cambiamo 50 dollari (al c/ 1 dollaro americano = 1,35 dollari singaporesi) e ritiriamo una mappa della città. All’ufficio Immigrazione compiliamo il modulo previsto e ci avviamo verso l’uscita per prendere il taxi blu che con 18 $ singaporesi ci porterà verso Chinatown.
Singapore, città multirazziale e multiculturale, ricca e moderna città-stato, si trova a sud della penisola malese, vicino all’equatore; la temperatura è tropicale.
La guida è a destra. La strada che percorriamo è ampia a doppia corsia e a senso unico, corre parallela al mare, costeggiata da piante tropicali. Verso l’interno immensi grattacieli di varie misure e fattezze. Una città avveniristica.
Siamo galvanizzate nonostante l’ora ed il lungo volo. Chinatown, una delle zone più antiche della città, si sta risvegliando.
2/21
La giriamo in lungo e in largo, visitiamo l’originale e particolarissimo tempio Sri Mariamman, 1827, il più antico tempio Hindu con centinaia di divinità e fiere poste
all’esterno; un tempio cinese. Una gran quantità di negozi di abbigliamento, souvenirs, cineserie, cibi colorati e inquietanti, le particolari tuniche singaporesi:
gonna lunga che copre i pantaloni e il giacchino attillato (anche le hostess di Singapore Airlines vestono queste eleganti tuniche).
In tarda mattinata ci piazziamo a bordo di una strada trafficata e fermiamo al volo un taxi, ci facciamo portare ad un tempio e quindi al Changi Airport da dove ci
imbarcheremo per Yangon.
Il volo con la singaporese SILKAIR è pure confortevole. Passate 3 ore arriviamo alla méta: Rangoon-Birmania.
Al nastro bagagli aspettiamo un tot, il nastro si ferma 3 volte per mancanza di elettricità.. Sì, siamo arrivati in Birmania..
La Birmania (ribattezzata Myanmar dalla giunta militare governativa) il Paese delle Pagode, è poco più grande della Francia. Ha pianure e montagne, la più alta, 5900 mt, è del gruppo dell’Himalaya. E’ bagnata dal Golfo del Bengala e dal Mar delle Andamanne.
In Myanmar vivono elefanti, rettili, tigri, rinoceronti, leopardi, il panda rosso, e l’orso dell’Himalaya, quasi 700 specie ornitologiche.
Ha una natura rigogliosa: alberi tropicali, banani, tamarindi, bambù, caucciù, canna e rattan, laghi, mangrovie; foresta tropicale e habitat montani a nord, le pianure
centrali nella zona secca.
52 milioni di abitanti di cui l’11% vive a Yangon (già Rangoon). Molti sono dediti all’agricoltura, al lavoro delle materie prime, dei tessuti, marmo, metalli..
Esporta riso, pietre preziose, petrolio e tek.
Ha un territorio ricco; purtroppo la politica del governo militare ha ridotto il popolo birmano alla fame, c’è abbondanza di acqua, gas e petrolio ma l’energia elettrica non viene distribuita al popolo.. Esportano il petrolio in Cina mentre i birmani rimangono senza corrente, sono senza acqua potabile. La benzina è razionata. La scuola essendo costosa è un privilegio di pochi..
Questo governo militare è una delle dittature più impenetrabili del pianeta, che sa essere efficiente nel bloccare i telefonini stranieri, criptare internet o negare i visti ai
giornalisti.
Attualmente al comando c’è il generale Than Shwe. E’ lampante l’enorme disparità tra il popolo ridotto in miseria, costretto a vivere spesso con 1000 kiat al giorno (1 dollaro), in villaggi di capanne di bambù, dove in due tre stanze spesso si trovano 2-3 generazioni, pessime condizioni sanitarie (solo lo 0,4% del bilancio nazionale è dedicato alla sanità..), con qualche ora al giorno di corrente (in molte località addirittura non hanno mai visto né luce elettrica, né acqua potabile, né fognature), poche possibilità di mandare i figli a scuola, e - chi sta al potere - che vive in comode case protette dalla security, dispone di cellulare (che qui ha un prezzo irraggiungibile per la gente comune, costa duemila dollari, tre volte il salario di un anno della maggioranza dei lavoratori) che manda i figli a studiare a Singapore, si permette la vacanza..
I grandi capi della giunta si sono arricchiti con ogni sorta di traffici compresa l’esportazione di oppio. Oggi reinvestono una parte di quelle ricchezze nella costruzione di pagode nuove fiammanti le cui cupole dorate vanno ad aggiungersi alle centinaia dei monumenti millenari..
Mancanza di libertà, impossibilità di mandare i figli a scuola; i bambini imparano le lingue dagli stranieri e spesso chiedono l’elemosina quando non riescono a vendere i souvenirs. Il popolo è condannato a condizioni di vita primitive rispetto ai vicini tailandesi o perfino vietnamiti. La speranza di vita media è 58 anni per gli uomini, 60
per le donne, una delle più basse dell’Asia. La mortalità infantile è al 7% e un quarto dei bambini nascono sotto peso per la denutrizione delle madri. Il reddito pro capite, 700 dollari all’anno, è un terzo della Thailandia ed è sotto la soglia della povertà assoluta calcolata dalla Banca Mondiale.
Per le strade non si può parlare di politica. Le guide ti pregano di non affrontare questo discorso.
I birmani credono e confidano molto nel turismo, unico veicolo che consente loro di farsi sentire, di far conoscere la loro condizione. Il turismo permette loro di vivere. E’ importante per questo motivo che il turista si appoggi a compagnie private non governative e distribuisca il suo denaro in modo di aiutare più gente possibile.
Ci sono 135 etnie. 8 le maggiori escludendo cinesi, indiani e nepalesi.
Sinteticamente la storia birmana: dopo i regni, dal 1885 il colonialismo Inglese. Sotto la gestione britannica, la Birmania era una delle colonie più ricche. Era il più grande esportatore del mondo di riso e di olio fornito con il Burman Oil Company. Produceva il 75% del tek nel mondo ed il paese si credeva sulla via veloce per lo sviluppo. (Oggi ha delle infrastrutture insufficienti. Le merci viaggiano soprattutto attraverso il confine birmano-thailandese, da dove la maggior parte delle droghe illegali sono esportate).
Ottiene l’indipendenza nel 1948. .. La resistenza politica dei monaci buddhisti risale ai tempi del colonialismo britannico, quando il clero buddhista contribuì alla lotta per l'indipendenza. I monasteri, centri di formazione di una vera e propria intellighenzia, hanno spesso allevato focolai di contestazione..
Il padre di Aung San Suu Kyi (la leader dell’opposizione democratica) combattè per l’indipendenza. Nel 1962 il colpo di stato militare. Nell’agosto 1988 le manifestazioni pacifiche per la democrazia, l’esercito uccide 3.000 persone.
Nel 1990 Aung San Suu Kyi con l’NLD democratico ottiene l’82% dei voti ma i militari non rinunciano al potere. Nel 1991 viene dato ad Aung il Nobel per la pace.
Aung vive tuttora agli arresti domiciliari. La sua casa si trova vicino al lago Inya di Yangon.
Dal 1937 vige l’embargo internazionale, anche se qualche compagnia, come tra le altre l’inglese Premier Oil, la francese Total e l’americana Unocal, continuano a collaborare per l’estrazione del gas naturale. La multinazionale Total dal 95 al 98 ha utilizzato il lavoro forzato per la costruzione di un oleodotto che le frutta ogni anno dai 150 ai 400 milioni di dollari, facendo affari d’oro con i militari. Anche per la costruzione degli aeroporti, i generali del governo militare sono ricorsi al lavoro forzato, da loro definito volontario, un sopruso che giustificano come una “tradizione buddista di volontariato spontaneo”.
Non hanno aderito all’embargo la Cina (i cinesi sono i ricchi del Myanmar, quelli che aprono e gestiscono ristoranti, hotel, strutture commerciali) e l’India, entrambi fanno a gara per compiacere il governo militare e nel saccheggiare le risorse naturali del Paese, dal petrolio al legname. E poi Thailandia, Singapore e, in parte, il Giappone.
Il popolo, a seguito delle repressioni e dei brutali recenti eventi del settembre 2007 che hanno visto l’uccisione di molti monaci con molti altri che sono scomparsi e non si sa tuttora dove siano, odia sempre di più il potere governativo.
I monaci qui sono sacri.
Leggo da un articolo 6 aprile 2008 pubblicato su http://www.buddhistchannel.tv/index.php?id=82,6186,0,0,1,0
In Myanmar, teatro della più lunga guerra civile del mondo, una parte dei monaci buddhisti sono passati dalla parte della resistenza violenta.
Stato Karen, Myanmar -- In un accampamento nella giungla del Myanmar orientale il monaco 67-enne Sau Uizana siede in meditazione nella sua veste arancione. Dietro di lui centinaia di uomini con armi semiautomatiche si allineano inquadrandosi militarmente per poi marciare in cerchio intorno a un campo. Si stanno preparando per un'altra battaglia contro il governo militare del Myanmar. Mentre decine di migliaia di monaci hanno attirato l'attenzione del mondo lo scorso agosto e settembre per la loro massiccia protesta non violenta, alcuni membri del clero birmano, incluso Sau Uizana, insistono che la resistenza violenta sia l'unica strategia praticabile contro la giunta al potere. Oggi monaci di entrambe le scuole di pensiero continuano a combattere la dittatura militare. Dicono di appartenere alla stessa rivoluzione. Il paese buddhista di Myanmar, chiamato Birmania fino al 1989, è tra i più repressivi del mondo.
Gli attivisti pro-democratici sono sistematicamente incarcerati e i gruppi etnici come i Karen sono regolarmente attaccati dal governo militare.
Fino a poco tempo fa, a causa della stretta del governo sul dissenso, solo i ribelli Karen hanno affrontato apertamente la dittatura. Ma in agosto e settembre dell'anno scorso, quando decine di migliaia di monaci si sono voluti coinvolgere nel movimento che ha dato origine alle proteste pro-democratiche e studentesche contro l'aumento dei prezzi dei carburanti, è rinata la resistenza nonviolenta.
Dopo giorni di proteste in tutta la nazione, chiamate la "Rivoluzione zafferana", i monaci sono stati brutalmente aggrediti e colpiti dal fuoco dell'esercito.
Il monaco Sau Uizana dice che il tragico risultato delle proteste di settembre, in cui sono state uccise almeno 31 persone e centinaia sono state imprigionate, dimostra che la resistenza nonviolenta non può funzionare contro la dittatura birmana.
"I paesi vicini, come lo Sri Lanka, il Laos, la Cambogia e la Thailandia, sono tutti paesi buddhisti e non farebbero del male ai monaci", dice. Invece in Myanmar, aggiunge, "i monaci sono stati torturati dai soldati dell'esercito e sono stati obbligati a venerare i loro torturatori."
Nel quartier generale della UNK Sau Uizana è chiamato "Monaco Rambo." Altri monaci dicono che anche loro comprendono la lotta armata dei Karen. Uno di loro, il 53-enne Oh Bah Seh, era uno dei leader delle proteste dell'anno scorso e dice di non condannare la guerra dei Karen.
"Nessuno vuole la violenza, ma a causa della persecuzione disumana del governo, per questa ragione alcuni sono finiti col prendere le armi per combattere un sistema malvagio."
Lui, tuttavia, pratica la resistenza nonviolenta, come la maggior parte degli altri monaci buddhisti. Dice che mentre era bastonato durante le proteste di settembre, continuava lo stesso ad intonare canti di gentilezza amorevole nei confronti dei suoi oppressori.
Ghau Si Tha, un altro leader delle marce pacifiche di settembre, dice che la nonviolenza è la base della resistenza buddhista.
"Essendo monaci, dobbiamo continuare ad intonare canti di amorevolezza. Per quanto gli altri usino la forza, per quanto il regime non segua i precetti buddhisti, dobbiamo rimanere fedeli all'amorevolezza" dice. "Crediamo che soltanto questa amorevolezza possa portare al successo. È per questo che marciamo con gentilezza amorevole, pacificamente e senza violenza."
Il clero buddhista è un gruppo venerato, considerato dalla gente come leader. Oggi i 400.000 monaci del Myanmar sono secondi in numero solamente all'esercito.
In Birmania ci sono 500.000 militari e 400.000 monaci. Ogni birmano maschio trascorre un periodo della sua vita in monastero, entra 2 volte nel corso della vita. La
scelta è comunque personale e facoltativa, anche per i bambini. La prima volta normalmente avviene tra i 6 e i 18 anni (novizi). In questa occasione si tiene una festa. La famiglia acquista grande merito quando un familiare prende l’abito monacale e la ciotola per le elemosine.
Il monaco ha il capo completamente rasato, non possiede niente, solo la tonaca, un rasoio, una tazza, un filtro x togliere gli insetti dall’acqua, un ombrello e la ciotola delle elemosine. Il resto lo ottiene dalle offerte. I monaci mangiano due volte al giorno: alla mattina all’alba e verso le 11. Poi digiunano.
Per molti la scelta di diventare monaco non è solo vocazione religiosa ma l’aspirazione di una istruzione decente, si può imparare l’inglese, la lingua della speranza..
Dopo i fatti di settembre il governo ha vietato ai monaci di girare alla mattina alle 4, come da tradizione, per andare alla ricerca delle offerte e del riso.
Si dedicano alla preghiera, alla meditazione, alla loro pulizia e allo studio, anche della lingua Pali, la lingua sacra degli antichi testi buddisti, paragonabile al nostro latino o al sanscrito indiano.
In Birmania c’è la parità dei diritti tra uomo e donna. In campo religioso solo il monaco (monk) ha la potenzialità, quale uomo, di diventare Buddha. Alla monaca
(nun) è consentito di cucinare, non al monaco. La monaca - pure col capo completamente rasato - veste una tunica rosa.
Le comunità monastiche vivono in monasteri, ce ne sono moltissimi in tutto il Myanmar, attrezzati di dormitori, celle, refettorio e sale per la preghiera.
A causa del suo isolamento il Myanmar non è stato ancora colonizzato dalle mode straniere. E’ rimasto forse il paese più autentico dell’estremo oriente. Uno dei valori
più importanti è la famiglia. Nonostante la povertà, la nascita di un figlio è sempre una festa. Grande il rispetto per gli anziani.
Malgrado l’isolamento e la miseria la gente birmana è molto orgogliosa della sua cultura, del suo costume, della sua scrittura Myanmar, del suo passato di grandi sovrani, del cibo, del buddismo e delle sue bellissime pagode dorate sempre luccicanti.
Quasi tutti, uomini e donne, indossano il longyi, una gonna lunga (per contrastare il disagio del caldo) che si annoda in vita.
Sulla faccia usano spalmarsi una pasta colore giallo-avorio, a volte utilizzando una foglia che lascia il suo stampo; è una pasta ottenuta macinando la corteccia della
thanakha. Viene utilizzata per bellezza ed anche per proteggersi dal sole.
Masticano il betèl che è un mix di noce macinata e idrato di calce. Lo vendono ai mercati avvolto nelle foglie di palma e masticandolo i denti diventano rossi-neri. Il
governo l’aveva a suo tempo vietato per preservare le strade, spesso imbrattate dagli sputi del betèl. Ha proprietà stimolanti, digestive e cardiotoniche.
In strada o fuori dalle pagode o dai templi, spesso i ragazzi giocano in gruppo con lo Chinlon. Questo sport birmano si serve di una palla di rattan di 12 cm di diametro; i giocatori formano un cerchio, lanciano in alto la palla che alzata non deve cadere per terra per il più lungo tempo possibile.
Quasi il 90% dei birmani è buddista. Qui tutto è religione, misticismo, meditazione, semplicità, armonia, pace. Il buddhismo è l’essenza della vita e (mancando tutto il
resto) tutto è imperniato sul buddhismo..
Buddha significa “illuminato”, insegnante.
Ci sono diversi tipi di buddismo: il theravada è qui il maggiormente seguito. E’ un sistema psico fisico per raggiungere il nirvana. Si basa sulla purezza del rapporto uomomondo e segue le Quattro Verità:
1. esistenza è dolore causato dalla nascita,dalla malattia e dalla morte
2. origine del dolore è la brama di esistere
3. sopprimendo la brama cessa il dolore
4. il Dharma è la via che conduce alla soppressione del dolore.
Per raggiungere la felicità è necessario controllare la mente con la meditazione e rispettare cinque precetti morali e fondamentali ovvero:
• non commettere omicidio
• non rubare
• non essere bugiardo
• non assumere sostanze inebrianti
• non essere adulteri e non avere una vita sessuale disordinata
Per migliorare il proprio Karma si cerca di fare in modo che la prossima vita (reincarnazione) sia migliore della presente. Va compiuto con abnegazione il cammino
verso la propria salvezza. Ognuno è padrone del proprio destino. I nostri momenti più felici sono temporanei, vacui e insoddisfacenti. Si raggiunge la felicità con la saggezza, quando saranno eliminati il desiderio e l’ignoranza, perciò è necessaria la meditazione e l’introspezione. … La liberazione finale dalle sofferenze e dalle passioni è garantita solo dal raggiungimento del Nirvana.
Il Nirvana (dispersione, estinzione), è la liberazione, già realizzabile in questa vita, dai tre peccati capitali: odio, cupidigia ed illusione.
I simboli: nascita malattia vecchiaia morte, si trovano spesso rappresentati con statue all’interno delle pagode.
L’architettura religiosa è ricchissima in Birmania: zedi, paya-pagode, templi, monasteri, ovvero tutti monumenti religiosi. Per la visita e l’accesso ci si toglie obbligatoriamente le scarpe e si cammina a piedi scalzi. Agli ingressi c’è sempre una distesa di colorate ciabatte che si lasciano educatamente accostate, mai rovesciate
(“porterebbe male”..).
Gli zedi o stupa, a forma di campana, come la Shwedagon Pagoda di Yangon, contengono reliquie ovvero parti del corpo del Buddha, frammenti di ossa, capelli, denti. I più antichi zedi erano in legno e purtroppo sono scomparsi.
I Phato, templi o santuari, a forma emisferica o di bulbo, come l’Ananda Paya di Bagan, hanno struttura cubica con finestre piccole e corridoi al piano terreno.
Gu, è un tempio a grotta.
Il concetto di alcuni di questi templi, molti in Bagan, è riconducibile alle piramidi maya-atzeche, una simbolica montagna che va scalata, spesso hanno bassorilievi e
affreschi che riprendono temi sacri. Importante anche la cosmologia buddhista ripresa in varie decorazioni o quadri nelle pagode.
All’interno si trovano sculture del Buddha, alcune di proporzioni enormi.
Importanti sono le posture del Buddha, quattro, le prime tre legate alle attività diurne, la quarta al momento del trapasso verso il Nirvana. In piedi, seduto, in posizione di camminare, disteso. E altrettanto importanti sono le posizioni delle sue mani.
Mani distese in avanti, palmi all’esterno a simboleggiare offerta di protezione e di non aver paura;
mano destra tocca il suolo (quando Buddha si sedette in meditazione e fece voto di non alzarsi prima del raggiungimento dell’illuminazione);
una o due mani distese in avanti, palmi verso l’alto a simboleggiare l’offerta dell’insegnamento buddista al mondo;
mani in grembo in meditazione;
pollice e indice della mano formano un cerchio, altre dita piegate all’esterno: prima esposizione pubblica della dottrina buddista.
Sabato 22 marzo pomeriggio.
All’internazionale di Yangon all’ufficio immigrazione, compiliamo il modulo d’ingresso.
Agli arrivi ci sta aspettando sorridente la nostra guida Aung Cho Oo, con un cartello che riporta il nostro nome a caratteri cubitali. Mingalar bar! Ci siamo appoggiate
all’agenzia Kst (è ottima, la raccomandiamo con vero entusiasmo); è un’agenzia privata che abbiamo contattato via mail dall’Italia su indicazione di altri viaggiatori
liberi che l’hanno consigliata (e-mail: ksuthway@yangon.net.mm).
Fuori ci accoglie anche l’autista, ci ritira i nostri bagagli che carica sull’auto e ci avviamo verso l’albergo. Gran caldo, forse 40°.. Per fortuna, in macchina c’è un po’ di aria condizionata. Constatiamo fin da subito la grande affabilità di questa gente che dà l’anima affinché tu possa essere contento e ricevere la loro grande ospitalità.
L’albergo Summit Park View è inaspettatamente, ma con grande nostro sollievo, molto gradevole. Si trova a due passi dalla mitica Swedegon Pagoda, monumento simbolo di Yangon. L’aria condizionata va a mille, esageratamente alta. Negli alberghi purtroppo c’è un grande spreco. Qui si servono dei generatori. Ci accomodiamo nella hall dove ci viene offerto il cocktail di benvenuto e prendiamo accordi con la nostra guida e le due ragazze dell’agenzia per i dettagli di viaggio, saldiamo l’importo.
Schizzate più che mai, elettrizzate da questo speciale momento, dopo non ricordoquante- ore che ciondoliamo in piedi, ci accordiamo con Aung Cho Oo per trovarci in reception da lì a mezz’ora e partire per la visita alla città..
Fuori il caldo è pesante..
Shwe significa oro. La pagoda Shwedagon Paya, costruita 2500 anni fa, è in effetti d’oro. Il colpo d’occhio è incredibile e a quest’ora, sono circa le 5 del pomeriggio, i colori sono speciali; più tardi, con il tramonto, lo diventano ancora di più. Questa pagoda è la più grande e prestigiosa di tutto il Myanmar. Il luogo più sacro. Ogni birmano auspica di andarci almeno una volta nella sua vita. Le grifi, metà leoni e metà grifoni, sorvegliano uno degli ingressi. Intorno decine di altri zedi. In questa settimana c’è una festa religiosa la Swedagon Pagoda Festival che raduna un grande numero di monaci provenienti da tutto il Paese. Il colore del loro drappo, dall’arancione al giallo al bordeau, è dovunque.
Si racconta che in questa pagoda potrebbe esserci un canale che conduce al fiume Yangon o alla camera reliquiaria sotterranea che potrebbe contenere le leggendarie
tavole di Mu, il continente scomparso.
Nel febbraio del 1868 James Churchward, un ufficiale britannico di stanza nell’India Settentrionale, rinvenne, in un monastero buddista, 125 tavolette d’argilla. Conosciute come le tavolette Nacaal, raccontano la più straordinaria vicenda mai narrata, la storia della comparsa dell’uomo sulla terra e del primo dei suoi regni, il regno di MU. Una civiltà nata oltre 50mila anni fa la cui esistenza, al pari di quella della leggendaria Atlantide, ci obbligherebbe a riscrivere i manuali di storia e a mettere in discussione molte delle nostre certezze.
Si respira un’aria mistica. All’ingresso lasciamo le infradito e a piedi scalzi visitiamo il mastodontico tempio. Le proporzioni sono incredibilmente maestose, grandi spazi e misure. La cupola dorata è alta 100 metri con una circonferenza di 300. E’ stata costruita dai Mon tra il VI e X secolo, ricostruita più volte a seguito di terremoti.
L’ultima ricostruzione risale al 1769. La struttura è sormontata da un ombrello, elemento decorativo, detto HTI che ha più di 3.150 campane d’oro e quasi 80.000
diamanti. Un viavai di donne, bambini, vecchi, monaci.. Trascorrono lì il loro tempo per trovarsi, chiacchierare, pregare, fare offerte al Buddha, meditare, riposare,
dormire.. Molti di loro hanno degli ombrellini bianchi o mazzetti di lunghi fiori di gelsomino, il profumo è intenso, li vendono per le offerte al Buddha.
Un corteo di una cinquantina circa di persone, monaci e non, con e senza ombrellini, con in mano dei ceri, sfila pregando sommessamente.
Ci spiegano che stanno pregando per il Tibet..
Transitiamo nella piazzetta da cui sono partiti gli incidenti dello scorso settembre.
Non si vedono molti militari in divisa in giro. Tanti e dovunque sono quelli in borghese, spie del governo.
Purtroppo dopo le forti recenti repressioni, altre manifestazioni antigovernative sembrano improbabili.
L’unica speranza può venire da un intervento delle Nazioni Unite.
La pagoda contiene al suo interno anche una sfera con 4400 diamanti e sopra al globo un diamante da 76 carati ed altre pietre preziose decorative. Ci sono decine di
stupa, centinaia di Buddha di tutte le forme e misure, in oro, in marmo, colorati, dorati. I colori dominanti sono l’oro ed il bordeau. Tavoli imbanditi di frutta tropicale ai piedi dei Buddha. In alcuni stupa i fedeli offrono orologi, di varie forme, che segnano le diverse ore del giorno.. I fedeli in ginocchio, in preghiera e meditazione.
Ritorniamo verso l’auto che ci aspetta per portarci poco lontano da lì alla Pagoda del Reclining Buddha. Una statua colossale, del Buddha coricato, lunga 72 metri.
Finiamo la lunga giornata con una buona cena al ristorante Green Elephant, ben arredato in stile coloniale, mangiamo cibo myanmar: riso accompagnato da salse piccanti, curry, chili e ginger, tofu, crackers di riso e pesce in umido.
Spendiamo, in due, 14.000 kiat (14 us $ - 11 euro).. Aung Cho Oo che ovviamente ci piace avere nostro ospite, ci dice che il ristorante offre la cena alle guide che portano i turisti. L’autista, apprendiamo da Aung Cho Oo, nonostante le nostre insistenze, non accetta l’invito ad unirsi al nostro tavolo perché “si vergogna”..
Aung Cho Oo ci parla delle sue giornate in Yangon, vive in una stanza con altri compagni, solitamente mangiano in giro per strada, e, ci dice, non si potrebbe mai permettere un ristorante come questo. Ci parla della sua famiglia. E’ un ragazzo molto preparato, segue con passione il suo lavoro.. Gli piacerebbe insegnare ai bambini la lingua inglese per dar loro la possibilità di esprimersi e una speranza.. Probabilmente riuscirà in questo intento dal momento che ha scelto di ritirarsi in monastero.
Finita la cena rientriamo in albergo e ci diamo appuntamento per l’indomani alle 6 per partire per l’aeroporto dove prenderemo il primo volo interno da Yangon a Heho.
Anche di sera fa costantemente caldo.
In albergo ci presentiamo al business centre per chiedere il collegamento internet.
Dopo vari tentativi riusciamo a collegarci. Doccia e sprofondiamo nel sonno.
Domenica 23/3
Sveglia, reception per ritirare il cestino della colazione. La nostra guida ci sta già attendendo. Ci avviamo con l’auto verso l’aeroporto voli nazionali.
Qui il caos totale... Fa già un caldo insopportabile.
Scarichiamo dall’auto le valigie e veniamo subito accerchiate dai ragazzi che spingendosi si offrono, ovvero ci prendono, valigie e biglietti per portarli al check in. Il
check in (parola eccessiva in questo caso) è un bancone dove controllano i biglietti e le valigie. Siamo frastornate dalla confusione di tutta questa gente. Sembra di essere al mercato più che in aeroporto. Per un attimo perdiamo di vista valigie e biglietti (il blocchetto completo di tutti i nostri prossimi voli!), poi realizziamo che le valigie sono passate per l’imbarco e ci restituiscono i biglietti chiedendo il dollaro di mancia.
E’ giorno di una ricorrenza religiosa, ci sono pochi stranieri e molti birmani che si spostano da Yangon a Heho, Mandalay o Bagan. Passiamo il controllo e entriamo nella sala d’attesa: una stanza dimessa, stipata di gente, sedie malmesse, tutti parlano a voce alta, un caldo esasperante, nemmeno un filo di aria condizionata. Mi avvicino alla porta di uscita alla pista, per cercare una boccata di ossigeno. La porta è scassata e con il vetro rotto. Di tanto in tanto un tizio urla la destinazione di un aereo e per l’imbarco si precipitano verso l’uscita.
Comincio a fare le mie elucubrazioni su questi voli interni, la sicurezza e tutto il resto.
La cosa che mi preoccupa maggiormente è l’ipotesi non proprio remota dell’aereo stipato. Sono piuttosto in crisi. Abbandono il cestino della colazione, ultimo dei miei pensieri. Scambio due parole con una coppia di tedeschi che mi dicono essere in viaggio consolare e cerco di farmi coraggio..
Dopo circa un’ora arriva il nostro aereo, un piccolo atr42 della Air Mandalay, ci imbarchiamo. Vediamo i nostri bagagli che vengono caricati. L’aereo è al completo,
ma con mio grande sollievo almeno non è stipato. Gira un filo di aria condizionata.
Decolla, il rumore da zanzarone non è propriamente tranquillizzante. Prima di Heho, la nostra destinazione, farà tappa e atterrerà a Bagan e poi a Mandalay. Con noi
viaggiano tre monaci. Hostess e personale di volo, gentilissimi ed eleganti, accennano sempre un inchino con le mani giunte quando passano davanti a loro. Ad ogni scalo purtroppo si ferma anche l’aria condizionata dell’aereo ed il caldo torrido si fa insopportabile. Dopo circa 3 ore arriviamo finalmente a destinazione.
Nella pista di atterraggio, un consistente gruppo di fedeli, in corteo, festeggia e dà il benvenuto con un particolare rito ai monaci. Il gruppo è molto festoso, cantano, è
formato da altri monaci e monache che alzano un particolare ombrellino bianco, uomini e donne vestiti di colorati costumi e accompagnati da 2 maschere che rappresentano drago e leone.
La nostra guida di Heho, San San, una bella signora dai lunghi capelli dritti e corvini, vestita con il classico abito shan, etnia del nord Myanmar, ci accoglie sorridente
mentre l’autista ritira i nostri bagagli per caricarli nell’auto. Ci avviamo verso il lago Inle a sud della Regione Shan. Guida a destra.
San San ci chiede del nostro viaggio, ci parla del Myanmar. Le sue tre stagioni: dei monsoni e delle piogge da metà maggio a ottobre, la stagione fresca, clima secco, da novembre a febbraio e la stagione calda da marzo a maggio con caldo torrido oltre i 40°. La buona temperatura di questo periodo in questa zona secca ai piedi delle montagne. Rispetto a Yangon ci sono forse 6-8 gradi in meno. Il paesaggio che percorriamo è fuori dal tempo. La strada è parecchio sconnessa, buche e terra rossa.. Siamo nella giungla tropicale, in questo tragitto incrociamo pochissime auto, alcuni motorini e diversi carri trainati dai buoi. Panorami rurali. Spazi ampi, tanto verde, banani, tamarindi, verdi risaie e campi a perdita d’occhio, villaggi..
Ci fermiamo a visitare un villaggio con diverse vasche di acque termali dove alcune donne stanno lavando i panni. Entriamo in una capanna, un uomo sta cucinando. Un forno in pietra, qualche povero arnese. Pare uno scenario medioevale. Il nostro autista, transitando da un villaggio all’altro, allunga qualche kiat al tizio che sorveglia i passaggi, una sorta di dogana. Bambini, che a noi sembrano davvero piccoli 4-5 anni, sguazzano nudi nei torrenti e sembrano felicissimi. Sulla strada incrociamo anche dei bufali indiani montati da ragazzini che appena ci vedono fanno i cowboy della situazione..
Molti portano in testa il khamauk il tradizionale cappello di paglia a forma di cono, per ripararsi dal sole.
Dopo circa un’ora arriviamo al villaggio della nostra seconda tappa. Anche questo hotel Ho Pin è molto curato e accogliente, è immerso in un parco, piante e fiori
tropicali.
Dovunque andiamo, ci accolgono sempre con grande calore e simpatia.
Ci sistemiamo nell’ampia stanza del bungalow messoci a disposizione, doccia e .. ci prepariamo per il primo giro in barca sull’Inle lake. Fa parecchio caldo, anche se qui non umido come in Yangon, il sole picchia, ci incremiamo con la massima protezione e ci ripariamo con gli ombrelli in dotazione. Il lago offre fin da subito uno spettacolo unico. I pescatori sulle caratteristiche lunghe e sottili pagode in legno, remano restando in piedi a poppa reggendosi su una gamba mentre con l’altra tengono e accompagnano il remo. Usano reti, pure particolarissime, grandi, coniche.
Il paesaggio è surreale, stormi di aironi e uccelli canori, fiori di loto, e coltivazioni e giardini galleggianti.
Ci fermiamo a visitare una pagoda su una palafitta, scalfita nel legno; all’interno decorazioni in oro, preziosi rivestimenti. Proseguiamo il giro e quando il caldo è proprio cocente, ci fermiamo a pranzare in una terrazza di un ristorante: birra Myanmar, riso, e un gigantesco pesce di lago in umido al ginger. E salse a volontà, in
particolare la “balachaung” (peperoncino, tamarindo e gamberi essiccati).
La stanchezza comincia a farsi sentire pesantemente e.. mi sta stroncando. Non riesco a finire questo pesce e mi ritiro una mezz’ora a riposare al piano di sotto, in una
comoda poltrona di rattan.
Il caffè che mi propone Ginevra e che prendo poco dopo, quando salgo, riesce a darmi un po’ di carica. Paghiamo il conto (14.000 kiat in 2) e ripartiamo. Ci fermiamo al villaggio dove lavorano le sete, dalle matasse alle lavorazioni con telai in legno. Molte lavoratrici sono ragazzine.. ; nel successivo villaggio Nga Hpe Chaung visitiamo il Phawng Daw Oo Paya, il monastero dei gatti che saltano dove gatti sornioni e paciosi dormicchiano con un occhio aperto su grandi tappeti, vicino ad un monaco altrettanto annoiato.. C’è anche una collezione di piccole statue di Buddha in legno e terracotta.
Verso le 4 risaliamo in barca per il rientro in albergo dove, dopo una ricca doccia ci avviamo al ristorante per la cena. Il locale è molto originale, spazio smisurato, con un soffitto altissimo, l’arredo in vimini. Luce molto soffusa. Oltre a noi ci sono pochi altri ospiti in questo hotel, forse una decina in tutto, mentre il personale è davvero numeroso. Scegliamo un piatto a base di riso, assaggiamo nuove salse e un pesce fritto e finiamo in bellezza con papaia, mango e anguria, paghiamo il conto e ci “catapultiamo” finalmente a riposare e a dormire. Nonostante uno strano rumore che ci disturba inizialmente (dei battiti secchi sul tetto che l’indomani scopriremo essere della coda dei gechi..) piombiamo in una ricca e sana dormita.
Alla mattina, dopo l’ottima colazione e la quotidiana dose di sali minerali, qui per me indispensabili, ripartiamo per continuare l’esplorazione sul lago.
Il lago, lungo 22 km e largo 11, è anche questa mattina pieno di vita, in tanti ci lavorano e si danno un gran da fare. Dal lago si raccoglie l’humus per fare gli orti galleggianti, si coltivano orti, riso, soia, si pesca, si trasferiscono i materiali nelle palafitte, si vendono i vari prodotti. Ci sono 17 villaggi galleggianti, su palafitte, ognuno è specializzato in lavorazioni artigianali: intaglio ligneo, tessuti e arazzi, carta e pergamena, ombrellini, tabacco, metalli. I mezzi di cui dispongono sono molto
limitati. Tutto, arnesi compresi, è fatto rigorosamente a mano e con prodotti soprattutto naturali. Telai in legno, i fili dei tessuti dal loto.. Le condizioni di lavoro sono molto lontane dai nostri cànoni. Le bambine che in questo periodo sono in vacanza dalla scuola, aiutano le mamme nella lavorazione ai telai o nel fare i sigari con il tabacco.. Tutti sorridono e sono sempre molto gentili con l’ospite straniero.
Ci accostiamo con la nostra barca al mercato galleggiante del pesce, dove i ragazzini ci mostrano orgogliosi le gerle piene di pesci; a sudovest del lago ci fermiamo e
facciamo un trekking di una mezz’ora nella giungla, sotto un sole cocente, poi passiamo oltre il villaggio dove vivono le popolazioni delle tribù Palaung. Visitiamo alla base della collina di Indein la Shwe Inn Dein Pagoda a 1.120 mt, uno spettacolare gruppo di antichi stupa del 1300 che emergono dalla giungla ed ora purtroppo in rovina. Passiamo a lato di una scalinata fiancheggiata da centinaia di colonne lignee che arriva fin sopra la collina e sulla cima il tempio Shwaeinnthein, pure danneggiato dal tempo. In alcuni stupa stanno facendo dei lavori (maldestri purtoppo) di restauro e trattamento del colore.
Di ritorno alla barca, sostiamo in un ristoro dove ci facciamo portare due noci di cocco che beviamo e mangiamo di gran gusto.
Costeggiamo un villaggio metà terrestre e metà galleggiante con un ponte di legno costruito nel 2001 dagli stessi abitanti del villaggio.
Arriviamo al villaggio Padaung dove vivono alcune donne Karen dal lungo collo di giraffa. Il gruppo più numeroso di questa tribù vive al nord.
Negli anni '90, un gruppo di donne Padaung fuggirono dall'ex Birmania dei generali, dall'esercito che rastrellava gli uomini per farli a lavorare come portatori. La «terra
promessa» si chiamava Thailandia. Lo stesso Paese che oggi, come accusa l'Onu, li sottopone a un altro tipo di sfruttamento, più sottile ma non meno letale: quello del «turismo etnico». Perché le donne Padaung hanno anche un altro nome, coniato per loro da un ormai dimenticato esploratore polacco: «donne giraffa ». Il loro collo è lungo in modo innaturale grazie all'uso di pesanti anelli di ottone, che pesano sulle clavicole e sul torace.
Si racconta che i Nat, gli spiriti della tribù dei Karen, per punire gli insolenti quanto superficiali Padaung, aizzarono le tigri più feroci della foresta contro le loro donne. Fu così che gli uomini vedendole morire una dopo l'altra, decisero di seguire i consigli di un vecchio saggio: forgiare dei grossi anelli d'oro con cui proteggere il collo, i polsi e le caviglie dai morsi dei felini. Da allora le donne - pur utilizzando un metallo meno prezioso - non abbandonarono più quell'usanza che si tramutò in simbolo di bellezza, seduzione e fedeltà. Da secoli il rito di iniziazione si ripete pressoché identico: all'età di 5 anni le bambine, che ovviamente non possono ancora scegliere autonomamente, vengono preparate per diventare delle donne giraffa. Durante una sorta di cerimonia che si svolge tra canti e danze, ad esse vengono applicate spirali di ottone alle braccia e alle caviglie e un collare di circa tre chili attorno al collo. Ogni due anni viene aggiunto un anello. Per il peso delle spirali, non solo il collo inizia a deformarsi allungandosi fino a raggiungere un massimo di 25/30 cm, ma anche la cassa toracica tende ad abbassarsi. I movimenti del collo racchiuso in questa morsa di una decina di chili, sono molto limitati e per favorire la circolazione sanguigna è obbligatorio un massaggio quotidiano alle braccia e alle gambe. Una volta che i muscoli si sono completamente atrofizzati, il collo non è più in grado di sorreggere il peso della testa tanto che se il collare venisse tolto, le donne morirebbero soffocate poiché la testa, cadendo in avanti, bloccherebbe la respirazione. Le spire d'ottone poi, per l'abbondante sudorazione provocata dall'umidità tropicale, possono causare infezioni e tumefazioni alla pelle. Nelle giornate di sole è obbligatorio arrotolare un asciugamano al collare per impedire che i raggi arroventino l'ottone. Nella tradizione del popolo Padaung, le ragazze che non indossavano la corazza d'ottone erano considerate prive di moralità, non potevano sposarsi e avere figli. Oggi essere una donna giraffa e mettersi in posa davanti alle macchine fotografiche degli stranieri, è considerata una buona opportunità di lavoro.
Questa tribù come altre, abbiamo purtroppo constatato, non hanno alcuna voce in capitolo nella loro esposizione ad un turismo che subiscono con rassegnazione, e
tentano di guadagnare qualcosa da un business che li coinvolge solo indirettamente..
Proseguiamo la navigazione in barca: verso le 2 sosta-pranzo sulla terrazza di un ristorante.
Nel pomeriggio continuiamo per il villaggio Kaung Daing dove producono le ceramiche e confezionano tuniche e tessuti prodotti con i fili degli steli del loto, fanno cappelli, loungyy e borse.
Le piante del loto possono essere raccolte solo per 6 mesi all’anno. Il loto viene usato interamente, non si butta nulla. Dal loto ricavano i fili x le stoffe. Con il bambù fanno le case sulle palafitte, le poltroncine, le barche e molto altro..
Percorriamo con la barca i tanti canali fino alla sorgente che si getta nel lago dove si formano le rapide. Qui l’acqua è cristallina.
Lungo il fiume In Dain una grande vitalità, bambini che giocano e nuotano, alcuni contadini che portano in acqua i bufali, donne che vanno al mercato portando sulla
testa i cesti di frutta o verdura o fiori.. Monaci novizi che fanno il bagno..
Viaggio di ritorno e verso le 6 siamo all’hotel.
Il nostro bungalow è in una bella posizione: davanti ha il lago e una fila di altri piccoli bungalow di bambù che si riflettono sull’acqua.
A est sopra ad una scalinata, in una collina, c’è uno stupa con la cupola dorata che andiamo a visitare. Ci vive un anziano monaco aiutato da una famiglia. Vivono dei
prodotti di un orto ed alcuni animali da cortile.
Al ritorno ci sediamo fuori dal bungalow nel salottino della terrazza dove ci sono 4 comodissime poltrone in bambù-rattan (rigorosamente fatte a mano) e ci godiamo la meravigliosa scena del tramonto e l’armonia del silenzio.
Dopo la doccia, andiamo al ristorante e ceniamo: pesce lesso con verdure tagliate a listarelle, appena scottate, riso e salse varie.
La mattina successiva dopo una abbondante colazione con biscotti di fecola, pane tostato, burro e marmellata, banane, anguria, brioschina calda, caffè (e sali minerali)… con la barca raggiungiamo un villaggio poco lontano, in terraferma, con un colorato mercato di frutta, verdura e pesce, il bittél avvolto nelle foglie di banano, medicine scadute e sotto sto caldo infernale..
Incrociamo i contadini che portano sulle spalle, delle voluminosissime gerle a bilancia contenenti crackers di riso, i mercanti che caricano su bici o motorini i sacchi di viveri, donne che portano sul capo, contenitori di frutta o verdura..
E visitiamo i villaggi dove producono e lavorano il cibo: fagioli, tamarindo, soia, bambù, tofu bianco e giallo, vari tipi di riso, con grandi distese sul terreno di tutti questi prodotti che vengono esposti per l’essiccatura o per la lavorazione. E all’interno delle capanne i forni in pietra dove cuociono e lavorano. Non ci meraviglia il trovare fuori da una capanna, vicino ai canestri del riso, mamma topa con 5-6 topolini, tutti stecchiti..
Rientriamo all’ho pin e alle due e mezza partiamo in auto per l’aeroporto di Heho per il volo per Mandalay. A Heho il terminal è recintato, i taxi si devono fermare in strada a 100 metri dall’ingresso. L’aeroporto decisamente migliore rispetto a quello di Yangon, ha inaspettatamente l’aria condizionata! Il ritardo di oltre un’ora che pare essere una norma non viene mai annunciato. Quando arriva l’aereo, si parte.. Dopo circa una mezz’ora siamo a Mandalay (a 700 km ca da Yangon). L’aeroporto è di recente costruzione, buono e con aria condizionata. Qui ci aspetta la nostra guida, Irene Khin Yu Swe con l’autista. Siamo proprio soddisfatte della scelta dell’agenzia Kst che ci ha supportato con validissime guide, esperte e veramente appassionate del loro Paese.
Irene è ex insegnante universitaria molto pragmatica. La lingua inglese è uno dei pochi sbocchi che può avere qui la gente. Unico mezzo per sopravvivere dignitosamente..
Mandalay, l’antica capitale del Myanmar, 800.000 abitanti, è una città grande, strade ampie, una moltitudine di bici e camion-bus stipati all’inverosimile dove gli ultimi
passeggeri che all’interno già pigiato non trovano posto si attaccano esternamente ai tre lati aperti. Il nostro hotel Mandalay City è a 4 stelle, ottimo e con il business
centre per il collegamento internet. Dopo l’aperitivo di benvenuto ci facciamo indicare un ristorante Myanmar vicino all’albergo per la cena e ci diamo appuntamento con Irene per l’indomani mattina alle 8.30.
Alle 8 di sera, fuori, il buio è totale. Non hanno elettricità. L’albergo utilizza il generatore e di tanto in tanto salta la corrente per qualche minuto. Quando me ne rendo conto decido che preferisco farmi a piedi i 6 piani per la stanza.. I ragazzi della security che controllano ogni piano (dove hanno sul pianerottolo un materasso per dormire..), mi salutano e mi guardano divertiti per il fatto che mi faccio a piedi le scale..
Il nostro tentativo di raggiungere il ristorante finisce miseramente dopo i primi cento metri con almeno 10 buche evitate (scopriremo poi che sono fogne a cielo aperto) sul cammino di una specie di marciapiede, facendoci un po’ di luce con una piletta tascabile. Torniamo all’hotel e mangiamo lì al ristorante cinese. Al Business Centre il collegamento internet risulta, prima difficile, e poi impossibile. Rinunciamo e andiamo a dormire.
Alla mattina, dopo un’abbondante colazione, ci avviamo con l’auto all’imbarco sul fiume Ayeyarwaddy. Il Big River il fiume più lungo del Myanmar. 2.000 km. Il porto, molto animato, è pieno di coloratissimi barconi, vecchi pescherecci. Veniamo assediate da un gruppetto di bambini sempre sorridenti e festosi che vogliono vendere i loro souvenir. Sono tenerissimi, ci mostrano i loro lavori e ci invitano a comprarli, in italiano, in inglese, in spagnolo.. Imparano le lingue con i turisti e le parlano bene. Il barcone che ci porterà a Mingun un villaggio sulla riva ovest del fiume è stato noleggiato solo per noi... è timonato da due marinai. Il costo del passaggio costa 3 $.
Irene ci racconta di Mandalay fondata nel 1857 dal re Mindon, della vita dinamica di questa città, dei suoi monasteri. Ci dà qualche nozione sull’alfabeto Myanmar (moon ovvero luna si pronuncia La; apprendo che è formato da 12 consonanti e 12 vocali..Mi scrive il mio nome con la scrittura birmana, una serie di cerchi e semicerchi, per me geroglifici, e poi i numeri da uno a 5, 1=tit, 2=nit, 3=thone, 4=lay, 5=Nga..). Ci descrive la vita sul fiume, importante arteria di trasporto, il fiume degli elefanti, il Gange birmano, l’uso dei barconi per il trasporto del tek, ci parla della stagione dei monsoni, delle piogge che coprono interamente le risaie..
A Mingun, sbarchiamo ai piedi della Mingun Paya che doveva essere la più grande pagoda del mondo, ma con la morte del re Bodawpaya rimase opera incompiuta.
Oggi è una grande pila di mattoni rossi. Si sale a piedi nudi e da sopra si può ammirare il fiume che scorre con i caratteristici barconi da trasporto merci e passeggeri. Un tempio alto come una montagna con 4 entrate, vuoto internamente.
Al Mingun Pahtotawgyi andiamo a vedere la campana di Mingun, la più grande campana appesa del mondo, 90 ton di peso, 3,7 m di altezza e 5 metri di diametro.
Siamo costantemente accompagnate dai bimbi che anche qui non demordono.
Cerchiamo di accontentarne il più possibile anche con scambi di occhiali da sole o creme o campioncini di profumi. Acquisto 20 righelli in bambù dipinti a mano, misura in pollici, per 5 $, un ventaglio in sandalo dipinto a mano per 2$, una Tshirt con l’alfabeto Myanmar $ 4, una collana in giada $3. Poi ci prendiamo 6 gustosissime banane che paghiamo l’equivalente di 35 centesimi...
Visitiamo la Settawya Pagoda che custodisce l’impronta del piede di Buddha, la Myatheintan pagoda.
Torniamo al barcone per il rientro.
Nel primo pomeriggio rientriamo a Mandalay trafficata da una moltitudine di risciò, con i due passeggeri schiena/schiena. Visitiamo un mercato tradizionale ed uno al
chiuso, immenso, un vero labirinto, ci sono soprattutto prodotti cinesi, un dedalo di centinaia di stanze e una tonnara di gente. Poi entriamo in un centro commerciale,
moderno, con aria condizionata, controllato all’ingresso dalla security, e bene attrezzato con diversi computer per il collegamento internet. Molti i ragazzi birmani che ne fanno uso. Ci rimaniamo un’ora e diamo appuntamento ad Irene dopo la pausa pranzo. Il collegamento internet costa pochissimo, poco più di un $ all’ora.
Nel pomeriggio visitiamo un laboratorio dove fanno le bellissime marionette birmane ed arazzi finemente ricamati; rimaniamo shockate anche per le condizioni di lavoro: pressoché al buio ed in spazi più che limitati. Una ragazza lavora sotto il tavolo, schiena a terra in neanche mezzo metro di altezza, e da lì passa il filo nella tela alle ragazze che sopra lo ricevono e ricamano. Ci lavorano anche bambine sui 10 anni ..
Nonostante il disagio e lo squallore, la loro gentilezza non si attenua. Non si aspettano niente..
Transitiamo dal villaggio dove lavorano il marmo. Qui una polvere bianca copre tutto..
Alla faccia della sicurezza e salvaguardia della salute nell’ambiente di lavoro..
Fanno sculture per le pagode e lavori vari in marmo. Lavorano duramente e tutti sono sempre disponibili e gentili a qualsiasi richiesta. La serenità che fanno trasparire
anche in situazioni pesanti è per noi quasi incomprensibile. In particolare, nel mercato delle giade che visitiamo poco dopo, dove alcuni ragazzi, con un caldo infernale (la temperatura esterna media è di 40 gradi umidi!) accanto ad un forno acceso si alternano in sequenza, battendo un colpo al secondo con un grosso martello, il metallo per la lavorazione delle lamine..
Sembra di essere nel medioevo.. Questi ragazzi prenderanno per questo lavoro, forse, 2000 kyat al giorno (2 dollari).
Ci fermiamo per una visita alla Kuthodaw Pagoda conosciuta come il Big Book che contiene centinaia di pavillon che a loro volta contengono ben 729 tavole di marmo di scritture buddiste.
Vediamo poi la bellissima e bianca Sulamani Pagoda (ripresa anche dalla guida Lonely Planet) con le 7 terrazze che rappresentano il monte che la circondano, ed il
gigantesco Mandalay Palace, Il Palazzo dorato residenza degli ultimi re di Birmania, cittadella fortificata dal re Mindon e poi dal figlio per 7 anni prima di essere cacciato in esilio in India dagli inglesi.
Pare di essere in una favola, quella con i palazzi dorati con mosaici e decori e fiori .. Il palazzo si estende su un’area vastissima; ne vediamo una minima parte, è visitato da pochi turisti, in effetti il biglietto ha un costo piuttosto alto. I lavori di restauro sono stati ultimati col lavoro forzato dei carcerati e volontario dei giovani (che il governo ha obbligato a contribuire per un giorno al mese fino al completamento)..
Andiamo poi ad Inwa e Sagaing, due piccole città ricche di pagode e monasteri.
Sagaing , ha un centinaio tra stupa e monasteri e vivono qui circa 5000 monaci.
Dovunque si respira un’ atmosfera di meditazione e di pace. Ritornando a Mandalay visitiamo la Pagoda KYAUKTAWGYI dove si trova la statua del grande Buddha: un unico blocco di marmo ricoperta quotidianamente da foglie dorate votive posate dai fedeli. Il Buddha è alto quasi quattro metri ed è in posizione seduta. Una moltitudine di fedeli ogni giorno viene a pregare, in particolare per assistere alla abluzione del volto del Buddha.
A Bargayar di Inwa visitiamo un monastero in tek costruito nel 1834 con 267 pali, il più grande di 18 mt di altezza e 2,7 di larghezza. Qui assistiamo a una lezione che i
monaci danno ai bambini..
Nel tardo pomeriggio in auto saliamo per una strada con diversi tornanti fino alla Mandalay Hill, a 230 mt di altezza, da dove ci godiamo il tramonto ed un panorama
mozzafiato a 360 gradi della campagna circostante costellata di pagode con il fiume Ayeyarwaddy. Sulla cima della collina: una pagoda dove i Buddha sono sorvegliati dai nats (spiriti). All’accesso sud ovest della collina ci sono due enormi leoni scolpiti in marmo, posti a guardia dell’ingresso.
Alla sera, fermamente intenzionate a cenare al ristorante Myanmar che ci avevano consigliato il giorno precedente, prendiamo il moto-taxi (un piccolo pickup Mazda) per farci portare. Con l’aiuto dei ragazzi dell’hotel contrattiamo con il taxista che ci aspetterà fino a fine cena per riportarci nuovamente all’albergo. Alla fine, tra taxi e
cena spendiamo forse 7 dollari a testa..
Per strada non c’è luce, buio pesto. Arriviamo al ristorante, un piccolo locale con qualche tavolino, due turisti stranieri e qualche birmano. Per lavarsi le mani, nello
stesso locale un lavatoio con delle caraffe d’acqua..
Siamo servite da almeno 6 ragazzini, molto divertiti dal fatto che siamo lì.. Ci posano sul tavolo una serie di tazzine con salse, carni, verdure,.. Il giorno successivo verremo a sapere che.. nei ristoranti Myanmar riciclano “tutto”, ovvero quello che abbiamo mangiato probabilmente era già stato presentato a qualcuno prima di noi e quello da noi avanzato seguirà la stessa strada..
Prima ed ultima esperienza, con ovvie e, oggi, trascurabili conseguenze..
Nei giorni seguenti, la saggia decisione: vada per il cibo Myanmar, ma “per turisti”..
La mattina successiva, dopo la buona colazione, partiamo in auto per Amapura la città dell’immortalità, la penultima capitale del regno del Myanmar.
Entriamo in un antico monastero, il Maha Ganayon Kyaung, sede del centro di studi monastici e per questo abitato da centinaia di giovani monaci novizi. Verso le 11
assistiamo alla loro processione con la ciotola in mano per ricevere il riso che vanno a consumare tutti insieme nel refettorio comune e nel più assoluto silenzio.
Impressionante è la preparazione del cibo per i monaci (a badilate buttano la carne in enormi pentoloni..), ed i magazzini del riso, del pesce, della frutta..
Ad Amapura visitiamo il ponte pedonale U-Pein il più lungo ponte in tek del mondo che attraversa il Lago Taungthaman. E’ lungo 1,2 km ed è sostenuto da 1060 pali. Tra un restauro e l’altro resiste da 200 anni all’acqua e ai venti e centinaia di abitanti lo attraversano ogni giorno. Noi lo percorriamo in andata e ritorno con monaci e
pescatori. Sia sopra che sotto c’è grande animazione.
Proseguiamo per Ava, l’altra antica residenza dei re. Ci trasporta una piccola carrozza trainata da un cavallo, il mezzo qui maggiormente utilizzato. Non ci sono auto e la strada è sterrata. Fa molto caldo, attraversiamo alcuni villaggi. Campi coltivati, banani, tamarindi e distese di verde.. Scene di vita ordinaria dei villaggi con le donne
che tornano dai mercati portando in testa la loro spesa e i bambini, e i contadini che lavorano la terra, i maiali o le capre o la mucca davanti la capanna, o i carri trainati
dai buoi che trasportano legname o altro. E il verde assoluto in uno spazio senza tempo..
Per pranzare ci fermiamo in un bel ristorante vicino al fiume, all’ombra dei bambù, dove abbiamo occasione di scambiare due parole con una simpatica famiglia di svizzeri. Stanno percorrendo il nostro stesso itinerario e, scherzando, ogni volta che ci incrociamo ci chiediamo chi tra noi sta pedinando l’altro …
Alla mattina, il nostro autista, molto gentilmente mi aveva riparato con mezzi di fortuna la mia valigia che, cinese e malnata, cominciava a perdere i pezzi, qualche
vite del trolley..
Nel tardo pomeriggio partiamo per l’aeroporto di Mandalay per il volo per Bagan.
Il volo partirà con circa un’ora e mezzo di ritardo, senza nessun avviso, come da manuale. Dopo il check in: il solito vuoto; in fondo si deve solo aspettare senza tante
pretese.. Il volo della Air Mandalay dura circa mezz’ora. Verso le 8 arriviamo all’aeroporto di Bagan dove all’ufficio immigrazione paghiamo un pedaggio di 10 dollari (contributo richiesto al turista dallo Stato per la città di Bagan).
Ci ricevono col solito cartello col nostro nome, Win Bo, esperta e appassionata guida, insieme all’autista Ko Thet, due ragazzi sui 35 anni.
A Bagan la temperatura è decisamente più umida e a quest’ora ci sono circa 40 gradi.
Ci rianimiamo sulla comoda auto che ci accoglie con l’aria condizionata, qui pressocchè indispensabile.. Win Bo ci parla di Bagan confermandoci che la sola visita
di Bagan vale il viaggio in Myanmar.
Ci fermiamo per la cena ad un caratteristico ristorante cinese, molto carino, il Sabada, nella old Bagan vicino al nostro hotel. All’hotel ci ricevono con il cocktail del
benvenuto. E’ un eccellente hotel a 4 stelle, con un’ampia hall arredata in stile coloniale in uno splendido parco con piante tropicali e bouganville, e una piscina che
subito ci tenta.. Ci diamo appuntamento con Win Bo per la mattina dopo alle 8 e mezza.
Bagan è nota come la località più affascinante della Birmania. Dal 1100 al 1300, in circa due secoli nel periodo in cui Bagan fu il fulcro culturale e religioso più importante dell’intero Paese, i re di Bagan fecero erigere 4400 templi costruiti secondo stili differenti; lo stile architettonico adottato per la costruzione degli edifici si evolse velocemente seguendo varie influenze che contribuirono a migliorare ed elaborare le forme, dare più luce agli spazi interni e utilizzare materiali provenienti anche
dall’India. In quel periodo furono costruiti anche numerosi monasteri ed edifici in legno con elaborate decorazioni che purtroppo nel tempo sono andati completamente distrutti, dalle intemperie, dagli escrementi dei pipistrelli, dall’incuria, dalla foresta; gli edifici in pietra e mattoni fortunatamente si sono conservati fino ad oggi. Alcuni sotto la protezione dell’UNESCO sono oggetto di lavori di ristrutturazione e di conservazioni.
Visitiamo la pagoda più imponente, la Shwezigon Paya, 1100 d.c., considerata il prototipo dei successivi stupa birmani. Di una bellezza abbacinante. Win Bo ci parla del buddismo, delle posizioni del Buddha, dei Nats gli spiriti di eroi morti per causa violenta, delle religioni animiste praticate nel nord del Myanmar, nel monte Popa. Ci spiega che i Nats influenzano la vita quotidiana di ogni persona che vive in questo Paese e quindi preghiere e offerte sono all’ordine del giorno per ingraziarsi i tanti spiriti che hanno molti poteri, ad esempio per superare un esame a scuola, coronare un sogno d’amore, aumentare la fertilità, concludere buoni affari, curare malattie ecc ecc.
Bagan è divisa in due parti: la vecchia dove ci sono i siti archeologici ed alcuni hotel, e la nuova Bagan dove risiedono gli abitanti.
Nel 1975 il terremoto di Bagan, 6,5 gradi Richter, procurò gravi danni alla città, ora Patrimonio dell’Unesco e sempre negli anni 70 il popolo fu obbligato dal governo a trasferirsi dalle proprie case nella nuova città (New Bagan).
Ci trasferiamo in auto all’Ananda Temple, 1084 d.c., tempio simbolo di Bagan, un vero capolavoro architettonico, con il particolare Hti a pannocchia dorata, 52 metri di altezza e con le piastrelle raffiguranti scene della vita di Buddha. E affreschi cinesi e tibetani con scene quotidiane e di divinità.
Verso le una, 43 gradi con una umidità non pervenuta…, ci fermiamo in un negozio di artigianato dove lavorano ceramiche, metalli e marionette. Dopodichè optiamo per il ritorno in hotel per una pausa ristoratrice, bagno in piscina e fissiamo con Win Bo un nuovo appuntamento per le tre.
Anche in questo hotel siamo in pochi, forse una decina di ospiti.
Il bagno in piscina, dove siamo solo noi, ci rigenera.
Nel pomeriggio visitiamo un altro tempio; all’uscita, nella piccola piazzola antistante il tempio, una decina di ragazzi in cerchio giocano con lo chinlon.
Per il tramonto andiamo al Shwesandaw Stupa, 1044 d.c., uno splendido tempio a piramide, 5 terrazzature, dove saliamo una ripidissima e lunga scalinata, che si erge
verso il cielo e dalla cui sommità godiamo di un panorama a 360 gradi. Con il tramonto aumenta lo splendore dei templi che si vedono a distesa d’occhio e che si tingono di arancio, viola, alcuni prendono una tonalità tra la ruggine e il ramato.
La valle si illumina di una luce evanescente.
Win Bo ci parla della sua famiglia, dei suoi due bimbi, della sua religione, del rispetto per gli anziani, dei costumi, usanze e tradizioni.
Siamo molto orgogliose di aver conosciuto queste guide, preparate, attente, disponibili, raffinate e di una gentilezza di spirito fuori dal comune. Ognuno di loro ci
ha lasciato un segno indelebile.
Visitiamo poi l’attiguo Museo archeologico.
Alla sera ceniamo al ristorante dell’hotel, cucina cinese, buona. Luce soffusa, al lume di candela. C’è poca corrente. In questa città fa più caldo di notte rispetto al giorno.
Un gran silenzio e una sensazione di pace.. Ci fermiamo per contemplare la stellata tropicale.
Quando rientriamo in stanza, purtroppo salta la corrente e ci aggiustiamo con la nostra pila di fortuna. Più tardi, di notte salterà nuovamente, facendoci annaspare per
l’aria condizionata che si ferma per circa mezz’ora. Concludiamo che è stata saggia la nostra decisione di cambiare il programma iniziale di viaggio, partendo un giorno prima da Bagan per il mare.
Il giorno dopo, Win Bo ci porta al Nyaung U market, animatissimo mercato locale.
Visitiamo poi lo Shwezigon Stupa, 1084, contenente una reliquia del Buddha, l’Htilominio Monastery dove Win Bo ci racconta che ha passato un periodo come
monaco novizio. Qui incontriamo il monaco, già insegnante di Win Bo, che ci accoglie con un gran sorriso e cortesia.
Il successivo Manuha Temple che visitiamo ha al suo interno tre Buddha frontali ed uno disteso.
Per pranzo ci fermiamo in un ristorante molto carino, il Green Elephant, lungo il fiume, immerso in un parco strepitoso di piante e fiori. Un tavolo con vista fiume (sotto stanno navigando lentamente alcune tipiche canoe) e all’ombra delle piante di bambù.
Ci prendiamo un gustoso piatto a base di pesce, riso e verdura, birra Myanmar.
Il prezzo che pagheremo qui è il doppio rispetto agli altri finora provati, l’equivalente di circa 14 dollari a testa.
Riprendiamo l’auto per raggiungere il sito del Gubyaukgyi Temple; all’ingresso lasciamo come sempre le infradito e visitiamo questo spettacolare tempio. Una scritta
in inglese invita a non scattare foto. Si fa un percorso in un cunicolo interno ad anello. Conserva antichi e ben conservati affreschi di scene jakata. Non ci sono protezioni. Si spera nella civiltà e accortezza di chi li visita che dia la giusta attenzione per evitare di rovinarli sfregandoli con borse ecc.
Più tardi visitiamo un laboratorio artigianale dove producono le famose lacche.
Assistiamo al processo, dal pezzo in bambù alla lavorazione, all’intaglio del disegno, alla laccatura.. Lavorano in condizioni veramente precarie, con le mani immerse tutto il giorno nelle resine e vernici nere che emanano esalazioni non propriamente naturali..
Rientriamo in hotel. Ci concediamo un’ora di relax, cena e appuntamento per l’indomani mattina alle 6 (!) per il trasferimento in aeroporto e volo per Ngapali Beach.
Il volo della Air Bagan è in ritardo di appena una mezz’ora.. Dopo due scali, atterriamo a Thandwe. L’aeroporto è recente, molto piccolo, sembra arrangiato da poco.. Ci riceve una hostess dell’hotel Amata con l’autista che ci carica i bagagli sul pulmino e partiamo alla volta di Ngapali.
Dopo circa un’ora arriviamo all’hotel, un villaggio nel villaggio, alla reception addirittura un cartello per il nostro benvenuto, oltre al tradizionale cocktail.
Gli hotel di questo nostro speciale viaggio sono stati un crescendo e quest’ultimo è il migliore. Bene organizzato, ampie stanze (sono suites in realtà) letti con zanzariere, frigo bar, frutta, aria condizionata. E’ immerso in un giardino tropicale, curatissimo, vasche con fior di loto, fontane con pesci e ninfee, bouganville e fiori tropicali. Ha tre sale ristoranti, uno è in una splendida terrazza vista mare. C’è anche una super attrezzata spa oltre al business centre con i pc per i collegamenti internet peraltro qui molto costoso (6 $ all’ora. Un prezzo assolutamente da turista).
Nella spiaggia le sdraio a nostra disposizione, con i teli, sono disposte accanto all’ombrellone di bambù e al grazioso baldacchino dei massaggi. Tutto molto curato.
La spiaggia è bianca, pulita. Tutti gli ingressi al villaggio sono sorvegliati costantemente dalla Security dell’hotel.
Qui si intravedono più turisti: diversi tedeschi, qualche svizzero.
Ngapali è sul Golfo del Bengala, spiaggia bianca lunga 3 km e circondata da una folta e rigogliosa foresta tropicale e si affaccia su un mare limpido e azzurro.
Ci gustiamo il momento: relax, bagno e verso sera percorriamo i due km della spiaggia pressocchè deserta, verso il punto in cui il mare rientra formando una piccola
insenatura, porto di un paio di caratteristiche imbarcazioni dei pescatori del villaggio.
Al ritorno ci godiamo un tramonto spettacolare sul mare.
Il giorno successivo, con una barca a motore noleggiata tramite l’albergo, andiamo nell’isola “deserta” che si vede di fronte al nostro villaggio, a mezz’ora da lì.
I due ragazzini che la portano sono del villaggio dei pescatori di Ngapali.
Facciamo snorkeling (in questo pezzo di mare, per la verità sotto non c’è granchè da vedere) e mangiamo il pesce che loro ci pescano e cucinano. Non ci facciamo mancare nemmeno la noce di cocco! Tutto ottimo.
Alla sera al rientro, percorriamo l’altro pezzo di spiaggia verso il villaggio dei pescatori, sempre costeggiato da altissime palme. Sulla spiaggia ci sono anche tre quattro bancarelle improvvisate dove alcune donne del villaggio vendono collane di conchiglie o giada, tovagliette in rattan e altri loro manufatti.
Il villaggio dei pescatori è vitalissimo, gli uomini preparano le barche per uscire per la pesca e le donne con i bambini finiscono di raccogliere e stendere il pesce arrivato quella mattina ad essiccarsi al sole, nella sabbia sopra a lunghi teli blu..
Siamo a piedi nudi e camminiamo sulla sabbia.. Evitiamo qualche pesce morto e, anche i topi morti qui non mancano.. All’interno il villaggio che vediamo è il solito,
povero, con scene che a noi sembrano primitive, il maiale davanti la capanna, il fuoco all’esterno per cucinare, non c’è elettricità, né acqua potabile..
I bambini salutano, sorridono, alcuni si sbracciano per salutare.
Il giorno successivo noleggiamo un’auto per andare a visitare la cittadina di Thandwe con il suo mercato.
Alla sera preferiamo cenare nei piccoli ristorantini esternamente al nostro villaggio.
Cucinano un ottimo pesce. Sono molto ospitali e il tempo assume qui un valore che noi avevamo dimenticato.
Servendoci della pila, facciamo due passi lungo la strada principale del villaggio percorsa da qualche risciò, qualche bicicletta e motorino, poche auto. Ci sono molti
cani. Anche in spiaggia se ne incrociano diversi. Miti e mai aggressivi..
In una capanna-bar c’è una televisione dove stanno trasmettendo un concerto di musica rock. I ragazzi delle case vicine sono tutti lì, seduti davanti alla tv, a seguire
insieme lo spettacolo..
Giovedi 2 aprile di prima mattinata il pullmino dell’hotel Amata ci trasferisce all’aeroporto per il volo Air Bagan per Yangon.
Dopo il check-in nell’attesa assistiamo ad una scena “originale”: un contadino col suo carro trainato dai buoi sta entrando nell’area ai bordi della pista, che in teoria
dovrebbe essere di sicurezza dell’aeroporto. Uno della Security con un fischio gli fa cenno di tornare indietro..
Mezz’ora di volo e arriviamo a Yangon dove ci aspettano Aung Cho Oo, la nostra amabile guida e l’autista nel loro tradizionale loungyi. Facciamo un salto all’agenzia
Kst che ci fa piacere ringraziare per l’ottima organizzazione di questo nostro viaggio.
Sono stati bravissimi e ne siamo molto soddisfatte.
Giriamo per Yangon prima di depositare i bagagli all’hotel Summit Park View. Yangon è stata fino al 1948 una delle più ricche e raffinate capitali coloniali. All’ombra delle pagode si ritrova l’atmosfera inglese. Visitiamo il quartiere dei vecchi palazzi governativi e delle ambasciate, struttura vittoriana, nella zona del lago Inya. Viali con
alberi di teak, piante fiorite e mercati affollati di gente. Qui nessuno sembra aver fretta. Al mattino migliaia di pendolari si muovono per andare a lavorare e a scuola.
Il governo militare ci tiene a far vedere una Yangon moderna. Si vedono auto “recenti”, giganteschi manifesti pubblicitari che ricordano i nostri degli anni 50, parchi
curati.. Basta poco però per rendersi conto della realtà.
La situazione anche a Yangon se si eccettuano piccole situazioni di modernità create dai capitalisti cinesi e indiani, è disumana e di una miseria insopportabile.. ma il
mondo non deve saperlo..
La parte meno decrepita di Yangon è abitata dai cinesi. In ogni caso la nostra impressione è di una città bombardata con abitazioni malridotte e bisognose di manutenzione. Non mancano comunque le antenne satellitari che avevamo notato anche in certe capanne di paesini sperduti.. Un paradosso.
Visitiamo una cattedrale cattolica. Di fronte a questa c’è la sede del Myanmar Times.
Giornali e tv in Birmania sono manipolati dal governo, come il governo sovrintende, controlla e oscura le comunicazioni internet. Si sa che in passato alcuni giornalisti
sono stati arrestati per un documentario girato sulle condizioni di vita birmana, altri addirittura per aver parlato di una squadra di calcio che non si era presentata al campionato. Le pubblicazioni nel giornale in inglese che abbiamo avuto modo in questi giorni di consultare pubblicano solamente notizie di ricevimenti offerti dalla giunta militare a qualche dignitario straniero in visita (di solito cinese), santifica anniversari di eventi cari alla iconografia di regime (come d’altronde le megalomani foto con militari e monaci che abbiamo avuto modo di vedere nelle pagode di recente costruzione) o esalta inesistenti opere pubbliche.
In realtà mancano le strutture, mancano le strade o sono in condizioni pessime. Per fare un centinaio di kilometri possono servire anche 14 ore di gimcane fra le buche e l’ultimo strato di asfalto. Tra l’altro, il turista straniero non può guidare, per farlo deve avere un permesso governativo. Alcune zone, soprattutto al nord del Paese, sono comunque interdette e vietate. E poi mancano i servizi, i treni.. La sicurezza dei voli interni è molto discutibile.. La benzina è razionata nonostante il territorio sia ricco di petrolio. La vendono al mercato nero. 1 gallone ovvero 4 litri costa ben 5 dollari. Visitiamo il famoso Bogyoke Aung San Market detto anche Scott Market. E’ immenso, ha 2000 negozi ed esiste da 70 anni. All’esterno scene di vita quotidiana, gente che si arrabatta per sopravvivere, monaci che girano con la ciotola per ricevere le offerte, venditori di frutta o di dolci fritti, cinesi che vendono vestiario, cibo di qualsiasi colore.
All’interno negozi di stoffe, loungyi, sete, lacche, gioielli, gemme, perle, quadri, prodotti e souvenirs per turisti.
Aung Cho OO, per soddisfare la nostra richiesta di vedere un mercato dove va a rifornirsi la gente comune, ci porta al Thiri Mingalar Market della frutta e della verdura, aperto 24 ore su 24.
Uno spettacolo di colori e di gente. Mucchi di frutta e verdura di tutti generi. Frutti per noi sconosciuti: mangustin a forma di piccola mela di color noce con in rilievo una sorta di piccolo fiore; tagliandolo a metà, la polpa è bianca ed ha un grosso nocciolo.
Il jack fruit un grosso frutto color verde con la forma di un riccio, all’interno la polpa è color avorio, non è facile tagliarlo nè sbucciarlo. Il pomelo, un grosso agrume simile al pompelmo ma più dolce. La golden banana, una banana piccola e cicciona di colore nocciola. Saporita e buonissima. Il mango, il cocco, l’avogado, l’anguria, la papaya, l’ananas, il dragon fruit dalla forma di un drago seduto con base scura, collo rosso e verde, e foglie appuntite tipo ananas. All’interno è un misto tra kiwi e fragola.
E poi verdure e fiori di ogni tipo. Tutta questa merce viaggia su camion dal nord del paese. I camionisti si fanno ore ed ore su queste strade disastrate e arrivano al
mercato dove, in mezzo al caos e al via vai continuo di gente, riposano in brande di fortuna o sulle stuoie o stesi sopra ai loro camion, prima di ripartire per il prossimo viaggio. Famiglie intere vivono in questo mercato, con bimbi piccoli che dormono sulle stuoie, bambini che giocano, donne, tante che portano nei capelli un mazzettino di un profumatissimo fiore giallo il new year flower, una specie di maggiociondolo, che fanno la spesa o acquistano frutta o fiori per portarli in offerta nelle pagode..
Lasciamo il mercato e a pochi kilometri raggiungiamo il lago artificiale di Yangon con il bel parco e la particolare architettura: due enormi leoni dorati che formano una
imbarcazione su un isolotto. Qui ceneremo in un elegante ristorante tailandese.
3 aprile
Dopo la colazione, ritorniamo al Thiri market per comprare della frutta che porteremo in Italia. In questa settimana a Yangon come nelle altre città, la gente si sta preparando a due grandi feste popolari: l’Water festival (molto sentita soprattutto dai giovani. Si buttano addosso secchiate di acqua, in particolare i ragazzi alle ragazze) e il Myanmar New Year’s day, entrambe cadono in aprile.
Lasciamo il centro di Yangon per andare a visitare, in una località ad una ventina di kilometri, il Royal White Elephant camp. Un campo tristissimo dove alcuni elefanti
fanno i pagliacci per i turisti. Sono legati a catene e continuano a camminare in uno spazio angusto. Il tutto sotto l’occhio vigile dei militari. Uno spettacolo abominevole e vergognoso, soprattutto in un posto come la Birmania dove lo spazio certo non manca per lasciare liberi questi poveri animali. Non rimaniamo nemmeno cinque minuti, non è scena da ricordare.
Nella tarda mattinata ci trasferiamo all’aeroporto internazionale di Yangon per il volo per Singapore. La temperatura esterna è sempre sui 40°. In aeroporto (recente e
moderno per i turisti) l’aria condizionata è talmente esagerata che dobbiamo indossare un maglione. Dopo circa un’ora, apprendiamo, casualmente, da uno dei banchi che il nostro volo subirà un ritardo di almeno tre ore.. Cerchiamo notizie e ci mandano con un pass di sicurezza in un ufficio esterno all’aeroporto che, per trovarlo, è una vera caccia al tesoro. Nessuna insegna, ci capiti casualmente se sei fortunato..
Ingresso anonimo, una tizia seduta dietro a un tavolo che registra gli ingressi e le uscite e ti obbliga (sigh!) a salire in ascensore. Una volta su, devi sperare di trovare
qualcuno per chiedere a chi rivolgerti per quella informazione..
Alla fine, non riusciremo a prendere il volo di coincidenza da Singapore a Milano e la Compagnia ci ospiterà per un interno giorno all’hotel Mercury, 4 stelle, di Singapore, in attesa del volo del giorno successivo.
Sabato 4 aprile
A Singapore la mia valigia arriva praticamente distrutta con il blocco codici a pezzi e il trolley scassato. Ne approfittiamo per andare ad acquistarne una nuova in un mega store di fronte al nostro hotel. Questa volta “giapponese e col tesserino di Qualità”..
Viviamo il sabato di Singapore. Lo shopping, il giro ai curatissimi parchi dove girano con le macchine del golf, pattini, biciclette, tavola del surf sul lago artificiale dove fanno svariate acrobazie, la camminata sul lungo oceano super attrezzato con i posti per il barbecue e le tende dove trascorrono la giornata gruppi di ragazzi o famiglie.
Visitiamo poi la dowtown, il distretto coloniale a nord del fiume Singapore con il raffinato Raffles hotel nel centro circondato da vertiginosi grattacieli, il Merlion Park, il monumento simbolo, metà pesce e metà leone con il getto d’acqua fontana dalla bocca, considerato dai singaporesi una sorta di mascotte artificiale e, alle spalle, il
bellissimo Esplanade Theatre con la cupola a semicerchio di una particolare avveniristica architettura che ci ricorda molto il jackfruit.
Nel tardo pomeriggio riusciamo a prendere un taxi prima di un torrenziale acquazzone tropicale che ci offre uno spettacolo a noi inusuale.
Alla sera dopo l’ottima cena al ristorante internazionale dell’hotel, prendiamo il taxi per l’aeroporto per il volo di ritorno Singapore Milano, 12 ore e mezza.
Il viaggio si è concluso..
Qualche dato sul costo del viaggio. Il volo (€ 1.150 con assicurazione): abbiamo optato per la Singapore Airlines, ottima ma più cara rispetto alla Thai Airways e volo decisamente più lungo (11-12 ore e mezza fino a Singapore + 3 ore da Singapore a Yangon. Con Thai si arriva in 10-11 ore a Bangkok, a Bangkok si può acquistare il biglietto ad un prezzo più conveniente rispetto all’acquisto in Italia e in una mezz’ora si arriva a Yangon).
Il giro in Birmania completo di voli interni, hotel, guide in inglese + autista con tutti gli spostamenti ci è costato usdoll 1.185 a persona (al cambio 1 € = usdoll 1,50 ovvero: € 790. Un prezzo veramente ottimo.
Abbiamo osservato che alcuni alberghi sarebbero stati più cari senza il tramite della kst tours www.ksttours.com)
Rimangono tutte, e piene, le sensazioni, i visi dei bambini, la religiosità, le tante pagode, la barca sul lago Inle, la povertà, il senso di dignità, pacatezza, serenità della
gente birmana. L’impotenza di fronte alla prepotenza.. E questa meravigliosa esperienza di un viaggio senz’altro speciale.
Anto e-mail: antomatic@tin.it