Autostop sull’Himalaya

India-Ladakh 2005

Racconto di viaggio

di Silvia Merialdo

 

 

Suono dunque sono.

Sembra essere questo il motto dei camion indiani. Non solo quello dei camion, in realtà, ma di ogni mezzo a quattro, tre o due ruote che si aggira per le strade dell’India. Anche in questa parte un po’ tagliata fuori dal resto del mondo, in Ladakh, nell’estremo nord dell’India, sui monti dell’Himalaya a 3500 metri sul livello del mare.

 

É vero che qui non è come a Delhi e che queste strade, sterrate e remote, sono poco frequentate.

Anche qui però passano vecchie Ambassador, jeep e moderne Tata suonando il clacson in continuazione, non tanto per reale necessità. Sembra più che altro che vogliano dire “eccomi, ci sono”, quasi a dare un segnale concreto e sonoro alla loro presenza sulle strade polverose.

Ma sono soprattutto i camion che attirano la nostra attenzione, enormi, potenti, capaci di vita e di morte su queste strade di alta, altissima montagna. Numerosi i camion militari, carichi di soldati destinati a difendere il pericoloso confine con il Pakistan, ma soprattutto i camion da trasporto: bellissimi, con una cabina intarsiata e colorata, sul retro hanno la scritta blow horn, suonare il clacson e spesso più sotto è precisato: use dipper at night, usare i fari di notte.

Ne passano parecchi, anche su questa stradina dimenticata da Dio di Saspol, un paesino a qualche kilometro da Alchi, uno dei monasteri buddhisti più famosi del Ladakh.

 

Io e il mio compagno siamo arrivati qui in autobus e aspettiamo un altro autobus che ci porti al paese di Lamayuru, per visitare un altro monastero, alla ricerca di una decantata spiritualità che, contrariamente ad altri, proprio non riusciamo a trovare da queste parti, nei monasteri o durante le puja buddhiste, tanto affascinanti quanto quasi vuote nella reiterazione del rito, nei monaci che si comportano esattamente come noi, nella gente che vive una vita dura, concreta, più che mai terrena.

Ma saremo sbagliati noi, mi dico, saremo noi a non capire.

Intanto ci passano davanti questi camion enormi, osservo che alcuni di loro, sui lati, hanno la scritta: work like a coolie, live like a prince (lavora come uno schiavo, vivi come un principe). Vita da camionisti che percorrono migliaia di kilometri. A me sembra più una vita da coolie che da principi, ma d’altra parte come si può giudicare cosa voglia dire veramente vivere da principi?

 

Persa in questi pensieri, fra mancata spiritualità buddhista e prosaica filosofia di vita da camionisti, l’autobus che aspettiamo finalmente arriva. Lo fermiamo con un gesto e vediamo che accenna appena a fermarsi, rallenta leggermente, ma un viso aggrottato spunta a dirci che è pieno e se ne va come è venuto, lasciandoci a terra.

La situazione  è disperata: il prossimo autobus passa l’indomani mattina... Stiamo ad aspettare, nella vana speranza che passi qualche altro autobus. Uno dei camion di passaggio prende in pieno una pozzanghera a lato della strada e ci infradicia completamente gli zaini. Maledetti camion. Maledetti camionisti.

 

Pensiamo alla possibilità di fare l’autostop. Devo ammettere che l’idea mi ha sempre stuzzicato, ma ci si può fidare? A un certo punto arriva un camion, si ferma lungo la strada. Insieme all’autista, intravvediamo una presenza femminile nella cabina. Confortati dal fatto che se c’è una donna forse non ci stuprano, chiediamo al camion se per caso vanno a Lamayuru. Un attimo di indecisione da parte loro, un attimo di panico da parte nostra. Scende un ragazzino, ci prende gli zaini e li mette nel retro. Ci vanno.

 

Saliamo in cabina, sembra di arrampicarsi sull’Himalaya, da quanto è alta. Ma dentro non è una semplice cabina, è un vero e proprio salotto, comodissimo e accogliente.

Ci accolgono l’autista, una signora sorridente e due ragazzini. L’autista ha una lunga barba e il turbante in testa e i ragazzini, ancora imberbi, hanno solo il turbante che probabilmente nasconde lunghissimi capelli. Sono sikh.

Inizio a cercare nell’hardware del mio cervello le mie conoscenze sui sikh. Non so molto, mi salva però un’articolo che ho letto sulla rivista dell’ambasciata indiana e un’intervista allo scrittore Khushwant Singh, che neanche ricordo dove ho letto, forse su internet.

Mentre sto lentamente scansionando mie conoscenze, mi accorgo che in realtà non serve. La signora è tanto simpatica ed estroversa che non c’è alcun bisogno di conquistarla con le mie conoscenze approssimative e fortuite.

 

Inizia a intavolare una discussione nel suo inglese altrettanto approssimativo e fortuito, ma ci capiamo comunque, la sua voglia di parlare e il suo entusiasmo superano ogni barriera linguistica.

Si chiama Rano e ci racconta dei suoi figli, del suo matrimonio all’età di 17 anni, del marito che fa il camionista, della sorella che si sta per sposare, in poco tempo tutta la sua vita. É la sorella dell’autista e i due ragazzini sono non ben precisati nipoti, sono una famiglia di camionisti sempre in giro per le strade dell’India.

Vivono a Jammu, near airport, la capitale invernale dello stato di Jammu & Kashmir. Parlano il punjabi come lingua madre, ma usano l’hindi per comunicare in giro per l’India.

 

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Racconto anch’io un po’ di me. Non so perché, ma quando dico chi sono sembra sempre così banale. “I am from Italy. You know, Italy, Sonia Gandhi”. Funziona sempre citare il nome di Sonia Gandhi come biglietto da visita dell’Italia. Infatti anche loro capiscono al volo e si compiacciono di avere dei compagni di viaggio italiani.

Rano, entusiasta della situazione, coglie al volo l’occasione di invitarci a casa sua a Jammu. Subito, così, viaggiando con loro per alcuni giorni fino a Jammu.

Le spieghiamo che non possiamo, perché è troppo lontano e fra una settimana dobbiamo tornare a Delhi a prendere il nostro volo di ritorno per l’Italia. Non è molto convinta di questa motivazione, il fatto che abbiamo un volo prenotato per tornare a casa sembra essere per lei una stranezza estrema. Ci lascia comunque il suo indirizzo, quanto mai confuso (lei stessa non sa bene dove abita), non si sa mai che possiamo cambiare idea.

 

La strada è veramente brutta, ci passa a malapena il nostro camion ma è a doppio senso. Per fortuna l’autista è coscienzioso. Anche lui suona pesantemente il clacson, ci accorgiamo ora che in effetti è indispensabile suonarlo ad ogni momento per segnalare il proprio arrivo.

Ci guida la scritta sul camion davanti a noi, blow horn, use dipper at night. Penso a questa famiglia che viaggia in continuazione per queste strade sterrate e che lo fa come se fosse nata per farlo. Non si fanno tante domande: bisogna guidare un camion per vivere, proprio come bisogna mangiare e dormire, senza chiedersi tanti perché.

Work like a coolie.

 

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Ci fermiamo a prendere qualcosa da bere. Scende l’autista e torna con un vassoietto e tre bicchieri di coca cola. Beviamo con Rano, che dopo aver finito tira dei rutti che da noi neanche nella gara mondiale di rutti o nelle bettole di infimo livello se ne sentono di così grossi. Ma per lei è naturale così: non cerca di trattenersi nè di nascondersi, ci rutta tranquillamente in faccia.

In effetti ha ragione, la coca cola è gasatissima e anche a me viene da ruttare, ma mi trattengo per quel presunto senso di educazione che mi hanno insegnato fin da piccola.

Prendiamo il vassoio e lo restituiamo al baretto sulla strada dove l’ha preso l’autista. Per questo gesto, il povero ragazzino con il turbante viene rimproverato dallo zio autista, non capiamo le parole in punjabi, ma il senso è sicuramente questo: “Imbecille! Ma non hai visto che avevano finito? Non potevi riportarlo a posto te? Li hai fatti alzare a portare indietro il vassoio, ma ti sembra il modo di comportarti con gli ospiti?”

Noi non ci avevamo neanche pensato. Ci ruttano in faccia ma hanno una nobiltà nell’animo da invidiare.

Live like a prince.

 

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Comprano anche delle albicocche, buonissime da queste parti, e ce le offrono da mangiare durante il viaggio.

Le offerte non finiscono qui. Rano mi regala un fermaglio per i capelli, che si era comprata per lei come ricordo del Ladakh. Anzi, mi pettina e me lo mette fra i capelli. Rinnova con sempre più insistenza l’invito a casa sua. Diciamo che purtroppo non possiamo andare, non ora, dobbiamo tornare a casa, sarà per un’altra volta, la prossima volta che veniamo in India. Ma la prossima volta quando?

Sappiamo che è inutile raccontare a noi stessi la storia che noi siamo viaggiatori e non turisti. Queste sono le nostre vacanze, il 20 agosto si torna a casa e c’è poco da fare, è quello che fanno anche i nostri colleghi e amici: venti giorni in giro per il mondo e poi si torna a casa. Ok, zaino in spalla e tutte queste boiate del turismo indipendente, ma tutti seguiamo la stessa Bibbia Lonely Planet, tutti compriamo regalini da portare a casa e tutti scattiamo fotografie da far vedere agli amici.

Ma come spiegarlo a Rano, che può tornare a casa quando vuole? A lei che non deve timbrare cartellini, che può permettersi di fermarsi un giorno o due in più in Ladakh, se vuole, prima di tornare a casa? Difficile spiegarle come è fatto il nostro mondo.

Alla fine patteggiamo per andarla a trovare questo stesso dicembre, nelle vacanze di Natale. I suoi occhi, in cui era già scesa un’ombra di tristezza, si illuminano. Noto fra l’altro, fra l’ombra di tristezza e la luce di gioia, che deve avere qualche malattia agli occhi.

 

Felice anche io del patteggiamento e già con la mente in un prossimo viaggio, inizio a sfoggiare un po’ le mie conoscenze sui sikh: è da un po’ che nel background del cervello tento di riordinare le informazioni. Mi metto a parlare del tempio d’oro di Amritsar, il loro luogo sacro per eccellenza, di Guru Nanak, il fondatore della religione e del Guru Granth Sahib, il loro testo sacro.

Appeso al vetro del camion c’è un pengaglio con i dieci Guru, i fondatori della loro religione.

Indico Guru Nanak e Guru Gobind Singh: ci azzecco, ma era facile, sono il primo e l’ultimo guru. Degli altri otto invece non conosco neanche un nome. Ma non c’è problema, me li elenca orgogliosa lei. Mi chiede di che religione sono. Penso che dire che sono atea sia troppo complicato: in India ognuno appartiene sempre a una qualche religione, per Dio! Appunto, per Dio. Dico che sono cristiana, cerco di spiegarle cos’è il cristianesimo, ma dice che non ne ha mai sentito parlare. Qualsiasi cosa sia, la accetta in toto, le sta bene. É tollerante e mi dice che andremo insieme a pregare al Tempio d’oro. Accetto.

 

La strada ora diventa tutta in salita e il camion fa fatica, ma la strada dell’amicizia con Rano è ormai tutta in discesa. Meglio chiacchierare con lei e non guardare il dirupo giù dal finestrino, in cui si intravvedono di tanto in tanto carcasse di camion come il nostro precipitati a qualche curva un po’ più stretta.

 

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Anche noi però abbiamo un problema: improvvisamente una gomma esplode. Per fortuna non finiamo nel dirupo, anzi ne approffittiamo per una sosta.

Mi prende per mano e mi dice se la accompagno a fare la pipì mentre gli uomini cambiano la ruota. Non so dove andrà a fare la pipì, ma ci incamminiamo lungo la strada, dietro ad una curva, per mano, quasi abbracciate, come due adolescenti ubriache di ritorno da una festa. Lei scherza, io rido.

Visto che siamo in un territorio arido e desertico, è difficile nascondersi dietro un albero o un cespuglio, non c’è assolutamente niente. Lei non si fa problemi: si accuccia e fa la pipì, intanto dei camion militari passano per la strada proprio lì davanti.Qualche soldato si sporge addirittura dal finestrino e saluta, non so se me o lei.

Anche io dovrei farla, ma non mi sento a mio agio a pisciare così, sul ciglio della strada mentre passano dei camion militari. Me la tengo.

 

A vederla lì, accucciata che fa la pipì, quasi la invidio. Invidio la sua libertà, la libertà di poter ruttare liberamente, di fare la pipì lungo la strada, di prendermi per mano dopo che ci conosciamo da qualche ora. Penso alla mia e alla sua libertà.

La mia libertà: quella di poter comprare un biglietto di andata e ritorno per l’India e di venire in Ladakh a fare la turista.

La sua libertà: quella di viaggiare su un camion e di decidere quando tornare a casa, giorno più, giorno meno, ma di non permettersi niente altro.

La mia libertà: quella di avere un lavoro con stipendio regolare e ferie pagate, che presuppone che torni in ufficio fra una settimana.

La sua libertà: quella di non avere mai ferie e neanche scadenze da rispettare.

La mia: quella di sognare altri mondi, l’India e l’oriente, di immaginare un’altra vita possibile e di chiedermi il perché di questa mia libertà.

La sua: quella di non sognare altri mondi, impensabili per lei, condannata a vivere a Jammu, quella di non farsi domande su come o perché.

Cambierei la mia libertà con la sua? Baretterei le mie libertà con le sue? Probabilmente no. Come forse lei non cambierebbe le sue con le mie.

A ognuno la sua liberta’, consapevoli che avere entrambe è impossibile.

 

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Pipì fatta, ruota cambiata. Si riparte. Ormai parliamo come se ci conoscessimo da sempre. Da adolescenti ubriache siamo diventate vecchie amiche e abbiamo conquistato la complicità di donne che parlano dei loro figli e mariti e, anche se io non sono sposata e non ho figli, sembra che funzioni perfettamente lo stesso.

Ma ogni viaggio ha la sua fine e anche questo sta giungendo al termine. Mi fa promettere ancora una volta che la andrò a trovare. Arriviamo a Lamayuru e viene il momento di scendere dal camion. Sono quei momenti in cui devi dire addio e allora pensi: ma che gentili che sono stati, ma quanto bene gli voglio, a loro, ai camionisti, agli indiani, ai punjabi, ai sikh. Che se fosse sempre così per tutti si potrebbe pensare che nessun odio fra i popoli possa mai esistere.

Sono quei momenti in cui ci guarda come se si fosse in un film, come se per un attimo si potesse estraniarsi da se stessi e assumere il punto di vista di Dio: esterno, oggettivo, imparziale. Sono quei momenti in cui allora si cerca di recitare meglio possibile, di interpretare la parte al meglio in modo che tutto scorra perfetto, come in un bel film di quelli seri, fatti bene, senza sbavature, estetici, artistici.

 

Ecco allora una ragazza, scarpe e pantaloni da trekking, zainetto in spalla, che scende al rallentatore dall’altissima cabina di un camion dello Jammu. Un piede sul gradino, un piede sulla ruota, attenta a non cadere in questa discesa dal tetto del mondo.

Ecco il suo compagno che, nascosti in un fazzoletto, cerca di dare dei soldi all’autista, per pagare il passaggio, per ringraziare. Pochi soldi per lui e la ragazza, un patrimonio per loro. Ecco l’autista, che li rifiuta orgogliosamente, quasi offendendosi.

Ecco la ragazza che, ormai a terra, ormai distaccata per sempre da quel camion, alza gli occhi per ringraziare ancora una volta la sorella dell’autista dal finestrino. Tutto funziona, tutto è come deve essere. Però ecco che incrocia lo sguardo di Rano e trova delle lacrime nei suoi occhi malati.

Così non va bene: non è mica un film di bollywood, questo è un film serio, siamo state insieme solo alcune ore, gli addii lacrimevoli non sono concessi... è sbagliato, scorretto. Ma è quello che è.

 

Rientro allora di colpo in me stessa, allungo una mano dal finestrino, per farmi dare la sua ultima stretta di mano, fortissima come la paura di non rivedermi più, come il dubbio se mai la andrò davvero a trovare. Fanculo allora al film estetico artistico, fanculo all’addio perfetto, fanculo a suo fratello autista che rifiuta i soldi, fanculo al nostro viaggio e al volo di ritorno, fanculo al clacson dei camion, fanculo a tutto tranne che a una cosa: alla sua libertà di piangere così, senza pudore, senza vergogna, per niente, di fronte ad una sconosciuta.

 

Questa libertà sì che la baratterei con qualsiasi cosa.

 

Blow horn, use dipper at night. Zaino in spalla, Lamayuru e il suo monastero ci attendono.

 

 

Silvia  woshisilvia@hotmail.com

 

 

 

 

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