Uzbekistan

Diario di viaggio 2010

di Massimiliano Gallina

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Sembra che le tapparelle esistano solo in Italia. Non ne ho mai trovate all’estero, e la cosa mi infastidisce molto perché sono sensibile alla luce e all’alba, quando il primo raggio di sole entra dalla finestra, io mi sveglio subito e non riesco più a prendere sonno. E Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, in cui mi trovo adesso, non fa certo eccezione. Sono arrivato in albergo alle 4 del mattino, dopo aver superato una serie infinita di ostacoli, e poiché il sole sorge presto (qui non si usa l’ora legale), credo che dormirò molto poco. Ma anche l’eccitazione, l’emozione per cominciare un nuovo viaggio in un paese tanto misterioso e tutto da scoprire, di certo mi terranno compagnia nelle prossime ore; e dopo una sola notte già ho dei ricordi da imprimere nella mente.

L’arrivo all’aeroporto, per esempio, dove una coda infinita all’ufficio passaporti spegne subito gli entusiasmi per essere atterrati dopo tante ore di volo. E, come se non bastasse, dopo un’ora buona in fila, atterra un altro aereo, i cui passeggeri… ci passano davanti! Sembrano tutti uzbeki, principalmente donne con in grembo bambini piccoli, e pare che qui costoro abbiano la precedenza sui comuni mortali (o, quantomeno è una regola non scritta). Le ore passano, e finalmente posso varcare il cancello d’ingresso verso il nastro dei bagagli, su cui però il mio zaino non si trova. Ma niente paura; capita che gli addetti spostino i bagagli non raccolti da proprietari fermi in coda al controllo passaporti, e infatti mi basta guardarmi intorno per recuperare il borsone, abbandonato in un angolo polveroso.

Poi viene  il turno della dichiarazione per la dogana: bisogna compilarla dettagliatamente, indicando provenienza, destinazione, numero del volo, e anche i soldi e gli oggetti preziosi che si ha con sé, precisandone il controvalore. Peccato che i moduli siano scritti soltanto in uzbeko! Alcuni loschi individui si aggirano tra gli smarriti turisti offrendosi di aiutarli a compilare i moduli in cambio di una mancia; ma io non cedo e, come sempre, cerco di cavarmela da solo, finché scopro che su una parete campeggia una gigantografia della suddetta carta in inglese. Basta quindi spintonarsi con gli altri occidentali alla ricerca di un buon posto di osservazione, far rimbalzare continuamente lo sguardo tra l’ormai sgualcito foglietto che ho in mano e quello mostrato sulla parete e riempire le caselline scrivendo appoggiato sulla schiena di chi mi sta di fronte per superare anche questo ostacolo. Mi metto quindi bel bello in coda agli scanner dei bagagli fino a quando arriva il mio turno, consegno al doganiere il prezioso foglietto e mi sento dire che… bisogna compilarne due copie!!!! Non rimane altro da fare che ghermire un altro foglio, riempirlo copiando da quello già pronto, e rimettersi in coda; ed infine… eccomi in Uzbekistan!

Chissà quali sorprese mi riserverà questo paese… una arriva subito. Tramite agenzia avevo prenotato un albergo per le prime due notti, con l’accordo che un autista sarebbe venuto a prendermi all’aeroporto. Esco dal terminal facendomi largo tra la confusione, alla ricerca di qualcuno con un cartello che riporti il mio nome… e ovviamente non vedo nessuno. Niente autista. Perché non sono sorpreso? Pazienza, in qualche modo mi arrangerò. Subito si fa avanti un tassista, con cui in un russo stentato contratto un prezzo ragionevole. Salgo sulla sua auto ma, prima di partire, mi chiede:

“Devi cambiare i soldi?”

“Sì”

Tira fuori la classica calcolatrice portatile, e mi spiega: “Ti do 2000 som per un dollaro”.

Il prezzo è ottimo, considerando che il cambio ufficiale è di 1.600.

“Va bene”, dico io.

“Quanto vuoi cambiare?”

“Cento dollari”.

“Aspetta qui”.

Scende e se ne va. Mi guardo intorno: sono chiuso in auto in un grande parcheggio, dove vedo molte persone che chiacchierano o semplicemente non fanno niente, molti sono ubriachi, qualcuno canta, certi sono accampati vicino a un fuoco. Sono le tre di notte, ma il caos regna sovrano. Sembra un porto di mare, non certo il parcheggio di un aeroporto internazionale. Intanto che nessuno mi vede, sfilo un centone dalla mia cintura nascosta. Dopo un po’, il tassista torna con due mazzi enormi di banconote, che devo accettare senza fiatare. In Uzbekistan, infatti, la banconota più grande vale mille som, il che significa che per cento dollari ti danno duecento banconote… impossibile contarle in macchina, o controllare che siano vere. Devo fidarmi, mentre il tassista parte e, durante il tragitto, cerca di chiacchierare con me; ma il mio russo è troppo limitato, e per la maggior parte del tempo mi limito a dire “sì” muovendo la testa su e giù, sperando che qui non funzioni come in Bulgaria, dove annuire vuol dire “no” mentre scuotere la testa significa “sì”.

Alla fine arrivo in albergo, sano e salvo. Il tassista mi lascia il suo numero, nel caso volessi un’auto per fare un giro della città o per cambiare altri soldi… in effetti può tornarmi utile. Non sono nemmeno più sicuro che in albergo abbiano ricevuto la mia prenotazione, e potrei dover cercare un’altra sistemazione alle quattro del mattino… ma per fortuna per oggi le sorprese sono finite.

Posso solo rilassarmi, in attesa che arrivi l’alba, per affrontare il primo giorno in questo paese che già promette di essere molto avventuroso.

 

Jasmine ha diciotto anni, ma ne dimostra qualcuno in più. Sta passeggiando per il parco insieme a delle amiche, uno dei principali divertimenti alla portata delle donne della sua età. Vedo che mi guarda e sorride, comincia a scherzare con le amiche, così mi faccio avanti e mi presento. Superata la timidezza iniziale, subito le ragazze diventano curiosissime, mi fanno un sacco di domande, arrivano altre amiche ancora e intorno a noi si forma un capannello di donne. Gli stranieri in Uzbekistan sono pochi, e ancora meno quelli che passano da Tashkent, quindi rappresentano per i locali un’attrazione tanto quanto loro lo sono per gli stranieri. Moltissimi giovani, uomini e donne, mi hanno fermato per strada, anche solo per chiedermi chi ero, da dove venivo, se potevo fare una foto con loro… Il calore e la disponibilità della gente sono ciò che più mi ha colpito in questo paese, davvero lontano dall’Occidente, non solo in senso geografico.

Jasmine e le sue amiche non sono certo da meno; sono timide, ma molto disinvolte per essere adolescenti in un paese musulmano.

“Da dove vieni?”

“Dall’Italia”.

“Che bello! Io amo l’Italia! E di dove sei?”

“Di Bergamo!”

“Che bello!” e mentre lo dice, sgrana stupita i suoi occhioni mediorientali come se avessi risposto “Vengo da Saturno con un’astronave, e ho due occhi anche dietro la testa”.

“Che lavoro fai?”

“Insegno a usare i computer”

“Che bravo! I ragazzi uzbeki sono tutti stupidi: pensano solo a bere e guardare il calcio in televisione”.

Forse dovrei spiegarle che gli uomini italiani non sono molto diversi, ma non voglio disilluderla.

 

“Quanti anni hai?”

“37”

“Sei sposato?”

“No”

“Oooooooohhh” le ragazze sono incredule. In Uzbekistan è tradizione sposarsi giovanissime, a diciotto, massimo vent’anni, con uomini di tre o quattro anni più grandi. Un uomo di 37 scapolo suona ancora più assurdo di uno venuto da Saturno.

Camminando ci avviciniamo alla fermata della metro. Con me restano solo Jasmine e un’amica, con cui resterò ancora un po’. La stazione è un museo, un vero capolavoro di architettura d’interni, che purtroppo è assolutamente vietato fotografare, essendo stata progettata anche come rifugio antiatomico. Ma chi è stato a Mosca o a San Pietroburgo sa cosa intendo.

Sulla metro c’è molto rumore, e per poterci capire Jasmine si avvicina a me, accosta la bocca al mio orecchio, la sua scollatura si struscia contro di me… per fortuna non siamo soli, altrimenti potrei fare cose di cui poi mi pentirei sicuramente.

Jasmine e le sue amiche studiano lingue straniere all’università. Sono certamente delle privilegiate, così le chiedo:

“Che lavoro vuoi fare dopo gli studi?”

“No, in Uzbekistan le donne non lavorano. Si sposano giovani, poi stanno a casa ad accudire i figli. Ne facciamo subito, ogni famiglia ne ha almeno quattro o cinque”.

A certe femministe nostrane si rizzerebbero i capelli in testa… Voglio vederla arrabbiarsi, ribellarsi ad una mentalità contro cui solo le donne come lei, che studiano, possono fare qualcosa.

“Ma sei contenta? – le chiedo. – Non vorresti lavorare, avere una tua libertà?”

“Non lo so – risponde, e vedo che è sincera. – Io non so chi sposerò, come sarà la mia famiglia, o che lavoro potrei fare. Non so cosa voglio. Così a me va bene.” Dai suoi occhi traspare quella ineluttabilità tipica dell’Islam, per cui tutto ciò che ci accade è volontà di Allah, quindi dobbiamo solo accettare e ringraziare.

“Ma sarai tu a scegliere tuo marito, o saranno i  tuoi genitori?”

“Lo scegliamo insieme”

“Che vuol dire?”

“Io scelgo un ragazzo, ma deve piacere anche ai miei genitori, altrimenti mi proibiscono di sposarlo”.

Restare zitella, qui in Uzbekistan, equivale ad essere una reietta, quindi alla fine c’è poca scelta.

Jasmine mi spiega che l’indomani lei e le sue amiche terranno uno spettacolo di ballo, e mi invita ad assistervi; purtroppo ho già il biglietto per partire, quindi devo salutare la mia nuova amica. Ma forse è meglio così: a desiderare troppo una cosa, c’è il rischio di ottenerla.

 

 

L’Uzbekistan è uno stato di polizia. Questo è un fatto indiscutibile, che colpisce qualsiasi visitatore. Ci sono poliziotti ovunque: ad ogni angolo di strada, ad ogni incrocio, nei parchi, nelle piazze, nelle stazioni della metro… e proprio da queste voglio cominciare a conoscere il paese. Sul forum della LP avevo letto storie terribili, di turisti che erano stati letteralmente sequestrati dai poliziotti mentre aspettavano la metropolitana e “accompagnati” in stanzette senza finestre, accusati falsamente di non avere i documenti in regola e costretti a pagare multe inventate per poter uscire. Non posso non provare anch’io, così mi dirigo bel bello verso la stazione vicina al mio albergo. D’altra parte Tashkent è una città immensa: pensare di girarla a piedi, con questo caldo, è fuori discussione. Un poliziotto sorveglia l’ingresso in superficie, mi scruta mentre scendo per le scale facendo finta di niente. Ma sento che mi chiama, e mi dice di fermarmi. “Ci siamo”, penso mentre comincio ad assaporare il gusto della conoscenza. Comincia a toccarmi lo zaino, sente che c’è un oggetto molto grosso al suo interno e mi chiede di mostrarglielo. Quando vede che si tratta solo della mie scarpe di scorta, mi saluta e mi lascia andare. Proseguo quindi verso la biglietteria, quasi deluso da questa velocissima perquisizione… non mi ha nemmeno chiesto i documenti! Anche lungo i binari la stazione pullula di poliziotti, che mi guardano ma non mi fermano. Forse sanno che, per arrivare fino a lì, devo essere già stato controllato, e quindi mi lasciano tranquillo. E io che già mi vedevo sbattuto in cella insieme ad energumeni poco raccomandabili…

Se ha senso che le stazioni della metro siano tutte ben pattugliate, visti gli attentati subiti negli anni precedenti, ciò non si può dire per il resto della città. Le piazze, i monumenti, i parchi, sono tutti pieni di poliziotti che non hanno altro da fare se non guardare la gente che passa. Difficile, infatti, immaginare un potenziale ladro mentre scippa una vecchietta… non potrebbe fare più di cento metri senza imbattersi nelle forze dell’ordine. Sembra che metà della popolazione lavori in polizia: è vero che non sono fastidiosi, non ti fermano se non è necessario, e che dovrebbero darti un senso di sicurezza; ma è facile sentirsi a disagio quando, ovunque vai, vedi soldati e poliziotti che ti fissano, quasi aspettandosi che tu faccia un passo falso, perfino quando cammini nei parchi.

Eh sì, i parchi: a Tashkent ce ne sono tantissimi, e sono enormi: non si vede la fine di questi giardini verdissimi, molto curati, con gli alberi tutti allineati, fontane, statue, sentieri curatissimi. Il primo in cui mi imbatto è il Mustaqilik maydoni, letteralmente “Piazza dell’Indipendenza”, in cui ogni anno si tengono le parate per celebrare appunto la nascita della Repubblica Popolare dell’Uzbekistan (che, come molti stati con questo nome, ha ben poco di popolare e ancor meno di repubblicano). Centinaia di piccole fontane spuntano tra gli alberi irrigando il verde ed i passanti; più oltre, vicino al Monumento della Madre Piangente, che ricorda i figli della patria morti nella seconda Guerra Mondiale, altre enormi vasche ospitano giganteschi getti d’acqua, che si colorano di mille sfumature alla luce del tramonto. Non si vede la fine di questa oasi in mezzo al traffico, sembra di essere a Central Park. L’acqua e il verde sono i veri simboli di questa città, capitale di un paese grande più dell’Italia ma quasi del tutto desertificato. E’ sera, e qui si possono osservare i veri cittadini durante il suo divertimento principale: passeggiare. Si vedono famigliole accompagnare i bambini che corrono dietro ai cani, coppiette di fidanzati che si tengono teneramente a braccetto, studenti appena usciti dall’università… tutti a passeggio di giorno come di notte, fotografandosi a vicenda sotto l’enorme colonnato da cui vegliano, sornione, severe statue di pellicani. Le persone sembrano allegre e spensierate in questa oasi gioiosa e rilassante, ben lontano dallo squallore e dai pericoli che si insidiano nei parchi delle nostre città.

Un altro parco, se possibile ancora più grande, è quello dedicato ad Alisher Navoi, letterato e politico del ‘400, eletto ad eroe culturale uzbeko in quanto discendente di Tamerlano, nonostante fosse di etnia Uigura. Qui si trova addirittura un lago, sulle cui sponde è possibile noleggiare delle barche per andare dall’altra parte. L’ingresso del parco è caratterizzato da un’enorme sala concerti, chiamata pomposamente “il Palazzo dell’Amicizia tra i Popoli”, e costruita su di una collina artificiale. Dalla sua sommità gli alberi si dipartono a perdita d’occhio, e tra essi serpeggiano sinuosi torrenti, nelle cui cascatelle gli uomini sguazzano per trovare sollievo dalla calura. Ed e’ presso il monumento ad Alisher Navoi che ho incontrato Jasmine e le sua amiche, in mezzo ad una moltitudine di giovani e meno giovani che passano qui la maggior parte delle serate. Per divertirsi, non hanno bisogno di discoteche o di ristoranti alla moda; qui i giovani riescono ancora ad apprezzare cose come la compagnia, gli amici, le passeggiate all’aria aperta… ma ecco che, mentre mi accingo a consultare la cartina per orientarmi tra la rete di sentieri, altri poliziotti spuntano da dietro un angolo, squadrando arcignamente tutti i passanti e fermando senza tanti complimenti quelli che stavano andando in una direzione vietata. Eppure siamo solo in un parco: forse è il caso di stare davvero attenti a non calpestare le aiuole…

 

Samarcanda. Nessuna città come questa evoca fascino, mistero, cruente battaglie, intrighi per il potere. Antica quanto Roma, Samarcanda è da sempre associata alla Via della Seta, un percorso che collegava la Cina occidentale alla Turchia, su cui viaggiavano nelle due direzioni mercanti carichi non solo del prezioso tessuto, ma anche di spezie, gioielli, metalli preziosi, affrontando viaggi che duravano diversi mesi tra terribili difficoltà e sostando in oasi poi diventate famose, come appunto Samarcanda, o Bukhara, o Kashgar. Non si tratta in realtà di un'unica strada, ma di una serie molto ramificata di percorsi, che cambiavano a seconda della stagione, delle piogge, delle guerre, dei capricci dei vari khan locali, che spesso pretendevano tasse molto esose sulla merce trasportata, tra cui la seta rappresentava solo una parte. Furono i cinesi i primi a sfruttare l’allevamento dei bachi per produrre la seta, ed in realtà essi erano molto gelosi di questa loro scoperta, e la tenevano nascosta agli occhi degli stranieri affinché non rubassero loro l’idea. Secondo la leggenda, fu una principessa cinese a svelare il segreto a dei mercanti arabi, dai quali voleva a tutti i costi comprare dei monili d’oro e che non esitò a offrire in cambio il prezioso tessuto pur di convincerli. Dall’Arabia al Mediterraneo e all’Europa il passo fu breve, e da allora la Via della Seta divenne il simbolo del viaggio: su di essa viaggiavano non solo mercanti, ma anche esploratori, eserciti, ingegneri e predicatori.

Io arrivo a Samarcanda in un modo molto più banale: in auto da Tashkent, dopo aver trovato un taxista. Intorno alle stazioni dei pullman, infatti, bazzicano molti “taxisti”, che in realtà sono dei privati i quali, dovendo andare da una città all’altra, cercano passeggeri con cui dividere le spese del viaggio.

Salgo così in macchina con un uomo sulla quarantina, che non parla una sola parola di inglese come nessuno degli altri passeggeri: un ragazzo dall’aria sveglia, un signore anziano pieno delle solite borse, che continuerà a parlare per tutto il viaggio, ed un uomo di mezza età piuttosto taciturno. Partiamo, e subito l’autista si dimostra molto spericolato, andando ben oltre il limite di velocità e superando le altre auto a destra e a sinistra. L’atteggiamento, oltre a essere pericoloso di suo, non è molto furbo perché attira l’attenzione dei poliziotti ai posti di blocco. Nei primi cento chilometri ne incrociamo parecchi, almeno una decina, e ad ognuno la strada si restringe fino ad una sola corsia in cui le auto sono costrette a rallentare, procedere a passo d’uomo fino alla gabbia con la sbarra, da cui i solerti agenti analizzano i passeggeri, talvolta chiedendo anche di vedere i documenti, e poi ripartire. Dopo l’ennesimo sorpasso azzardato, il nostro autista viene fermato da una pattuglia e sottoposto all’etilometro. Gli agenti leggono il risultato, poi lo fanno salire su una delle loro auto e lo portano via... Sono le dieci del mattino, ma non sono sorpreso. Un altro agente sale sulla nostra auto e la guida fino alla più vicina caserma, parcheggia nel cortile dopo di che ci abbandona al nostro destino, mentre del “taxista” si sono perse le tracce. Siamo in un villaggio sperduto in mezzo ai campi, a circa metà percorso, e cominciò già a pensare al modo di venirne fuori, magari chiedendo un passaggio alle auto che sfrecciano verso Tashkent, ma non sono preoccupato. La giornata è ancora lunga, e c’è tutto il tempo di organizzarmi. E poi, i miei compagni di viaggio non sembrano allarmati, anzi, sono rimasti seduti in macchina ad aspettare pazientemente, abituati a situazioni come questa e sapendo che, alla fine, tutto si risolve sempre. Eccola, la classica pazienza degli asiatici, rara virtù che da noi è ormai andata persa da tempo.

Infatti, dopo una mezz’oretta di attesa, ecco ricomparire il nostro autista, per nulla turbato; anzi sembra allegro e gioviale, tanto che sale in macchina e riparte a spron battuto. Naturalmente non rallenta il ritmo della sua corsa, anzi tra un sorpasso a destra e l’altro parla anche al cellulare, forse con chi lo sta aspettando, e dal tono della voce sembra quasi vantarsi dell’avvincente episodio che gli è accaduto.

Dopo qualche ora arriviamo finalmente a Samarcanda, e naturalmente il bello dell’avventura comincia solo adesso. Io non ho prenotato niente, così chiedo all’autista, nel mio russo stentato, di portarmi nel quartiere degli alberghi, ma lui non capisce. Gli dico il nome della strada, che non gli dice niente, e nemmeno mostrargli la cartina sortisce alcun effetto. Avevo già sperimentato questa cosa nel Caucaso, come in altri paesi asiatici: la gente non conosce i nomi delle strade, né ha idea di come leggere una cartina. Se vuoi andare in un posto, devi dire “Voglio andare a casa di Giuseppe”, oppure: “Alla casa con i mattoni rossi in parte alla Moschea di Jamal”. La gente vuole avere riferimenti precisi. I nomi delle strade, che tra l’altro cambiano a seconda di chi governa, non hanno alcun significato per loro. Così il mio autista si ferma ad una stazione degli autobus, dove chiede informazioni, e intorno a noi presto si forma un crocicchio di persone che discutono animatamente senza venire a capo di niente. Gridano, si guardano intorno, indicano punti a caso della cartina, finché scopro che la stanno tenendo all’incontrario. Allora comincio a dire “Registan! Registan!”, che è la famosissima piazza centrale, sperando che almeno quel nome dica loro qualcosa. Vedo l’autista illuminarsi, e ci accordiamo in modo che lui mi porti lì, dopo di che continuerò a piedi. Ripartiamo noi due (nel frattempo, gli altri passeggeri si erano stufati di aspettare e se n’erano andati), finché dopo una buona mezz’ora arriviamo alla piazza centrale, che scoprirò poi essere a dieci minuti a piedi dalla stazione dove ci eravamo fermati…

Ma i problemi nono sono finiti. La cartina della LP è piuttosto imprecisa, e non riesco a trovare l’albergo che avevo scelto. Quella che dovrebbe essere la zona centrale, piena di negozi e di gente, mi appare invece come una zona trasandata, in cui l’asfalto delle strada si interrompe lasciando spazio a crepe, fossi e case diroccate. Qualcosa non torna; comincio così a vagare senza meta su e giù tra i vari incroci, con lo zaino che diventa sempre più pesante sotto il sole dell’una, finché un ragazzo dall’aria losca a bordo di un’auto non si ferma a offrirmi aiuto. Normalmente non salirei con un tipo simile, ma sono stanco e decido ci accettare, pur restando all’erta (e pagando un prezzo spropositato). Io voglio andare nella strada chiamata Penjikient, che va in direzione del villaggio omonimo; così il ragazzo parte, ma presto mi accorgo che sta uscendo dalla città diretto proprio al paese di Penjikient (che tra l’altro si trova in Tajikistan, di cui io non ho nemmeno il visto). Così lo fermo e gli dico di tornare indietro. Lui sembra spazientito ma accetta, quindi gira l’auto finché si ferma quando incontra dei suoi amici, dall’aria ancora più losca, che mi chiedono altri soldi per portarmi in un albergo che non era il mio, ma alla fine penso che uno valga l’altro. Il ragazzo si infila con la macchina in un reticolo di stradine strettissime, deve spesso deve salire con le ruote di destra sul marciapiede per riuscire a passare, strombazzando  a più non posso per farsi largo tra i pedoni, finché finalmente arriviamo in un albergo. E’ solo quando consulterò bene la cartina che scoprirò di trovarmi a cento metri dal posto in cui avevo accettato il primo passaggio…

Ma, in fondo, non mi posso lamentare: sono a Samarcanda, il sole sta tramontando sul Registan, e di fronte a me ci sono un bel piatto di Shashlik e una birra fresca. Cosa posso volere di più?

 

 

Samarcanda era conosciuta in Europa già al tempo degli antichi greci, che la chiamavano Marcacanda. Conquistata da Alessandro Magno, e poi abbandonata come il resto del suo impero, fu distrutta dalle orde di Gengis Khan, ma poi rifiorì sotto il conquistatore che più di ogni altro legò il proprio nome a quello della città: Tamerlano. Nato nel 1336, il suo vero nome era Timur, cioè zoppo, nome affibbiatogli fgià da bambino a causa di un problema alla gamba provocato dalla poliomelite. Timur divenne un re molto famoso, e la sua intelligenza politica era pari alla sua ferocia in battaglia. Divenne emiro di un grande impero, che si estendeva dal Caucaso fino all’India, portando alla vittoria il suo temutissimo esercito in molte occasioni.

Molto famosa divenne anche sua moglie, la cinese Bibi Khanym, a cui sono legate molte storie epiche. Si narra, infatti, che ella, mentre il marito era via a condurre una delle tante guerre, decise di fargli un regalo, e chiese al più famoso architetto della città di costruire un mausoleo, che doveva essere pronto prima del ritorno del re. L’architetto però era segretamente innamorato di lei, e tirava appositamente in lungo i lavori, promettendo che sarebbero finiti non appena lui avesse potuto darle un bacio. La donna, conoscendo la gelosia del marito, non voleva accettare; ma poi, resasi conto che il mausoleo non sarebbe stato finito in tempo, capitolò e permise all’architetto di baciarla sulla guancia. Il bacio, però, fu talmente intenso da lasciare una cicatrice sulla pelle della regina, al punto che lei decise di coprirsi il viso con uno scialle per nascondere l’accaduto; e, per non essere l’unica, costrinse tutte le donne del regno a fare la stessa cosa. Fu così che nacque l’uso delle donne islamiche di coprirsi il volto con un velo.

Ma la storia non finisce qui. Tamerlano, al ritorno dalla guerra, fu molto contento del regalo, ma volle sapere il motivo per cui le donne si erano coperte il viso. Bibi Khanym rispose che era per “tutelare il loro pudore“. Il buon re dapprima accettò questa scusa, ma ad un certo punto si spazientì e pretese di guardare il volto nudo della moglie. Non appena vide la cicatrice sulla guancia, andò su tutte le furie, e ordinò di far giustiziare l’architetto; non prima, però, che terminasse l’ultima stanza del mausoleo, in cui Bibi Khanym fu murata viva come punizione del suo tradimento.

Oggi il mausoleo di Bibi Khanym è uno degli edifici più spettacolari non solo di Samarcanda, ma di tutta l’Asia Centrale. E fu realizzato talmente bene che resistette anche al terribile terremoto che distrusse la città nel 1966: solo la parte ritoccata dai russi crollò in quella occasione, mentre la costruzione originale, pur vecchia di oltre sei secoli, rimase intatta.

 

Ma ci sono molte altre leggende su Tamerlano: un’altra riguarda la sua morte, avvenuta nel gennaio del 1405 mentre il condottiero, pur settantenne, stava conducendo l’ennesima battaglia. Il re aveva chiesto di essere sepolto a Shakrisabz, sua città natale, dove aveva fatto costruire un mausoleo enorme, dalle dimensioni paragonabili alla torre Eiffel dei tempi moderni, di cui oggi però non rimane quasi niente. Ciò però non fu possibile perché, essendo inverno, il passo di montagna che divideva le due città era bloccato dalla neve; il re fu quindi sepolto a Samarcanda, in un mausoleo dove ancora oggi riposa insieme ai figli ed ai nipoti. La sua tomba riporta un’iscrizione: “Chiunque aprirà questa cripta sarà sconfitto da un nemico ancora più terribile di me”. La tomba rimase intoccata fino al 21 giugno 1941, quando l’archeologo russo Mikhail Gerasimov decise di aprire la cripta per approfondire i suoi studi sui popoli centro-asiatici. Gerasimov rise leggendo la maledizione.

Il giorno dopo, le truppe di Hitler attaccarono l’Unione Sovietica.

 

 

 

Tamerlano sarebbe stato orgoglioso del Registan, una enorme piazza circondata da tre medresse gigantesche, costruite con mattoni colorati e ricoperte di quelle cupole blu con cui il vecchio condottiero aveva tappezzato tutta l’Asia centrale. I tre edifici, tutti costruiti dopo la sua morte, sono davvero imponenti: altissimi e solenni, tolgono realmente il fiato al viaggiatore, e rappresentano una tappa imperdibile per qualsiasi viaggiatore che si muova lungo la via della seta.

Di fronte alla grande piazza sono state posizionate delle panchine, dove soprattutto alla sera molti curiosi si mischiano alla gente del luogo per sedersi a riposare, recuperando le energie spese durante la giornata mentre si osserva il sole tramontare, illuminando la facciata della medressa Sher Dor. Terminata nel 1636, il suo nome significa “del leone”, e infatti sulla sua facciata l’Emiro Yalangtush fece disegnare dei grossi felini, in aperta sfida alle leggi sunnite, che proibiscono la rappresentazione di qualsiasi essere vivente.

Di fronte alla grande piazza si erge invece la medressa Tilla.Kari, cioè “ricoperta d’oro”. Risale al 1660; oggi naturalmente il prezioso metallo è sparito, e una nuova cupola è stata aggiunta dai russi durante l’occupazione per “abbellire” l’edificio; ciò nonostante, l’imponenza e la magnificenza del luogo sono ancora incredibili, da lasciare a bocca aperta. Oggi, il retro delle medresse è occupato da negozietti di souvenir, ben poco originali oltre che piuttosto cari; ma il fascino di alcune venditrici è tale che nemmeno il viaggiatore più navigato può resistere a lungo ai loro sorrisi tentatori…

La terza medressa, in realtà la prima ad essere realizzata, è quella di Ulug-Bek, nipote prediletto di Tamerlano, che fu completata nel 1420. Egli non era tanto un guerriero quanto uno studioso, e si appassionò molto di matematica e di astronomia; infatti, oltre alla medressa omonima che poteva ospitare fino a cento studenti, e in cui si trova ancora una statua in suo onore, fece costruire un osservatorio astronomico molto moderno, grazie al quale scoprì molti errori di calcolo sulle posizioni delle stelle fatti dagli scienziati arabi prima di lui. Oltre a ciò, calcolo la durata dell’anno siderale, cioè dell’orbita terrestre intorno al Sole. Fu proprio per questa sua mancanza di interesse verso la politica e l’esercito che Ulug-Bek fu ucciso, probabilmente da suo figlio Adb al-Latif, che invece intendeva utilizzare il patrimonio statale per usi (secondo lui) più importanti. Oggi Ulug-Bek, raro esempio di sovrano illuminato, riposa nel mausoleo di famiglia, insieme al nonno.

E’ possibile salire in cima all’alto minareto che si erge per quasi 50 m. di altezza in parte alla medressa, ma per farlo bisogna corrompere qualche poliziotto (che come al solito pullulano) in modo che chieda al guardiano di aprire la porta che conduce alla scala. In realtà questa operazione è molto frequente, e infatti uno di essi viene da me chiedendomi cinquemila som per accompagnarmi in alto; io sono stanco, e non ho alcuna voglia di salire a piedi fino in cima, quindi declino gentilmente, ma quello insiste, tanto che comincio a temere che mi farà una multa o qualcosa del genere se rifiuto i suoi “servigi”; in fondo, è sempre un poliziotto. Finalmente riesco a liberarmene, faccio un giro dentro la medressa, ma quando esco me lo ritrovo ancora lì ad abbrancarmi. Il prezzo è sceso a tremila som, che poi diventeranno duemila, ma la cosa non mi interessa e alla fine riesco a sedermi sulle panchine ad osservare il tramonto.

Tra l’latro, anche l’ingresso alla piazza è a pagamento. Una specie di chiosco vende i biglietti al prezzo di ottomila som; approfittando della ressa io cerco di far finta di niente e cammino verso i grandiosi edifici, pensando che nessuno mi avrebbe notato; in fin dei conti, le piazze sono pubbliche e tutti dovrebbero avere il diritto di passeggiarci. Forse il biglietto serve solo per entrare dentro le medresse… Ma subito una grassa matrona esce correndo dal chiosco urlando qualcosa al poliziotto di turno e indicando col dito verso di me. L’agente subito mi chiede il biglietto e mi spiega che i gradini antistanti alla piazza rappresentano il limite fino a cui si può arrivare gratuitamente. E’ triste accorgersi che anche qui, a Samrcanda, che di certo non è un luogo molto turistico, il turismo di massa è riuscito comunque a rovinare l’atmosfera originaria.

Ma le cattive sorprese non sono finite: i giorno dopo deciderò di andare a visitare il famoso osservatorio di Ulug Bek, la cui fotografia si trova in quasi tutti i libri di storia; ma quando arrivo al sito, sudato ed ansante per la lunga camminata di tre chilometri sotto il sole, scopro che è chiuso per restauro. In compenso, nell’adiacente museo, dove entrerò per ripararmi dal sole, una donna riuscirà a vendermi degli inutili souvenir per dodicimila som…

 

 

Nadzim parla molto meglio l’inglese che il russo, perché a scuola, adesso, si studia la lingua dei turisti e non più quella dei conquistatori. Nadzim è il figlio ventenne di Furkat, il proprietario dell’ostello, il quale stasera ha organizzato una cena per festeggiare il compleanno della moglie, e ha invitato anche tutti i suoi ospiti. La tavola è luculliana: verdure di ogni tipo, cotte e crude, l’immancabile melone, pane a volontà, vino e anche la preziosa carne, che a queste latitudini è sempre segno di ricchezza. A tavola siamo una dozzina, tra la famiglia di Furkat e qualche ospite. La cena è offerta e non ci si tira indietro, soprattutto un ragazzo giapponese che mangia pomodori a sazietà (vorrei tanto imitarlo, ma sono rimasto fregato troppe volte). Io parlo soprattutto con Nadzim, che mi spiega che la sua famiglia è di etnia tajika, come quasi tutti gli abitanti di Samarcanda e Bukhara, città che solo amministrativamente fanno parte dell’Uzbekistan; dovrebbero invece fare parte del Tajikistan, come accade per la vicina Penjikient, sorella minore distante solo una quarantina di chilometri ma sconosciuta al turismo solo perché si trova dall’altra parte del confine. Questa incoerenza fu volutamente pensata da Stalin, che nel disegnare i confini tra le varie repubbliche centro-asiatiche decise di costringere nello stesso Stato popoli diversi, in modo che litigassero fra di loro invece che col potere centrale.

Per me distinguere gli uzbeki dai tagiki è un’impresa impossibile, mentre per Nazdim è normale, perché secondo lui i lineamenti dei due popoli sono molto diversi. In Uzbekistan questa differenza etnica è ben tollerata, se non altro perché il deserto funge da cuscinetto tra le diverse zone. Purtroppo non è così altrove, per esempio a Osh, città di etnia uzbeka ma assegnata al Kyrgyzstan, dove poco tempo fa sono scoppiate sanguinose rivolte tra le diverse fazioni. Poiché avevo una mezza idea di andare anche lì, chiedo a Furkat se il confine è aperto; mi risponde di sì, ma che devo stare molto attento, perché tutta la valle di Fergana è piena di accampamenti di profughi, e la situazione è molto tesa ed in continuo mutamento. Il governo sta provvedendo come può ai 250.000 senza tetto, inviando loro cibo ed acqua naturale (ecco il motivo per cui in tutto l’Uzbekistan si trova soltanto dell’acqua gasatissima). Deciderò il da farsi più avanti.

La conversazione si sposta poi su temi più leggeri, tra i quali ovviamente il calcio, di cui io, essendo italiano, sono tenuto a sapere tutto. La nostra nazionale è stata da poco eliminata dai mondiali, e Furkat e figlio sembrano saperne più di me (e non ci vuole molto) sui motivi per cui Lippi non è stato in grado di motivare i suoi giocatori. Si parla di Materazzi e di Zidane, della nazionale che vinse i mondiali nell’82 (di cui Furkat ricorda la formazione a memoria), di Rafa Benitez che ha sostituito Mourinho, e così via; e tutti a chiedermi la mia opinione. Io vorrei rispondergli “A regà, nun me parlate de ste cose, nun ce capisco gnente…” ma ormai ci ho fatto l’abitudine.

 

L’ultimo giorno a Samarcanda comincia con una tappa alla stazione ferroviaria, per comprare un biglietto per Bukhara per il giorno successivo. Il minibus che va alla stazione è strapieno di gente, siamo tutti compressi in uno spazio ridottissimo, e nonostante ciò continua a salire gente… e per me è bellissimo mescolarmi con mille facce diverse, giovani e meno giovani, uomini e donne dall’aria stanca, molte delle quali mi guardano incuriosite. Se infatti a Samarcanda ci sono molti turisti, sono pochissimi quelli che si spostano con i bus locali; e un uomo dai lineamenti occidentali suscita molto interesse e curiosità. Un ragazzo schiacciato dalla calca di fronte a me mi sorride, tentando un timido approccio, ma la lingua è una barriera insormontabile. Di nuovo, però, sono colpito dalla socievolezza della gente,

Il minibus attraversa tutta la città in un viaggio lungo ed estenuante; mano a mano si svuota, finché arriva alla stazione, moderna ed efficiente. Qui ho finalmente l’occasione di mettere alla prova il mio russo per comprare un biglietto, dopo aver individuato (non senza fatica) lo sportello giusto. L’acquisto procede senza problemi, quindi posso passare il resto della giornata a spasso per la città nuova, cercando di compiere gesti comuni: comprare i francobolli, spedire cartoline, chiedere indicazioni, cercare un Internet point… la passeggiata si conclude in un bar all’aperto, dove mi gusto un ottimo pranzo alla fresca ombra degli alberi.

Beh, direi che fino ad ora l’Uzbekistan ha superato le mie aspettative… ma il meglio deve ancora arrivare.

 

 

 

James ha 31 anni, è inglese e fa l’avvocato. O, meglio, lo faceva, visto che nove mesi fa, stanco della grigia e frenetica vita nella City, ha deciso di mollare tutto e di mettersi a girare il mondo. Quando lo incontro, dividendo con lui un passaggio in auto da Kagan, capolinea della ferrovia, fino al centro di Bukhara, mi sembra stanco, ma non pentito della sua scelta. Certo, dopo nove mesi di girovagare è normale rallentare un po’, ma James non ha comunque voglia di fermarsi, anzi intende ripartire il prima possibile verso il Tagikistan e poi anche oltre, decidendo di volta in volta la destinazione a seconda di come gira il vento.

Per fortuna il mio nuovo compagno di viaggio parla correntemente il russo, così mi aiuta a trovare una sistemazione in un comodo albergo del centro, dove per 20 dollari ottengo una stanza molto spaziosa, con tanto di bagno, condizionatore e TV (non che quest’ultima serva a molto). Chiedo di cambiare i miei soldi alla matrona dell’albergo, con cui contratto un ottimo tasso, perfino migliore di quello di Samarcanda; quindi la donna chiama a gran voce il figlio, che sparisce dentro una stanza  misteriosa per poi ritornare con una valigia piena di soldi. Come al solito, i miei 150 dollari si trasformano in una montagna di banconote, anche difficili da nascondere (non che  in Uzbekistan mi sia mai sparito niente).

Mentre il mio nuovo amico dorme  un po’, io comincio a girare per questa città che subito mi affascina. La vita ruota intorno alla Lyabi-Hauz, un piccolo laghetto attorno al quale la città si è sviluppata e che oggi ne rappresenta il centro pulsante. Sotto gli ombrosi alberi che la circondano si sono sistemati molti ristoranti, con tavoli sempre apparecchiati ed orchestre che suonano. Sembra che quasi tutti i negozi ed i ristoranti si trovino in questa zona centrale, perché come ce ne si allontana di qualche metro, la frenesia (sempre che così si possa chiamare) lascia il posto a strade polverose e desolate, percorse da pochi ragazzini e da qualche turista armato di macchina fotografica e di abbondante acqua. Le basse moschee, i sonnolenti bazar, le imperiose medresse dall’aria trascurata costellano le vie e le piazze della città, dove sembra davvero che la vita si sia fermata al medioevo. Solo nei quartieri più remoti il silenzio è interrotto dai rumori del traffico; ma girando per le viuzze acciottolate si possono ancora sentire suoni antichi, come quelli prodotti dai venditori di tappeti che sbattono le loro merci per ripulirle dalla polvere, o i passi dei muezzin intenti a salire le scale verso agli alti minareti, o addirittura il rumore delle pedine mosse da anziani che giocano a scacchi seduti ad un tavolino, incuranti di tutto ciò che accade intorno a loro.

Bukhara, pur essendo anch’essa abitata soprattutto da Tajiki, è molto diversa da Samarcanda: meno chiassosa, meno frenetica, molto più spirituale; forse da qui passa l’anima più autentica della Via della Seta.

 

 

Nel 1838 il tenete colonnello Charles Stoddart era in missione in Asia centrale per conto della Regina d’Inghilterra, con il compito di ordire alleanze e di tramare intrighi nelle varie corti. Il tutto nell’ambito del Grande Gioco, una “guerra fredda” fatta di spionaggio e controspionaggio con cui Inghilterra e Russia si contendevano i favori dei principi asiatici, cercando di arrivare l’una prima dell’altra. Stoddart fu quindi inviato a Bukhara per farsi amico l’emiro locale, Nasrullah Khan. Stoddart però presentò una lettera scritta dal Governatore delle Indie e non dalla regina Vittoria, che il khan considerava sua pari; inoltre, sottovalutando la vanità del khan, decise di non portare alcun dono con sé. Infine, peggiorando ulteriormente le cose, si rifiutò di scendere da cavallo al momento di entrare nella cittadella, come invece prevedeva il protocollo. Il khan, che non era certo chiamato “il macellaio” per il suo secondo lavoro, si offese a tal punto da farlo arrestare e gettare nel buco nero, una pozza scavata nel terreno profonda sei metri, senza uscite e in cui Stoddart sopravvisse nutrendosi solo degli animaletti che per caso passavano di lì.

Tre anni dopo giunse a Bukhara un altro ufficiale inglese, Arthur Connolly, con il compito di salvare Stoddart. Il khan dapprima lo prese in amicizia, ma poi, sobillato dal colonnello russo Buteneff, che ovviamente remava contro, decise di far gettare nel pozzo anche Connolly, con l’accusa di spionaggio. Quando l’Inghilterra si ritirò sconfitta dall’Afghanistan Nasrullah Khan decise che doveva trattarsi di una potenza minore e, dopo aver scritto una lettera alla regina Vittoria di cui non ottenne mai risposta, obbligò i due inglesi a scavarsi una fossa nel piazzale esterno alle mura, quindi li fece giustiziare con una grande cerimonia a cui assistette l’intera città.

 

Oggi la cittadella, chiamata Ark, si erge ancora imponente, una città nella città, con le sue mura altissime e la maestosa porta d’ingresso. Da 1500 anni simboleggia la potenza di un emirato sconosciuto alla maggior parte del mondo, ma sede di un potere assoluto da cui è stata decisa molta parte della storia dell’Asia. Pur essendo una trappola per turisti, piena di bancarelle e venditori di souvenir, si rimane ancor’oggi colpiti dal potere che trasuda dalle sue possenti mura, dalla maestosa sala dell’incoronazione o dai vasti appartamenti reali. Come anche, per contrasto, si può immaginare la piccolezza dell’ultimo emiro, Alim Khan, che testardamente non aveva voluto arrendersi ai russi, mentre nel 1920 osservava impotente gli aerei nemici bombardare dal cielo uno stato che ignorava perfino l’esistenza dell’energia elettrica.

La grandezza dell’Ark si percepisce ancora meglio salendo i piccoli e scivolosi gradini della torre dell’acqua, una struttura di ferro sgangherata e traballante alta 33 metri, certo non adatta a chi come me soffre di vertigini, ma che svela una vista spettacolare su tutta la città. Aggrappato stretto al ferro arrugginito che oscilla paurosamente sotto le sferzate del vento, sicuro che la struttura crollerà da un momento all’altro, non riesco purtroppo a godermi l’incanto dei tetti bassi, delle verdi cupole, dei portali istoriati che tappezzano questa magica città.

Tiro un sospiro di sollievo quando finalmente i miei piedi toccano di  nuovo la solida terra; e qui incontro James, con cui mi incammino verso la Moschea Kalon, il luogo più magico di Bukhara. Ormai è quasi sera: il caldo non è più opprimente, la folla di mercanti e di imbonitori è quasi svanita, e la luce del tramonto illumina magicamente l’altissimo minareto, che dal 1127 si erge maestoso a guardia della città. Ovviamente quando arrivo io scopro che è chiuso per restauro; ma è comunque un’esperienza bellissima, praticamente un rito quotidiano, sedersi sui gradini della piazza, al tramonto, godendosi la pace e la tranquillità di questo luogo magico, intriso di storia e di magia, mentre le pareti della moschea e della medressa di fronte trasudano immagini di potere, di guerre religiose, ma anche di illuminati scienziati e scrittori che hanno calpestato queste stesse piastrelle nell’arco di molti secoli.

 

Il sole è calato; bisogna che mi diriga rapidamente verso la Lyabu-Hauz, perché presto farà buio e rischio di perdermi fra le stradine acciottolate e silenziose prive di illuminazione… ma anche questo fa parte della magia di Bukhara.

 

 

“E’ lungo così: tutto per te!” continua a ripetermi l’uomo, allargando le braccia in un gesto teatrale. Sono seduto sui gradini di fronte alla moschea di Kalon, luogo obbligatorio di Bukhara in cui andare per godersi il tramonto, quando il caldo diventa meno opprimente e la tenue luce del sole accende di mille sfumature i colori della medressa Mir-i-Arab, da cui escono gli ultimi, oziosi, studenti. L’uomo, sulla cinquantina, mi si è avvicinato con fare gentile e, dopo le prime formalità, ha insistito nell’invitarmi a cena a casa sua.

“Mia moglie cucina molto bene” dice, cercando di vincere la mia titubanza. “Riso, shashlik, verdura, e vino buono!” Con le mani compie ampi gesti, come se mimasse la preparazione di tutte queste cose. “Abbiamo sempre molti turisti, - insiste – anche italiani. Coraggio! Vieni da me! Ti troverai bene!”.

Da un lato, l’idea di cenare insieme ad un’autentica famiglia di Bukhara mi attira; dall’altro, però, non mi convince molto l’idea di andare da solo a casa di uno sconosciuto, senza che nessuno sappia dove sono e possa eventualmente venire a cercarmi. Così, mentre prendo una decisione, applico la tecnica del temporeggiare: lascio parlare l’interlocutore finché si stanca di sentire la propria voce e si scoraggia. Ma l’uomo insiste:

“Sì! Sì! Cibo molto buono! Vieni a casa mia, mangerai bene! Dopo sarai contento!”

Nel frattempo James ha pensato bene di dileguarsi, lasciandomi solo con questo seccatore. Lo sguardo dell’uomo comincia a farsi lascivo, e le sue frasi assumono un velato doppio senso:

“E’ lungo un metro! Tutto per te!”

Le sue mani cominciano a mimare strani movimenti, così decido che, tutto sommato, è meglio mangiare al ristorante. Oppongo un secco rifiuto e l’uomo, quando capisce che non c’è trippa per gatti, decide di allontanarsi. Mi alzo anch’io, alla ricerca di qualche angolo da cui scattare foto particolari, quando un ragazzo, appena sbucato fuori da un portone, mi fa cenno di avvicinarmi. Mi spiega che, con una piccola mancia, mi farà entrare in una specie di chiostro dal cui tetto si vedono splendidi panorami. Accetto e seguo il ragazzo su per una stretta scalinata, sulla cui cima c’è effettivamente un parapetto da cui si può ammirare la piazza alla luce del tramonto. James è già lì, ovviamente, e sta chiacchierando con un gruppetto di giovani turiste. Chissà perché a me toccano sempre i vecchi bavosi e a lui le belle ragazze…

 

Dal tetto su cui mi trovo non posso che rilassarmi, ascoltando l’assordante silenzio della città al tramonto, quando i bazar sono ormai chiusi, le poche auto sono partite e si sentono solo gli schiamazzi dei giovani, che bighellonano tra le stradine polverose mentre il sole accende di riflessi dorati le verdi cupole della città. Ho fatto bene a restare qui un giorno in più del previsto; Bukhara è una città magica, con un’atmosfera medioevale da cui è impossibile non farsi stregare. Ho riempito la giornata visitandone gli angoli nascosti, come il quartiere indiano, in cui l’edificio detto “Chor Minar” sembra una moschea, ma è solo un’antica porta. Oppure il palazzo dell’ultimo emiro, Alim Khan, con una grande piscina in cui le concubine si riparavano dal caldo soffocante. Si racconta che l’emiro le guardasse nuotare da una finestra dell’ultimo piano e che, scelta la favorita per la notte, le gettasse una mela per chiamarla a sé.

Storie come questa aleggiano fra tutti gli antichissimi monumenti di questo luogo magico, dove non può mancare il grande bazar, in cui enormi tappeti vengono appesi ai balconi delle case per essere esposti in tutta la loro magnificenza, o lunghe spade affilate vengono soppesate a cielo aperto da barbuti energumeni, che stanno scegliendo l’arma migliore da appendere all’ampia veste; non come semplice ornamento, ma per darsi un tono di orgoglio, di importanza, qualcosa che da noi sarebbe chiamato “status symbol”.

 

Ma ormai si è fatto buio. Questa volta, però, mi sono portato la torcia elettrica per farmi strada tra i vicoli bui di questa città. A Bukhara non ci sono lampioni, le case non hanno le luci accese né i bar hanno televisori con decoder satellitari. A Bukhara quando fa buio la giornata è conclusa, si mangia e poi si va a dormire… tranne che intorno alla Lyabi-Hauz, dove le orchestrine suonano ancora motivetti per i turisti che affollano i ristoranti, ma anche per i ragazzi del posto che non hanno altro divertimento che bighellonare intorno all’unico posto di ritrovo della città.

 

E’ ora di ripartire, di visitare altre città, di vedere altre persone. Bukhara ti strega e, se non ti decidi a partire, rischi di non riuscirci più. E, poi, non sai mai cosa ti aspetta dopo…

Pensavo di aver scoperto un luogo davvero antico,che mi avesse riportato al vero medioevo; ma la prossima tappa mi sorprenderà ancora di più.

 

 

Le possenti mura di Khiva compaiono finalmente all’orizzonte, dopo quasi sei ore di un viaggio interminabile, che mette a dura prova la resistenza fisica di chi vuole raggiungere questo luogo fiabesco. E alla sera, arrivare in questa città magica, conservata intatta per milleduecento anni, ripaga di ogni fatica.

Ma andiamo con ordine. Per evitar di viaggiare col caldo, avevo contrattato con l’albergatore una macchina che venisse a prendermi alle 9, ma ovviamente non si è visto nessuno prima delle 10. L’autista, dopo avermi caricato, è andato alla stazione dei pullman a cercare altri viaggiatori. Così funziona in Uzbekistan: quando una persona automunita deve andare da una città all’altra, si reca prima alla stazione a cercare altri viaggiatori che dividano con lui il costo del trasporto. Sale una ragazza, che si siede davanti, e poi una giovane coppia, che prende posto sui sedili dietro, accanto a me. Partiamo, ma solo per andare a fare benzina, presso quella che sembra essere l’unico distributore aperto in città. La scena è indescrivibile: due file interminabili di auto che aspettano, pazientemente, il proprio turno sotto il sole cocente, per fare rifornimento all’unica pompa aperta. Considerando che ogni auto, in media, impiega otto minuti tra spingere la macchina fino al bocchettone, fare rifornimento, pagare, aspettare che il cassiere conti tutte le banconote… le ore passano una dopo l’altra. Da noi, gli automobilisti sarebbero già scesi infuriati, gridando frasi come “Non è possibile che ci vogliano ore per far benzina!” “E’ una vergogna!”, o “Andrò a protestare dal suo superiore!”. In Uzbekistan, invece, le auto si mettono pazientemente in coda e aspettano il proprio turno. Alcuni automobilisti ne approfittano por schiacciare un pisolino, dopo aver appoggiato dei parasole sul lunotto. Altri scendono e intavolano una partita a carte all’ombra di un piccolo pergolato. Qualcuno mangia. Nessuno litiga, nessuno alza la voce, nessuno discute su chi sia arrivato prima. Quando finalmente arriva il nostro turno, è passata un’ora e mezza da quando siamo arrivati al distributore.

Possiamo partire, per davvero questa volta, e non appena usciti dalla città ci aspetta il deserto. Un deserto sabbioso, arido, in cui presto le case lasciano posto al nulla. Ed il nulla ci farà compagnia per le successive cinque ore, passate in macchina in un caldo soffocante, senza mai fermarsi (e dove?), lungo un nastro d’asfalto che corre in mezzo al vuoto più assoluto. Ogni tanto la strada sale su una collinetta, dalla cui sommità spero di scorgere una città, una casa, un’oasi di qualche tipo; invece niente: davanti a noi, a perdita d’occhio, solo sabbia, solo deserto.

Le ore passano interminabili, senza poter scambiare una parola con i miei compagni di viaggio che parlano solo tagiko. Finalmente, quando la pista ritorna di asfalto, torniamo a vedere segni di civiltà: prima un gigantesco ponte sul fiume Amu-Darya, mitico corso d’acqua che per molti secoli ha dato la vita a questi luoghi dimenticati da Dio. Poi la città di Urgench, moderna e caotica, quindi Khiva. Siamo in Corasmia, una di quelle terre leggendarie il cui nome si legge, a volte, sui libri di storia, ma che non pensi esista davvero finché non ci arrivi; e di cui Khiva costituiva la città principale, oggi praticamente abbandonata, e trasformata in una città-museo.

Sì, perché dentro le mura di Khiva, perfettamente conservate, non abita più nessuno. Di giorno le anguste stradine, percorse secoli fa da Gengis Khan e la sua orda, pullulano di turisti, di venditori, di imbonitori, di donne che vanno e vengono dal bazar. Ma la sera, quando il sole tramonta, la città si svuota. Nessuno abita dentro le mura; non ci sono bar, né ristoranti, né negozi. La città ritorna ad essere un museo, incontaminata ed autentica vestigia di un passato sepolto dalla sabbia. Di notte, camminando per le strade buie e silenziose, che non hanno mai conosciuto l’energia elettrica, si incontrano solo pochi turisti che, armati di torcia, cercando di ritrovare  il proprio albergo stando attenti a non inciampare nei subdoli scalini nascosti nell’oscurità.

Khiva è finta, un giocattolo ricostruito per i turisti, e non possiede certo l’atmosfera di Bukhara o il fascino di Samarcanda. Ma chi non è vissuto nel Medioevo, quello che si studia sui libri di storia, e vuole sperimentare la vita di quel tempo, deve venire qui.

 

 

Tutta l’area intorno a Khiva è costellata di resti di antiche fortezze, costruite in Corasmia tra il secondo ed il quinto secolo dopo Cristo. Oggi non rimane molto di queste roccaforti, chiamate qalas, ma mi piacerebbe fare un giro esplorativo, per capire qualcosa in più sull’affascinante storia di questi luoghi tanto misteriosi. Così mi rivolgo all’ufficio turistico di Khiva, dove so che organizzano tours nella zona, e mi aggiungo ad un gruppo di francesi  in partenza il giorno successivo. Così il mattino dopo partiamo di buon’ora (intesa in senso uzbeko, naturalmente) con un pulmino sgangherato che subito lascia la città per inoltrarsi in un territorio piatto, arido e spoglio. Dopo un paio d’ore raggiungiamo il grande fiume Amu-Darja, uno dei più lunghi del mondo, che dalle montagne del Pamir attraversa tutta l’Asia centrale per tuffarsi, alla fine della sua lunga corsa di quasi tremila chilometri, nel Lago d’Aral. Questo fiume, che gli antichi chiamavano Oxus, è un altro di quei nomi che si studiano sui libri di storia: fu attraversato da Alessandro Magno e da Gengis Khan; fu navigato da Ella Maillart che, nel 1930, vagava da sola tra la Russia bolscevica per scrivere reportage, e che lo percorse su di un battello a vapore, per poi attraversare il deserto kazako con una carovana di cammellieri; e tutt’oggi, rappresenta la principale fonte di vita per queste lande altrimenti così aride ed inospitali.

Sul grande fiume, però, non c’è alcun ponte. Bisogna aspettare l’arrivo di una chiatta che fa continuamente la spola tra le due rive. Così il nostro pulmino si mette pazientemente in coda, dietro ad una fila interminabile di altri mezzi. Sono colpito dalla calma e dall’ordine con cui la gente del posto attende di imbarcarsi; mi aspettavo un grande caos, ed in effetti scoprirò presto che le mie aspettative non resteranno deluse. Quando la chiatta arriva sul nostro lato, infatti, attendiamo tutti che le macchine ed i pedoni scendano a terra; poi, quando arriva il momento di salire, è un tutti contro tutti. La fila ordinata di persone e di mezzi che attendeva placida si trasforma in una bolgia infernale in cui auto, camion, trattori, pulmini, carretti con cavalli, tutti cercano si salire per primi attraverso la stretta imboccatura del traghetto, per evitare di restare a terra e di dover aspettare il giro successivo. Chi stava in fondo alla fila taglia attraverso gli alberi per passare davanti agli altri veicoli, che a loro volta si urtano cercando di spingersi fuori strada a vicenda, mentre i pedoni ed i ciclisti tentano di insinuarsi tra i varchi. Gli addetti al traghetto cercano in qualche modo di fare ordine, ma è un’impresa ai limiti dell’impossibile; e il nostro piccolo pulmino può fare ben poco contro un trattore con tanto di rimorchio che, messosi di traverso, occupa da solo metà dello spazio disponibile. Non c’è niente da fare: dobbiamo aspettare il prossimo giro, dopo che la chiatta avrà raggiunto l’altra sponda, scaricato i mezzi, fatto salire quelli che devono venire di qua, riattraversato il fiume e scaricato di nuovo. Impresa che mi appare ancora più ardua quando scopro che la chiatta non ha un motore proprio, come invece avevo pensato, ma viene semplicemente trainata da un piccolo motoscafo legato con una corda ad una delle estremità. Quando è il momento di partire, il motoscafo fa andare il motore a mille e sembra quasi che debba esplodere da un momento all’altro mentre, al limite delle proprie forze, i pistoni urlano di dolore cercando di trascinare l’enorme chiatta, stracarica, sull’altra sponda, dovendo vincere anche la corrente del fiume, che è così largo che a stento si vede l’altra sponda.

Ma il motoscafo non esplode, rifà il suo giro, ed alla fine arriva anche il nostro turno di salire. Dall’altra parte il paesaggio si ripete identico, piatto e monotono, punteggiato qua e là di pochi villaggi in cui il nostro autista si ferma a chiedere la strada… e dopo essere ritornato sui propri passi molte volte, e aver anche investito una capra, finalmente raggiungiamo il primo qalas. Queste fortezze oggi non hanno più niente da dire: sono rimasti solo alcuni tratti di mura costruiti in cima a spoglie colline, e ci vuole molta fantasia per immaginare le persone che le abitavano per proteggersi dalle incursioni dei nemici; i francesi camminano, si arrampicano sui terrapieni sotto il sole cocente, scalano le mura; ma io sto cominciando a soffrire seriamente il caldo, e preferisco tornare indietro e trovare riparo dentro alcune yurte, le tipiche tende dei nomadi dove una gentile signora mi accoglie con tè e dolciumi vari. E’ incredibile il comfort fornito da queste tende costruite con tessuti pesantissimi ed esposte al sole, eppure realizzate in modo da catturare le piccole correnti d’aria e rinfrescare l’ambiente.

La giornata passa così, tra l’autista che si perde di continuo ed i francesi che esplorano le varie fortezze, finché non arriva il momento di tornare a casa. C’è da attraversare di nuovo il fiume, ma questa volta dobbiamo essere cattivi perché pare che siamo arrivati all’orario dell’ultima corsa, e non è il caso di passare la notte all’addiaccio…

 

Anche perché domani mi aspetta una nuova destinazione.

 

Nel deserto non si suda. E’ un concetto difficile da capire per chi abita in posti come l’Italia, in cui bastano 25 gradi perché si cominci a grondare senza ritegno. In Uzbekistan invece il clima è molto secco, e anche con quaranta gradi all’ombra non si suda affatto, cosa molto utile perché permette di mettere spesso gli stessi vestiti senza doverli lavare ogni volta. Questa regola smette improvvisamente di funzionare quando salgo sull’autobus per Nukus che, abbandonato sotto il sole cocente, è  diventato una specie di forno dove non passa aria, e dopo pochi minuti la mia maglietta è già da strizzare. Mano a mano il mezzo si riempie finché, all’alba delle dieci, finalmente partiamo. Come sempre io sono l’unico occidentale che queste persone abbiano mai visto, e divento subito l’attrazione principale del pullman, o almeno del baffuto personaggio seduto accanto a me che subito cerca di fare amicizia. Nonostante il mio russo stentato capisco che oggi è il suo cinquantesimo compleanno, e infatti ecco comparire una bottiglia di vodka che mi viene offerta con un tono a cui non si può dire di no. Io cerco di resistere; nel frattempo la bottiglia fa il giro di tutti i viaggiatori e ritorna fortunatamente vuota.

Racconto ad Aleksey del mio viaggio, mentre lui mi spiega che sta tornando a casa. Ovviamente, essendo io italiano, il discorso si sposta presto sul calcio (che però al mio amico non apprezza molto: pensa che i calciatori non facciano niente e guadagnino troppo) e sui cantanti. Aleksey, ormai visibilmente alticcio, si alza in piedi e comincia a cantare a squarciagola qualcosa di incomprensibile; poi mi chiede:

- Conosci il cantante?

- No, non ne ho idea…

- Cilitanà!, Cilitanà!

- Mai sentito…

- Ma come, non conosci Cilitanà! E’ famosissimo!

- Mai sentito nominare!

- Ma sei sicuro di essere italiano?

E così via. E’ un peccato che la conversazione stia prendendo un binario tanto intelligente, perché proprio sul più bello il pullman si ferma per una sosta, di cui ovviamente Aleksey approfitta per procurarsi una nuova bottiglia di vodka da cui stavolta non posso difendermi. Con un coltello taglia il fondo di una bottiglia di plastica per ricavarne un bicchiere, che riempie a dismisura e mi offre in modo molto insistente, supportato da un suo amico pelato che continua a ridere sguaiatamente, tanto che alla fine devo accettare. Seguono brindisi e canti vari della comitiva, poi la bottiglia ritorna e mi tocca un altro giro.

Arriva il momento del melone, uno dei frutti preferiti dagli uzbeki, che qui è grande come un’anguria. Aleksey, visibilmente ubriaco, lo appoggia sul sedile in parte al mio; poi, armato di un coltellaccio da macellaio spuntato fuori da chissà dove, comincia ad affettarlo, facendo strage del povero frutto la cui polpa mi finisce per la maggior parre sulla maglietta. Non mi sento molto tranquillo all’idea che un ubriacone brandisca una lama da venti centimetri accanto a me, ma per fortuna tutto finisce bene e possiamo goderci ciò che rimane del povero frutto.

Aleksey ormai è incontrollabile, continua a toccarmi sulla spalla biascicando parole incomprensibili e cercando anche di spiegarsi a gesti: mi indica continuamente un punto all’orizzonte, per poi mimare una specie di aereo che decolla, ma io non vedo alcun aeroporto né capisco cosa voglia e, sinceramente, comincio ad averne le scatole piene. Spero che arriveremo presto a Nukus, ma fuori dal finestrino si vede solo deserto, un deserto sabbioso e piatto che non lascia adito alla speranza di arrivare presto.

Giungiamo invece ad un nuovo ponte sull’Amu-Darja, realizzato appoggiando varie lamiere metalliche su delle barche sottostanti, ancorate alla bell’e meglio al fondale. Diciamo che la situazione non è molto tranquillizzante; per dare un’idea, si tratta di un fiume grande come il Po quando è in piena, e la corrente è piuttosto forte, e noi dobbiamo attraversarlo su un autobus scalcinato… ma non finisce qui. Dobbiamo scendere e proseguire a piedi, mentre l’autista guida l’autobus vuoto. All’inizio non ne capisco la ragione, ma poi mi appare chiara: un pezzo di lamiera è molto instabile e, dopo che l’autobus ci è salito con le ruote anteriori, l’altra estremità si impenna, impedendo all’asse posteriore di salirci sopra. Pertanto gli uomini, tra cui me a Aleksey, che ormai non mi  molla più, dobbiamo stare in piedi sul bordo della lamiera per evitare che si sollevi, permettendo così al mezzo di proseguire.

Quando siamo dall’altra parte, la verdeggiante sponda del fiume lascia presto il passo ad altro deserto, sconfinato intorno a noi. La strada è una striscia di asfalto che corre in mezzo al nulla, mentre Aleksey ed il suo amico ghignante continuano a tormentarmi con cori, bottiglie e pantomime varie. Quando ormai avevo perso le speranze di arrivare, dopo aver perfino capito che Cilitanà non è altri che Celentano (“e come facevi a non conoscerlo!”), ecco finalmente davanti a noi la città di Nukus. Arriviamo alla stazione dei pullman, e qui i miei compagni di viaggio si dividono: alcuni mi tirano per la maglia, facendomi cenno di scendere; altri, invece, insistono sul fatto che devo restare su, e scendere più avanti. Anche l’autista viene coinvolto nella discussione, mentre alcuni ragazzi si sono preoccupati di scaricare il mio zaino e me lo stanno offrendo, andando contro il partito di quelli che gli dicono di rimetterlo a posto. Io rimango in piedi sugli scalini, in attesa che la discussione, sempre più animata, si concluda in un senso o nell’altro; i toni si alzano, anche grazie alla vodka, ma alla fine si decide di farmi scendere e di affidarmi ad un tassista quasi incredulo alla vista di un europeo in questo posto sperduto. Nukus, infatti, è la capitale della Repubblica Autonoma del Karakalpakistan, uno dei luoghi più sperduti e desolati del pianeta, un posto che farebbe sembrare piena di vita anche la periferia di un villaggio della bassa padana alla domenica pomeriggio.

Ma cosa mai ci sono venuto a fare in un posto simile? Per due ottime ragioni; ma adesso è presto per parlarne, devo prima trovare un posto per passare la notte.

 

 

Fino al 1960 esisteva un grande lago, il Lago d’Aral, che spesso veniva chiamato “mare” per la sua vastità. Era grande quanto mezza Italia, aveva spiagge limpide, pesci in abbondanza, traghetti che lo attraversavano da nord a sud, era un luogo dove sia l’industria ittica che il turismo fiorivano. I delta dei suoi due immissari erano zone piene di flora e di fauna endemiche, con canneti, acquitrini e addirittura dei boschi.

Nel 1960 i sovietici, che regolavano tutte le repubbliche dell’Asia centrale secondo il sistema della collettivizzazione forzata, decisero che i deserti di Uzbekistan e Kazakistan dovessero essere coltivati a cotone, una pianta che richiede moltissima acqua. Per alimentare le enormi piantagioni create dall’oggi al domani, i sovietici crearono un gigantesco sistema di canalizzazione e di irrigazione che attingeva l’acqua dal grande fiume Amu-Darja, che portava la vita in quelle lande altrimenti desertiche. Il cotone crebbe e fiorì, ma il lago d’Aral cominciò a prosciugarsi, privato della sua linfa vitale; dapprima lentamente, poi sempre più velocemente. Il livello dell’acqua cominciò ad abbassarsi di diversi metri, poi il lago cominciò a ritirarsi e le città costruite sulle sue rive si ritrovarono in mezzo al deserto. Dopo cinquant’anni, è rimasta una piccola pozza dove prima c’era un mare, e anche il clima è cambiato: l’aria si è fatta secca, facendo morire le piccole coltivazioni di sussistenza; devastanti tempeste di vento spazzano la regione, trasportando sabbia, sale e prodotti chimici a coprire zone dove prima fioriva la vita. Moynaq, la principale città karakalpaka sul lago, una volta porto ricco e fiorente, è oggi un luogo decrepito, triste e abbandonato a se stesso, da cui quasi tutti gli abitanti sono scappati. Le malattie respiratorie e la mortalità infantile hanno raggiunto livelli record, e oggi chi ci abita ancora è solo perché non ha un altro posto dove andare. E’ veramente uno dei luoghi più deprimenti di tutto il pianeta.

 

Raggiungo Moynaq con un viaggio organizzato da Nukus, quasi tre ore di auto nel nulla più assoluto, con un caldo pazzesco e lungo una strada senza cartelli che si fa largo tra sabbia e cespugli striminziti. Prima visitiamo il piccolo museo, unica fonte di reddito della città, dove possiamo ammirare quadri che illustrano la Moynaq di un tempo: grosse navi trasportavano persone ed animali da una sponda all’altra; bambini nuotavano felici; famiglie passavano il tempo libero sulla spiaggia, godendosi il clima salubre ed il pesce appena pescato.

Oggi, di tutto ciò non rimane più niente. Dove una volta c’era l’allegro porto, rimane solo una balaustra da cui si può vedere il nulla. Quello che una volta era il fondo del lago, adesso è solo uno sterminato deserto brullo e privo di vita, che si estende senza fine davanti ai nostri occhi. E, a testimonianza di questo scempio dell’uomo, ci sono ancora le carcasse arrugginite delle navi da pesca, adagiate su quello che un tempo era il fondo del mare. Questa ferraglia rappresenta un’attrazione per i pochi turisti, o meglio viaggiatori, che si spingono in questo luogo sperduto a vedere ciò che rimane di una tragedia naturale provocata dalla scelleratezza dell’uomo, che per stupidità, o forse per puro interesse economico (ma che differenza fa?), ha distrutto completamente un ecosistema un tempo florido e pieno di vita.

 

 

I giorni a Nukus passano lenti. Questa città di 230.000 abitanti sembra un luogo fantasma: le strade sono deserte, il traffico inesistente, l’unica attività consiste nell’andare al mercato, dove sembra concentrarsi tutta la gente. Finché c’è luce, qui si può osservare la vita di questa città circondata dal deserto; ma quando si fa buio, tutti scompaiono. L’illuminazione pubblica non esiste, e camminare por le strade buie non è affatto divertente. Non esistono luoghi di ritrovo: bar, ristoranti, centri sportivi… niente di niente. Quando esco dalla piccola osteria quasi nascosta vicino al mercato, devo avanzare a tentoni, guidato solo dalla mia lampada portatile attraverso una città fantasma, con le strade tutte uguali tra cui è un attimo perdersi. Non c’è nessuno in giro a cui chiedere indicazioni, solo qualche cane randagio per evitare il quale rischio di finire in una delle numerose buche che crivellano il maleodorante marciapiede. Dopo essermi perso più volte, aver girato a vuoto ed essere ritornato sui miei passi per oltre un’ora, finalmente riesco a ritrovare il mio albergo, che tra l’altro ha già chiuso. D’altronde sono le dieci passate, e non c’è motivo di essere in giro.

Il giorno dopo, al ritorno dalla gita a Moynaq, devo fare un po’ di burocrazia. Ho bisogno di cambiare dei soldi, quindi comincio ad aggirarmi per il mercato con l’aria del turista smarrito in attesa che qualche cambiavalute mi noti. E così succede: in Uzbekistan non conviene cambiare i soldi in banca, dove ti offrono dei tassi sconvenienti, ma per strada, grazie a qualche trafficone, che ha sempre un bel mucchio di som in tasca, e il cui tasso di cambio è molto più alto. L’importante è non farsi scoprire dalla polizia, altrimenti si passano dei guai seri. Mi ricordo di come il mercato di Taskent pullulasse di poliziotti il cui unico scopo era di sorprendere turisti al mercato nero; ma qui, in questa città sperduta nel nulla, i poliziotti sono ancora meno dei turisti; e poi fa troppo caldo per andare in giro a cercare guai.

 

L’ultimo passo è quello di andare alla stazione a comprare il biglietto del treno per ritornare a Taskent. E’ qui che il vero spirito del viaggiare si sente! Entro in stazione, e vedo due biglietterie aperte, davanti alle quali c’è una ressa infinita di persone che pigiano, si spingono, litigano per passare davanti agli altri. Io cerco di inserirmi nel marasma, aspettando un’occasione di farmi largo e tenendo d’occhio chi arriva dopo di me in modo che non mi passi davanti. Il problema è che ci vogliono delle ore per comprare il biglietto: infatti bisogna prima di tutto presentare il passaporto, sia il proprio sia tutti quelli degli amici o familiari per cui si compra il biglietto; poi la bigliettaia apre un pesante registro cartaceo in cui controlla che ci sia un posto libero sul treno richiesto, e prende nota di tutti i dati dei passeggeri; quindi il cliente deve compilare una lunga serie di scartoffie, e infine pagare. Ma chi compra quattro o cinque biglietti spende magari centomila som, ed essendo la banconota più grande da mille, la cassiera si mette pazientemente a contare tutte le banconote una per una, anche due volte per sicurezza.

Nel frattempo le ore passano, il caldo aumenta… ma ecco che finalmente sta per arrivare il mio turno. Mi sono piazzato dietro alla vecchina che sta comprando adesso, e non intendo farmi superare da nessuno. Ecco che la signora paga, ritira i biglietti, li controlla per sicurezza, si allontana, e quando finalmente mi avvicino orgoglioso della mia vittoria, di fronte al mio volto sudato ma sorridente la bigliettaia espone il cartello “CHIUSO” di fantozziana memoria.

Sento che qualcuno dietro di me protesta, ma lei non ne vuole sapere e se ne va. Così a me e agli altri viaggiatori non resta altro da fare che aggiungersi alla calca che c’è di fronte all’unico sportello rimasto aperto, e aspettare, aspettare, aspettare… ma io faccio l’insegnante, quindi di pazienza ne ho tanta, e alla fine arriva il mio turno. Ovviamente il bigliettaio parla solo russo, ma io riesco a farmi capire abbastanza bene ed alla fine, quando mi allontano col mio biglietto in mano, mi sento soddisfatto come se avessi scalato l’Everest.

 

 

 

Le portiere della Skoda hanno un cacciavite al posto della serratura, per tenerle chiuse; i finestrini sono ancora di quelli manuali, che si aprono con una maniglia che le mie mani cercano inutilmente, trovando solo un buco nello sportello; nel cruscotto si aprono voragini che sembrano le casette dei topi tipiche cartoni animati; il volante sta insieme col nastro adesivo… ma tutto ciò passa in secondo piano mentre osservo i fili scoperti dell’accensione, che penzolano sotto il volante come se volessero farsi notare. Mikhail quasi si vanta nel dirmi che la sua auto ha 34 anni, e non stento a crederlo… arriviamo a Mizdakhan, una grande cittadella risalente al IV secolo avanti Cristo, oggi trasformata in cimitero, dopo che le truppe di Gengis Khan la rasero al suolo nel milleduecento. La leggenda narra che la figlia del Khan locale, Muzlumkhan, fosse di una bellezza raggiante, e che l’uomo più ricco della città ne chiese prontamente la mano. Lei, però era innamorata di un umile architetto; così il padre, fingendo di accontentarla, propose al suo amante una scommessa impossibile: avrebbe potuto sposare la figlia soltanto se fosse riuscito a costruire, nel giro di una notte, un minareto alto fino al cielo. L’uomo amava a tal punto Muzlumkhan che la sua passione gli permise di riuscire nell’impresa; ma il khan, sconcertato, si rimangiò la parola e proibì le nozze. L’architetto allora, raggirato e disperato, salì sulla cima del minareto e si gettò nel vuoto, subito seguito dalla sua innamorata. Il khan decise quindi di far distruggere il minareto, e di seppellire la coppia sotto le macerie.

Oggi Mizdakhan è un cimitero, costruito su una collina da cui lo sguardo arriva fino al Turkmenistan. C’è anche un mausoleo, dove si dice sia sepolto il biblico Adamo. Lì vicino i pellegrini costruiscono delle piccole piramidi formate esattamente da sette mattoni, con lo scopo di chiedere ad Allah la realizzazione dei propri desideri; però i mattoni vanno raccolti da terra, e non rubati alle altre piramidi: rovinare la felicità degli altri non può servire a costruire la propria…

 

L’altra attrattiva di Nukus è il museo dedicato a Igor Savitsky. Costui era un appassionato d’arte che, tra gli anni ’50 e ’60, decise di salvare molte opere d’arte di artisti russi e centro-asiatici che, per la loro natura, erano considerate “inadatte” dagli apparatcik che dettavano le regole della nuova cultura sovietica. Savitsky cominciò così a raccogliere quadri, arazzi, statue, gioielli, tappeti e tutto quanto poteva essere spostato, e portò queste opere nel deserto del Karakalpakistan, dove era certo che nessun ufficiale bolscevico sarebbe venuto a cercarle; e così è stato. Oggi il museo nazionale, che porta il suo nome, ospita 90.000 pezzi, così tanti che è impossibile esporli tutti assieme, e ogni tre mesi il museo cambia gli oggetti mostrati, a rotazione. Io non sono un appassionato di musei, ma penso che questo sia uno che merita di essere visitato: chiamato anche “Il Louvre delle steppe”, il museo ospita una incredibile raccolta di oggetti d’arte tipica dell’Asia centrale, che permette di approfondire la cultura di un popolo, i karakalpaki, che oggi si è persa nel tempo. La stessa parola “karakalpaki” significa “popolo dal copricapo nero”, ma nessuno sa più dire cosa fosse questo copricapo, tanto le loro radici si sono insabbiate nel deserto.

 

Ma ormai è tempo di ripartire. Armato del mio preziosissimo biglietto, a mezzogiorno salgo sul treno che, nel giro di ventuno ore, dovrebbe riportarmi a Tashkent. Ovviamente sono l’unico europeo su tutto il treno, forse l’unico che questa gente abbia mai visto; e quindi divento subito l’attrazione di turno. Tutti vogliono venire a conoscermi, a fare amicizia; qualcuno mi porta da bere, qualcun altro da mangiare, tutti cercano di chiacchierare con me, sfoggiando grandi sorrisi… presto divento il fulcro della vita sul convoglio. Purtroppo la lingua è una barriera insormontabile: nonostante qui parlino molte lingue, come il kazako, l’uzbeko, il tagiko, il turkmeno, il turco e perfino il coreano, ciò non mi è di una grande utilità, e il mio russo è troppo scolastico per poter imbastire una conversazione appagante.

Faccio poi amicizia con Murkat, il giovane capo-vagone, che con i suoi diciotto anno sembra quasi scomparire nelle pieghe della sua grande divisa da ferroviere. Mentre riempie il samovar, davanti a cui la gente fa la fila con le bustine del tè in mano, mi racconta la sua settimana: il lunedì parte col treno da Qongirat, per arrivare a Tashkent il giorno dopo. Ma subito riparte per Qongirat, e il mercoledì ritorna a Tashkent, da cui il giovedì va di nuovo a Qongirat. Quindi Qongirat – Tashkent il venerdì, e Tashkent – Qongirat al sabato, mentre alla domenica si riposa. Praticamente vive sul treno…

Dopo molte ore di deserto, arriviamo ad una piccola stazione di rifornimento, dove una folla di venditori ci assale offrendoci bibite, birra, pane, dolciumi e qualsiasi altra cosa si possa inghiottire. Io compro dell’acqua, e quando il treno sta per ripartire vedo Sarkat, uno dei miei compagni di scompartimento, ritorna con in mano un gelato che ha comprato per me… per ricambiare, decido di regalargli il mio copri bottiglie termico, che lui ha guardato avidamente per tutto il viaggio e che probabilmente non esiste in tutto l’Uzbekistan.

 

E alla fine, dopo un giorno ed una notte passati in treno, ritorno a Tashkent, capitale di quell’Uzbekistan che tante emozioni mi ha regalato, e che mi ha fatto scoprire i meravigliosi palazzi di Samarcanda, il fascino medievale di Bukhara, la città-museo di Khiva, la desolazione del lago d’Aral… e che mi ha fatto viaggiare lungo quella Via della Seta di cui avevo letto nei libri di Marco Polo e di Ella Maillart, che avevo visto su di un atlante ingiallito e la cui linea avevo percorso col dito, attraverso città dai nomi esotici e deserti narrati nei libri di avventure. Finalmente l’ho toccata, la Via della Seta, l’ho calpestata con i miei piedi, ne ho annusato l’odore, ho mangiato nei suoi ristoranti, ho parlato con i discendenti di Tamerlano e di Gengis Khan… insomma, un altro sogno si è realizzato.

 

Ma è già ora di partire di nuovo.

 

 

 

Massimiliano

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