Stefano "Zanna" in Sudamerica

Elenco delle email dalla partenza di gennaio 2004...

di Stefano Zannini

 

 

 

Tutte le email e le foto di viaggio sono sul suo blog: 

http://inviaggio2004.splinder.com/

 

       

Cabo de la Vela (Colombia)                                                                Punta Balcones (Perù)                                

 

       

Ponta do Seixas (Brasile)                                                                    Punta Santa Ana (Chile)

 

 

FELTRE (ITALIA), 3 settembre 2003

GIORNO 610 DI VIAGGIO (ieri)

Un improvviso attacco di appendicite acuta e conseguente infezione mi ha costretto ad un rientro forzatamente anticipato. Non provo rimorsi o rabbia per questo, a Cuba ero andato con un obiettivo in particolare, l’ho raggiunto pienamente e, nonostante tutto, me ne sono andato via soddisfatto. Ritorno gratificato da quello che ho fatto, osservato e conosciuto in tutti questi mesi.

E’ questa l’ultima e-mail di viaggio, molti si aspetteranno chissà quale riassunto o commento finale; niente di tutto questo. Descrivere 20 mesi di viaggio è difficile, raccontare 20 mesi di vita lo è ancora di più. Non ho le parole (e forse neanche le capacità) per raccontare in sintesi il Sudamerica che ho visto e nemmeno voglio farlo; è ormai una cosa che fa parte di me, che mi è entrato dentro, che mi ha cambiato come persona, che mi ha aiutato a crescere e a diventare quello che sono adesso (buono o male che sia). Il Sudamerica che ho vissuto è quello che esce nelle mie parole, nel mio modo di pensare e vedere le cose, nel mio modo di affrontare la vita di tutti i giorni. Scoprirò altre cose di questo sub-continente parlando con le persone che già mi conoscevano e che mi vedranno diverso, che mi faranno notare quanto e come sono cambiato, che mi regaleranno angolature differenti per analizzarmi.

Il risveglio di questa mattina sull’oceano mi ha sorpreso con gli occhi umidi, niente di sorprendente in questo; ho preso molto ma ho anche lasciato tanto: amici, conoscenti, sofferenze e gioie, difficoltà e soddisfazioni. Le mie lacrime timide non nascevano dalla fine di un viaggio ma dal ricordo di qualcuno che oggi come ieri continua soffrendo.

Dopo tanti racconti di avventure, paesaggi ed aneddoti, questo diario si chiude con una parola piccola piccola, banale forse, tuttavia, contrariamente a quello che pensavo nei mesi passati, priva di malinconia: fine.

Stefano

 

 

 

MÉRIDA (VENEZUELA), 20 luglio 2005

GIORNO 566 DI VIAGGIO

Gli ultimi giorni in montagna sono passati tra camminate e letture, chiacchierate e teatro. Un paio di giorni fa sono salito al Pan de Azucar, poco più di 3.500 metri, uno stretto sentiero sul costone di quello che una volta era il letto di un ghiacciaio, alle spalle la vallata che lentamente scende verso Mérida, di fronte la barriera delle Ande. Durante le 3 ore di passeggiata un paio di ruscelli e qualche vacca al pascolo, nessuno, nessuno, assolutamente nessuno né in salita né in discesa. Paesaggio stepposo, nessun segno di alberi ma tanti frailejònes, la pianta tipica della zona. Il fine settimana l’ho passato al teatro, una rappresentazione la prima sera, un film su José Martí la seconda; ho conosciuto il direttore mentre aspettavamo di entrare, mi dicono un personaggio molto conosciuto ed apprezzato sia qui che a Cuba, sto aspettando che mi dia qualche buon contatto a La Habana. Ieri sera sono stato a casa di un altro regista, straordinaria la collezione di fotografie d’epoca che aveva.

Questa sera viaggio a Caracas, ancora una volta ho optato per un bus di bestiame umano, il più economico sulla piazza e facilmente anche il più genuino, ultima occasione per parlare con la gente della montagna e sperimentare sedili sfondati e sgasate terrificanti. Dovrei arrivare domattina, mi aspetta l’ultima sfida venezuelana, il Terminal de Buses La Bandera, poi vado in aereoporto e prendo un alberghetto vicino alla costa, lontano dalla città e dalla sua confusione.

Quasi sicuramente è questa l’ultima e-mail che arriva dal Sudamerica, probabilmente anche l’ultima in generale di questo viaggio: a Cuba non so quanto facile sarà trovare un internet cafè economico e forse vorrò starmene anche da solo nelle mie ultime settimane in America Latina. Avrò tempo per ripensare a dove sono stato, a quello che ho visto ed imparato, alle cose che ho scoperto, alle emozioni che ho vissuto e che spesso ancora oggi mi spremono. Credo sia inutile tentare di spiegare come ci si possa sentire a lasciare questa terra dopo tanti mesi, oltretutto mi mancano pur sempre due mesi quindi appieno non me ne rendo ancora conto. Sará Cuba quella che mi darà il saluto finale, l’arrivederci sorridente e malinconico, quella che mi vedrà sparire nel cielo mentre mi allontano da quella che per 20 mesi è stata la mia casa.

A quelli che invece stanno dall’altra parte dell’oceano e che aspettano di (ri)vedermi chiedo di pazientare un poco: settembre sarà il mese del rientro. A presto,

Stefano

 

 

 

 

MERIDA (VENEZUELA), 16 luglio 2005

GIORNO 562 DI VIAGGIO

Mentre arrivavo alla seconda stazione del Teleferico mi sono ricordato che l’ultima volta che ero stato in montagna risaliva all’anno passato, in Chile; “Bah, vediamo...” è quello che ho pensato, prima di arrivare a 4.000m e sentire le tempie bombardate dall’altura. In effetti, salire da 1.600 così velocemente non è la cosa più intelligente da fare, però per fortuna qualcosa di questi mesi di camminate mi dev’essere rimasto perchè, dopo mezz’ora di contemplazione respirando ad occhi chiusi il profumo delle montagne, sono partito di buona lena per l’ascesa al Alto de la Cruz, 4.200m e punto più alto del mio trekking. Respirazione corta e passi brevi, 40 minuti per arrivare a sedersi sotto il cartello di legno che segnala il passo, alle spalle sprazzi di cielo azzurro tra nuvole grigiastre, davanti una coltre impenetrabile di nebbia. Scendiamo di qualche centinaio di metri per mangiare, 20 minuti è il tempo di autonomia prima che il freddo e l’umidità penetrino le ossa e ci buttino di nuovo sul sentiero. A Xavi comincia a dare fastidio il ginocchio destro, ancora una decina di minuti e la puntura di dolore si trasforma in fitte; sono assorto nei miei pensieri quando Sandra, la sua ragazza, scuote la mia meditazione con un “Ci sai fare con i bendaggi al ginocchio?”. “Certo, chiaro”, con una sicurezza, serenità e naturalezza che ha convinto pure me stesso. Oltre al bendaggio, poi, pure un manuale orale di spiegazioni sul perchè ed il percome del dolore, sul cosa fare e sul come camminare, così convincente da alleviare il dolore e da convincere tutti a proseguire. Cinque ore di camminata tra discussioni socio-politiche e nuvole, una decina di case lungo il cammino fino ad arrivare a Los Nevados, villaggio a 2.770m popolato da un centinaio di persone ed arroccato al costone di una vallata ripidissima. Dieci minuti di pipa e riecco il freddo alle ossa ed un ginocchio bloccato; il primo problema passa al mondo dei ricordi dopo una zuppa di patate, il secondo mi accompagna burlone per un paio di giorni. Seduti sull’unica panchina della piccola piazza di fronte alla chiesa, la gente del posto si avvicina per sapere da dove veniamo, come siamo arrivati e dove andiamo, racconta la sua vita, cosa coltiva e cosa le piacerebbe fare; nascondendolo a fatica, parla sognante di un mondo che non conosce ma riconosce la fortuna di vivere in un angolo tanto tranquillo anche se dimenticato, sereno anche se rutinario. Dieci minuti, a volte quindici, poi con la stessa riverenza ed umiltà con cui si sono avvicinati, salutano e se ne vanno. L’immagine notturna del villaggio è lo specchio di questa gente: stradine ripide abbracciate da un silenzio di pace e case di terra secca illuminate da qualche sporadica luce sbiadita dalla nebbia. Alla mia collezione si aggiunge un altro posto fuori dal mondo.

I canadesi, belgi, francesi e colombiani che prendono posto nella camerata unica di 12 letti, sono i nostri compagni di viaggio in jeep il giorno seguente, chi seduto al lato del guidatore, chi sulle panchine montate sul portabagagli, chi sul tetto, quattro ore di strada sconnessa ed impolverata in mezzo a coltivazioni quasi a strapiombo, ruscelli e qualche cavallo in attesa del padrone. Un paio di soste per cambiare la collocazione dei passeggeri, poi ancora polvere e chiacchierate di viaggiatori, cosa c’è qui e cosa c’è lì, cosa va e cosa non va in questo o quel Paese. I propositi di una serata di festa naufragano alle 21:30 nel letto del mio albergo-rifugio, le gambe preda dell’acido lattico e gli occhi fuori dalle orbite.

Oggi cammino normalmente, quelle che scricchiolano adesso sono le braccia dopo aver fatto il bucato a mano, una pratica che a dispiacere avevo abbandonato. Le montagne continuano avvolte nelle nuvole anche se, a guardarle bene, pare che adesso mi strizzino l’occhio. Il mio villaggio non si vede, perso lassù da qualche parte, ma quello che di più importante aveva da offrire lo sento dentro di me.

 

 

 

 

MERIDA (VENEZUELA), 13 luglio 2005

GIORNO 559 DI VIAGGIO

Proprio un bell’ambiente, mai come in questi giorni faccio amicizia con altri viaggiatori, si esce insieme, si passano ore a parlare, discutere, confrontarsi. Ho ritrovato una coppia di catalani che avevo conosciuto a Caracas, usciamo insieme ad un’altra amica danese, tutti più o meno impegnati nel sociale, sto imparando tanto perchè tutti camminano verso la stessa meta per sentieri differenti. Ieri ho visitato un villaggio tipico delle Ande venezuelane, domani pensiamo di salire in quota per un trekking di un paio di giorni; il tempo purtroppo non è dei migliori, non piove però le montagne sono avvolte nelle nuvole, un peccato perchè non si riescono a vedere le “cinque aquile”, le cinque cime più alte della zona. Evitando di bere come ieri sera, ci si augura di riuscire a svegliarsi presto e salire in funivia (la più lunga ed alta del mondo) fino ai 3.500m di Loma Redonda, da lì un’ascesa pesante di 1.000m per poi camminare in quota altre 3-4 ore fino al villaggio Los Nevados dove passiamo la notte. Il giorno dopo (tempo permettendo) proseguiamo verso El Morro, 7-9 ore di cammino con l’obiettivo di trovare una buseta o una mula che ci riporti a Mérida. Non particolarmente pesante ma paesaggi mozzafiato, dicono, sicuramente una maniera di vedere in che condizione mi trovo dopo settimane al livello del mare ed una piccola influenza. Speriamo solo (e se anche fosse?) di non trovare neve. Alla compagnia si aggrega un’austriaca, figata.

Ieri sera disco-pub e birre, in televisione un film su Cuba ed alle pareti foto del Che e di José Martí. Giusto perchè non dimentichi cosa c’è dietro l’angolo.

Stefano

 

 

 

 

CARACAS (VENEZUELA), 6 luglio 2005

GIORNO 552 DI VIAGGIO

Cubana de Aviación, confusione sorridente e gentile, telefoni che squillano ed impiegate che fanno due o piú cose allo stesso tempo, pareti tappezzate di manifesti della propaganda, "gli eroi di Miami", gli attentati. Ho trovato il biglietto che stavo cercando, il prezzo é ragionevole, sto pagando a rate perché non sono accettate carte di

credito, termine ultimo per saldare: venerdí 8 luglio ore 14. Ostacolo immigrazione superato grazie alla compagnia aerea, saldo e mi danno in mano biglietto e visto turistico. Voli strapieni causa ferie venezuelane, partenza prevista venerdí 22 luglio; bene, cosí ho il tempo di visitare un po' anche questo Paese. A Cuba voglio entrare fino in fondo, sará l'ultimo Paese latinoamericano prima del rientro, ci resteró un paio di mesi.

Qui a Caracas pioviggina ma si sta bene, ieri sono uscito con un paio di danesi che stanno nel mio stesso albergo, il rientro in nottata regala qualche brivido lungo la schiena. Me la spasso parlando di Chavez, impossibile non toccare l'argomento, soprattutto dopo la parata militare di ieri.

Patria o muerte, venceremos!

 

 

 

 

CARACAS (VENEZUELA), 4 luglio 2005

GIORNO 550 DI VIAGGIO

Era l’ultima della lista, l’ultima dell’elenco dei “mostri” sudamericani: dopo Lima, La Paz, Buenos Aires, Montevideo, Rio de Janeiro, Salvador de Bahia, Bogotà, Medellín, Cali, Quito e San Paolo ecco finalmente Caracas, altra città considerata tra le più pericolose al mondo negli anni scorsi.

Gli ultimi giorni mi hanno restituito tranquillità, appetito e probabilmente un paio di kili in più (non ho mai mangiato così tanti shawarma come nell’ultima settimana) e finalmente sono tornato a poter camminare la sera. La cosa sicuramente più ricorrente di questa prima settimana venezuelana è la prostituzione, quasi sempre giovanile, spesso sfacciata, per strada e nei bar, in forma diretta o con escamotage abbastanza patetici; cittadina o città non fa differenza, giorno o notte non è importante, si avvicinano sorridenti e propongono un dialogo, cinque minuti e scatta l’invito. Proprio l’altra sera ne hanno proposta una al mio amico, “tutta la notte e gratis, vai tranquillo, fidati”, fin troppo evidente che era minorenne e che c’era dietro qualche scherzetto. Un caso comunque non isolato, in alcuni locali ci sono solo ragazze al di sotto dei 18 anni, il fisico c’è, la faccia può anche trarre in inganno, le tradisce il non avere un documento d’identità. In ogni caso non ci stabilisce una conversazione, nemmeno con quelle nei nostri hotel (ovviamente frequentiamo solamente quelli delle damas de compañia), peccato. Ci ha finalmente abbandonato quel frustrato ed ignorante yankee che si era attaccato alla compagnia, deve aver ricevuto qualche dritta perchè una mattina è partito di fretta e furia dicendo di aver trovato qualcosa di interessante (sesso, traducito nel nostro linguaggio); già mi stanno sui coglioni sti nordamericani, ogni volta mi confermano la loro pochezza. Si sono rifatti vedere anche i miei connazionali, dopo un mese abbondante ho incrociato sulla mia strada una doppia coppia di italiani in passeggiata sul lungomare; mi resta impresso uno dei due “lui”, pantaloni sgargianti, camicia aperta, mano continuamente tra i capelli ed andatura da “non ci sto dentro” (come direbbe un mio amico). Mi è venuto il voltastomaco.

Ho visitato Barcelona, una deliziosa cittadina con case coloniali color pastello, un paio di chiese di livello e piazze alberate di palme dondolate dalla brezza. Puerto La Cruz al contrario non offre granchè da visitare, per le attrazioni principali vedi paragrafo precedente. Proseguo con Stuart, l’inglese, che non sa bene dove cazzo sta andando e programma le cose di minuto in minuto, probabilmente ha trovato in me una scusa per andare di qua e di là.

Domani qui è festa dell’indipendenza, in mattinata andiamo in centro a vedere la parata, chissà che non ci sia “movimento”. Al momento non mi esprimo sulla pericolosità di questa città, sicuramente pompa i pomparuoli (altra citazione presa a prestito) e questa notte ci sarà da guardarsi intorno. Novità sul prossimo futuro non ce ne sono se non che le agenzie di viaggio non possono vendermi il biglietto per Cuba che dico io; mercoledì sono atteso negli uffici di Cubana Aviaciòn.

 

 

 

 

CARUPANO (VENEZUELA), 29 giugno 2005

GIORNO 545 DI VIAGGIO

Il punto piú basso toccato in questi giorni é stato ieri quando, solo in camera ascoltando una canzone in voga qualche mese fa, mi si sono inumiditi gli occhi. Da quel momento é cominciata la risalita.

Questa mattina l’ultimo temporale caraibico (per il momento) mi ha accompagnato fino al molo, poi una normale navigazione di 3 ore abbondanti su un mare sporcato dai residui marroni dell’Orinoco mi ha portato fino in Venezuela. É definitivamente certo che il Sudamerica ha qualcosa che mi appartiene cosí come é certamente vero il contrario perché, avvicinandomi alle coste che piú di cinquecento anni fa videro sbarcare per la prima volta in queste terre Cristoforo Colombo, mi é tornato il buonumore, l’appetito e la voglia di muovermi e di fare. La polizia all’immigrazione é stata particolarmente gentile con il sottoscritto ed a caricarmi sul taxi é stato un simpatico, educato, bonario, ospitale e timidamente estroverso antioqueño colombiano che lavora in Venezuela da 38 anni; non potevo non sfoggiare il sorriso dei miei tempi migliori percorrendo queste strade scortato dagli occhi dei bambini che giocano a torso nudo, osservando le signore che trasportano ceste e ceste di frutta, ascoltando la vera ed originale salsa venezuelana. É cambiato tutto e non solo dentro di me: i visi sono differenti, il modo di fare é differente, i vestiti sono differenti ma soprattutto é differente quell’energia che sale dalla terra, quello spirito che si nasconde dietro gli sguardi di queste persone. Mi sento a casa, forse sono tornato a casa, lontanissimo dalla realtá delle ultime settimane nella quale mai mi sono calato completamente e mai mi sono sentito accettato del tutto. Sono tornato in una terra che non solo conosco ma che sento ormai mia, lo spagnolo mi esce dalla bocca quasi come se mai avessi smesso di parlarlo, le canzoni sono quelle che ho lasciato in Argentina 5 mesi fa, io sono tornato quel viaggiatore svagatamente sognatore che ero all’inizio dell’anno. Adesso il futuro mi sorride, nella stessa maniera in cui i miei occhi sorridono alle persone che incontro, e vorrei spingermi oltre e toccarla questa gente, dirle che sono tornato, farle sapere quanto bene mi trovo in mezzo a loro e quante carezze al cuore mi regala la loro gentilezza. Dev’esser contagiosa la felicità che emano perchè quando la polizia ci ferma lungo la strada per fare una perquisizione generale agli zaini io sono l’unico al quale danno semplicemente un’occhiata e con me tutto si risolve in una gradevole chiaccherata, una pacca sulle spalle ed un “Nos vemos, mano”.

Sono in compagnia ancora del mio amico Stuart e di Steve, un ragazzo americano (...) in vagabondaggio per il mondo. Il programma è che non abbiamo programmi, domani ognuno potrebbe prendere la sua strada, sulla mia ci sono Caracas, il visto ed un biglietto aereo per Havana, Cuba.

 

 

 

 

PORT OF SPAIN (TRINIDAD & TOBAGO), 28 giugno 2005

GIORNO 544 DI VIAGGIO

Da poco sono sbarcato di ritorno da Tobago, mi resta ancora un giorno qui in Trinidad e domani in mattinata re-imbarco alla volta del Venezuela.

Tobago e’ sicuramente meglio di Trinidad, piu’ piccola, piu’ tranquilla, piu’ sicura, piu’ rilassata. Il viaggio di andata e’ stato abbastanza pesante, non per la quantita’ di ore ma grazie ad un mare abbastanza euforico; Tobago mi accoglie con un bel acquazzone, si rivelera’ un segnale profetico. Le famigerate spiagge di Crown Point e Pigeon Point sono piccole e carine, si intuisce che siamo ai caraibi ma siamo lontani dalle foto cartolina che si e’ soliti vedere sui giornali o nei cataloghi turistici. La cosa sicuramente piu’ curiosa sono gli uccelli che si buttano in picchiata in mare e ne escono con un pesce in bocca, spettacolo che, in mancanza di alternative, mi ha fornito un buon diversivo per occupare il tempo; curioso anche l’aereoporto, situato praticamente sopra una spiaggia, che permette di osservare un Boeing 747 atterrare sopra la propria testa. Poco piu’ a nord il tranquillo villaggio di Plymouth che restera’ nei miei ricordi per il fatto di aver dovuto aspettare 6 ore per sapere se c’era o no una camera per me; l’attesa e’ stata premiata con un appartamento solo per me, pure la televisione, aggeggio che all’inizio non sapevo piu’ da che parte prendere. L’aver cucinato usando l’acqua di rubinetto ha lasciato il segno: rincoglionimento, water e ossa a pezzi per un giorno. Siccome avevo passato una giornata in casa, l’indomani mi sono scarpinato il litorale per 25 kilometri; i paesaggi sono carini, piccole baie sotto vento protette spesso dalla barriera corallina, acqua trasparente che bagna la vegetazione quasi vergine, peccato solo il cielo scuro. L’ultima sera uno dei piu’ bei tramonti della mia vita, una palla arancione protetta dalla foschia che si lascia cadere dolcemente sull’oceano mentre le barche dei pescatori rientrano in porto ed i cannoni del forte sorvegliano un nemico che non esiste piu’. Decido di muovermi verso nord ma a Charlotteville non trovo posto dove dormire causa festa locale; scendo verso Speyside e ormai con la lampadina della riserva accesa mi ritrovo di fronte a Stuart, un inglese sulla quarantina che non ci pensa troppo ad affittarmi una camera di casa sua. 12 anni di viaggi in giro per il mondo gli hanno insegnato cosa significa ospitalita’, oltre alla camera mi prepara da mangiare e nel fine-settimana mi porta alla festa; ancora una volta mi ritrovo a pensare come le cose non accadano per caso, io ormai stremato pronto ad un rientro, lui in procinto di partire per i Paesi che avevo appena visitato e che aveva bisogno di consigli. Alla festa (praticamente una sagra paesana nella piazzetta e nella via principale) l’abbigliamento e’ quello informale, il solito esagerato (il sottoscritto) si presenta scalzo. Sono in uno degli approdi prediletti dai pirati, scelto e frequentato a seguito di un accordo tra olandesi ed inglesi che,per qualche tempo, rese Tobago terra franca; non ci vuole molta fantasia ad immaginare la scena di qualche centinaio di anni fa, il paesaggio e’ quello tipico di un film, baia protetta dalle montagne ricoperte da vegetazione fittissima e nuvole nere che scorrono veloci a cancellare la luna gettando tutto nell’oscurita’ piu’ profonda. Per quello che riguarda la festa, il tutto e’ sintetizzabile in Calypso music, orde di gente che balla, birra dovunque, dj che strillano come indemionati, gara delle magliette bagnate e (per l’invidia di molti miei amici) gara di velocita’ su doppia bottiglia di birra. La seconda notte, appena partiti per rientrare, la macchina muore in piena salita, inutile qualsiasi tentativo di rianimarla, la si parcheggia ai lati della strada (che non esistono, quindi praticamente in mezzo alla strada) ed a piedi si percorrono i 5 kilometri di saliscendi fino a casa, in mezzo alla foresta ed al buio punteggiato dalle lucciole, unico passatempo cantare, nell’ultimo tratto di lungomare un bell’acquazzone ricordo. Questa mattina sveglia alle 4, grazie a Dio la macchina si e’ messa in moto e, solo con un freno funzionante e con dei rumori sinistri che arrivavano dal semiasse, siamo arrivati a Scarborough, biglietto, imbarco e ritorno a Trinidad.

Per la prima volta da quando sono partito ho provato una sensazione imprevista, forse strana ma non inspiegabile: stanchezza, e non solo fisica. Aspetto di vedere cosa succede in Venezuela nei prossimi giorni, ma intanto un occhio ai voli per l’Europa ce lo butto.

 

 

 

 

PORT OF SPAIN (TRINIDAD & TOBAGO), 18 giugno 2005

GIORNO 534 DI VIAGGIO

La conferma del biglietto aereo da Trinidad a Caracas vale quanto un pezzo di carta igienica usata: zero. Mi e’ stato spiegato che trattasi semplicemente di una conferma della prenotazione, niente di piu’. Cio’ significa che sono entrato illegalmente, considerato che occore un biglietto di ritorno o di proseguimento del viaggio per stare a Trinidad. Alla compagnia aerea non mi vendono il biglietto di sola andata per il Venezuela perche’, anche in questo caso, per entrare ho bisogno di un biglietto di uscita dal Paese; quasi 400 dollari il costo dell’operazione, impensabile che affronti una spesa del genere. Piu’ o meno la stessa cosa per Cuba, devo ottenere la carta turistica dal consolato, pero’ il consolato vuole il biglietto aereo per rilasciarmela e la compagnia aerea vuole la carta turistica per vendermi il biglietto; un bel casino. Oltre alla lingua, gia’ di per se’ un problema, non e’ che abbia a che fare con persone particolarmente educate o gentili e questo aiuta molto a complicare le cose. Lunedi’ e’ festa nazionale, voglio andare a Tobago e devo risolvere le cose in fretta, prima di partire da qui. Al consolato venezuelano finalmente una persona disponibile, gentile ed educata; niente da fare, ho bisogno di un biglietto di uscita dal Venezuela per poter entrare ma...c’e’ una nave/barca/mezzo navale a motore che tutti i mercoledi’ fa spola tra la costa di Trinidad e quella venezuelana. Soluzione: compro un’andata e ritorno, entro nel Paese, vado a Caracas, prendo la carta turistica per Cuba e chi s’e’ visto s’e’ visto. Mi sembra una buona idea, per il momento mi sono limitato alla prima parte (comprare il biglietto), speriamo che funzioni anche il resto. Se non avete capito una mazza di quello che ho scritto, non c’e’ problema, io pure ho brancolato nel buio per ore ieri.

Port of Spain, Trinidad: non una citta’ fra le piu’ belle e sicure che abbia visitato, comunque perlomeno qui si puo’ camminare abbastanza sereni durante il giorno, non come Georgetown. Sole, caldo ed umidita’ (soprattutto adesso dopo un bell’acquazzone), prezzi alti per gli alloggi, bassi per il cibo. Tutti mi dicono di andare a Tobago, altro stile di vita, altri ritmi, altri paesaggi, altri prezzi; purtroppo questo e’ un fine settimana lungo e l’isoletta e’ strapiena, aspetto quindi lunedi’ o martedi’, 5 ore di nave e sbarco. Mi faccio un po’ di mare, tramonti e (spero finalmente) tranquillita’. Mercoledi’ 29 supposta partenza per il Venezuela.

A quelli che mi stanno aspettando in Italia comunico che, dopo quasi 18 mesi, ho messo i piedi fuori dal Sudamerica. Solo per qualche giorno, d’accordo, ma comunque un passo in avanti.

 

 

 

GEORGETOWN (GUYANA), 15 giugno 2005

GIORNO 531 DI VIAGGIO

Dopo Bariloche e Medellin (furto in camera), Bogota (assalto in mezzo alla strada) e Rio de Janeiro (assalto con pistola al bus dove stavo viaggiando), domenica sera e' stata la volta della rapina a Paramaribo; poco dopo le 20, all'interno di un negozio di alimentari per comprare qualcosa da mangiare, entra uno alle mie spalle e comincia a straparlare qualcosa, quando mi giro e lo vedo in faccia e mi rendo conto che nel locale ci sono solo io, capisco cosa sta dicendo. Gli do' quello che ho (poco, come sempre) e tutto finisce la'. All'uscita le strade sono piu' deserte di prima ed e' piu' buio di quando sono entrato, il problema non e' quello che viene portato via ma le sicurezze che svaniscono in un momento. Il viaggio del giorno dopo verso la Guyana diventa a quel punto piu' difficile, tutto sembra essere diventato pericoloso, qualsiasi occhiata assume un significato diverso. Occorre farci l'abitudine, da queste parti e' cosi'.

Passato l'ennesimo confine si capisce subito che si e' entrati in un Paese differente: le strade sono delle strisce deformate di asfalto senza confini precisi, vacche e cani ci pascolano serenamente mentre le macchine ci fanno a zig-zag, templi indu di tanto in tanto, il cadavere di un cane ormai irrigidido ai bordi della strada, cimiteri senza muri di recinzione messi a fianco delle case, una mucca rumina qualcosa raccolto dalla spazzatura mentre un'altra resta fissa di fronte alla vetrina di una concessionaria di motorini, discariche a cielo aperto. Arrivo a destinazione piu' tardi e piu' stanco del previsto ma per fortuna mi scaricano di fronte alla Guesthouse che avevo scelto e tutto quello di cui avevo bisogno era cibo, una doccia ed una stanza deliziosa come questa, arieggiata, un letto comodo ed una zanzariera che finalmente mi protegge mentre dormo. Il giorno dopo posso dedicarmi alla visita della citta', bella, verdeggiante e ricca di costruzioni in legno in stile vittoriano. Non si respira aria tranquilla, la zona attorno al mercato e' decisamente poco raccomandabile, ogni tanto appare qualche personaggio per niente rassicurante ma nel complesso si lascia passeggiare, soffocato da un sole atroce contro cui non puo' niente nemmeno una costante brezza marina. Le mie serate sono praticamente inesistenti, un po' per qualche strascico di domenica sera, un po' per stanchezza e pigrizia. La prima sera a Georgetown ho scosso il letto alle 19:19... Ho ripreso a mangiare dopo qualche difficolta' in Suriname, ho riconfermato il volo ed aspetto domani per atterrare a Port of Spain, capitale di Trinidad. Conto di arrivare in aeroporto sano e salvo, poi saranno altre pagine da scrivere.

Stefano

 

 

 

 

PARAMARIBO (SURINAME), 12 giugno 2005

GIORNO 528 DI VIAGGIO

Ultimi minuti di luce a Paramaribo e partenza per la Guyana inglese che si avvicina, terzo Paese in una settimana. Sveglia domattina alle 3:40 e grande viaggio attraverso vacche, maiali, campi, buche, la terza frontiera fluviale, New Amsterdam, un altro fiume e (si spera) Georgetown, segnalata bella in fermento. Autista dell´occasione: Bobby, driver ufficiale del personale dell´albergo nelle sue scorribande oltre confine che, se non ho capito male, e´ un induista. "Stai per fare un viaggio che non dimenticherai sicuramente" ha chiosato il padrone dell´hotel, descrivendomi il gradevole stile di guida di questi personaggi, lanciati a 120-140 km/h in contromano tentando di schivare uomini ed animali che si parano in mezzo alla strada. So gia´ che ci sara´ da discutere alla dogana in uscita ma me ne occupero´ domani.

Alla fine delle mie interviste, Menzo, Reiziger, Bogarde, Rijkaard, Seedorf, Davids, Winter, Gullit e Kluivert sono i personaggi piu´ famosi prodotti ed esportati dal Suriname. La lingua piu´ o meno ufficiale parlata da queste parti (oltre all´olandese ed all´inglese) e´ lo sranantomo, finalmente l´ho scoperto. L´ennesimo paradosso-assurdo-stranezza di questo Paese si e´ verificato ieri quando, dandomi il resto, mi sono visto arrivare in mano una moneta quadrata. Per il resto ho fatto una bella gita nella savana in visita ai resti di questa sinagoga in compagnia di un simpatico e bonario olandese titolare di un numero non chiaro di corsi di economia in un MBA a Philadelfia: mi sono fatto una bella chiacchierata. Bello pimpante, poi, mi sono lanciato nella notte di Paramaribo, strade deserte in centro ma abbastanza animate vicino al Suriname River, qualche birretta ed altre chiacchiere. Oggi l´ultima visita: un tempio Indu.

Una piccola fotografia di quello che mi attende. Il sistema politico della Guyana inglese e´ gestito da due partiti, quello indiano e quello afro, e questo e´ uno dei pochi Paesi caraibici dove la distinzione razziale rappresenta un argomento politico. Governato perlopiu´ dal movimento afro appoggiato dal sistema coloniale, nel 1980 e´ stata adottata una nuova costituzione nella quale veniva fatto chiaro riferimento al passaggio da un sitema capitalista ad uno socialista, vennero instaurati legami con i Paesi del blocco sovietico ma tutto fini´ in niente. Alla fine degli anni ´80 cambio al potere, fino alla morte del presidente induista per attacco di cuore. Nuove elezioni e vittoria alla vedova dello stesso, denuncie di brogli elettorali, ricorsi, boicottaggi dell´Assemblea Nazionale finche´ pure questa se ne va per problemi di salute. Attualmente nel Paese oltre il 47% della popolazione e´ indiana mentre il 32% e´ afro. I bianchi? Lo 0,3%. Diciamo che non passero´ inosservato.

 

 

 

 

PARAMARIBO (SURINAME), 10 giugno 2005

GIORNO 526 DI VIAGGIO

Non dico che ci ho preso le misure, questo mi pare ancora esagerato, ma comincio a raccappezzarmici, a capire dove sono e cosa devo fare. Certo non e’ il piu’ agevole dei posti, su questo non c’e’ dubbio, e non c’e’ cosa che non crei confusione, perlomeno nella mia testa. Tanto per cominciare, ieri, prima di uscire a fare un giro volevo lavarmi le mani ma dal rubinetto non scendeva acqua, ho verificato che nemmeno dalla doccia scendeva niente e, sapendo che stavano facendo dei lavori, ho pensato che avessero staccato tutto e me ne sono andato. Quando sono rientrato il povero padrone dell’albergo mi racconta che, una volta risolto il problema di black-out in citta’ (trattavasi di questo), dal mio rubinetto e dalla doccia e della stanza accanto (per fortuna non ero il solo cretino) ha cominciato a traboccare acqua che ha inondato le nostre due stanze e quelle sottostanti; essendo io oltretutto uscito con le chiavi, per entrare e porre fine alla tragedia hanno pure dovuto sfondare la porta...Gia’ questo da’ un’idea della mia lucidita’, immaginarsi se poi viene costantemente presa a sberle ad ogni situazione; ti ferma un nero per strada e ti bofonchia qualcosa in olandese, entri in un’agenzia e fra loro parlano cinese, in albergo e’ di rigore il portoghese, la signora del negozio sa solo (e male) l’inglese, a questo punto anch’io mi allineo e mescolo il tutto con un piacevole francese (che peraltro non c’entra una mazza). Guidano a sinistra e gia’ un paio di volte ho rischiato di farmi tirare sotto, affidarsi ai nomi delle vie e’ come tentare di memorizzare uno scioglilingua, cercare di capire quello che significano i nomi delle pietanze richiede arti divinatorie, giri l’angolo ed a momenti ti piglia un infarto trovandoti davanti un muro nero alto 20 centimetri piu’ di te, tre volte il tuo peso (non che ci voglia granche’ in questo periodo) e con le trecce fino alla vita. Ti chiedono l’elemosina guardandoti anche male, poi gli ripeti no tre volte e ti stringono la mano per ringraziarti lo stesso. Il resto e’ contorno: zanzare insistenti ma non particolarmente fastidiose, caldo atroce, niente pioggia, costruzioni affascinanti. Agli amanti delle culture locali segnalo la bibita 100% surinamese Fernandes, equivalente locale della piu’ famosa ma non per questo piu’ pestifera Inca Kola; l’ho scelta al sapore’limonata’ e mi e’ arrivata una sbobba alla Big Babol gusto fragola (si’, quella con i colori blu e rosa). Ho appena lasciato una moschea a lato di una sinagoga (non una cosa da tutti i giorni), appena posso vado a vedere quello che viene defiinito il piu’ grande tempio Hindu dell’emisfero occidentale e domani mi lancio nella visita di Jodensavanne, antico insediamento ebreo dei primi anni del 1600 (se ricordo bene) con annesso bagno in qualche spiaggia locale non meglio precisata; mi costa una cifra ma, cazzo, diamogli un’occhiata a questo Paese, no?

Ho sistemato anche la questione aereo, il volo dalla Guyana inglese a Trinidad e’ previsto per giovedi’ 16 corrente mese mentre quello direzione Caracas era gia’ stato piantato per lunedi’ 27; sto lavorando ora alla nave per Tobago.

Una settimana senza cambiare mutande e’ troppo? A me non sembra.

 

 

 

 

PARAMARIBO (SURINAME), 9 giugno 2005

GIORNO 525 DI VIAGGIO

Tre giorni di Guyana francese e via, Cayenne e la vecchia colonia penale di Saint Laurent du Maroni le due localita che ho visitato. Cayenne mi ha fatto davvero un’ottima impressione, citta’ a misura d’uomo, casette dai tetti caratteristici della Francia settentrionale, belle ragazze, persone estremamente gentili e tramonti spettacolari in compagnia di stormi di uccelli e branchi di calamari (?) giganti. Non direi che e’ una citta’ pericolosa anche se, quando alle 20 si abbassano dovunque le serrande e per strada non rimane nessuno, camminare da soli non e’ la cosa piu’ simpatica e rasserenante che ci sia al mondo. Ho riscoperto il piacere di una birra alla spina con corpo, sapore e temperatura “europea”, un privilegio del quale avevo ormai solamente un malinconico e nostalgico ricordo. Dicono che la Guyana abbia cessato di essere una colonia penale da parecchi decenni, puo’ essere, ma a me restano delle perplessita’, se non altro per le pene e le sofferenze cui e’stato sottoposto il mio portafoglio in questi interminabili tre giorni.

Saint Laurent du Maroni nasce invece come punto di approdo di decine di migliaia di prigionieri francesi, costretti a scontare le loro pene tra lavori forzati e celle d’isolamento. Del vecchio Camp de Transportation rimane oggi la struttura ed una mostra interessante, mi chiedo a questo proposito cosa ci facesse una band hip-hop all’interno di una delle vecchie case adibite a celle...Contrariamente a quanto pensavo, questa cittadina di circa 20.000 abitanti riserva al viaggiatore un’atmosfera gia’ un po’ piu’ calda di quella della capitale; anche in questo caso, camminare scrutati dagli sguardi dei neri all’interno del Village Chinois richiede una buona dose di fegato (o disinteresse).

Visti i costi, questa mattina rapida fuga verso il Suriname, rapida si fa per dire grazie all’ora di attesa gentilmente concessami da un camion che era rimasto incastrato tra il traghetto e la terraferma (...). Risparmio i dettagli perche’ gia’ adesso la testa ha ricominciato a ciondolare sconsolata. All’altro lato del fiume il primo spaccato di questo colorito Paese: doganiere dai tratti orientali che mi accoglie con il suo inglese tipicamente asiatico, neri rasta dovunque, Bob Marley icona imperante, urla in faccia per trascinarmi su un minibus piuttosto che una macchina, sorrisi genuini e bambini che corrono qua e la’. Un’ora per partire, due ore di viaggio saltellando su una strada piena di avvallamenti, un iguana schiacciato, poi Parbo: ponte gigantesco, case in legno da togliere il fiato, moschee, sinagoghe, indiani, neri, pakistani, rasta, spazi verdi e confusione. Raccatto un albergo (il piu’ economico sulla piazza ma anche qui c’e’ poco da risparmiare) e mi faccio un giro. Mentre venivo qui a scrivere questo articolo si stavano abbassando le serrande dei negozi e per strada c’erano davvero poche persone (e dire che sono le sei di sera). Domani e forse dopodomani mi dedico a scoprire questa citta’ e questa cultura; a Parbo vive una meta’ abbondante dell’intera popolazione del Paese, sviluppatosi attorno al 1650 sull’immigrazione ebrea da Olanda, Italia e Brasile e nella seconda meta’ dell’800 sull’immigrazione cinese ed indonesiana. Oggigiorno il 35% degli abitanti e’ di origine indio-pakistana, il 32% afro-surinamese ed il 15% indonesiano. L’ultimo colpo di stato nel 1985 contanto di fucilazioni e torture, praticamente l’altro ieri. La lingua parlata e’ il...boh, figurarsi leggere il menu nei ristoranti. Il centro della citta’ si chiama Onafhankelijksplein, tanto per chiarire in che acque navigo. Fa un caldo torrido, anche se per fortuna qui ogni tanto tira un venticello fresco.

Ma dove cazzo vado a mangiare questa sera?

 

 

CAYENNE (FRANCIA, dep. GUYANA), 6 giugno 2005

GIORNO 522 DI VIAGGIO

Quello che scrive queste righe é una persona all’apice della felicità e della soddisfazione.

Questa volta il presappochismo, l’ignoranza e la faciloneria brasiliana non sono state né scusa né ostacolo a quelle che erano le mie intenzioni. Andato di persona alla stazione degli autobus, ho raccattato delle jeep 4x4 che prendevano la strada per Oiapoque e, senza tanto starci a pensare, mi sono rituffato in albergo ed ho preso lo zaino. Incoraggiante il viatico al viaggio: a pochi passi dalla vettura, un serpente verde turchese, morto o vivo non l’ho ancora capito e non voglio capirlo. A vendermi il trasporto, un panzone terrificante dall’aria bonaria e dal pizzetto disincantato. Due le tariffe a disposizione, sedile interno o cassone all’aperto, scontato specificare che ho optato per la seconda lasciando spazio ad anziani, bambini e donne incinte. Mi ci vuole un po’ per abituarmi all’idea di passare una ventina di ore sdraiato sul cassone di una jeep in una strada sterrata durante la stagione delle piogge e, fattomene una ragione, scopro che i due metri quadrati abbondanti di spazio co,presi tra la carcassa della macchina ed il muro di bagagli sono destinati anche ad altre due persene ed alla ruota di scorta. I primi 100 kilometri scivolano via senza problemi, gli spazi intorno lentamente si trasformano da pianure di prati a foresta, la strada asfaltata permette di mantenere velocità sostenute, passiamo attraverso un paio di acquazzoni, mi rannicchio all’interno della mia cerata sfidando le gocce di pioggia che mi sbattono sul viso ed osservando intorno il panorama diventare grigio; i miei due compagni di cassone non godono dei miei privilegi e l’unica protezione di cui possono valere é l’accartocciarsi su sè stessi e sperare in qualcosa di rapido. Tra una palude e l’altra mi chiedo cosa spinga un ragazzo di 33 anni a spaccarsi la schiena in un simile viaggio, passando attraverso la foresta vergine senza certezze di arrivare a destinazione, elaboro chissà quale spiegazione finchè la risposta non mi si presenta da sola, senza nemmeno domandare permesso: é la sensazione di arrivare a toccare qualcosa di infinito che sta dentro di me, un senso di comunione assoluta con quello che sta intorno, forse un ritorno a qualcosa di ancestrale che tutti noi portiamo dentro. Questa volta non c’é un tramonto ma l’imbrunire che segue ad un diluvio improvviso quanto passeggero é capace di regalare un cielo a tinte pastello, contorni sbiaditi di nuvole argentee che pizzicano una tavolozza di un azzurro cosi delicato da togliere il respiro. Deve ancora scendere il buio ad occidente che già alle mie spalle compare la Croce del Sud, rassicurante come un padre che vuole sorvegliare il cammino del figlio, compagna di viaggio chissà quante volte eppure ancora accolta dal sottoscritto con piacere e sollievo. Siamo già sullo sterrato, la velocità non accenna a diminuire ma adesso si avanza a zig-zag, difficile anche mangiare un panino ma non per questo impossibile dividere la mia cena con i miei due vicini. Ci si ferma tre, quattro, cinque volte a mettere le mani al motore di un’altra jeep, al buio nel mezzo della foresta, silenzio assoluto rotto dalle risate roche dei due autisti, quqlche decina di minuti fermi, poi di nuovo sul cassone, schiena sui bagagli, gambe dove si ritaglia un minimo di spazio ed occhi rivolti al cielo riempito adesso di migliaia di puntini luminosi. Cosa si pensa durante un’esperienza del genere? A tutto e a niente, le elementari al Boscariz, un amico che é appena diventato papà, un altro che sta viaggiando. E’ buio pesto, compare in mezzo alla strada una tartaruga, si comincia a ballare un poco, all’improvviso un’altra sosta, “restiamo qui fino all’alba”; scendo con le gambe intorpidite, butto la testa su un tavolo ma una signora mi offre un’amaca, due ore e mezza di sonno leggerissimo, poi é già sole, cassone, strada. Cominciano gli ultimi famigerati e terribili 90 kilometri, quelli che rendono la strada tecnicamente intransitabile; non ci vuole molto a capire il perché, voragini di 1-2 metri all’interno delle quali le jeep sprofondano e risalgono come per miracolo. “Tutti giù, a spingere”, seguo l’esempio degli altri e scendo scalzo, il fango arriva alla ginocchia, sento i piedi punti dai sassi, uno, due, tre e la jeep risale, poi si fa lo stesso con le altre due, quando non si riesce in questo modo si ricorre a corde, badili ed ai tronchi lasciati da qualcun’altro ai bordi della strada. Sempre più buche, sempre più fango, sempre più sporche le mie gambe, raccogliamo un signore che deve andare a Oiapoque e che si accomoda al mio fianco, mi spega nei dettagli tutte le successive trappole che ci aspettano, all’improvviso afferma serafico “era l’ultima, da qui si arriva senza problemi”. Mi gusto gli ultimi 30 kilometri in piedi sul cassone, l’aria fresca ed umida del mattino sul viso ed il sole equatoriale sulle braccia. Oiapoque, agglomerato di case davanti al fiume che divide il Brasile dalla Guyana francese, prendo una stanza e mi butto a dormire con la pelle indurita dal fango ormai secco, le 22 ore di viaggio si fanno sentire nelle gambe che a fatica mi tengono in piedi e nel ginocchio sinistro che si è gonfiato. Mi alzo giusto per una doccia e la cena, accendo la pipa sotto lo sguardo attento e fiero della solita Croce del Sud, passeggio in riva al rio Oiapoque. Per le strade mi conoscono come “il francese” perché gli unici turisti che passano da queste parti sono i nostri cugni ed arrivano tutti dalla Guyana in gita; “non ricordo nessun straniero che sia arrivato da Macapà per quella strada” mi illumina il poliziotto brasiliano. Questa mattina ho lasciato il Brasile, una piroga mi ha portato dall’altro lato del fiume, in Francia, dipartimento della Guyana. Pago in euro (tanti), tento di parlare in francese mentre mi guardo intorno un poco smarrito; la strada é completamente asfaltata, la segnaletica impeccabile, le rotonde geometricamente perfette, verde, verde ed ancora verde, foresta impenetrabile che lentamente diventa prato, all’improvviso un grande supermercato, case le une vicino alle altre ed un grande cartello: Cayenne. Io mi immaginavo qualche grattacielo, macché! Case in legno e laminato, stile francese e fascino d’altri tempi, palme agitate da una meravigliosa brezza marina, negro rasta buttati all’ombra a fare elemosina. Bello, bello, semplicemente bello e tremendamente romantico. Non dico come si sento perché non conosco parole che possano raccontare l’infinito.

La mia stanza sta esattamente sopra un bar, prima di pagare e registrarmi mi sono fatto una birra in un sorso; fresca, dissetante, me la sono offerta io, me la meritavo.

 

MACAPÁ (BRASILE), 3 giugno 2005

GIORNO 519 DI VIAGGIO

A quasi 33 anni sono riuscito a raggiungere un altro obiettivo: essere il primo, ma proprio il primo, ad imbarcare su un aereo, entrare quando dentro non c’é ancora nessuno, scivolare nel corridoio senza dover zigzagare tra le persone che stanno sistemando bagagli a mano. Risultato: sono riuscito a sedermi su un posto sbagliato...Tre voli: da São Paulo a Brasilia, da Brasilia a Belém, da Belém a Macapá, atterraggio finale puntualissimo alle 2:15 del mattino, discesa dalla scaletta posteriore e passeggiata verso il ritiro bagagli soffocato dall’afa e circondato dalle palme. Sfruttato al massimo quello che la compagnia offriva come pasto: mini-confezioni di arachidi da 50g (alla fine ne ho prese 7) e barrette di cereali (4). Poveretta, l’hostess é pure rimasta un poco spaesata quando mi ha chiesto cosa gradivo ed io le ho risposto “Tutto quello che c’é dentro il carrello”.

Avrei potuto anche andare verso la cittadina ma francamente ne avevo poca voglia e cosí, come previsto, notte in aeroporto ancora una volta su quelle stramaledette seggiole con braccioli, testa appoggiato sullo zaino, maglietta (regalo del Lucone) come cuscino, 4 tranches di un’ora ciascuna, dalle 3 alle 7 del mattino, poi colazione e via in centro (scontato, a piedi). Oggi ho visitato un suggestivo forte portoghese, passeggiato in riva al Rio delle Amazzoni e scherzato sulla linea dell’Equatore. Caldo feroce, umiditá elevata, sete, sudore grondante e qualche scottatura qua e lá. La cittdina é molto gradevole, fortunatamente battuta da una piacevole brezza e la gente pare molto ospitale. Di stranieri neanche l’ombra. La signora del museo si é appena lamentata di essersi trovata, l’altro giorno, un serpente in casa...”colpa di quella cretina che fa le pulizie!”.

La notizia del giorno, comunque, é piombata attorno all’ora di pranzo: “la strada per Oiapoque é chiusa, impossibile transitarci, stiamo aspettando che la sistemino e ci diano l’ok” dicono dalla compagnia dei bus, “io l’ho fatta la settimana scorsa, ci abbiamo messo una ventina di ore” aggiunge disincantato il personaggio al mio lato “ma pare che poi, una volta arrivato in Guyana, ci siano dei mezzi piú o meno ufficiali che portano fino a Cayenne”. Bene, a questo punto si aspetta; domani mi informo ancora sulla situazione della strada, se si apre un varco io mi ci butto senza pensarci due volte, sia quel che sia. Oggi non ha piovuto (per quel che vuol dire, cioé niente), chissá. Preoccupazione nessuna, mi sento come uno sta facendo il gioco delle tre carte, é gia pronto un piano B.

 

 

JANDIRA (BRASILE), 1 giugno 2005

GIORNO 517 DI VIAGGIO

La mia permanenza a São Paulo sta volgendo al termine, il progetto di studio in favela si é chiuso in maniera soddisfacente e adesso mi aspettano un pranzo di saluti, strette di mano, arrivederci e pacche sulla spalle. Ci vuole poco a capire che quest’esperienza ha lasciato il segno, mi ha aperto gli occhi su una realtá fino ad un mese fa poco conosciuta, ha arricchito di altre immagini e pensieri il mio vagabondaggio scientifico in Sudamerica. Ci sarebbero altre cose da fare, altri progetti cui partecipare, altre persone da aiutare, ma le scadenze burocratiche e la fame di viaggiare mi stanno per riportare in strada.

Oggi é l’ultimo giorno pieno da queste parti, domani il momento della partenza. Ho un programma di viaggio, e questa non é una novitá, ma l’itinerario che mi sta di fronte é sicuramente qualcosa di originale, esotico, avventuroso, tortuoso e precario. Domani notte un’aereo mi porta fino a Macapá, cittá sul lato nord del Rio delle Amazzoni, tagliata in due dalla linea dell’Equatore e capitale dello stato brasiliano piú a nord, altro concentrato di foresta e densitá abitativa ridicola. Credo di dormire in aereoporto (se mi lasciano, non si mai), mi faccio una visitina e mi butto su un bus diretto a Oiapoque, dalle 12 alle 27 ore di viaggio per raggiungere l’ultimo avamposto brasiliano prima della Guyana francese. Dall’altra parte del fiume che divide i due Paesi la cittadina di St. Georges de l’Oyapock, da qui solo una vecchia strada costruita 50 anni fa dall’esercito francese permetterebbe di uscire dall’isolamento e dirigersi verso nord, peccato che non esistano collegamenti ufficiali e ci si debba affidare a qualcosa di improvvisato del quale ovviamente non ho la piú pallida idea. Ho pochi dubbi comunque di arrivare a Cayenne, la capitale, dove so giá che soffriró sulla mia pelle il costo della vita “europeo”, cercheró di fare in fretta, l’ostacolo principale in questo caso sará ottenere il visto d’ingresso per il Paese successivo; come me lo danno (?), via rapidi verso nord, vorrei visitare la vecchia colonia penale di St. Laurent du Maroni ed entrare rapidamente in Suriname, straordinario esempio di mistura di razze, confusione e contrasti. La maggioranza della popolazione é di origine indo-pakistana, gli autisti indiani credono nella reincarnazione e guidano come dei pazzi (tanto, se muori, rinasci e chissenefrega), auspicabile sarebbe quindi avere l’accortezza di optare per uno di colore. Non solo occorre il visto per entrare, pare sia necessaria pure un’autorizzazione per uscire, me ne preoccuperó quando saró a Paramaribo; a completare il mio mosaico di Paesi sudamericani la Guyana, arrivano notizie di una certa “animazione” nelle due cittá principali, vediamo se é poi veramente cosí. Un migliaio di kilometri, niente di piú, per attraversare questra strana triade considerata geograficamente caraibica piú che sudamericana, una triade di Paesi che al momento definirei con la parola “boh?”, dove abbandoneró spagnolo e portoghese per tumulare inglese e francese, dove pagheró in euro e dollari, dove avró a che fare spesso con indiani, pakistani e javanesi (si dice cosí?); tre Paesi tre frontiere, tutte da attraversare via fiume (...), mezzi di trasporto “boh?”, strutture turistiche tutte da vedere, tre perle nel mio passaporto, un’unica costante che pare mi fará da compagna fedele di viaggio: la pioggia. Giugno é considerato il picco della stagione pluviale, potevo scegliere periodo migliore?

Dall’effervescente Georgetown, poi, una capatina a Port of Spain, capitale di Trinidad, altra cittá particolarmente “vivace” (perlomeno a leggere quanto riportano alcune fonti di informazione), altro Paese il cui nome risuona confusamente esotico nel mio subconscio plasmato da nozioni di geografia alle scuole medie. In questo caso la struttura documentale a supporto del sottoscritto consiste di:

- numero 1 (una) mappa scaricata da internet stampa a colori;

- numero 6 (sei) pagine anch’esse scaricate da internet con notizie di carattere generale ed amenitá del genere.

Senza dubbio un viatico eccellente ad una visita indimenticabile.

A seguire sarebbe previsto lo sbarco a Caracas ed un’altra partenza, questa volta direzione Cuba, visita studio piena di cusiositá. A seguire una nebulosa di idee, suggerimenti e provocazioni che tentare di chiarire(mi) adesso é francamente fuori luogo.

Ho raccontato tutto questo per avere una prova testimoniale di quelle che sono le mie aspettative alla partenza di un’esplorazione del genere, interessante sará poi fare un confronto durante e dopo il viaggio e vedere alcune storielle di strada sparire alla prova della realtá, catastrofiche previsioni rivelarsi normali incidenti di percorso mentre dall’altro lato spunteranno problemi improvvisi da situazioni inattese. Perlomeno questo é quanto mi auguro.

Stefano

 

 

 

JANDIRA (BRASILE), 16 maggio 2005

GIORNO 501 DI VIAGGIO

L’estate ci ha ripensato ed é tornata indietro, da una settimana a questa parte giornate di sole, terse e calde.

Il lavoro prosegue e mi permette di mettere gli occhi su diverse realtá. Per accelerare i tempi e sotto l’insistenza della Prefeitura, in questi ultimi tempi ci hanno aiutato a censire anche i ragazzi del cosiddetto “cursinho” di Jandira. Cos’é il cursinho? Bene, dato lo scadente livello del sistema di istruzione brasiliano, per poter accedere all’universitá occorre frequentare questa specie di corso d’integrazione che ha come obiettivo quello migliorare appunto la preparazione degli studenti. Ora, prendere in mano un qualsiasi questionario compilato da uno di questi soggetti (minimo 18 anni di etá) lascia quantomeno disorientati per il menefreghismo con cui é stato fatto e per la serie imbarazzante di errori di ortografia e linguaggio che sono presenti. Lasciamo stare le infinite varietá che puó assumere lo stesso nome, ma perlomeno la coniugazione del verbo “essere” al presente... L’ignoranza non é sicuramente una colpa, soprattutto in un Paese come questo, ma mi chiedo dove stia andando il Brasile se questo é il livello delle generazioni che stanno crescendo. A quanti giá mi pensano un critico snob mi limito a dire che la mia é una semplice constatazione di quello che vedo ed ascolto ogni giorno con frequenza piú che oraria.

Vabbé, andiamo avanti anche perché, mentre io parlo ed osservo, a Vila Esperança la vita continua. Patricia, la donna che mi era venuta incontro il giorno che avevo messo piede per la prima volta in favela, venerdí scorso é rimasta vedova; il marito gliel’hanno ammazzato mentre tornava a casa. Si diceva che parlava con la Polizia.

 

 

 

 

JANDIRA (BRASILE), 11 maggio 2005

GIORNO 496 DI VIAGGIO

In quella che frequento io, le pareti sono perlopiù in legno, i pavimenti in terra battuta o legno stesso, i tetti di lamiera ondulata. La speranza ogni volta è quella di essere accompagnati da una giornata di sole altrimenti diventa veramente difficile districarsi tra pozzanghere, fango e sporcizia. Lasciata alle spalle Jandira, già di per sè una città povera, un cavalcavia pedonale permette di passare sopra la ferrovia e di entrare a Vila Esperanca, la favela dove sto lavorando da un paio di settimane a questa parte. Schiacciata dal muro della ferrovia da un lato e da un torrentello che é eufemismo definire indecente dall’altro, l’occhio cade sopra un pugno di costruzioni precarie ed improvvisate dalle cui stradine appaiono persone sorridenti con domande di tutti i tipi, oppure diffidenti e incuriosite. Il censimento consiste nel rivolgere casa per casa una serie di domande che permetta di avere un’idea chiara di quante persone vivono e come vivono, obiettivo il trasferimento ad una sistemazione migliore. Volta per volta si entra in un domicilio differente e volta per volta si entra in un mondo differente di miseria, precarietá, insicurezze e violenza. Gli sguardi delle persone oscillano tra lo speranzoso ed il disilluso, tra il vergognato ed il sorridente, tra lo stupito ed il preparato. Di fronte a me c’é una famiglia di 5 persone, padre di 50 anni e madre di 25, parlano ad uno sconosciuto nel quale vedono un futuro migliore e si tengono mano nella mano rincuorandosi che sia la possibilitá davvero di andarsene da un’altra parte; le domande sono tutto sommato semplici ma rispondere a quale sia il nome dei figli puó giá essere un problema, percui li si ferma uno ad uno mentre corrono per la casa e glielo si chiede. Adesso eccomi nella casa di una signora che non ha il bagno, giusto un letto, un fornello, una mensola, la televisione ed un terribile odore di escrementi nell’aria. Giú in fondo alla strada una ragazza mi aspetta con lo sguardo intimidito, la seguo mentre entra in casa scalza ed io affondo le caviglie nel fango; la vergogna le impedisce di guardarmi negli occhi, ha 23 anni ed il bambino sta dormendo sul letto, il padre se n’é andato ed il suo sogno é quello di studiare psicologia. Per fortuna riesco ad essere simpatico anche in portoghese ed alla fine il questionario diventa una chiacchierata. L’artigiano mi invita a visitare il suo laboratorio, mi offre un bicchiere di vino, mi spolvera l’unica sedia nei paraggi e ci tiene che veda ed apprezzi quello che fa, poi assiste il padre durante il suo questionario. “Si dedica a qualche attivitá nel fine-settimana?”, “Eh eh eh, sí, a mio padre piace andare a puttane nella rua Augusta” dice tra il divertito ed il compiaciuto.

Il bagno é quasi sempre separato dall’ambiente principale da un lenzuolo penzolante, lo scarico é a cielo aperto, l’immondizia viene gettata dovunque ce ne sia la possibilitá, le malattie sofferte nell’ultimo anno sono le piú disparate: diarrea, malattie della pelle, dengue, verminosi, epatite. I nuclei familiari sono di tutti i tipi, quello che vive da solo e quelli che in sette condividono una stanza e due letti; ancora, padre e madre di colore, quattro figli mulatti ed uno bianco oppure un bambino con un cognome che non c’entra niente con quello dei genitori dichiarati. Emigrati da diverse parti del Brasile, il piú delle volte in cerca di lavoro o per motivi familiari (perdita o separazione dei genitori, morte dei nonni che li seguivano), o anche semplicemente lavoratori che non vogliono pagare affitto per la casa. Quelli che lavorano fanno di tutto: venditori ambulanti, donne delle pulizie, muratori, operai, alle volte anche con redditi accettabili. Alcuni considerano la favela un luogo tutto sommato tranquillo, altri si lamentano del traffico di droga, delle sparatorie, della violenza della polizia, dei furti: quasi tutti vogliono andarsene, lo spacciatore, oltre che dall’abbigliamento, si riconosce dal fatto che preferisce rimanere.

Ho appena dato un’occhiata a quello che ho appena scritto, cacchio quante cose mi sono dimenticato. E quanto male ho messo giú queste qua. No, non ci posso fare niente, sono ancora troppo dentro per darne una raffigurazione serena e profonda, per disegnare con efficacia l’esperienza che sto vivendo tra queste catapecchie di legno.

Beh, un’immagine chiara c’é ed é quell’oasi di confusione pacifica che é l’asilo al centro della favela, una piccola struttura costruita e mantenuta in piedi da persone di buone volontá, un rifugio al quale vengono affidati i bambini fino ai 5 anni perché perlomeno siano certi di pranzare, un luogo all’interno del quale a me non é dato di camminare: varcato il cancello, le mie due bambine preferite mi si aggrappano alle gambe, una a destra ed una a sinistra per non rubarsi niente, mentre gli altri gridando e chiamandomi “zio” si fanno sollevare perché faccia con loro la giostra, perché possano volare liberi e felici nell’aria. La libertá e la felicitá, almeno quelle se le possono permettere.

 

 

 

 

SÃO PAULO (BRASILE), 20 aprile 2005

GIORNO 475 DI VIAGGIO

Nella periferia ovest di São Paulo si trova il comune di Jandira, uno dei tanti agglomerati dormitorio nati e cresciuti sulla spinta dell’immigrazione di massa verso la cittá. Qualche anno fa, sulla striscia di terreno tra la ferrovia ed un torrente di scarichi é spuntata la favela Vila Esperança, baracche di legno e lamiera e vie approssimative, di terra col sole e di fango con la pioggia, luogo di destinazione di coloro che non erano (sono) in grado di pagarsi un appartamento in affitto (i piú bassi attorno ai 40-45 euro al mese). Grazie all’interessamento di un Padre italiano ed all’intervento di una banca anch’essa italiana, pare sia possibile comprare un terreno nello stesso municipio di Jandira e, con la collaborazione della municipalitá, costruirvi delle abitazioni destinate ad accogliere queste persone attualmente abusive. Per capire come intervenire, lunedí comincerá un censimento mirato a quantificare il numero di abitanti della favela ed a studiare le condizioni abitative, sociali, igieniche e sanitarie. Casa per casa si passerá aiutando le persone a compilare un formulario che fornirá una fotografia di questo luogo derelitto 5 anni dopo la creazione, spiegando il perché di queste domande e tentando di smorzare le curiositá ansiose su quale sará il futuro di questa gente. A farsi carico di questo lavoro una ONG creata da un prete padovano; io ho deciso di partecipare con il gruppo del mattino, dalle 8 alle 12, in modo da poter utilizzare il pomeriggio per caricare i dati a computer oppure per collaborare con la municipalitá di Jandira all’analisi statistica dell informazioni sui programmi sociali intrapresi in questi anni per combattere la fame e la denutrizione infantile. Per me un’occasione straordinaria per conoscere da vicino la realtá di una favela, per vedere con i miei occhi cosa sta dentro quelle baracche precarie che tante volte ho solo potuto sfiorare con lo sguardo: non ho dubbi che sará un’esperienza.

“Ciao Stefano [...] io ho proseguito fino in Ecuador, dove ho capito che per me era giunto il momento di ritornare a casa!! Cosí ora sono qui, da quattro giorni in Ticino. Sono serena, anche se a momenti mi assalgono sensazioni strane, come se mi mancasse qualcosa!!! [...] ovunque tu sia, ti mando un caloroso saluto!!”. Ho ricevuto questa e-mail esattamente una settimana fa, inaspettata. Barbara l’ho conosciuta a Copacabana, in Bolivia, una sera in cui il silenzio del tramonto era stuzzicato dalle barche che ondeggiavano nel porticciolo. Ero seduto da solo su un muretto che guardavo oltre le nuvole rosse e lei mi ha regalato l’unica cosa che poteva farmi piacere in quel momento: una chiacchierata. Una chiacchierata che dopo un paio d’ore é diventato uno scambio complice di suggerimenti, aneddoti, sogni. Aveva lasciato il lavoro, come me era partita con un biglietto di sola andata, anche lei inseguiva sé stessa senza fretta. Stavo parlando con qualcuno che capiva, sorridevo nel sentire da lei le mie stesse storie. Abbiamo viaggiato insieme quattro giorni, il tempo per discutere alla morte il prezzo di un biglietto, di aspettare in mezzo alla strada un bus, di arrivare in un luogo incantato, di mangiare pezzi di cuore di...bleah, che schifo! Lei alla ricerca di qualcuno, io di qualche cosa. Un abbraccio e via, due mesi dopo la rivedo per caso alla stazione dei bus di Mendoza, in Argentina, 1.800 kilometri piú a sud, io in passeggiata, lei in partenza per il nord. Una di quelle persone che mi fanno da compagne di viaggio senza stare con me, senza sedersi al mio fianco, senza che ci pensi, qualcuno che é alle prese con i miei stessi casini, problemi e difficoltá. A casa ne sono giá tornati tanti di amici ma mai qualcuno che non avesse il biglietto di ritorno, quel pezzettino di carta che dietro numeri e nomi nasconde la parola “fine”. “Mi sento un po`di passaggio...ho deciso di tornare, siccome mi sono resa conto che iniziavo a non avere più il giusto slancio per visitare nuovi luoghi e fare nuove conoscenze...così ho cercato un biglietto aereo e ho guardato in avanti, senza perdermi troppo in ripensamenti. Mi sono detta che

il Sud America non si sposta e ci posso sempre tornare...questo mi ha aiutata a non pentirmi della mia decisione...le sensazioni in questi giorni sono abbastanza altalenanti: mi sento un po`come un`estranea a casa mia... le case, la gente, il paesaggio mi paiono familiari e estranei allo stesso tempo. Ho voglia di parlare spagnolo e di ascoltare solo musica in questo idioma...poi...mi manca un po` la mia mochilla...stamattina l`ho vista là sul pavimento, vuota, e quasi piango... non ci siamo separate per otto mesi e ora l'ho abbandonata!!! poverina! credo che stanotte me la porto nel letto!!!!! ci sono dei momenti in cui vorrei salire su un autobus e viaggiare per ore, altri dove desidero riabbracciare le amiche e immergermi nella vita di qui...”. É semplicemente tornata a casa ma a me é come se fosse venuto a mancare qualcosa, un appoggio, forse anche una sicurezza. Leggo queste sue righe e mi vedo io mentre le scrivo, mentre mi guardo intorno smarrito, mentre penso a qualcosa che mi é sfuggito, mentre lo zaino vuoto mi toglie il respiro. Il Sudamerica é piú vuoto da una settimana a questa parte o forse qualcuno ha semplicemente tirato le tende della mia stanza e mi ha fatto vedere quello che sta lí fuori, quello in questi mesi ho cercato di non guardare per non prendere paura.

No non é la favela che mi spaventa e non é nemmeno il ritorno, é me stesso una volta tornato a farmi paura.

 

 

 

SÃO PAULO (BRASILE), 1 aprile 2005

GIORNO 456 DI VIAGGIO

Quasi anni piú che mesi sono passati dall'ultima volta, il fatto di essere stato a farlo da un amico probabilmente ha aiutato un po'. Che posto strano, conosciuto ma inusuale, eppure quando mi sono sdraiato all'indietro ed ho appoggiato la testa sul lavandino i ricordi mi sono tornati immediatamente, ricordi di una abitudine lontana e di una vita differente. La prima forbiciata mi ha lasciato in mano una ciocca di riccioli neri con sfumature bionde, poi sempre di piú fino a formare sul pavimento un tappeto di capelli. Erano arrivati fino a toccarmi le spalle, avevano dentro quasi 15 mesi di storie e ricordi, adesso resta una faccia diversa, una fisionomia che lentamente comincio a riconoscere. La mattina dopo ci ho pure fatto la barba, immaginate: mia madre direbbe "faccia da bambino", mia sorella "meno male", i miei amici "perlomeno sei presentabile", le ragazze...finalmente sembrano guardarmi. Io,quando mi guardo, rido.

Stefano

 

 

 

SÃO PAULO (BRASILE), 24 marzo 2005

GIORNO 448 DI VIAGGIO

Pochi giorni alla Pasqua, tre settimane piene qui a São Paulo. Anche in questo caso, nel corso del mio viaggio, mi trovo a sfatare la fama di “inferno a cielo aperto” che gode una cittá; ancora una volta, arrivato in punta di piedi e con la paura anche solo di mettere piede fuori dall’albergo dopo l’imbrunire, mi scopro a passeggiare da solo nel pieno della notte, messo sul chi va lá su certi luoghi, li frequento con costanza e disinvoltura. Indubbiamente il pericolo é dietro l’angolo (sono in una cittá di 10 milioni di abitanti-20 se si considera la corona periferica), le favelas si trovano inghiottite dall’espansione urbana, gli assalti sono all’ordine del giorno, degli omicidi non parliamo, ma la fama apocalittica di cui gode mi pare francamente esagerata.

E quindi cosa ho fatto in queste settimane?

Sto cercando una ONG nella quale lavorare come volontario per un po’ di tempo e, approfittando di un Centro Culturale molto ben attrezzato, passo le giornate studiando e leggendo (mi limito a questo senza citare i titoli di quello che mi sta passando sotto gli occhi per non sconcertare nessuno e non far preoccupare amici e familiari...).

Non é comunque la cittá quella che ha tenuto piú impegnati i miei pensieri in questi giorni, non é stata la ricerca di un lavoro quella che piú mi ha fatto riflettere, non é stato lo studio quello che ha occupato i miei ragionamenti, bensí le persone che ho conosciuto e frequentato, le persone che giorno dopo giorno mi hanno scoperto i loro lati caratteriali e di comportamento. Ragazze, ragazzi, donne, uomini, con tutti ho avuto a che fare per lavoro, per studio o per divertimento, con tutti ovviamente ho preso appuntamento. Fissare luogo ed orario per incontrarsi: l’appuntamento. La quasi totalitá delle persone che ne avevano uno con il sottoscritto ha fatto tutt’altro, senza avvertire oppure negandosi con un variopinto portafoglio di argomenti: “purtroppo vado fuori cittá”, “avevo una festa”, “ho dovuto portare la lavatrice a riparare”, “ho litigato con la mia amica e non esco con lei”, “mio padre sta male”, “abito fuori cittá” e via dicendo. Capita, certamente, ma mai con una frequenza tanto elevata. Capita ed é l’assoluta normalitá da queste parti, l’ho imparato e continuano a ripetermelo, purtroppo la mia poca abitudine rende la cosa indigeribile, sconfortante, deprimente e scoraggiante; un atteggiamento che sfibra poco a poco, una pratica che mette i nervi costantemente sotto pressione. Nel mio (nostro) modo di pensare queste situazioni vengono vissute come una presa in giro, un atto di snobismo, una mancanza di rispetto, qui la maggior parte delle persone con cui ho avuto a che fare ritiene che si tratti di qualcosa tutto sommato sorvolabile, parole che lasciano il tempo che trovano, elementi privi di importanza cui pochi danno peso. Riuscire a condividere questo modo di pensare ed agire mi aiuterebbe sicuramente a vivere piú sereno da queste parti: ci sto provando.

L’altro interessante elemento con cui mi spesso mi sono confrontato in questo periodo é quello che chiamo “il nuovo brasiliano”. Seduti al tavolo di un bar, vicini nei sedili di un bus, in piedi con una birra in mano, immancabile é la frase: “Il Brasile ha tutto, non c’é un Paese migliore al mondo”. Mi pare di capire che le immagini mediatiche date in pasto alla societá negli ultimi anni (“il brasiliano non si arrende mai”, “Brasile, un Paese che avanza”, “sono brasiliano e quindi non demordo”, “Brasile, un Paese di tutti”), le carenze quantitative e qualitative del sistema d’istruzione ed un’informazione abbastanza generalista abbiano sviluppato un’interessante forma di patriottismo-nazionalismo cui fa da spalla una bella (...) dose di suscettibilitá. Parlare a questa nuova figura brasiliana delle pecche dei Paesi occidentali genera facilmente in loro un sorriso di compiacimento, con un atteggiamento rancoroso si lanciano a sottolineare le schifezze del sistema americano, purtroppo niente piú che stereotipi e luoghi comuni sono gli argomenti a supporto di queste tesi; le critiche indignate vengono spesso rivolte ad uno stile di vita che é lo stesso al quale queste persone anelano, gli strumenti di formazione dell’opinione arrivano ad essere gli slogan di piazza o il “parente-amico che ha letto tanti libri” e la sensazione frequente é che alla base di queste affermazioni ci sia un sentimento di invidia piú che di analisi ed una frustrazione che deriva dall’impossibilitá di avere immediatamente. Argomentare di fronte a queste persone le carenze del mondo dei potenti ci dipinge intelligenti e colti, sviluppare delle annotazioni sulla societá brasiliana ci rivela supponenti ed arroganti. Per queste persone il Brasile non é il proprio Paese, é una parte di sé stessi, voler spiegarne le deficienze significa violentarli nell’intimo, registrarne le incongruenze o le cose ridicole rappresenta un insulto diretto all’interlocutore. Se le cose sono cosí, la colpa é degli altri, dei potenti, dei trabocchetti con cui sabotano la crescita e lo sviluppo, dell’appetito famelico dello straniero. Assolutamente sconsigliabile suggerire che, dietro alla situazione brasiliana, ci sta anche questa faciloneria con la quale si adducono giustificazioni o si additano colpevoli.

Volutamente ho usato in queste righe l’espressione “queste persone” o “le persone con cui ho avuto a che fare” perché, per quanto convinto del fatto che siano numerose e ben rappresentative di questa societá, non voglio far apparire il mio articolo come un giudizio universale sul popolo brasiliano. Per fortuna ce ne sono di differenti, toccanti ed ammirevoli pur nella loro ignoranza, capaci di far sorridere con frasi come “in effetti venire qui in macchina invece che in aereo sarebbe stato molto piú lungo, quante ore erano?”. Ignoranti ma non arroganti, per questo fanno sorridere e non ridere.

Dedicato a Luca Dalla Zanna.

 

 

 

TRÊS CORAÇÕES (BRASILE), 3 marzo 2005

GIORNO 437 DI VIAGGIO

Fresco di ritorno da São Thomé das Letras, paesello di 3.000 anime circa a 1.300m sulle colline di Minas Gerais. Fanfarronato dalla Lonely Planet come luogo di ritrovo di orde di "hippy carichi di erba da fumare", francamente si é rivelato al di sotto delle attese. La localitá é considerata da alcune correnti mistiche come una delle sette cittá che saranno risparmiate nel Giudizio Finale, rivelandosi anzi come un punto d arrivo di una nuovo civilizzazione in questo nuovo millennio; alle cronache é salita per alcuni sbandierati avvistamenti di UFO, per le leggende che raccontano la presenza di folletti magici e streghe e per il mito che descrive una apertura nel terreno come l ingresso ad un tunnel che parte dal Machu Picchu in Peru. Indubbiamente é forte la presenza di correnti esoteriche ma, quanto al resto, non ho visto che un paio di hippy (se tali possono definirsi degli uomini sulla cinquantina con capello lungo), non sono stato avvicinato da soggetti da fiaba, erba nell aria non ne ho sentita, di UFO neanche a parlarne e all entrata della grotta un gruppo di speleologi mi ha invitato ad entrare con loro fino al termine della stessa, identificato vent anni fa qualche centinaio di metri piú in basso. Ci sono delle belle passeggiate nei dintorni, quello sí, con qualche cascata che giusto "gradevole" posso definire, sicuramente non "sensazionale" come qualche locale aveva azzardato.

Tre sono le cose che hanno lasciato un bel ricordo in questa due giorni: l autostop datomi da un camion mentre arrancavo su una strada di campagna con i cani che mi abbaiavano alle spalle, la scoperta della "pelle fritta", uno dei piatti tipici della comida minera, ed il dolce sorseggiare il Cognac locale in un bar dalle apparenze di un castello incantato. Questa mattina pioggia, vento e freddo (20 gradi) a darmi il ben alzato, una camminata tra gli operai al lavoro e poi il ritorno. Un pomeriggio di relax e domani di buon mattino la partenza per São Paulo, il Mostro, la cittá piú grande del Sudamerica, ricca in arte, cultura e pericoli.

A presto

 

 

TRES CORAÇÕES (BRASILE), 1 marzo 2005

GIORNO 435 DI VIAGGIO

Bentornato in viaggio.

Ho lasciato Rio de Janeiro dopo 25 giorni di relax, buona cucina e sofá. Prima di approdare a São Paulo voglio fare qualche giorno in montagna (per quanto si posano definire “montagne” questi rilievi brasiliani di 1.000-1.200 metri) e ieri ho preso la strada verso il sud di Minas Gerais; 4 ore abbondanti di attesa alla Rodoviaria, poi la partenza in un pullman in cui ho ritrovato i piaceri del viaggiare brasiliano, aria condizionata a tamburo battente e 18 gradi costanti di temperatura, brividi di freddo mentre fuori le persone camminano in ciabatte e a torso nudo.

Lasciata la calura afosa di Rio, la strada sale attraverso colline verdi ricche di vegetazione, alberi ancora bagnati dalle ultime piogge di stagione. Il tramonto che saluta la giornata é uno spettacolo di colori e nuvole, un tetto ondulato arrossato dal sole ed all’orizzonte una palla arancione in caduta inesorabile. Giá al buio l’arrivo a Tres Corações, tranquilla cittadina dell’entroterra, uscita dall’anonimato per aver dato i natali, il 23 ottobre 1940, a Edson Arantes do Nacimiento, considerato da molti come il piú forte giocatore di calcio di tutti i tempi e conosciuto con il nome di Pelé. Il proprietario dell’albergo mi consiglia di mangiare nel ristorante di fronte, economico e solo di recentissima apertura, un locale che sicuramente non fa difetto di sobrietá e praticitá: un vecchio garage nel quale un piccolo muro di mattoni fa da banco, il contatore di cassa fa da piacevole ornamento (nessun dubbio sul fatto che sia piú datato del sottoscritto) ed una parete di compensato crea la sala cucina. Il conto lo faccio io perché il proprietario/cameriere non riesce a fare l’addizione (2,50+1,50), indescrivibile la gioia nell’avermi avuto come ospite (uno straniero nel suo ristorante!) ed immensa la reverenza con cui mi ringrazia e mi suggerisce il menu del giorno seguente. C’é solo il tempo per una pipa nella piazza principale osservando il camminare sorridente dei giovani del luogo, poi camera e letto. Sí, letto, un’anomalia ormai per chi negli ultimi due mesi vi ci ha dormito non piú di un paio di settimane; sí, ci si puó girare a destra ed anche a sinistra, non mi ricordavo che fosse cosí piacevole. Ed aria fresca, una coperta, e chi se la ricordava? Meraviglioso!

Bentornato in viaggio, Stefano.

Stefano

 

 

 

RIO DE JANEIRO (BRASILE), 26 febbraio 2005

GIORNO 432 DI VIAGGIO

Sabato pomeriggio, 15:30, caldo afoso, esco dal negozio di fretta perché Fabrizio mi aspetta alla Mostra do Filme Livre in centro, prendo l’autobus al volo e mi trovo davanti ad un muro di persone.

Mi faccio largo per arrivare al tizio cui pagare il biglietto, mentre metto la mano in tasca penso che non sia il caso di tirare fuori tutti i soldi quindi, ricordandomi di averli arrotolati nel solito ordine, prendo solamente quelli indispensabili, pago la corsa e mi metto in piedi nel corridoio del bus.

Finalmente scende un po’ di gente, aspetto che tutti abbiano preso posto ed individuo un sedile doppio completamente libero nella parte proprio davanti. Mi siedo, un attimo dopo arriva un tizio accompagnato da una ventata di sudore ascellare e mi si siede a fianco. Aspetta solo qualche secondo, poi si alza in piedi e sussura qualcosa nell’orecchio dell’uomo che riscuote i soldi dei biglietti, parlottano in maniera strana quei due, penso, il mio ormai strutturale senso di protezione (fobia per alcuni) mi fa piacere poco la cosa, penso di essere io l’argomento della conversazione e me ne vado qualche fila più indietro. Un attimo, la gente ammassata nel fondo del bus urla che venga aperta la porta d’uscita, il mio ex-compagno di sedile mette le mani dentro la cassa dei soldi, il terrore spalanca gli occhi del tizio che apre senza resistenza il marsupio con l’incasso del turno, due rapide minaccie al conducente, la porta anteriore si apre e via verso il mercato con il collega d’impresa. Panico generale, tutti cominciano a parlare e a discutere sull’accaduto, il controllore chiede i numeri di telefono dei passeggeri perché possano testimoniare, salta fuori che quello che mi aveva deliziato del suo aroma aveva una pistola sotto la maglietta. “Ma come fa a restare così calmo proprio lei che gli era al fianco, ma si rende conto, lo sa che poteva rubarle anche la borsa? Quello era armato!”.Un sorriso e mi sono girato a guardare il mare. Mi ha spiazzato la rapidità con cui è avvenuto, questi mesi tra realtà difficili hanno tolto l’effetto shock.

Ci scaricano alla prima fermata perché il bus deve andare a sporgere denuncia, uomini e donne, vecchi e bambini, ognuno va nella propria direzione, tutti parlano di quello che è appena successo. Si torna a casa, si va dagli amici, c’è una storia in più da raccontare.

Ho fatto spesso questo ragionamento, soprattutto da quando mi muovo da queste parti: ci lamentiamo sempre delle volte che ci hanno derubato e di quello che avremmo dovuto o potuto fare per evitarlo ma mai pensiamo alle volte in cui, grazie a qualcosa che abbiamo detto o fatto, ad una strada che abbiamo imboccato invece di un’altra, ad uno sguardo che abbiamo lanciato al momento giusto, la sorte gira per il verso giusto. Ovvio, sappiamo perfettamente quante volte ci hanno ripulito ma molto più complesso è quantificare le volte che siamo stati lì lì per esserlo ma non è avvenuto niente. L’esperienza e la pratica sviluppano sicuramente l’arte della sopravvivenza.

Anch’io comunque ho un’altra storia da raccontare.

 

 

 

 

RIO DE JANEIRO (BRASILE), 11 febbraio 2005

GIORNO 417 DI VIAGGIO

Ho partecipato anche a questo nella vita, il Carnevale di Rio de Janeiro.

Alcuni quartieri della città vengono percorsi dai cosiddetti blocos, banda con musica in cima e fiume di persone al seguito ballando, cantando e bevendo, una, due, tre ore a seconda dei casi, talvolta durante il giorno, oppure la sera, i più estremi il mattino alle 7:30: un torrente di persone festanti, colori e gioia in quantità. La sera compaiono i bailes ed i concerti, insomma c’è posto per tutti.

I primi giorni si sono rivelati abbastanza problematici causa maltempo, un cielo costantemente annuvolato con pioggia a volontà ed umidità oltre il 70%, ottimo se accompagnato dalla stanchezza per i due giorni di viaggio ed una permanente sensazione di rincoglionimento. Sarà il caso ma

anche questo mio secondo soggiorno a Rio viene inaugurato da una caipirinha alla Lapa, quartiere epicentro del Carnaval Off, agglomerato di chioschi che sfornano bevande, spiedini, pannocchie in un contorno di musica e piscio abbastanza ai lati del più tradizionale carnevale gringo. Crollo

strutturale la domenica con un mal di gola infernale che rende impossibile anche il solo mangiare ma il propoli come coadiuvante mi permette di uscire dall’impasse nel giro di 24 ore. Con la salute riappare anche il sole e quindi eccoci ancora in pista, ancora blocos durante il giorno (durante il

pomeriggio cioè, le mattine trascorrevano in orizzontale sul divano) e ancora Lapa la notte, pioggia di caipirinhas e contorno di carne di topo (?), musica reggae o show di percussioni; l’alcool deve avermi fatto pure qualche effetto strano se per quasi un’ora ho pure ballato samba…Rientri dignitosi senza particolari eccessi: 4 di mattina, 5, 6 e spiccioli.

In sostanza una gran bella festa, decisamente un appuntamento fondamentale nel calendario carioca (direi anche brasiliano in generale), lo si vede e lo si sente dal calore e dalla partecipazione della gente del luogo, dall’energia e dall’allegria che ci mettono nel ballare e nel cantare, per il sottoscritto un’iniezione di entusiasmo e sorrisi. Tutto non è francamente possibile fare e vedere ed il mio alla fine è stato un Carnevale lontano dallo spettacolo tradizionale del Sambodromo e dai balli super-costosi, attorno a me ho visto pochi di quei 700.000 stranieri arrivati in città per questi giorni di feste. Il carnevale da cartolina l’ho intravisto in televisione, qualche spezzone qua e là di uno spettacolo che in certi momenti pareva distante anni luce da quello che stavo vivendo io. Va bene così, ci sarà tempo per farsi un’idea pure di questo.

Va in archivio pure questa festa, vanno in archivio decine e decine di immagini, follia ed entusiasmo tradotte in litri e litri di alcolici, ciminiere di fumo che salgono dalle colonne dei blocos.

Non c’era bisogno di conferma ma anche questi brasiliani, quando è il momento, ci danno dentro con l’alcool.

Premesso che dipende da persona a persona, dalla cultura, dalla situazione e dalla compagnia con cui si è, mi sento di affermare che il Carnevale di Rio de Janeiro è una festa di livello. L’Adunata Nazionale degli Alpini ed il Torneo dei Bar di Feltre sono comunque di un altro pianeta. Ma come

sarebbe il carnevale con i miei compagni di battaglie?

 

 

 

RIO DE JANEIRO (BRASILE), 4 febbraio 2005

GIORNO 400 DI VIAGGIO

Nel modello capitalista attuale, piaccia o non piaccia, si riceve per quello che si paga ed io, per il viaggio fino a Rio, ho speso parecchio, trovandomi ad affrontare un servizio cui francamente non ero preparato. Caso piu unico che raro, il pullman lascia la terminal di Buenos Aires con secondi di anticipo (an-ti-ci-po) sull’orario di partenza previsto, venti minuti abbondanti per salutare una città incendiata da un tramonto ventoso e romantico. Lontani dalla periferia il primo colpo di scena, alle mie spalle appare lo steward-cameriere con guanti ed un vassoio di bicchieri, come sempre senza nemmeno ascoltare quello che stava offrendo accetto e mi ritrovo in mano un whisky di benvenuto, alè. Fiuto l’affare e quando lo vedo ricomparire con il carrello della cena decido di seguire la strategia aereo-voli intercontinentali: “cosa beve con la cena?”, “una bottiglia di vino rosso, grazie”, l’unica differenza è che un pullman balla un poco di più di un aereo e buttare giù il vino non è la più semplice delle operazioni, occorre procedere a piombi pesanti. Già mi lecco i baffi soddisfatto e pronto per la dormita quando arriva il colpo di scena finale: il calice di Champagne di benvenuto, “si, grazie, molto volentieri” e via. Dopo cena il classico film da pullman e poi, improvviso ed inatteso, il vero spettacolo: luci spente, silenzio assoluto e bassa sull’orizzonte una mezzaluna arancione a fare da compagnia ai canti gregoriani di sottofondo. Assolutamente eccezionale.

La prima sosta la mattina seguente per colazione, poi un’altra tappa a Puerto Iguazu, che strano rivedere quella stazione degli autobus dov’ero passato un anno fa, poi ancora la stessa dogana di ingresso al Brasile, una piccola sensazione di malinconia. Ci si immerge nella terra rossa del sud del Brasile, una strada infinita che taglia distese enormi di verde illuminate dal sole e che all’orizzonte staccano dal cielo plumbeo carico di pioggia. Ancora pasti, ancora film, ogni tanto un poco di ripasso del portoghese, qualche lettura sulla storia del Paese. E’ già notte un’altra volta, ci si ferma in una stazione di servizio nel mezzo nel nulla ma questa volta il pasto non è pagato e quindi fuori patatine e biscotti comprati a Buenos Aires prima della partenza; il freddo degli ultimi giorni argentini e l’aria secca che tanto mi piaceva e che mi aveva accompagnato negli ultimi mesi ormai è solo un

ricordo, il Brasile prova a soffocarmi con caldo ed umidità e quella fastidiosa sensazione di appicicaticcio che prende la pelle.

Sprofondo ancora nel mio sedilone gran classe, cerco la luna ma questa volta non esce a salutarmi, guardo avanti ed osservo le gocce di pioggia bagnare il vetro anteriore, mi giro a cercare lo sguardo di qualche compagno di viaggio ma tutti stanno serenamente dormendo, la televisione scura e la musica spenta. Chiudo gli occhi e mi risveglio a 260km da Rio de Janeiro, ancora cielo coperto ed umidità soffocante, le ultime cinque ore di viaggio sono un saliscendi per montagnuole ricoperte di vegetazione fittissima che poco a poco lasciano il passo prima alla periferia, poi al traffico caotico delle grandi arterie di accesso alla città. Alla fine il cartello, “Rodoviaria”, 39 ore ed un quarto di viaggio senza quasi accorgermene, piedi a terra e via verso un altro must Sudamericano: il Carnaval di Rio.

Ieri sera doccia, picanha al Restaurante Aurora (che per me comunque è il ristorante trattoria Aurora…) e sfilata a ritmo di samba con il Bloco di turno, un paio di caipirinhas ma niente di eccellente. Io e Coi ci siamo, il nostro bloco si chiama Suvaco do Cristo (ascella di Cristo, il quartiere si trova infatti sotto le braccia protettrici del Cristo). Per l’edizione 2005 del carnevale il motto del nostro quartiere è: “Serà que a terra tremeu? (ou a gente que bebeu demais…)”, tradotto “Sarà che la terra ha tremato?(o abbiamo bevuto troppo…)”. Sono pronto.

 

 

 

BUENOS AIRES (ARGENTINA), 1 febbraio 2005

GIORNO 397 DI VIAGGIO

Raccontare questi giorni a Buenos Aires é presto fatto: ho cercato di fare quello che non mi era riuscito un anno fa, conoscere i quartieri ricchi meno turistici e fare un po’ di vita notturna. Questa volta ho preso alloggio in pieno centro, zona ampiamente sconsigliata da molti per la pericolositá (?!?) nelle ore notturne ma fornita in abbondanza di ristoranti, cinema e locali; in definitiva posso riaffermare come il concetto di pericolositá sia decisamente soggettivo, mi sono fatto un paio di belle bevute serali e finalmente ho avuto la possibilità di stare in un albergo dove di notte la gente dorme invece di gridare o trasformare la camera in una discoteca house. Nonostante il tempo non eccellente ho passeggiato per il mercatino di San Telmo ed ho assistito allo spettacolo di tango, eccellente davvero peccato solo la caduta di stile (loro) quando mi é stato chiesto di ballare...Dopo i primi giorni ad oltre 30 gradi, dall’altro ieri sono arrivati nuvole, vento freddo e pioggia con la temperatura 20 gradi piú in basso, per fortuna oggi la situazione é tornata stabile.

Adesso sono felice ed impaziente come un bambino perchè tra un paio d’ore abbondanti ritorno in movimento e per farlo ho scelto un viaggio pronto ad entrare dritto dritto nel mio curriculum di viaggiatore: partenza alle 20:30 locali destinazione Rio de Janeiro, arrivo previsto alle 10:30 brasiliane dopo 38 ore di pullman, giusto un pizzico in piú di quelle quasi 34 ore da Adelaide a Perth in Australia. Muija, cazzo, avrei vouto che quel viaggio rimanesse ancora “il piú lungo”! Due notti da passare su un sedile, panini e pasti al volo, poche soste ed io qua che non sto piú nella pelle all’idea di mettermi in marcia. Qualcuno mi sa dare una spiegazione? Mah...nel frattempo grazie a Denise che non ha voluto farmi mancare i suoi auguri di buon viaggio: “Ah, sai? Qualche anno fa succedevano tantissimi incidenti con i pullman che andavano dall’Argentina al Brasile, si schiantavano, uscivano di strada...peró tu sei al secondo piano, non ti succede niente...”. Grazie.

A Rio mi aspetta quella che viene considerata come una delle piú grandi feste al mondo, il Carnevale, fiumi di gente invasata e di alcool, ma soprattutto uno dei miei amici piú amici che senza dubbio rappresenta il motivo principale di questo mio trasferimento. Voglio essere sincero, non mi aspetto granchè da questo famoso Carnevale, sono stato abituato troppe volte in passato a vedere smentiti i toni esagerati che dipingono scenari incredibili ed apocalittici. Ci sará fermento, questo sí, ma ho qualche dubbio che si superino i livelli dell’amato Torneo dei Bar di Feltre...In ogni modo, fra qualche giorno avrete i miei commenti.

Prima di congedarmi dalla cittá del tango e spiegare le vele verso quella del samba, voglio ringraziare Alessandro e Denise per la compagnia, la gentilezza ed i bei momenti passati insieme.

L’ultima nota ha dei risvolti tristi e cupi; camminavo verso l’Internet café quando davanti a me appare una maglietta bianca sbiadita, sulla schiena un uccellino familiare ed una scritta: Auchan. Non il migliore dei viatici al Brasile...

Ciao Walter, ciao Cri, sapete voi perchè.

 

 

 

 

BUENOS AIRES (ARGENTINA), 24 gennaio 2005

GIORNO 389 DI VIAGGIO

Seducente, affascinante, pericolosa, grande, confusionaria, culturale, artistica, trafficata, movimentata, attiva; ancora Buenos Aires, la capitale dell’Argentina. Una manciata di minuti per respirare tutto d’un colpo questo insieme di sensazioni, per farmi ri-stringere nel suo abbraccio caldo, per re-immergermi nelle sue vie congestionate e genuine, staripanti di negozi e ricche di storia. Adesso ho fatto il pieno di guide ed opuscoli, tra un po’ mi butteró alla scoperta degli eventi culturali di questi giorni; teatro, cinema, concerti, spettacoli di Tango, mercatini, mostre. In scaletta una bella miscela di arte finalmente.

Santa Fe si é rivelata per come l’avevo respirata, un’interessante cittá ricca di edifici coloniali, abbastanza grande ma sufficientemente tranquilla. Dall’altra parte del Rio Paraná, la cittadina omonima (Paraná) si presenta piacevole nell’aspetto ma terrificante nel calore umido che mette in ginocchio gli intelligentoni come il sottoscritto che se la scorrazzano a piedi dall’una del pomeriggio alle quattro...

Rosario merita il pomeriggio abbondante che gli é stato dedicato; terza cittá argentina per dimensione, un bel centro in stile coloniale e francese con alcuni edifici davvero imponenti, il robusto Monumento a la Bandera che ricorda il luogo dove per la prima volta venne issata la bandiera argentina ed una via pedonale deserta per il caldo ed il calendario (era domenica). Qualche foto (giusto una simbolica alla casa natale di lui), altre ore di passeggiata, un vergognoso stufato di carne spacciato per asado, birra fresca e pipa a chiudere la giornata; poco prima del letto, una chiacchierata con l’ex.autista De Luca, figlio di immigrati cosentini, “talento tenore sprecato per una vita consacrata alla libertá”, ora in attesa della (pare) imminente pensione. “In questa societá io non mi integro” le sue ultime parole, “se vuoi un consiglio, leggiti Hermann Hesse, Khrisnarta e Gandhi”.

Questa mattina partenza, pranzo a bordo con ronfata spaziale interrotta dallo scoppio della ruota in pieno sorpasso, un occhio semi-aperto per accompagnare il bus che accosta ed ancora buonanotte ai suonatori.

Un’ora dopo i primi grattacieli, le vie enormi, i grandi parchi: seducente, affascinante, pericolosa...

 

 

 

 

SANTA FE (ARGENTINA), 21 gennaio 2005

GIORNO 386 DI VIAGGIO

A distanza di un paio di mesi mi ritrovo a scrivere le stesse righe di chi mi ha preceduto in questa parte dell´Argentina. Non è il sole cocente a rendere dure le giornate, non sono i trasferimenti da un posto all´altro a togliermi le forze, quello che veramente sta marcando di difficoltà e fatiche queste giornate è il bulletto argentino: spesso di Buenos Aires, in altri casi proveniente da altre città, giovanotto baldanzoso in compagnia di amichetti e amichette si accomoda negli hotel come fosse a casa propria, abbastanza saccente nel modo di parlare ed infinitamente maleducato nei confronti degli altri ospiti urla a ride senza vergogna nel pieno della notte, ovviamente non in camera bensì in corridoio. I sorrisi dolci alla bambina e la voglia di scherzare con lei mi avevano fatto ben volere dagli stessi giovani genitori (20-22 anni?) ma la faccia della mammina precoce non era tanto serena quando questa notte, esasperato dall´ennesimo sfoggio di maleducazione, ho spalancato la finestra sul corridoio con un pugno; un paio di secondi, il tempo di mettere la piccola a letto, luci spente e tutti a nanna, senza bisogno di tanti "per favore" o "dai ragazzi, non vi pare il caso di...?". Questa mattina a colazione un timido saluto ed occhi bassi ma questa sera sarà lo stesso per gli sventurati di turno.

Il Museo Casa di Ernesto Che Guevara in una delle prime abitazioni della famiglia è uno sgangherato e confuso coacervo di fotografie, raccolte ed esposte in un ordine abbastanza incomprensibile nel tentativo di raccontarne i momenti significativi in vita; praticamente tutte sono copie e gli unici originali sono oggetti abbastanza insignificanti, qua e là sui muri qualche lettera riprodotta con errori grossolani ed alcuni patetici tentativi di attribuirgli meriti e passioni inesistenti. Pensando al personaggio in oggetto, ridicolo infine il divieto assoluto a filmare e scattare fotografie, proibizione della quale io ovviamente me ne sono infischiato altamente. Alla fine la cosa più interessante è stata la breve conversazione con il figlio del vecchio chef dell´Hotel Sierra, ai tempi uno degli alberghi piú importanti in Argentina, a cui il giovane Ernesto ogni tanto ricorreva per sistemare la pallina da ping-pong. Qualche aneddoto e ricordo, poi via sulla sua vecchia macchina del 1961.

Dopo una giornata quasi interamente passata in bus a temperature polari, esito di un paio di valutazioni errate del sottoscritto sulle distanze da percorrere, questa mattina partenza per Santa Fe. Le ultime due notti a Cordoba, una decina di giorni dopo il quasi decesso per calore di un mio amico, io sono riuscito a patire il freddo grazie a due temporali improvvisi che mi hanno pescato in pantaloncini corti e maglietta: brividi di freddo e denti battenti in piena estate argentina a Cordoba, da ricordare!

Anche Santa Fe si presenta davvero interessante e piacevole; begli edifici coloniali, isola pedonale piena di negozi, ragazze carine, parchi e piazze piene di verde. Una signora lancia il guanto della sfida cercando di convincermi che il suo albergo è il più economico, scarpinata zaino in spalla sotto il sole ed eccone un altro quasi a metà prezzo: Hotel Humberto, calle Crespo 2222, ciao ciao e a mai più!

La siesta da queste parti è decisamente un fatto istituzionale, tutto rigorosamente chiuso dalle 13 alle 16:30-17:00, ipermercati compresi per chi è interessato. All´apertura pomeridiana partecipano pure le fontane, chiuse pure quelle nella fascia oraria centrale, tanto a che servirebbero? Non c´e nessuno per le strade...

Nessuno tranne il sottoscritto.

 

 

 

CORDOBA (ARGENTINA), 18 gennaio 2005

GIORNO 383 DI VIAGGIO

Con attorno un pullman che pareva un’astronave ed un altro tirato a lucido, non ho potuto non sorridere nel riconoscere in quello in mezzo il mio bus, scrostato all’esterno, sporco e con sedili abbastanza approssimativi. Non ci potevano essere dubbi che fosse quello mio, quello per il quale ero riuscito a risparmiare 4 pesos (1 euro) rispetto alle altre compagnie; ritardo strutturale, confusione generale nel prendere posti e via nella notte.

Prima della partenza ho indossato gli stessi vestiti di sempre ma ieri avevano qualcosa di diverso, sono tornato alla Terminal di bus che ormai conosco a memoria peró l’aria non era la stessa, sono salito per l’ennesima volta su un bus ma questa volta con spirito differente; il viaggio di ieri notte non era un viaggio qualsiasi, era vedere un amico che non si vede da tempo, era mangiare la torta che sola la nonna tanti anni fa faceva, era rivivere un pezzo del proprio passato, era ritornare ad un’altra dimensione. Dopo oltre un mese a Mendoza ho ripreso la strada, dopo oltre un mese ho ricordato come fosse difficile far stare tutta la roba dentro lo zaino, dopo oltre un mese ho abbandonato un letto perlomeno orizzontale per arrangiarmi come capitava, dopo oltre un mese niente pasto seduti a tavola ma un panino di plastica e materiali colorati in piedi davanti ai pullman in partenza. La stessa musica di questi ultimi mesi mentre un temporale estivo bagna le pianure sterminate ed i miei occhi vedono centinaia di paesaggi differenti da quello che ho davanti, ogni tanto una cittadina, alla mezzanotte via le luci e buonanotte fiorellino.

Cordoba, un milione e mezzo di abitanti, 440 metri sul livello del mare, la seconda cittá argentina dopo Buenos Aires, 35 gradi di temperatura media durante l’estate, la cittá dove l’italiano é la seconda lingua dopo il castellano. Ricerca dell’albergo, colazione, una ragazza mi offre un bigliettino per strada, la pubblicitá della stazione radio BBN (l’unica “totalmente cristiana”), sul retro la frase: “Se morite oggi, dove passerete l’eternitá?”...bene. Pochi metri dopo un ragazzo mi dá un altro biglietto, “guadagni quello che meriti?”; ci penso un secondo, boh, ma veramente a me ne frega qualcosa? Impegnato nel cappuccino scopro che oggi ricorre il Giorno del Birraiolo (mmm...), finalmente una notizia di spessore. Visito la cittá, mi piace proprio anche se Cordoba la docta (Cordoba la dotta) in queste settimane é in ferie, gli studenti non ci sono e per la tipica vita universitaria occorrerá tornare piú avanti. Sede della prima universitá e della prima cattedrale argentina, questo posto é una bella miscela di cittá e verde, piacevole da visitare ed interessante da scoprire, se non altro per le belle ragazze che ci vivono.

Il primo giorno a Cordoba volge al tramonto, sudato e soddisfatto penso alla stanza in albergo, calda come un forno pronto alla cottura e piacevolmente claustrofobica, mi guardo adesso dopo un giorno in ciabatte, i miei pantaloni da rugby scoloriti, la maglietta cucita per occultare i buchi e sento che sono tornato vivo, sono tornato in strada, sono tornato padrone, e non c’é modo di nascondere un mezzo sorriso nei miei occhi.

Un saluto speciale a chi ha avuto la cortesia e, soprattutto, la pazienza di tenermi sul divano di casa per settimane, un abbraccio a chi ha pianto nel salutarmi al Terminal, un arrivederci a presto a entrambi.

La frase del giorno é: “La insurreción del pensamiento precede siempre a todo acto violento”, speriamo non sia proprio sempre cosí.

Ciao

 

 

MENDOZA (ARGENTINA), 2 gennaio 2005

GIORNO 367 DI VIAGGIO

Nella povertá piú totale o nell’opulenza sfrenata, l’imprevisto resta sempre compagno di viaggio ed anche in occasione dell’ultima notte dell’anno non ha voluto farmi mancare i suoi saluti.

Succede che, con le ultime luci del giorno che colorano il cielo, decido di andare a correre; una bella sfuriata, penso, un modo originale di vivere l’ultimo tramonto dell’anno. Poi torno, prendo possesso della cucina e mi regalo un pasto come si deve. Sudo come una fontana (una cosa degna di Ferdinando Coppa, tanto perchè qualcuno abbia un’idea), la maglietta bagnata e la scarpa destra ormai quasi priva di soletta sono l’arredo con cui rientro in casa e scopro che, per un problema alla cisterna dell’edificio, manca completamente l’acqua corrente e, fino all’indomani, nemmeno pensarci ad averla. E così...e così ecco l’addio al 2004 nella maniera in cui l’ho vissuto, sporco ed alimentato a caso; beh, non ho appuntamenti, quindi l’odore e la pelle appicicaticcia non sono un problema, peró la quasi impossibilità di placare la fame atavica mi ha costretto a rovistare nel fondo del frigorifero che, come spesso accade, avevo riempito di cose assolutamente inutili. Sorridendo al ricordo della cena imperiale che lo scorso anno mia sorella aveva partorito, mi pregio di servirmi in tavola (in ordine cronologico): due polpette di merluzzo impanato, due birre, tre fette di pan carrè adornate di muffa, gli ultimi residui di formaggio emmental ed una mela. A seguire: Fernet Branca con Coca-Cola davanti alla cartina geografica del Sudamerica.

Alla veneranda età di 32 anni, ecco compirsi un’altra cosa che aspettavo divertito: un Capodanno senza l’orologio che scandisce nervosamente gli ultimi minuti e secondi, semplicemente sono sceso a brindare con le guardie del palazzo che stavano lavorando, mi sono sdraiato ai bordi della piscina e, quando sono cominciati i primi fuochi artificiali, ho acceso il mio sigaro e poco a poco ucciso la fiaschetta di ron colombiano che ancora mi avanzava. Mi sono goduto lo spettacolo in solitudine (sarà bene o male?), scalzo ed in pantaloni corti, poi sono salito in appartamento ad ascoltarmi qualche bella canzone (la prima che ho ascoltato? “La Storia” di De Gregori) per svenire definitivamente all’1:20.

Prima di buttarmi in orrizontale, l’ultimo tentativo ma niente da fare; sporco ero e sporco sono rimasto. A questo punto la domanda è: la notte del 31 è un riflesso dell’anno che se ne va o un presagio di quello che viene? Sicuramente la prima, ma mi auguro felice la seconda.

 

 

 

MENDOZA (ARGENTINA), 31 dicembre 2004

GIORNO 365 DI VIAGGIO

I coniugi Travella sicuramente, il “lui” soprattutto, ma quanti altri di voi si ricordano la spaventosa estate 2003 con temperature insostenibili e difficoltà a fare qualsiasi cosa, compreso dormire? Beh, qui sono tornato a quei livelli, da un paio di giorni a questa parte è cominciato un caldo asfissiante e ieri notte, per la prima volta, ho dovuto aspettare le 4 per prendere sonno; sono al sesto piano di un edificio e, nonostante questo, non un filo d’aria, non una possibilità di respirare, un via-vai continuo da e per il frigorifero alla ricerca di qualcosa di fresco da bere. Un paio di notti fa è arrivato un temporale mastodontico, un’ora di piacere assoluto ma poi la routine, ancora crisi di soffocamento; in questo momento è nuvoloso, chissà...

Mia madre mi è apparsa davanti agli occhi mentre mi diceva (parole di mesi e mesi fa...) “quel giubbotto lì sarebbe anche da lavare, Stefano...” e, non avendo niente da fare, ho pensato “perchè no?”; non l’ho mai indirizzato ad una lavatrice da quando l’ho comprato, s’è fatto dodici mesi di viaggio tra bus indecenti e trappole di polvere, potrebbe essere l’occasione per dargli un po’ di sollievo. Due secondi dopo averlo immerso nella bacinella l’acqua ha assunto un colore nero petrolio, svuota il tutto e ricomincia: identico risultato. Avanti, un’altra volta ed ancora sudiciume indescrivibile. Alla fine saranno una quindicina le immersioni in acqua e detersivo, quasi venti ore di pulizia, ma...per una volta non c’è stato bisogno di fare shopping per avere a disposizione un giubbotto nuovo di colore diverso. Adeso addirittura profuma ma la domanda che mi sono rivolto è stata: quanta merda mi sono portato in giro in tutti questi mesi?

31 dicembre, ultimo giorno dell’anno, ultimo articolo dell’anno, i doverosi auguri e l’ultima riflessione polemica.

“Gli Stati Uniti sono da sempre una nazione generosa, anche in questa situazione, come sempre, è stato immediatamente previsto lo stanziamento di 35 milioni di dollari”, la frase stizzita del presidente yankee all’accusa di tirchieria rivolta ad alcuni Paesi occidentali in occasione del disastro asiatico. Ma come? E sì che mi pareva...datemi un attimo che metto su la videocassetta della storia per dare un’occhiata, ah ecco: c’è un unico Paese al mondo che ha ufficialmente invitato l’Agenzia per gli aiuti umanitari dell’ONU a ridurre le proprie operazioni per evitare di doverne sostenere i costi. Chi? Gli Stati Uniti d’America. Non è sufficiente? Nel 1999, di fronte alla richiesta di finanziare un intervento umanitario in Timor Est, messo in ginocchio da pulizia etnica e massacri, fu proprio Washington a dare incommensurabile sfoggio di generosità girando le spalle dall’altra parte. Vogliamo prendere i dieci Paesi più industrializzati del mondo? Bene, ne manca all’appello solo uno che non ha messo sul tavolo nemmeno un dollaro per aiutare la popolazione civile in Kosovo, c’è bisogno che ne ripeta ancora una volta il nome? C’è bisogno che vada avanti? Beh, certo, non si può finanziare qualsiasi operazione umanitaria nel mondo...però i soldi per bombardare il Kosovo e dare il via alla pulizia etnica serba ce l’avevano, e non hanno certo tirato indietro il portafoglio per addestrare, armare ad appoggiare la dittatura indonesiana nei suoi massacri di civili in Timor Est. Quello che probabilmente il capoccia della ONU voleva pizzicare con la sua accusa di tirchieria era una riflessione sulla solidarietà; aiuti disinteressati, non prestiti vincolati o sovvenzioni alle proprie imprese in loco, la solidarietà non è un businness ed è abbastanza penoso cercare di fare affari con la solidarietà in queste situazioni estreme. E quindi? E quindi niente, auguri anche a questi poco simpatici giocherelloni dell’altruismo, auguri non per il 2005, auguri per il futuro in generale, auguri perchè possano restare sulla cresta dell’onda, auguri perchè possano rimanere come protagonisti anche nella mia pellicola preferita.

Ah, dimenticavo, il programma della ‘grande notte’. Qualcosa da mangiare, birra freshissima, la mia musica, un sigaro, un bicchiere di whisky, una cartina geografica, la compagnia del mio zaino. L’ultima notte dovrebbe essere un sunto dell’anno che se ne va ed un augurio di quello che arriva, no? Quindi...

Buon 2005, con affetto

 

 

MENDOZA (ARGENTINA), 29 dicembre 2004

GIORNO 363 DI VIAGGIO

Già molti giorni qui in Mendoza ma, a dir la verità, poche cose da raccontare, niente situazioni avventurose, nessuna epopea eroica da sottolineare. Ho passato un Natale straordinariamente tranquillo e lontano anni luce da quello tradizionale feltrino abbondante di festeggiamenti ed amici; l’immancabile spesa nell’ultima mezz’ora disponibile il pomeriggio del 24, un’oretta di palestra, uno strepitoso (in quantità e qualità) asado la sera innaffiato di birra, la piacevole sorpresa a mezzanotte dei fuochi artificiali che si alzano da vari punti della città, un uccellino impaurito che plana sul pavimento dell’appartamento (al sesto piano) e non ne vuole sapere di andarsene, buona musica, chiacchiere e pensieri che a volte volano lontano. Se il 24 scivola via sereno sereno, il 25 è uno spettacolo di tranquillità e pace, colazione, pranzo, piscina, cena e cinema; un attimo, puff!, e se ne va in un attimo il mio compleanno. L’onomastico mi ritrova con un po’ più di vita, alla sera Cyril e Melissa partono per una decina di giorni di viaggio ed io resto dominatore di casa (ma sapranno quello che fanno?), giornate di sole a volte feroce passate leggendo (sono adesso alle prese con una raccolta di Odi di Pablo Neruda e con la terza biografia dell’uomo con basco nero e stella dorata), andando in palestra o a correre al parco, ai bordi della piscina o camminando qua e là senza meta precisa. Varie volte ho provato a riprendere contatto con il mezzo televisivo (completamente ripudiato dal giorno della partenza, ad eccezione delle prestazioni dei “Ragazzi”) ma l’esito è sempre stato infruttuoso: un po’ di zapping, sguardo perplesso, click e ciao ciao. Ho ripreso 2-3 dei kili persi in questi mesi e questo nonostante il pesante alleggerimento seguito al taglio completo della barba.

I programmi futuri (futuri mica tanto, mi riferisco anche alla prossima settimana) continuano a latitare, avvolti in una nebulosa di apatia e menefreghismo. Siamo alle porte dell’ultimo giorno dell’anno, altra tradizionale occasione per festeggiamenti esagerati ed esplosivi, ed io? Boh, aspettavo un paio di amiche ma...non vengono. Potrei andare a qualche festa, bah. O me ne sto in casa, perchè no? O mi butto alla caccia disperata di nuove amicizie in questi due giorni e vedo di aggregarmi a qualche carrozzone di giovanotti, mah. O vado a dormire; no che tristezza. O compro un biglietto per qualche posto e viaggio durante la notte: mmmmm, mica male come idea. Ma...in fondo...pensandoci bene, valutiamo i fatti: a me, Stefano Zannini, cosa minchia me ne frega di festeggiare e festeggiare? Ben poco, quindi sarà quel che sarà.

Ultima nota, in bilico tra polemico e curioso: il mio diario di viaggio, molti di voi non lo sanno, è leggibile anche sul sito di un caro amico (www.viaggiareliberi.it, ancora grazie Michele) e a causa delle mie mail il medesimo sito è stato censurato dal governo birmano. La causa pare essere l’eccessivo uso di espressioni poco formali, “cazzo” soprattutto.

L’eccessivo uso di espressioni poco formali.

L’eccessivo uso di espressioni poco formali.

Sarebbero tante le cose che mi verrebbero da dire, a cominciare da...bah, che lo perdo a fare il tempo? A queste persone che della libertà hanno un concetto tanto originale, a queste persone che perdono la loro vita rincorrendo quella degli altri, a queste persone che tanto si limitano limitando il prossimo, l’unico che posso dire è: c-a-z-z-o! Una parola, cinque lettere, mille significati. E, in questo caso, la bandiera della mia libertà.

 

 

MENDOZA (ARGENTINA), 22 diciembre 2004

GIORNO 356 DI VIAGGIO

Non credo sia solamente il fatto di essere al caldo e dall’altra parte del mondo, no, quest’anno il Natale sa di diverso. Passata l’età dell’infanzia con l’inevitabile gioia per la pioggia di regali, l’atmosfera di ansia e apprensione rincorrendo la necessità di fare un omaggio a qualcuno mi ha sempre infastidito abbastanza, così come la ridicola esigenza di tumulare dal libro dei ricordi parenti ed amici altrimenti dimenticati nel corso dell’anno.

Per la prima volta in 33 anni ed in occasione del mio trentaduesimo compleanno trascorro il mio primo 25 di dicembre lontano da Feltre, cosa questa sì abbastanza significativa, soprattutto per le tumultuose feste con cui negli ultimi anni trascorrevano gli ultimi giorni del calendario e per la possibilità di incontrare amici e conoscenti ognuno scomparso nella propria vita; questo è stato per me il vero Natale, questo continua ad esserlo ancora oggi e questo so che per molti altri è lo spirito di questa festa. Trovavo decisamente più indicato scrivere queste righe la sera del 24 ma capisco che per molti sarebbe risultato difficile leggerle, per cui mi adeguo e formulo i miei auguri con un paio di giorni d’anticipo.

I miei auguri di buon Natale a chi ha appena avuto un bambino e buon Natale a chi ne sta vivendo l’attesa baciato dalla brezza nella cidade maravilhosa. Buon Natale a chi sta pensando di sposarsi, a chi lo ha fatto mentre io masticavo kilometri, a chi lo farà tra i fiori di primavera e a chi, sempre in controtendenza, non poteva che farlo in inverno; peccato per il buffet imperiale, pazienza, accetterò l’invito per una cena uzbeka. Buon Natale a chi vive di mezze verità e si regala una vita zoppicante. Buon Natale a chi ho mancato di visitare nella sua città per un paio di giorni e che in questo momento starà tornando verso freddo ed umidità; scusa, non sai quanto mi dispiace. Buon Natale a chi ho incontrato lungo il cammino, buon Natale a chi da Londra torna in famiglia per le feste ed a chi dal Sudamerica è tornato in Italia. Buon Natale a chi i festeggiamenti li farà rollando a paquera ed a chi si sollazzerà cazzeggiando nell’Ultima Frontiera. Buon Natale alle persone che mi scrivono con affetto ed ammirazione e che mai ho visto in faccia e buon Natale a quelli di cui ricordo ogni dettaglio e che mi seguono con il pensiero. Buon Natale a quelli che, senza aprire bocca, mi hanno insegnato un modo di vivere e buona fortuna a quelli che mi hanno parlato per ore senza dirmi niente. Buon Natale a chi è pronto a comprare ostriche e champagne e buon Natale di cuore a chi già sta pensando alla meringata con panna senza l’ospite principale. Buon Natale a quelli che aspettano la magia della notte del 24 e buon Natale a quelli che la vivranno come un normale sabato di festa. Buon Natale a quelli che stanno tornando a casa per stare in famiglia e buon Natale a quelli che brinderanno con lo zaino rilassati in qualche camera camera d’albergo.

Quest’anno per me niente freddo glaciale, niente giacca a vento, niente guanti e berretto.

Niente bagarre e niente bambini sulle spalle sotto lo sguardo sorridente e sconsolato della madre.

Niente quattro moschettieri ciuccia-Guinness al banco della Locanda (mi volete far felice? Non ordinatevi solo le vostre, chiamate anche la quarta e scolatevela a turno dal mio bicchiere).

Niente messa in caserma, niente bacio di auguri della Giggia, niente diluvio di auguri da amici e parenti, niente regali in salotto la mattina del 25.

Niente rientri continuati alle 4 o 5 del mattino, niente occhiaie intorno agli occhi, niente sangue annegato nella birra.

Nostalgia? Neanche un po’.

Rimpianti? Prego?

Festeggiamenti previsti? Nessuno, da quando ho messo piede qui, ogni mattina è una festa.

E quindi perchè scrivo tutto questo? Forse solo per ricordare a me stesso come è cambiata la mia vita, forse per stimolarmi a capire cosa voglio, forse per assaporare ancora di più quello che sto vivendo.

Non preoccupatevi di farmi arrivare i vostri auguri, solo regalatemi 30 secondi del vostro 25 dicembre, bevetevi una birra alla mia salute, alzate il bicchiere per un brindisi in mio onore, mangiatevi una fetta di torta, guardate una mia foto, mandatemi un sorriso o un bacio, lanciatemi un’occhiata. Pensatemi, le persone si voglio bene così.

Buon Natale.

 

 

 

MENDOZA (ARGENTINA), 20 dicembre 2004

GIORNO 354 DI VIAGGIO

Fa caldo, durante il giorno il sole batte pesante, ma non è il caldo il protagonista della scena in questi primi giorni argentini. Finalmente il buon Stefanuccio è tornato a mangiare e questa volta lo fa come un porco, affamato da settimane di merda e panini, picchiato da una qualità alimentare cui non fa torto l’aggettivo precaria. La cena di benvenuto, venerdì sera, è stato uno spettacolo di carne (un kilo a testa più o meno) cucinata magistralmente dal mio amico fraterno Cyril; un sogno diventato realtà quando sulla tavola ha fatto la sua onorevole apparizione una bottiglia di vino rosso, degnissima prosecuzione delle precedenti bottiglie di birra. Con una voragine che si è aperta pericolosamente senza mostrare la fine, ho cominciato ad ingurgitare cibo a ciclo continuo, abbastanza incurante del rischio di una crisi dopo giorni di astinenza. Per essere sicuro di non essere in un sogno, il giorno dopo ho pensato di bissare l’evento con un altro kilo di carne; no no, tutto vero.

E’ arrivato il momento di tirare il fiato e di recuperare un po’ di kili e di condizione; corsa, movimento, palestra, piscina e cibo, a volontà e di qualità.

Nunc est libero pede terra pulsandum, nunc est bibendum. Crassiter abimur vasto mequor (per chi non conosce o per chi si è dimenticato il latino: “ora è il momento di danzare, di bere. Domani riprenderemo il vasto mare”). Così sia.

 

 

VALPARAISO (CHILE), 16 dicembre 2004

GIORNO 350 DI VIAGGIO

Li ho fatti bastare. Tre giorni non sono sicuramente sufficienti a scoprire completamente Valparaiso peró ci ho dato dentro con entusiasmo. Ho percorso su e giú le strade ripide e strette per entrare nei barrios piú poveri e meno turistici, ho sperimentato l’immancabile ascensore simbolo della cittá, ho camminato fino al Balneario Las Torpederas, la passeggiata chic negli anni trenta, sono rimasto incantato davanti allo spettacolo dell’oceano che si sfoga contro gli scogli, ho visitato il primo faro posto sulla costa occidentale del Sudamerica, ho assistito al tramonto dal molo Barón, ho scattato decine e decine di foto alle case di lamiera o di legno incrostato dagli anni ed infine, soprattutto, prima di qualsiasi altra cosa, mi sono tranquillamente bevuto una birra nel bar preferito di Pablo Neruda, il Nobel 1971 che tra queste vie trovava serenitá, pace ed ispirazione. Ho pure fatto una mezza giornata a Viña del Mar, resort super-turistico dove il cemento detta legge e dove, nonostante questo, mi sono pure trovato bene (non ho mancato nemmeno qui l’occasione per una dormitina su una panchina). Tra un paio d’ore il tramonto, l’ultimo saluto del sole sull’Oceano Pacifico, domani mattina la partenza per Mendoza, Argentina; ad aspettarmi un paio di amici che da qualche mese si sono trasferiti lí a vivere e che sono impazienti di rivedermi dopo tanti mesi.

Arrivo un venerdí pomeriggio e la sera stessa trovo la festa che é stata organizzata per dare loro il benvenuto, asado, vino e ragazze il panorama descrittomi. Una bella occasione per festeggiare ma soprattutto un’ottima opportunitá per celebrare la chiusura del mio cerchio in Sudamerica; 348 giorni dopo essere arrivato a Mendoza, infatti, ritorno nella stessa cittá e la cosa non mi lascia indifferente. Proprio ieri sera ascoltavo canzoni che mi riportavano a luoghi lontani, musiche che mi immalinconivano ed altre che aprivano un sorriso. Pensavo a quante stazioni di bus ho passato in questi mesi, quanti sedili ho occupato e su quanti ho dormito. Quante volte sono saltato fuori dal letto entusiasta di allacciarmi le scarpe e correre a scoprire un’altra realtá nuova. Quante volte ho alzato gli occhi al cielo domandando aiuto, conforto, spiegazione, bestemmiando o semplicemente ringraziando. Quante volte ho chiuso lo zaino per andare a togliere il velo ad un altro orizzonte. Quanto freddo ho incontrato che mi ha fatto battere i denti e quante volte le mie braccia mi hanno tolto il sudore dalla fronte. Quante volte ho detto “no, basta” ed ho tirato avanti togliendomi il diritto a lamentarmi. A quante porte ho bussato alla ricerca di un alloggio, quante volte ho discusso il prezzo e quante volte ho scrollato la testa di fronte alla camera. Quante volte ho aperto la cartina per decidere dove andare, quanti bicchieri o quante tazze di caffé ho guardato in cerca di un suggerimento e quanti orizzonti mi hanno sedotto regalandomi una risposta. Quanti sorrisi mi hanno illuminato e quante persone ho mandato a fare in culo, in italiano o serenamente nella loro lingua. Quante volte ho annusato con ribrezzo i vestiti che indossavo, quante meraviglie mi hanno tolto le parole e quanto schifo ho visto che mi ha fatto pensare o odiare. Quante persone mi hanno dato, insegnato, aperto gli occhi e quanti stronzi mi hanno fregato. Quante volte mi sono seduto ai bordi di una strada in attesa di un’apparizione e quante volte ho affidato i miei pensieri piú intimi alla discrezione del diario. Quante volte una doccia mi ha dato piú che una semplice pulizia, quante volte ho sognato un bicchiere d’acqua e quante avrei vomitato il pasto. Quante volte ho pensato “adesso mi puntano un coltello alla gola e ciao ciao alla baracca” e quante volte ho chiuso dietro di me la porta tirando un sospiro di sollievo. Quante ragazze mi hanno fatto strabuzzare gli occhi ed a quante merde avrei messo le mani addosso. Quante volte sono stato inghiottito da palazzi e stradoni e quante volte ho passato ore solo, in compagnia unicamente delle stelle o della luna. Quante volte m’é scoppiata la testa per il rumore di clacson e per le grida isteriche delle persone e quante volte a parlarmi c’era solamente il vento. Quanti paesaggi ho visto scorrere stremato dai finestrini e quante volte entusiasta ed inesauribile ho sfidato la strada interminabile di fronte a me.

Quante volte? Tante, tantissime, eppure senza mai chiedermi cosa stavo facendo o dove stavo andando. Quelli che verranno messi domani sul mio passaporto saranno i timbri 48 e 49 della mia spedizione e quando metteró piede a Mendoza avró percorso circa 45.300 kilometri, 1.069 ore di viaggio da quel vicinissimo 4 gennaio 2004. Non é il genere di cose che mi piace scrivere o di cui mi piace parlare ma uno strappo alla regola, in questo caso, si puó fare; ci sará un momento domani sera, quando tutti saranno impegnati nei festeggiamenti, in cui mi toglieró dalla ressa, mi metteró in un angolo in pace con me stesso e, guardandomi nel profondo, alzeró il bicchiere a chi piú mi ha sorvegliato in questi mesi, le stelle, e dedicheró un brindisi a quello che ho portato a termine. Il giro del Sudamerica.

Cin cin Stefano.

 

 

 

VALPARAISO (CHILE), 14 dicembre 2004

GIORNO 348 DI VIAGGIO

Ed eccomi ad un’altro posto sopra le righe, Valparaiso, assieme a Valdivia reputata come l’unica cittá chilena “non chilena”. Affacciata sull’oceano Pacifico a poca distanza dalla capitale Santiago, questo porto rappresentó per anni uno degli approdi piú importanti e frequentati della costa occidentale del continente sudamericano, specialmente per le imbarcazioni europee in rotta da o per Capo Horn. Con l’apertura del Canale di Panama arrivó l’inevitabile declino commerciale ma la cittá rimase e rimane tuttora una delle localitá piú graziose ed affascinanti in Sudamerica: palazzi e vie risalenti ai secoli passati, abitazioni spesso costruite in lamiera, i caratteristici ascensori che vanno ininterrottamente su e giú trasportando persone (poche per la veritá), il tutto servito nell’eccellente panorama di una cascata di case dipinte di colori allegri che scendono dalle colline fino all’oceano. Per oggi mi sono scarpinato il centro ed i quartieri piú conosciuti (residenza di Pablo Neruda compresa) con qualche occhiata alle parti meno frequentate, nei prossimi giorni vedremo di andare un po’ piú a fondo.

La temperatura é scesa dai 30-35 gradi della montagna ai 25-27 con brezza fresca dal mare, positivo perché mi permette di usare i jeans, unico paio di pantaloni abbastanza presentabili (quelli con cui ho passato l’ultima notte in pullman ormai rimanevano incollati alle gambe). Sono alloggiato in casa di una signora gentilissima che, poveretta, questa mattina ho svegliato alle sette meno un quarto di arrivo dalla stazione degli autobus. Doccia calda (quanta merda é venuta giú...), colazione e, con soddisfazione indicibile, zaino sparpagliato sull’intera estensione della camera; cazzo, sono proprio a casa di una signora, mi sento come l’ospite di qualche amico di famiglia. Ecco, peccato solo quel disegno a matita che ritrae lo stemma degli Stati Uniti d’America che sta appiccicato sopra il cuscino del letto, opera probabilmente di qualche nipotino; vabbé, cercheró di non farci troppo caso.

Che dire di piú? Non saprei, fatemi tirare lo sguardo un attimo fuori dalla finestra...niente, caldo, palme e mare, giusto qualche nuvola in quota stiracchiata dal vento.

Ciao

 

 

 

OVALLE (CHILE), 12 dicembre 2004

GIORNO 346 DI VIAGGIO

Bon, vediamo se ci intendiamo: cazzo! Ho le tasche bucate.

No, no, lo sapevo che non ci si capiva; non ho le tasche bucate nel senso che sto spendendo come un dannato, ho proprio le tasche bucate, aperte dall’uso continuo degli stessi pantaloni per settimane e mi é toccato mettere mani ad ago e filo per cucire il tutto (piú un paio di bottoni che Dio solo sa da quanto tempo erano staccati). Comunque operazione riuscita bene, giusto un piccolo pugno nello stomaco quel filo giallo che risalta sul kaki dei pantaloni, ma non andiamo a cercare inutili finezze.

Come annunciato, sono arrivato fino a Pisco Elqui, nell’interno della vallata dalla quale avevo scritto l’ultima volta, per ammirare questo sbandierato spettacolo delle stelle. “Non esiste posto migliore al mondo per l’osservazione del cielo notturno” indicava la mia guida e...devo dire che quando ho alzato gli occhi al cielo sono rimasto a bocca aperta. Non ho al momento aggettivi adeguati per descrivere appropriatamente quello che ho visto, spero che le seguenti espressioni (usate dal sottoscritto in presa diretta) siano sufficienti a rendere l’idea: oh merda! Cristo! Caaaazzzzooo! Oh Gesú! Madonna! Porca troia!Frase sibilate tra me e me mentre, sopra la mia testa, piovevano stelle cadenti ad intervalli di 5-10 secondi. Per il resto, che dire di questo piccolo villaggio? Ho dormito a casa di un hippy ,per esempio, poi, mai visti cosí tanti serpenti morti in mezzo alla strada e poi...ah sí: quello schianto di donna che si chiamava Paula con la quale ho avuto il piacere di parlare (io ho avuto il piacere di parlare perché lei credo nemmeno mi ascoltava, a parte l’unica frase che ha imparato a dire a tutti quelli che arrivavano: “Feltre, il piú bel posto in Italia”). Non devo aver fatto una gran bella impressione, imbambolato davanti alla sua faccia, per fortuna ad un certo punto ha fatto la sua comparsa il figlio, tempestivo come per farmi svegliare dall’incanto e ri-convincermi a partire la mattina seguente, evitandomi chissá quali e quanti casini futuri.

Sono arrivato a La Serena in tarda mattinata, giusto il tempo per una passeggiata in un centro affollato di gente alle prese con le spese natalizie (ancora adesso io mi guardo intorno, stretto nella morsa del caldo, e con sguardo cretino mi chiedo “ma cosa c’entra Babbo Natale in questo periodo dell’anno?”) e poi partenza per Ovalle, centro chileno di estrazione dei lapislazuli; oltre a questa zona, l’unica altra parte del mondo dove questa pietra esiste, é l’Afghanistan, mi é parso quindi meritevole darci un’occhiata.

Brevi appunti di viaggio:

- a distanza di 31 anni dalla morte, per la prima volta é stato fatto ufficilamente il nome di uno dei responsabili dell’assassinio di Victor Jara;

- il Colo-Colo, potenza del calcio chileno, é poco fa miseramente stato eliminato nella semifinale del campionato;

- dopo circa tre mesi e mezzo, ho rimesso nello zaino le scarpe pesanti per ridare vita a quelle da ginnastica, distrutte, ormai quasi senza suola e tenute insieme grazie ad un ingegnoso intervento con il mastice portato a termine in terra colombiana; la sensazione é quella di camminare scalzo. Ah dimenticavo: ieri sera ero a tavola con gli altri ospiti della casa hippy, tra un bicchiere di pisco e l’altro un ragazzo mi racconta che nel 2002 ha pedalato per 9.000 kilometri in Italia, Francia e Spagna, posti stupendi mi dice, soprattutto l’Italia. “Cazzo, il giorno che ho preso piú pioggia in assoluto ero in una cittadina bellissima, con i muri delle case dipinti all’esterno, il centro storico arroccato su un colle e, in cima, una piazza incantevole con un castello; come si chiama, cazzo?”.

“Feltre si chiama, fratello”.

“Sí, sí, vero, Feltre, proprio Feltre!”.

E quell’altra: “Feltre, il posto piú bello d’Italia”.

Eh giá. Ancora ci sono dubbi?

 

 

 

VICUÑA (CHILE), 10 dicembre 2004

GIORNO 344 DI VIAGGIO

Nel mio poliedrico viaggio di esplorazione nel continente sudamericano, ieri notte ho aggiunto un’altra sfaccettatura: l’osservazione del cielo notturno attraverso telescopi da un milione e mezzo di dollari ed oltre. Tra le infinite gemme della volta celeste, ho finalmente localizzato Sirio, la stella più luminosa osservabile dalla Terra, ho messo a punto la posizione delle due costellazioni del Canis maior e Canis Minor (i cosiddetti “cani di guardia di Orione”), ho ammirato la Croce del Sud salire sull’orizzonte montagnoso distinguendo nitidamente con l’aiuto del telescopio come la sua stella denominata ? sia in realtà una stella doppia ed ho visto lo spettacolo della nebulosa di Orione e della Nebulosa di Magallanes. La struttura professionale ha aggiunto qualcosa di sconosciuto per me ma lo spettacolo di luci, già ad occhio nudo, è stato qualcosa di incredibile. Non scrivo di essermi sentito un punticino nell’infinito, perchè non è stato così, ma, ragazzi, quello che mi si è stampato nella memoria resterà credo indelebile. Non appagato, questa notte dopo le 23 risalgo in quota per godermi ancora lo show e sentirmi raccontare la cosmovisione delle antiche civiltà andine; a fondo il budget, ma di fronte a cultura di questo livello, vale la pena tirare avanti a panini e frutta.

E’ venerdì sera anche qui in Chile, sicuramente non come i miei amici, ma anch’io ho la mia birretta me la sono fatta; tranquillamente solo, seduto sul letto, aspettando che la notte porti con sè un’altra rappresentazione.

 

 

 

VICUÑA (CHILE), 9 dicembre 2004

GIORNO 343 DI VIAGGIO

Sì, sì, sono sempre in Sudamerica, Chile o non Chile. Ieri mattina alle 7:30 arrivo puntuale all´appuntamento con il bus che doveva raccogliermi, aspetto un´ora e niente, girovago per una Calama deserta per la festa dell´8 dicembre, poi finisco al Terminal centrale della compagnia ma sbaglio ingresso rimanendo seduto di fronte ad una porta chiusa per un´altra ora fino all´ispirazione; faccio altri 20 metri e trovo il vero ufficio ma...purtroppo "il prossimo parte domani". Il mio mierda! dev´essere suonato abbastanza convincente perchè la signora della biglietteria mi ha rimborsato interamente senza fiatare e senza che io dicessi qualcosa in più, poi ho ricomnciato a girovagare fino ad approdare ad una serie di uffici periferici dai quali sono partito dopo un´altra ora di attesa. Tra una via e l´altra, gli ultrà del Colo Colo chiedono l´elemosina a supporto della loro attività, in questo caso consistente nel seguire la squadra in trasferta per la semifinale d´andata del Torneo de Clausura; non un peso dal sottoscritto e 4 pappine sul groppone, ciao e tutti a casa.

Il tempo di un´occhiata veloce ad Antofagasta e sono di nuovo a terra, una corsa al Terminal di un´altra compagnia ed un salto su un altro bus già sulla rampa di partenza. Spalanco gli occhi, "oh cazzo mi ero dimenticato!", qui servono anche il pasto a bordo, roba da non credere per chi già prevedeva una giornata di digiuno. 5 ore di viaggio nel caldo (sì c´è il pasto ma non l´aria condizionata...) attraverso ancora il Desierto de Atacama, montagne pelate, sassi e sabbia, ogni tanto fa capolino il mare alla mia destra. Butto lo zaino in camera alle 19:30, sconvolto e rintronato, mi ci voleva tutto tranne il padrone del Residencial con un´inesauribile voglia di parlare della sua vita, dettaglio per dettaglio; per fortuna il lavoro qualche cosa me l´ha insegnata, annuisco costantemente in maniera convincente e l´uomo continua a parlare senza che io ascolti una frase. Grazie alla sua tessera fedeltà, comunque, compro il biglietto del bus a prezzo ridotto: lui guadagna i punti decisivi per un viaggio premio a Valparaiso, io risparmio quasi un euro, linfa vitale per il mio agognante budget attuale. Due informazioni che fotografano Chañaral, la cittadina dove ho passato la notte;:l´ultima pioggia (lieve) risale al luglio scorso, quella precedente a 4-5 anni fa, non si ricordano bene; mentre torno dal ristorante dove ho cenato, in lontananza nel buio, una signora sull´uscio di casa mi chiama e mi chiede per favore di bussare alla porta di fronte alla quale stavo passando e di chiedere della señora Maria, "scusi, sa, ho il piede ingessato".

Questa mattina altra mezz´ora abbondante di ritardo, ancora ore ed ore di Desierto de Atacama, poi alle 15:30, dopo giorni di terre aride, 16 ore di viaggio ed oltre mille kilometri, compare la prima forma di vegetazione, poco dopo La Serena. L´ultimo salto su un bus e l´arrivo poco fa a Vicuña, cittadina finalmente nel verde nella terra delle stelle e del Pisco. Con il sereno, questo viene considerato come uno dei cieli migliori al mondo per osservare le stelle e non a caso sono frequenti gli osservatori astronomici; se senza nuvole, questa notte alle 22 vado in uno di questi, sulla cima di una montagna qui a fianco. Probabilmente mi spingerò nei prossimi giorni più in dentro nella valle, fino a Pisco Elqui, si dice terra di energia mistica e di hippy. Vediamo cosa posso imparare.

 

 

 

CALAMA (CHILE), 7 dicembre 2004

GIORNO 341 DI VIAGGIO

Dicono che, tra tutte le opere (ed obbrobri) costruiti dall'uomo, dalla luna ne siano visibili solamente tre: la muraglia cinese, le piramidi d'Egitto e le mine di Chuquicamata. Delle prime due ho purtroppo ancora una conoscenza prettamente scolastica, nella terza ho piantato bandiera un paio d'ore fa.

Aperte nel 1915 per mano della statunitense Chile Exploration Company, per decenni enclave straniera in territorio sudamericano (strutture, personale e proventi, tutto di marca yankee) vennero nazionalizzate dal governo Allende nel 1971. Nel mezzo della zona piú arida del pianeta e ad un'altezza di 2.800m, Chuquicamata é la mina a cielo aperto piú grande del mondo e possiede il 20% della riserva mondiale di rame. Lungo dai 4 ai 5 kilometri, largo 3 kilometri e profondo 800 metri, il cono dantesco all'interno del quale si scava 24 ore su 24, 365 giorni all'anno, é uno spettacolo che fa una certa impressione e vale la sosta in questo posto altrmenti abbastanza insignificante. Attualmente vi lavorano 8.000 persone e le tonnellate di rame prodotte in un anno ammontano a 600.000. I camion che transitano su e giú per questa voragine terrestre costano dai 3 ai 4 milioni di dollari, un solo pneumatico 15-20.000. I residui di arsenico che aleggiano nell'aria e la velocitá alla quale questo cratere artificiale continua ad espandersi per effetto degli scavi, costringeranno nei prossimi mesi gli operai ed i dipendenti dell'impresa ad abbandonare gli alloggi che, negli anni a seguire, verranno inesorabilmente sepolti dalla terra.

La cordigliera delle Ande appare sempre piú sfocata e distante, dopo averla percorsa quasi interamente dalla Colombia fino al punto estremo della Bolivia, sono sceso di un paio di migliaia di metri ed adesso sono alle prese con i 33-35 gradi del deserto di Atacama e con un'aria straordinariamente secca. Continuo a cavalcare una buona onda, anche gli ultimi giorni a San Pedro de Atacama mi hanno regalato una compagnia simpatica ed interessante, questa volta uno svizzero, una francese (speciale), un basco ed un paio di catalane. Abbiamo passato quattro belle giornate tra escursioni, chiacchierate, sieste e bevute e con le unghie e con i denti ho tenuto il mio livello di spesa sugli standard boliviani (e chi é passato da queste parti sa che non é cosa da poco...). Il Salar de Atacama si é incasellato tra "uno dei tanti posti che ho visitato" mentre la Valle de la Muerte e la Valle de la Luna occupano una piazza decisamente piú dignitosa. Ieri sera, fuoco nel deserto, tetto di stelle, fumo, bongo e sassofono andino, vino, birra e pisco; il sigillo finale sotto la voce "San Pedro".

Domani mattina alle 7:30 prendo la strada verso sud, destinazione Chañaral; dopo averlo intravisto di sfuggita quattro mesi fa ed averlo carezzato l'ultima volta alla fine di gennaio, ritrovo l'Oceano Pacifico, i tramonti ritornano su di un orizzonte piatto.

Il mio regime alimentare ha riscoperto frutta, latte, yogurt e panini mentre sono andati via via scemando pollo, patatine fritte e riso. I prezzi sono spaventosamente alti, soprattutto qui a Calama, ed oggi il mio budget fa acqua da tutte le parti. Non mi ricordavo quasi piú come potesse essere una strada asfaltata ed un viaggio in un bus comodo e pulito, addirittura questa mattina la televisione funzionava e non trasmetteva un film asiatico di arti marziali, vendette e sangue. Pure la Tv via cavo mi ha fatto strabuzzare gli occhi, per fortuna l'hotel dove sono alloggiato conserva quell'abituale squallore che mi fa sentire a casa.

Questo fine settimana si sono celebrate le elezioni municipali in Bolivia, la cui campagna elettorale mi aveva perseguitato nelle ultime settimane; cambiano latitudine e longitudine, cambia la pelle delle persone e la realtá da affrontare ed amministrare, ma le stronzate che si danno da bere alla gente restano sempre le stesse.

 

 

 

SAN PEDRO DE ATACAMA (CHILE), 3 dicembre 2004

GIORNO 337 DI VIAGGIO

Chile. Dopo tre giorni sopra le righe, tra belle amicizie nate in terre sperdute, paesaggi fuori dall'immaginabile, alloggi rustici, soste forzate nel mezzo del nulla totale per cambiare una ruota, pasti serviti nel bagagliaio di una jeep e consumati per terra, mezzo migliaio di kilometri di piste di sassi e polvere e meravigliosi cieli notturni straripanti di stelle.

La sorte mi é stata amica riconoscente, niente israeliani nel mio tour ma un gruppo eterogeneo di persone dall'umanitá straordinaria; Jennifer ed il marito giocatore di rugby a 13 in Australia, Alan lo statunitense insegnante privato di "bad english", Manfred il tedesco perennemente in ciabatte anche sul pantano melmoso delle lagune, Claudine la timida e Jaqueline l'esuberante, francesi di mezza etá che da un paio di decenni girano il mondo in coppia, infine Gerardo, autista dalla parlata imbarazzata e timorosa di disturbare ma felice di raccontare, "amigo Estefani" mi dice in un momento di pausa perché mi aveva preso in simpatia.

Mozzafiato il primo giorno, dopo la vana ricerca di una cuoca per il viaggio gli affaticati lavoratori del sale in maniche lunghe, occhiali da sole e passamontagna per proteggersi dal martirio della luce riflessa a quasi 4.000m dalla piastra bianca di sale. Mozzafiato l'attraversamento del Salar de Uyuni, 12.000 metri quadrati di bianco sconfinato interrotto da orizzonti di vulcani e montagne, ogni momento che gli tiro un'occhiata é capace di stupirmi e lasciarmi senza parole. Come galleggiante nell'aria compare la Isla del Pescado, una collina in pieno salar piena di cactus alti metri, uno addirittura di oltre 1.200 anni. Dall'album dei ricordi tumulo il mio inglese, migliore di quello che ricordavo e clamorosamente fluente e corretto in alcuni momenti, un poco piú complesso scrostare il francese, pesantemente messo in disparte in questi mesi dallo spagnolo. ad ogni modo il mio successo personale é convincere la ciurma a deviare dal cammino tradizionale per andare a visitare un paio di grotte scoperte un anno fa ed aperte alle visite giusto qualche mese fa, uno spettacolo davvero notevole con formazioni rocciose intoccate nei millenni e create probabilmente dall'acqua, le entrate sorvegliate da una serie di cactus pietrificati. A darci il benvenuto uno dei due minatori autori della scoperta, imbarazzato ed impreparato nell'azzardare un'illustrazione delle grotte, mentre negli occhi gli brillano l'orgoglio e la soddisfazione per quello che senza dubbio considera il premio ad una vita di stenti e fatiche. Nel piccolissimo villaggio di Atulcha tre bambini hanno incontrato un Babbo Natale in anticipo di qualche settimana, niente chioma canuta e peli bianchi ma una cascata di riccioli castani e barba scura; corrono felici incontro alla mamma di ritorno dal campo mostrando sorridenti ed euforici le magliette nuove che possono sostituire quelle strappate e lercie che indossano. Con Jaqueline e Claudine andiamo alla Unidad Educativa locale e regaliamo un sacchetto di penne in modo che siano distribuite ai bambini; colti di sorpresa i due insegnanti riescono solamente ad alzarsi per stringerci la mano ma sono i loro occhi che parlano di gratitudine.

Una notte praticamente insonne é seguita da una pioggia di frittelle con dulce de leche, antipasto di una giornata riassumibile nell'aggettivo "intensa". Lagune e vulcani, fenicotteri rosa e cielo di un blu intenso, solo e sempre natura silenziosa, giusto una piccola diversione per conoscere una ventenne svedese molto carina e parlare di matrimonio (ovviamente con un altro, chiaro) e viaggi; ancora oggi morde il rammarico per quell'appuntamento che ci siamo scambiati per la sera e che mai piú si é realizzato. Lasciato all'Arbol de Piedra un trittico di israeliani che danno sfoggio della loro incommensurabile imbecillitá, arriviamo a Laguna Colorada, spettacolare bacino d'acqua colorato di rosso e spazzato da un vento terribile che mi rende difficoltoso anche lo stare in piedi. L'alloggio per la notte é qualcosa di piú che rustico ma, dopo una camomilla (alle 18...) ed una pipata, arriva la prima delle 4 bottiglie di vino rosso della serata. Per cena spaghetti, poi vino su vino e via a parlare, attorno a quel tavolo illuminato da un paio di flebili candele c'é davvero della brava gente ed io guardo i miei compagni orgoglioso di averli come amici; quando getto lo sguardo fuori dalla finestra mi sento come poche volte abbracciato e rapito dal meraviglioso ed incantatore pianeta nel quale vivo. Si potrebbe dire che sono ubriaco quando, completamente vestito, mi infilo nel sacco a pelo avvolto nel silenzio incontaminato di questa periferia del Terzo Mondo, un soffio per spegnere la candela, un'ultima occhiata alle stelle che fanno capolino dalla piccola finestra della stanza e buonanotte a tutti.

Ai primi passi di Gerardo per il corridoio, alle 3:53, spalanco gli occhi impastati dalle lenti a contatto e muovo la testa con la stessa pesantezza di chi ha dormito un paio di minuti ("I feel as a cat has shit in my mouth" l'efficace espressione utilizzata dalla poeta Jennifer). Un'illuminazione folgorante mi rimette in piedi ed infatti...la Croce del Sud é proprio lá ad osservarmi, un piacevole ritorno tra le pieghe del mio viaggio. Due, tre cose buttate nello zaino al buio ed esco a caricare il bagaglio sulla jeep, il secondo piede deve ancora varcare la soglia dell'uscio che giá il freddo glaciale mi sta stritolando le ossa; 6 gradi sotto zero informa un sorridente Gerardo, unico pimpante tra una combricola di fantasmi assonnati e stralunati. Un'ora di macchina nelle prime luci dell'alba per arrivare ai geisers, nuvole di gas che salgono da pozzi ribollenti di magma in un paesaggio che di poco é diverso da quello di Marte. Poco dopo siamo alle acque termali, mentre con i piedi in ammollo osservo lo spettacolo in controluce dei vapori che salgono disperdendosi nell'aria e gli uccelli che stazionano per trovare riparo dal freddo, mi viene in mente una bella definizione del momento: ma-gi-co. Colazione in piedi poi via in quello che sará l'ultimo trasferimento in gruppo, una pista di polvere in un ambiente che sta sul filo sottile tra realtá ed immaginazione, un paesaggio che nulla ha a che vedere con il pianeta Terra, un luogo dove il tempo non é mai trascorso e dove l'unico elemento mobile pare essere il sole che con ripetitiva puntualitá appare e scompare nella volta celeste. Montagne e vulcani colorati dai diversi minerali, pendici ondulate e cime arrotondate da eruzioni e venti eterni, qua e lá qualche pietra smarrita, guardiana solitaria della solitudine che qui ha dimora fissa. All'improvviso il colpo dell'artista, la pennellata che trasforma il quadro in un capolavoro, dietro la collina le acque verdi turchese di Laguna Verde sorvegliate dall'imponenza paternale e minacciosa del vulcano Licancabur. Se mozzafiato é stato il primo giorno ed intenso il secondo, la definizione corretta di questo 2 dicembre 2004 é surreale. Una camminata sulle sponde della laguna, poi improvviso ed inatteso arriva il momento delle strette di mano, dei baci sulle guance e degli abbracci; in pochi giorni un gruppo di persone ha saldato un'amicizia vera, non importa se ci si rivedrá o ci si scriverá, quello che ho ricevuto da queste persone é combustibile per una fiamma che da tempo cova dentro di me. L'unica a parlare é stata Jennifer, "mi mancherai tanto", le altre frasi sono rimaste nell'aria ma nessuno ha avuto difficoltá a leggerle; c'era uno spettacolo della natura attorno a noi ma nessuno ha staccato gli occhi dalla jeep che nel deserto mi portava al punto di incontro con il minibus per il Chile ed io non so a chi o a che cosa continuo a mandare i miei ringraziamenti. San Pedro de Atacama é un posticino delizioso ma io devo ancora arrivarci completamente.

 

 

 

UYUNI (BOLIVIA), 29 novembre 2004

GIORNO 333 DI VIAGGIO

Pressapochismo, confusione, ritardi e discussioni ancora sugli scudi nell´ultimo paio di giorni. Uno sterrato di 370 kilometri porta da Potosi a Uyuni attraverso la desolazione sotto forma di montagne spazzate dal vento, pampas quasi completamente disabitate e gruppi cespugli a rompere la monotonia della sabbia.

Uyuni appare alla mia vista alle ultime luci del tramonto, solitaria in un altopiano a perdita d´occhio e sorvegliata da alcune nuvole rossastre all´orizzonte. Non fosse per gli stranieri che a frotte passano da queste parti, sarebbe veramente un paesotto abbandonato a se´ stesso. Dopo un paio di settimane di climi caldi o temperati, ritorno in montagna, 3.669m per la precisione, con vento e freddo fedeli compagni di viaggio. Le specie animali tipiche del luogo sono due, i procacciatori delle agenzie ed i cani da queste parti insolitamente stizziti ed agitati.

Ho passato la giornata passeggiando serenamente tra i relitti di vecchie locomotive o carrozze di treni oppure tra le stradine polverose e deserte della periferia del centro abitato. Solo soletto mi sono goduto il tramonto, accanto a me un cane seduto con lo sguardo fisso verso l´enorme palla di fuoco che spariva dietro le montagne. Assieme siamo stati, assieme ce ne siamo andati alle rispettive dimore.

Domani mattina, con il consueto orario elastico, la partenza per quelle che alcuni definiscono "tra le meraviglie delle meraviglie naturali del Sudamerica ". Qualche kilometro fuori da Uyuni il Salar, la piattaforma di sale piu´ grande del mondo, una tavola bianca che si perde a vista d´occhio, a seguire grotte e lagune, paesaggi surreali che sembrano appartenere ad altri pianeti, vulcani ancora attivi e geiser. Tre giorni di tour che termineranno (mi auguro) con il ritorno in Chile dopo quasi dieci mesi, solita barbetta, capelli un po´ piu´ lunghi di allora e decine di migliaia di kilometri in piu´ sotto i piedi.

Prima di partire il controllo all´immigrazione, la spesa con le cose di sopravvivenza l´ho gia´ fatta, doccia (almeno fino al Chiloe sono a posto...) e via.

E che qualcuno mi assista anche questa volta...

 

 

 

SUCRE (BOLIVIA), 26 novembre 2004

GIORNO 330 DI VIAGGIO

Sono veramente tante le cose di questi ultimi giorni che potrei raccontare ma, francamente, è poca la voglia di farlo, tante emozioni che una sorta di pudore e timidezza ha avvolto quasi a protezione, sentimenti personali che mi diventa difficile questa volta mettere a nudo.

Il 9 ottobre 1967, il giorno dopo essere stato catturato, nella piccola scuola di La Higuera viene ucciso il Che Guevara, colpito inizialmente da una raffica di colpi e poi ultimato definitivamente. Il giorno seguente il cadavere viene esibito ai giornalisti nella lavanderia dell’ospedale di Vallegrande, in una farsesca e patetica conferenza stampa. Ho visitato tutti questi luoghi, ho parlato con contadini che di persona hanno vissuto quei momenti, sono passato per le fosse comuni nei quali molti cadaveri erano stati interrati. Con la politica la mia visita da queste parti a ben poco a che vedere, ho voluto semplicemente rendere visita a quello che nel corso di questi mesi in Sudamerica, spesso per una serie di strane coincidenze, è diventato un compagno di viaggio, invisibile ma parlante. Avrei voluto scrivere un bell’articolo sull’argomento e molte cose le avevo già in mente ma mi sento troppo toccato “dentro” per farlo.

Me ne sono andato da Vallegrande mentre passava una meravigliosa canzone di Mercedes Sosa, quasi un inno alla solidarietà, lei con una voce caldissima e profonda, io con un groppo in gola; avevo gli occhi umidi ma dove sto andando adesso lo vedo benissimo.

 

 

 

COCHABAMBA (BOLIVIA), 21 novembre 2004

GIORNO 325 DI VIAGGIO

Sì lo ammetto, avessi scritto queste righe un paio di giorni fa avrei usato la parola “sconfitta”, rinuncia davanti alle lungaggini e deficienze dei collegamenti nella Amazzonia boliviana. Il mio proposito di chiudere il cerchio per arrivare fino a Santa Cruz attraverso la foresta è miseramente affondato, avrei detto, sinonimo di uno stato d’animo abbastanza mesto. Alla luce dei fatti, invece, visto poi come è proseguito il viaggio, trovo più appropriata la parola “insuccesso”, probabilmente lo stesso significato ma sicuramente un suono meno drastico.

Lasciata Coroico pochi minuti dopo aver scritto le ultime note, sono sceso fino all’incrocio di Yolosa, dove un bus mi ha raccolto dalla strada e portato fino a Caranavi, quasi tre ore di sterrato seduto su un serbatoio (ma di che???) dietro il sedile dell’autista. A Caranavi trovo ad aspettarmi il caldo e la scoperta che i primi trasporti per l’Amazzonia partono solamente di lì a 6 ore, il tempo di mangiare e di percorrere distrattamente le poche vie dell’abitato. Già avvolti nel buio, ovviamente in ritardo di un’ora e mezza, prendo posto nell’ultima fila del bus diretto alla destinazione turistica di Rurrenabaque; anche se non leggerà questo racconto, ancora grazie alla simpatica ragazza tedesca che mi avverte di non sedermi alla sua sinistra perchè il sedile è appena stato rinfrescato dal vomito di un bambino. 7 ore di curve e buche sotto un cielo meravigliosamente stellato con un quarto di luna a disegnare i contorni delle colline coperte di foresta sub-tropicale, ogni tanto qualche sosta per le perquisizioni della Umopar, la polizia anti-narcotici addestrata dalla DEA statunitense. Tra la sorpresa di stranieri e locali, alle 2 di notte scendo nell’anonimo gruppo di precarie casette indicato nelle cartine geografiche con il nome di Yucumo; le scarpe affondano subito nel fango della strada, mi sposto poco più in là e svogliatamente mi dò alla ricerca di un posto dove dormire. Dico svogliatamente perchè in fondo in fondo già sapevo dove sarei andato a parare, ci pensavo dalla partenza, ed infatti eccomi sdraiato sopra uno sgangherato tavolo di legno usato come mercato durante il giorno, ai bordi della strada in compagnia di alcuni camion in sosta in attesa dell’alba; il misero tetto di paglia mi protegge appena dalla pioggerellina che da qualche ora ha preso il posto delle stelle ma niente può contro l’umidità che mi entra nelle ossa. Il primo minibus per San Borja è mio, un’oretta ed eccomi in quella che diventerà la mia fermata definitiva: una cittadina con l’euforia tipica degli avamposti del pionerismo, mercati di frutta, negozi che disordinatamente vendono tutto, il niente a disposizione del turista (che peraltro, a parte il sottoscritto, non ci sono), la gente che dai dintorni viene per fare approvvigionamento generale; faticoso persino trovare un posto dove mangiare ma alla fine mi arrangio anche bene. Fiducioso della mia imminente partenza, prendo il biglietto per San Ignacio de Moxos, tagliando che poi mai userò. La giornata passa tra letture ed insensate passeggiate per le vie cittadine finchè la sera arriva improvviso un acquazzone, antipasto di una pioggia torrenziale che durerà tutta la notte. Il mattino seguente, dopo un paio d’ore di attesa alla stazione degli autobus, mi si dice (uso questo verbo e non “informare” perchè nessuno della compagnia di bus mi metterà al corrente ufficialmente della cosa) che il bus è cancellato perchè la strada è intransitabile. Quando già per la testa mi passano dubbi ed incertezze, una chiacchierata con il grasso cuoco argentino tocca le corde giuste: “di romantico questo pezzo di strada ha davvero poco, amico”, mi dice questa persona con alle spalle una vita con la ”v” maiuscola, “di avventure impossibili ne ho vissute tante ma sempre per qualcosa che ne valeva la pena e, credimi, San Ignacio non rientra tra queste”. I bus partono ma davvero non si sa quando arrivano, 12, 18, 24 ore, occorre comprarsi gli stivali per scendere a spingere, la notte passa assediati dalle zanzare, in fondo quello che volevo ma...”non c’è romanticismo, amico, è una faticata per niente”. Quando salgo sul bus di ritorno a La Paz lo stato d’animo non è propriamente al massimo ma poco a poco comincio a ricredermi; ancora ore ed ore di sedili sfondati immersi nell’Amazzonia boliviana, vegetazione intricata che nasconde di quando in quando abitazioni approssimative in legno e paglia, bambini che fanno il bagno in pozze di acqua stagnante fangosa e sporca, il nulla per kilometri e kilometri. Passano le ore e capisco che quello per cui ero venuto fin qui lo stavo trovando in questi panorami, un fiume placido che scorre stancamente tra colline di vegetazione vergine, aria pura profumata di alberi ed umidità, zone sconosciute al turismo, avamposti umani ai margini dello stesso Terzo Mondo; quando arriva un poco di modernità, la lista delle bollette di luce elettrica viene esposta alla finestra del bar con l’elenco delle utenze ed i termini di pagamento. Il bus comincia a sbuffare in equilibrio precario sulle prime salite, arrivano la pioggia ed i primi colpi di sonno; all’improvviso eccomi di nuovo a Caranavi, alle 2 mi sveglio parcheggiato ai piedi delle montagne con i primi freddi a bussare alle ossa, si affronta un’altra volta la “strada più pericolosa del mondo”, con gli occhi chiusi per il sonno sento cascate di acqua abbattersi sul tetto del bus, ancora dondolamenti sull’orlo di strapiombi senza prova d’appello, una sberla di gelo mi sveglia alle 4, attorno alla strada prati imbiancati dalla neve ed in lontananza le prime luci di La Paz.. La mia incursione in queste terre tropicali si chiude dopo un mezzo migliaio di sterrati e piste di fango, un cielo stellato meraviglioso ed un polmone di verde sterminato, villaggi e paesi fotografia di un pionerismo fuori dal tempo, arretratezza e povertà che scendono fino al profondo.

Attraverso La Paz quando ancora le strade sono vuote, parto subito in direzione Cochabamba e mi stupisco a stupirmi di un bus con sedili comodi e puliti, vetri intatti e riscaldamento funzionante. Quando definitivamente metto piede a terra sono passate 25 ore dalla mia partenza, le gambe proseguono incerte ed i reni brontololano un poco, sconvolto e preso dall’ansia di fare qualcosa che non so cos’è. Mi butto su una panchina del centro e sotto le fronde di una palma penso alle faticose meraviglie che gli ultimi giorni mi hanno regalato; “no, perchè sconfitta? Forse doveva andare così e poi alla fine era esattamente questo quello che volevo”.

I muri della città sono spesso dipinti dai ritratti di lui, ridicolo anche se pensiamo a chi lo ha dipinto e per che cosa lo usano, ma utile a mettermi in testa che mi sto avvicinando alla mia destinazione. Questa sera pullmann per Santa Cruz, domani mattina scalo e nuova partenza per Vallegrande. Si entra in quelle che sono passate alla storia come le terre del ELN, ad aspettarmi il fantasma di un compagno di viaggio.

 

 

 

COROICO (BOLIVIA), 16 novembre 2004

GIORNO 320 DI VIAGGIO

Me ne vado da Coroico, rifugio originario di schiavi angolani, congolesi e senegalesi fuggiti (o liberati) dalle mine di argento di Potosì, luogo ideale per nascondersi, in mezzo alla foresta sub-tropicale simile a quella della propria terra, alle pendici di montagne pressochè inaccessibili; le stradine che

si diramano dalla alberata piazza principale sono pavimentate con sassi, diverse persone presentano i tratti africani tipici, spesso la sensazione è quella di trovarsi in una cittadina di Minas Gerais, in Brasile.

Ho pensato molto al da farsi, ho valutato ore e kilometri, ho osservato le condizioni metereologiche, ho provato ad informarmi a ma chiedere delucidazioni da queste parti sembra di domandare come ha chiuso Wall Street in una favela.

"Prova a chiamare San Borja e chiedi a loro", "boh, non so, no no la strada è buona", "tranquillo, finchè non cambia la luna non piove" (dice Claudio,

sussurrando però a seguire "perlomeno qui a Coroico"). In fondo tornare indietro significa rifare la strada più pericolosa del mondo, vedere strapiombi mozzafiato, riassaporare l'inferno dantesco, visitare Cochabamba che mi incuriosisce, non è poi tanto male. Non ho più tanti giorni di permesso in Bolivia e questo è un altro fattore da considerare. Uno non può sempre vivere sul crinale, insicuro di quello che può capitare. Ieri sera oltretutto si è annuvolato e, seppure non forte, qualche rovescio lo ha fatto, immaginarsi come sono diventate quelle piste.

Tante sono le cose che vorrei raccontare dei miei pensieri ma credo che meglio di tutto possa raccontare un pezzo del mio diario personale, scritto ieri notte prima di prendere sonno: "...alla fine quello che ha deciso non è stato il sottoscritto; un vento tiepido mi ha preso per la maglietta, un vento carico di profumi di foresta e odori di avventura, un soffio d'aria pieno di incertezze ed incognite, una voce flebile mi chiama da quell'orizzonte plumbeo e seduttore...l'istinto apre la strada, la fame di ignoto indica il cammino da seguire...rumbo norte, destinazione foresta, zona pioneristica poco frequentata da stranieri...in una ormai costante ricerca dell'estremo su cui sedersi compiaciuti." Scelgo ancora la via più difficile e mi chiedo se la scelta che mi ero posto sia stata reale o se invece non avessi già deciso.

Adesso scendo in paese e cerco un camion che mi porta a valle in un posto di controllo della Policia de Transito dove aspetto un mezzo che si dirige a nord.

Qualche luogo dove pernottare l'ho individuato ma le destinazioni saranno figlie anche del momento e della situazione.

Chau compañeros, yo me voy, hasta la victoria siempre!

 

 

 

COROICO (BOLIVIA), 14 novembre 2004

GIORNO 318 DI VIAGGIO

Incoraggiato dalle stesse titubanze di Barbara, dal comune disgusto ed incoraggiato da una fame atavica ho affrontato una pietanza mai sperimentata:

cuore di qualcosa (preferisco non sapere cosa) alla griglia servito a mo' di spiedino. Nome tecnico: anticucho. Sapore: interessante. Prossimo assaggio: quando vicino alla morte.

Continuo a toccare luoghi studiati e preparati anni fa, ieri è stato il turno di Chacaltaya, la stazione sciistica più alta del mondo, lo ski-lift più alto del

mondo, la terrazza sull'imponente cima dell'Huayna Potosì. Una mezz'ora di camminata per raggiungere il punto più vicino al cielo che avessi mai raggiunto: 5.395m sul livello del mare. Panorama brullo (poteva essere altrimenti?), lagune colorate di verde e rosso, la Cordillera Real disciplinatamente sull'attenti mentre vigila il lago Titicaca, in lontananza la conca infernale di La Paz, le rocce di colore rosso-amaranto a scaglie quasi perfette, i nuvoloni grigi minacciosi in attesa che termini la visita per sfogarsi. Tutto sommato meno faticoso di quello che pensavo, niente crisi di ossigeno, nessuna embolia, appena un lieve annebbiamento della vista (d'altronde quando a queste altitudini ti inerpichi di corsa perchè inebriato dalla situazione, può capitare...). Causa il riscaldamento del pianeta il ghiacciaio ormai sta definitivamente sparendo e si scia davvero poco durante l'anno, il pendio è ripido e la guida non manca di sottolineare che occorre essere sciatori esperti per affrontare la discesa (tzè...). Scendo dalla cima dopo aver salutato l'abituale monumento di sassi alla Pachamama, chissà quando tornerò così in alto, difficile in tempi brevi.

Imboccata la strada del ritorno le nuvole possono lasciarsi andare e, un poco misto a pioggia, comincia a nevicare. Poco male, la bandiera ormai l'ho piantata anche qua.

A cena torno nel mio magico rifugio pazeño, mangio rapido e, già in piedi per andarmene, mi perdo ancora una volta rapito dall'atmosfera dell'ambiente quando una voce alle spalle rompe i miei pensieri: "Ti incanta questo posto?". Passo una buona mezz'ora a parlare con il padrone del locale, gli spiego l'attrazione che sento tra queste pareti, mi invita a lasciargli qualcosa di scritto nel cuaderno; butto giù quello che mi viene, senza vergogna, glielo traduco in castellano e l'uomo mi dice con gli occhi umidi che è una delle cose più belle che ci sono tra quelle pagine. Vorrebbe offrirmi un bicchiere di vino per continuare a parlare ma rifiuto, quel bicchiere rappresenta per me la promessa di un ritorno, il filo che unisce l'oggi con il domani. Me ne vado io commosso, io che ho incantato il creatore della mia oasi di sogni in Bolivia.

Questa mattina partenza per Coroico, lungo quella che negli anni '90 venne indicata la carretera màs peligrosa del mundo (la strada più pericolosa del mondo), pubblicizzata poi dalla Lonely Planet e diventata uno dei must del turismo straniero in questo Paese. Da La Paz il pullmino sale fino ai 4.725m di La Cumbre attraverso un paesaggio del tutto privo di vegetazione fino ad arrivare al posto di controllo della polizia: fanali, frecce, segnalatori, non abbiamo il triangolo rosso, una piccola mancia e via. Con la discesa comincia tutta un'altra storia...l'autista rallenta e dal finestrino comincia a svuotare sull'asfalto alccol, offerta alla Pachamama affinchè ci protegga durante il viaggio, si aprono voragini tra le montagne, ci si immerge all'improvviso nella foresta sub-tropicale. Ad un certo punto sparisce tutto, la nebbia cancella cime e strapiombi, la strada diventa una trappola di fango (l'ideale penso tra me e me), ogni tanto si passa sotto qualche cascata di acqua; in alcune curve compaiono uomini con un'enorme cartello double face, verde e rosso, che segnala se proseguire o no, l'autista gli getta una monetina che questi raccolgono al volo. Per sfruttare al meglio il poco spazio della strada, i veicoli in discesa occupano la parte sinistra della strada (l'autista può guardare meglio dal finestrino quanto spazio ha ancora a disposizione prima di volare di sotto), ma alcuni camion che abbiamo incontrato, ho visto con i miei occhi avere una ruota quasi sospesa nell'aria. Raggiunta quota 2.000m, la pista si trasforma in un'inferno di polvere ed il problema diventa vedere dove si sta andando; la struttura del mezzo è quantomeno precaria perchè la polvere entra da tutte la parti, specificatamente dal pavimento...Dopo 3 ore di viaggio, 3.100m di discesa

e 2.100m di dislivello da La Paz, neve, fango, polvere e strapiombi si arriva a Coroico, porta d'accesso alla foresta tropicale, cittadina tranquilla aggrappata alle pendici di una montagna.

Abbastanza riluttante a comprare medicine, ho deciso di curare i residui immortali della mia influenza con metodi naturali, regalandomi al tempo stesso alcune ore di autentico piacere; un poco fuori dal paesotto, con panorama stupendo sulla vallata, ho preso una stanza in un albergo con piscina e soprattutto sauna, struttura che ho immediatamente provveduto a sfruttare (qualcuno dei lettori starà gia sorridendo...).

Il mio amico locale si chiama Claudio, approssimatamente 45 anni, originario del veneziano: organizzatore di concerti in Svizzera e contemporaneamente spacciatore a 24 anni, produttore di hascish nel Rif marocchino, arrestato in Colombia durante gli anni d'oro, da 24 anni in Latinoamerica, da 6 alcolizzato radicato a Coroico dove coltiva il suo orto e vende artigianato. Un bel tipo, sicuramente un pozzo di storie, un uomo di strada.

La serata è gradevolmente fresca e la terrazza panoramica mi sta chiamando: tabacco ed accendino ce l'ho e so pure a cosa pensare. Arrivato qui che faccio?

Ritorno a La Paz per poi indirizzarmi a Cochabamba oppure mi butto a testa bassa nell'avventura pura proseguendo per lo Yungas tra strade di terra (meglio dire fango e polvere) e foresta tropicale? Una decina di ore di viaggio nel primo caso, una trentina abbondante nel secondo (tempo permettendo). Confesso che sono indeciso, la seconda possibilità l'avevo considerata e scartata già tempo fa ma adesso che sono qui e annuso questi profumi...Si potrebbe metterla ai voti, chi vuole può inviare la sua scelta.

 

 

 

LA PAZ, 13 novembre 2004

GIORNO 317 DI VIAGGIO

Trovato quello che stavo cercando, una settimana positiva sotto la quale porre una bella sottolineatura.

Ho lasciato in fretta e furia il Peru, cercando di avere il meno a che fare possibile con i locali, e sono entrato in Bolivia domenica scorsa; coda all´ufficio doganale in uscita, coda a quello in ingresso. Con comprensibile soddisfazione ho cambiato i soldi definendo io il tasso di cambio (ancora oggi non capisco come sia successo), a seguire, pochi kilometri piú avanti, il bus si é fermato per far salire un giovane personaggio che gentilmente ha spiegato di dover far pagare la tassa di soggiorno a Copacabana. Non ho lasciato alla sua immaginazione il compito di pensare cosa pensavo della cosa ed educatamente l´ho mandato a raccattare monetine da qualche altro straniero.

La Isla del Sol é piú o meno la Taquile che avevo visitato in Peru quattro anni fa; la epica scarpinata fino alla cima dell´isola mi ha regalato un alloggio di carattere, economico, di una pace estrema e con vedute superbe sui lati orientale ed occidentale del lago. Proprio il posto che il sottoscritto aspettava per sedersi in terra, farsi tormentare dal vento e fumarsi la tanto agognata pipa. I giorno su quest´oasi di tranquillitá e silenzio sono trascorsi camminando su e giú per gli undici kilometri di lunghezza, salutando pastori ed ammiccando agli animali da soma, osservando nidiate di maiali, visitando rovine inca ed il mitico luogo dove, secondo la leggenda, il sole e la luna si rifugiarono durante il tempo delle piogge eterne e prima della nascita del Viracocha. Essendovi nato, il sole non é stato certo compassionevole con il sottoscritto ed il vento ha giocato bene il ruolo del fedele compagno delle mie scarpinate. In una delle mie peregrinazioni ho incontrato una simpatica troupe di Rai3 con la quale ho scambiato quattro chiacchiere ed intavolato una interessante conversazione in serata: politica ed ambiente i temi sul tavolo. Durante il giorno bel tempo, la sera temporali, all´inizio sulle sponde distanti del lago in uno spettacolo di lampi e tuoni che ravvivavano gli orizzonti, nella notte sull´isola stessa; assolutamente impagabile, protetto dal calore delle coperte, scrivere e leggere con il sottofondo delle gocce di pioggia che bussano al tetto della mia camera. L´ultimo giorno il premio alla fedeltá: mentre sto mangiando l´abituale filetto di trota, una tromba d´acqua si muove ondeggiando sinuosa sulle acqua sacre del Titicaca.

La serata a Copacabana, in terraferma, mi regala un tramonto straordinariamente romantico, una pittura di azzurro, grigio, rosso, arancione e bianco nel cielo di ponente mentre in controluce le barche dei pescatori ciondolano sulle ultime onde della giornata. E´ tanto bello che nemmeno sento il freddo, incantato a guardare un altro capolavoro della natura. Il solito malinconico venticello che accompagna le ultime luci mentre la mia mente vola da un´altra parte, libera di sognare ed immaginare i prossimi scenari della mia recita.

Da Copacabana, seguendo le indicazioni "Confini del mondo", si scende ai 2.700m di Sorata, localitá incantata giusto ad un passo dall´irreale. Ritmi sonnolenti, gente seduta ai lati della piazza, un saluto o un sorriso da chiunque, montagne imponenti tutt´intorno e la voce distante del torrente che da secoli si scava il cammino. Un´altra bella passeggiata per una strada che attraversa il nulla, solo paesaggi colorati con curiose formazioni rocciose, ogni tanto qualcuno camminando da o verso chissá che. Il cinema locale é una sala con qualche decina di sedie ed una televisione a disposizione della comunitá, a scelta degli spettatori la pellicola damettere in programma. Le case dei quartieri un poco fuori dal centro profumano di storie antiche, muri diroccati di colori allegri e finestre spesso violate dal tiro a segno dei giovani o dalle intemperie. Nonostante tutto, non é difficile andarsene, e la colazione al tavolino all´aperto in una cittadina avvolta nella nebbia mi regala quel respiro di mistero che solo mi mancava in questo posto magico. La Paz mi appare carica dello stesso fascino con cui l´avevo salutata un paio d´anni fa durante una tragicomica partenza dalla Bolivia. Inferno dantesco a cielo aperto, anfiteatro apocalittico con case al posto di poltroncine, la sensazione asfissiante che da un momento all´altro tutto stia per affondare a valle. Aria inquinata e confusione totale mi calamitano al punto da decidere di andare verso il centro a piedi, un´ora e mezza abbondante quasi senza accorgermene. Un bell´hotel e poi ancora un cerchio da chiudere: non bado a spese per tornare a mangiare in quello che a suo tempo avevo definito uno dei ristoranti piú romantici e carichi di fascino che avessi incontrato in vita mia. L´arredamento é esattamente come lo ricordavo, l´atmosfera identica, non riesco a sedermi allo stesso tavolo di allora e mi metto quindi un poco piú in lá, in buona posizione per tirare l´occhio a quella sedia ed a quel tavolo dove aleggia la mia presenza, dove in una serata malinconica e sognante vivevo quella che credevo la mia momentanea ultima notte boliviana. Sono passati i mesi ma ancora vivo degli stessi orizzonti sconfinati e delle stesse utopie di viaggiatore idealista.

Prima di andarmene mi cade l´occhio su una gigantografia della Bolivia; mamma, papá, la strada che porta a quel villaggio anche in questa mappa monumentale é segnata con una linea tratteggiata, una delle poche in questo Paese, mi chiedo davvero come ci si arrivi a questo posto. Beh, mal che vada a piedi (dovrebbero essere cinque ore) oppure, perché no?, a cavallo. Oppure ancora su un mulo, in fondo lo faceva anche lui...

 

 

 

AREQUIPA (PERU), 6 novembre 2004

GIORNO 310 DI VIAGGIO

Dopo un paio di settimane in compagnia dei genitori, un’influenza apocalittica ed un passeggero virus intestinale, oggi ritorno a viaggiare solo e decisamente in forma. Il clima primaverile di Arequipa mi mette sorridente e di buon umore, nel pomeriggio prendo la strada per risalire al Lago Titicaca. Le ultime due settimane mi hanno impressionato molto, in senso positivo e negativo; ho ritrovato zone che giá avevo visitato e mi sono scoperto a stupirmi per cose giá conosciute ma nello stesso tempo mi sono scontrato con una realtá che mi é piaciuta davvero poco. A partire da Cuzco fino a Puno si entra nel cuore del Gringo Trail peruviano, uno dei passaggi in assoluto piú battuti dai turisti stranieri in Sudamerica. L’atteggiamento di molti locali va bel al di lá del normale tentativo di approfittare e la mia pazienza ha in molte situazioni oltrepassato il limite; non ditemi che da queste parti é normale perché ormai questo continente comincio a conoscerlo, qui veramente si va ben oltre la soglia tollerabile. Negli ultimi quattro anni evidentemente il turismo é cresciuto in maniera esponenziale, lo si vede dalla quantitá di infrastrutture nuove (hotel, ristoranti, terminal dei bus, bar, locali), purtroppo contemporaneamente é peggiorato il comportamento di molti: richieste esorbitanti (rispetto chiaramente ad altre parti del Paese), pretese assurde ed arroganti di avere la mancia sempre e comunque, prezzi invariabilmente gonfiati a sproposito per lo straniero ed atteggiamenti indisponenti quando glielo si fa gentilmente notare, disinformazione e menzogne per guadagnarci qualcosa, quantitá esagerata di mendicanti (e non siamo nelle zone piú povere del Peru dove c’era senza dubbio piú dignitá). Il turista é una macchina da mungere, per lo piú stupida nella mente di questi personaggi, sufficientemente tonto da potergli fare qualsiasi cosa, incapace di capire quando lo si sta fregando, per questo é inaccettabile che reagisca opponendosi. Da un certo punto di vista é abbastanza comprensibile, una grande percentuale delle persone che visitano questi luoghi sono accondiscendenti ad ogni richiesta, un’inconscia sensazione di compassione spinge ad accettare le richieste di caritá o a pagare le cifre che vengono richieste per cibo, alloggio o artigianato; in fondo per noi 10 o 15 dollari non sono niente, perché stare a discutere passando per tirchi? A forza di esempi, da queste parti hanno capito come gira il fumo e non é strano che l’idea dello staniero sia appunto quella di un riccone tonto, pollo da spennare senza scrupoli ma intollerabile quando non sta al gioco. Idealista perdente come sempre, io porto avanti le mie probabilmente sterili crociate di principio, utili solo a far stare meglio me stesso: quando mi fai pagare il triplo o quadruplo di quello che vale un pasto, la mancia non te la lascio (dó per scontato che sia giá compresa nel conto); le caramelle ed ancora meno il cioccolato lo regalo ai bambini perché serve solo a massacrargli i denti; l’elemosina non la dó, per quanto poveri da vivere ce n’é da queste parti, troppo facile vivere sulla pietá degli altri (perché l’accattonaggio l’ho trovato solo dove é pieno di turisti?); della mancia per la foto non se ne parla, piuttosto compro una cartolina; i regali li faccio a quelli che non li chiedono, che poi sono pure quelli che li apprezzano di piú; se qualcosa non va in quello che ho pagato, non te lo mando a dire ( tu pretendi i soldi? e io pretendo quello che ho pagato, tutto, fino in fondo, senza eccezioni o omissioni). Sí, lo ammetto, sono insofferente, ma non mi sono alzato cosí una mattina di punto in bianco. Che io abbia i soldi (guadagnati, non rubati) e tu molti meno, non giustifica un modo di fare arrogante e sfacciato nei miei confronti; sono venuto in Sudamerica anche per fare del volontariato ed aiutare le persone che hanno bisogno ma non sono l’ultimo dei cretini e la porta sono capace di sbattertela in faccia. Ci sono Paesi e realtá molto piú difficili di questa parte del Peru ma piú ricche in dignitá e voglia di fare, posti dove la povertá si affronta e non si sbandiera come coupon per chiedere ad oltranza. Non sono cinico, realista credo: dire sempre sí per puerili sensi di colpa ed accettare qualsiasi ricatto per la vergogna di avere piú soldi di loro serve solamente a rafforzare la convinzione di queste persone che in questo modo si puó vivere. Gli si sta insegnando che l’elemosina, la menzogna e l’abuso sono comportamenti sostanzialmente normali, una maniera di (soprav)vivere come un’altra.

Arriveró in serata a Puno e scapperó domani di buon mattino, con questa gente non voglio avere ancora a che fare. Dovrei lasciare il Peru a metá mattinata e dirigermi alla Isla del Sol, dove conto di trovare tranquillitá, camminate e stelle. Poi si prosegue in Bolivia, finalmente fuori dal Gringo Trail, ancora itinerari ai margini della mia stessa guida; spero di trovare lo stesso paese semplice e genuino che ho lasciato un paio d’anni fa. Ho bisogno di questo.

 

 

 

PUNO (PERU), 1 novembre 2004

GIORNO 305 DI VIAGGIO

Le ultime gitarelle nei dintorni di Cuzco, ancora qualche passeggiata nei siti archeologici inca, poi oggi la partenza in treno verso Puno, sponde del Lago Titicaca; drammatico l´impatto in stazione, la qualitá é migliorata terribilmente, parte in orario, i sedili sembrano divani, sul tavolino una tovaglia con fiori, niente sassaiole contro i vagoni durante il viaggio, nessuna sosta, solo una rapida fermata alla stazione di La Raya, a 4.321m. In certi momenti mi chiedo se in Peru ci sia venuto quattro anni fa o quaranta. Il Lago Titicaca si presenta nello stesso modo in cui mi aveva salutato, placido, misterioso, affascinante, odore di mare nell´aria, qualche barchetta attraccata alle sponde; Puno appare all´orizzonte sotto forma di una cascata di luci appoggiate alle colline che riparano il lato sud-ovest del lago, poi si entra e si incontrano traffico, confusione, gente che va e che viene. Ancora ricordi, il mercatino giá saccheggiato in passato, la via dei bar e ristoranti, il locale del compleano di Ferdi, Plaza de Armas. Siamo saliti ad oltre 3.800m, fa piú freddo rispetto a Cuzco e si sente; nuvole al tramonto, adesso ha fatto la sua apparizione qualche stella. Finisco adesso di ingurgitare uno dei piatti peruviani classici, il cebiche, pesce crudo marinato sommerso da cipolle (richiederá ettolitri di acqua nella notte).

E mentre io me ne vado a visitare i dintorni di Puno, qualche migliaio di kilometri a nord Babilonia celebra il suo quadriennale carnevale del popolo. Buffoni e cantastorie, saltimbanco e menestrelli hanno percorso in lungo e in largo le strade delle province affinché tutti prendano parte alla cerimonia. Scenari di ricchezze spropositate e di benessere diffuso vengono disegnati dai campioni dell´oratoria e della dialettica, portavoci dell´uno o dell´altro quartiere, uno spettacolo di danze e di banchetti viene promesso a chi parteciperá all´evento. Il popolo é chiamato a scegliere il vessillo da issare nelle prossime campagne di conquista, la maschera da indossare nei futuri balletti di sangue. Si aprono ai sudditi le porte della cittá, ma le entrate ai palazzi restano sbarrate ai non eletti, lo scettro é in pugno all´aristocrazia. E´ il momento di regalare alla plebe l´illusione del protagonismo, le luci della piazza, mentre nel buio nobili, miliziani e cortigiani giá tessono indifferenti le future trame di potere. Babilonia si fa bella, Babilonia sorride accomodante agli occhi del mondo mentre apre le braccia ai suoi sudditi, che si accendano sul popolo le luci della ribalta. Comunque vada, domani si richiudono le mura della cittá, si spegne la voce del popolo; dietro il nuovo vessillo sempre la stessa bramosia, dietro la maschera sempre la stessa aviditá. Babilonia insegue il potere eterno, anela il dominio sconfinato ma sotto la sua stessa ambizione fumeranno un giorno le ceneri dell´impero.

 

 

 

CUZCO (PERU), 30 ottobre 2004

GIORNO 303 DI VIAGGIO

Da circa una settimana a farmi compagnia ci sono i miei genitori e la tosse, quest’ultima fedele compagna dell’insonnia nelle ultime notti.

Ho visitato Cuzco abbastanza bene dandomi il tempo di vedere molte cose che quattro anni fa nemmeno avevo sfiorato. Le cose giá conosciute, invece, le ho osservate chiedendomi ogni volta che impressione ne avevo e che effetto mi avevano fatto la prima volta, cercando piú di indagare me stesso che di valutare quello che avevo davanti. Poco a poco, via dopo via, sono affiorati particolari che avevo dimenticato, ricordi che mi hanno fatto sorridere, aneddoti di un viaggio passato.

Sono tornato a Sachsayuamán, il sito archeologico che domina la capitale dell’impero, la testa del puma; sono in corso degli scavi e la parte piú interessante, le fondamenta della torre di Muyucmarca, é chiusa ai visitatori. Un peccato, é il maggiore centro di energia del luogo, capace di mandare in tilt le bussole, osservatorio astronomico usato dagli studiosi inca. Al di lá di questo, le imponenti mura fanno ancora impressione, il panorama di Cuzco é eccellente e le cose da visitare sono parecchie; ci vuole una guida valida, sicuramente non quella che ha accompagnato noi.

Ho visitato il sito archeologico di Pisac, 32km a nord di Cuzco; belli i resti inca, meravigliosi i panorami del Valle Sagrado, abbastanza penoso il mercato, spacciato ai turisti come uno dei piú veri in Peru; ho visto piú artigianato sudamericano alla Fiera di Senigallia a Milano. Chinchero invece, 3.760m, é una localitá davvero carina, vecchia residenza del sovrano Inca, una chiesa spettacolare, un bel mercatino in piazza ed un tramonto formidabile che riscalda ancora di piú i colori rossastro-marroni dei tetti e delle terre nei dintorni.

Giovedí pomeriggio la partenza verso Aguas Calientes, villaggio costruito attorno alla ferrovia ai lati del Rio Urubamba, base di partenza per la visita alla meraviglia del Sudamerica. Anche qui le cose sono cambiate molto negli ultimi anni, i prezzi sono aumentati spaventosamente, gli alloggi moltiplicati e la vecchia piazzetta spoglia ed accogliente al tempo stesso é stata arricchita (non mi viene un altro verbo in questo momento) da una statua ed una nuova chiesa.

Rispetto a quattro anni fa ho anticipato il mio ingresso al Machu Picchu di un’oretta, ho varcato la soglia dell’entrata alle 6:15 di un mattino nuvoloso ed umido; ho sfiorato un’altra volta la Capanna della Sentinella, ho cercato la stessa pietra di allora ma era giá occupata, mi sono sistemato poco a lato. Questa volta non avevo ansia di scoprire, mi sono semplicemente seduto ad ascoltare quello che questo luogo sacro aveva da dirmi. Ha cominciato a piovere, come quattro anni fa, mi sono chiuso all’interno del mio poncho senza muovermi di un centimetro, calamitato da una magia che niente mi ha mai trasmesso in questo modo. Il paeaggio é apparso per una decina di secondi, tra le grida di visitatori che non capiranno mai questo posto, poi ancora acqua. Alle sette e mezza il solito miracolo, si alza il vento ed il Machu Picchu si presenta in tutto il suo fascino. Questa volta voglio entrare in punta di piedi chiedendo permesso; prima di iniziare a calpestarne le pietre, mi inginocchio appoggiando la fronte sul terreno, poi vado. Ancora il ponte inca, poi dentro le costruzioni, i templi. Alle 11 arriva la guida, purtroppo abbiamo a che fare ancora con un incompetente; dopo una mezz’ora di informazioni interessanti e di bestialitá, realizzo che il meglio che posso fare é allontanarmene. Salgo sulla cima del Wayna Picchu, la montagna che domina il sito sul lato nord, 40 minuti di salita dura, a tratti ferrata; capisco subito che ho fatto la cosa giusta, lassú non arrivano in molti, nessuno alza la voce, le urla animali del vacanziero Alpitour si disperdono qualche centinaio di metri piú sotto, dai 2.700m della cima si ascolta solo il rumore lontano del Rio Urubamba. Il panorama del sito é meraviglioso, la vista sulle montagne ricoperte di vegetazione pluviale é impeccabile, i terrazzamenti costruiti spesso sull’orlo di strapiombi sono un monumento eterno all’ardire ed alla sapienza di questa civilizzazione. Quando scendo sono giá le quattro, mi resta il tempo di pregare alla roccia sacra e di scattare qualche fotografia. A girovagare per questo luogo siamo rimasti in pochi, la quasi totalitá se n’é giá andata verso Cuzco, la magia di questo silenzio parlante cresce ancora. Le porte si stanno per chiudere, siamo rimasti in una decina, mi rendo conto che praticamente non l’ho visitato, non sono stato al Tempio del Sole, non ho studiato i canali di irrigazione, non mi sono soffermato sull’utilizzo dell’osservatorio astronomico dell’Intihuatana, il Tempio delle Tre Finestre, i granai. Come ho fatto a passarci 11 ore senza visitare niente? Mi allontano in fretta perché mancano pochi minuti, mi giro solo un attimo per vederne i contorni scuri in controluce, tramonto drammatico tra nuvole grigie cariche di silenzio, ancora una volta mi inginocchio, questa volta a ringraziare. Questa volta non c’era bisogno di visitarti. Questa volta non c’era bisogno che me ne raccontassero storie e leggende. Avevo solo bisogno di ascoltarti, di toccarti.

Anche quando non lo vedo, arrivato ad Aguas Calientes qualche centinaio di metri piú sotto, ne avverto la presenza forte, carismatica. Nel buio della valle, circondato da cime che quasi nascondono la volta celeste, sento magia attorno a me e laggiú, dietro quella montagna, mi pare quasi di vederlo, mi sembra quasi di intravedere qualcosa che riluce nella notte.

“Il viaggiatore si sente preso da una rara e sconosciuta euforia...Il potere di suggestione del Machu Picchu risiede nella sua stessa presenza”, parole di Juan Larrea, uno che come altri (non la maggioranza) lo ha visitato e lo ha sentito. Per me resterá sempre un luogo sacro, magico con pochi altri. Una parte di qualcosa che ho dentro.

 

 

 

CUZCO (PERU), 24 ottobre 2004

GIORNO 297 DI VIAGGIO

Capitale del´impero Inca, "ombelico del mondo" in lingua quechua, la cittá costruita a forma di puma, in una parola: Cuzco.

Io arrivavo da Urubamba, quando abbiamo scollinato e mi sono apparsi prima i zig-zag del treno che porta alla Valle Sagrada, poi la cittá, un sorriso mi si é aperto spontaneamente in viso; ho riconosciuto a poco a poco le chiese, le piazze, un lampo ed ho visto Sachsayuaman. Dopo tanti mesi di novitá, scoperte, sorprese, arrivare qui é stato come tornare ad un luogo familiare.

Per quanto abbastanza provato, ho girovagato alla ricerca di un posto per dormire e, ragazzi, per quello che pago per il mio alloggio, che é un mini-appartamento, posso dire di aver fatto davvero un affare. Con la precisione di un boia, quasi non volesse interrompere la mia cavalcata massacrante verso Cuzco, non appena appoggiati i bagagli sul pavimento mi é stato presentato il conto delle ultime settimane: decine di passi a 4.000m e oltre, freddo e caldo, carri bestiame, docce fredde ed ore ed ore di viaggi mi si sono scaricati sulle spalle sotto forma di influenza, con problemi allo stomaco, febbre ed ossa a pezzi.

Piú con la forza di volontá che con altro, ho fatto una passeggiata per la cittá, ripercorso le vie che giá conoscevo, ritrovato i mercatini di quattro anni fa, quasi felice di vedere che era ancora lo stesso posto, come se avessi bisogno di sapere che era rimasta la "mia" Cuzco; a momenti ho rivisto il fantasma di me stesso camminare per queste stradine, ho pensato allo Stefano che era passato velocemente da queste parti nel suo primo viaggio in Sudamerica ed avrei voluto poter confrontarmi con lui per vedere quante cose erano cambiate. Le stesse cose le vedo oggi con occhi molto differenti rispetto ad allora, vedo tanti stranieri che un po´ mi mettono a disagio dopo settimane di quasi isolamento, vedo una quantitá di locali, ristoranti, bar, discoteche e negozi che farebbero invidia ad una capitale, vedo tanti mendicanti per la strada coagulati in questa cittá perché la massiccia presenza di turisti offre loro evidentemente la possibilitá si sopravvivere in qualche modo, vedo bambini vestiti in abiti tradizionali con in braccio una pecorella che vanno a caccia di qualche visitante che gli faccia loro una foto in cambio di denaro oppure semplicemente madri che invitano a fotografare i figli dietro relativo pagamento (mi chiedo spesso che differenza ci sia con la prostituzione). Eppure questa cittá mi calamita ancora oggi, mi affascina nonostante le centinaia di cose che ho visto in questi mesi, le mura inca riescono a lasciarmi senza fiato, le viette strette mi regalano il respiro della storia che questa cittá ha scritto negli anni. Una miscela perfetta di fascino architettonico e ricordi personali, di patrimonio culturale e di emozioni vissute in prima persona.

Ancora non mi sono ripreso del tutto anche se va decisamente meglio rispetto a ieri, é pure uscito il sole ad invitarmi a passeggiare. Non ce n´era bisogno, sarei comunque andato a fare una cosa che ieri non sono riuscito a realizzare: Plaza de Armas, una stradina ripida alla sinistra della cattedrale, l´alberghetto dove quattro anni fa io ed i miei compagni di viaggio abbiamo passato le nostri notti cuzqueñe.

 

 

 

ABANCAY (PERU), 22 ottobre 2004

GIORNO 295 DI VIAGGIO

“A quindici-sedici anni non puoi essere madre...”, con queste parole inizieró questa sera il racconto della giornata nel mio diario personale. Questa volta la bambina al mio fianco, etá imprecisata tra i 2 ed i 6 mesi, non ha vomitato, ha cagato, due volte. Ora, io non ho una grande esperienza di bambini ma, figlia mia, se questa si fa addosso i suoi bisogni (scontato precisare che del pannolino manco a parlarne) e tu non le pulisci il culo (scusate la volgaritá) e ti limiti a toglierle la calzamaglia sporca e la appoggi vicino a te, é inevitabile che l’odore acido di merda diventi insopportabile ed é presumibile che la piccola continui a piangere. Piange perché c’é una puzza da fare schifo, perché sembra di stare in una latrina ed é inutile (oltre che abbastanza ridicolo) ficcarle una tetta in bocca per farla smettere, se nun c’ha fame, nun magna. Mi fermo qui, il resto dei fatti in tema capitati oggi e le relative considerazioni le affideró alla discrezione del mio diario; a quelli interessati riporteró a voce, di persona, quello che ho visto e quella che é la mia opinione.

Quello di oggi sí é stato pesante come viaggio; la strada era piú o meno la stessa di ieri, solo un quattro ore in meno, ancora un paio di immancabili passi a 4.000m, peró oggi il bus era pieno pieno, l’aria era pesante e gli appoggia-testa erano ad altezza scapole, cosa che ha messo in ginocchio la mia resistenza. Esattamente come ieri la partenza é avvenuta con meno di un quarto d’ora di ritardo ma questa volta, dopo un paio di kilometri, siamo ritornati alla base “per caricare delle altre persone che venivano con un bus dove c’era la polizia” (parole testuali); inutile chiedere spiegazioni (io mi sono dignitosamente astenuto), quello che parlava, parlava senza sapere nemmeno lui. E cosí, alla fine, ce ne siamo andati con un’allegra mezz’ora di ritardo.

In sintesi: bei panorami, ancora bambini dappertutto, un paio di volte che il bus si inclina fino quasi a ribaltarsi, consuete soste per pisciare con la compagnia che si sparpaglia nei prati.

Adesso Abancay, calda, tranquilla ma senza charme, ancora yogurt deliziosi (questa volta con miele artigianale, mmm...), una stanza con il pavimento in legno che puzza di gasolio e l’ormai abituale aspettativa di partire attorno alle sei del mattino. Dopo 1.405 giorni (giorno piú, giorno meno) torno a Cuzco, non ci saranno tamburi ad attendermi ma credo lo stesso di poter fare un ingresso trionfale, sicuramente a testa alta.

 

 

 

ANDAHUAYLAS (PERU), 21 ottobre 2004

GIORNO 294 DI VIAGGIO

Nonostante la discoteca a fianco, questa notte ho riposato bene e, quando la sveglia ha suonato alle 5:35, ad accompagnarmi c´era solo una piccola sensazione di rincoglionimento dovuto al mal di gola.

Sulle note della versione inglese di 99 Luftballoons (tutta per te, Checca), con meno di un quarto d´ora di ritardo parte il bus, per fortuna c´é poca gente a bordo e questo mi permette di spalmare i bagagli qua e lá senza che viaggino morbosamente abbracciati al sottoscritto. Dopo una decina di minuti di serpentina tra alcune calles strette della cittá, arriviamo ad una piccola rotonda in periferia; delle cinque strade che partono a raggiera, imbocchiamo quella su cui avrei scommesso meno e che mi pareva una via di terra che portava a qualche quartiere malfamato dei dintorni. Niente di tutto questo, la pista in questione é la strada ufficiale che collega Ayacucho ad Andahuaylas e, nel breve spazio di 5 minuti, mi porta nel colorato mondo di polverelandia. Poco a poco comincia l´ascesa al primo passo di 4.000m mentre all´orizzonte Ayacucho pare salutare offrendosi in panorama ai piedi delle montagne attraversate solo un paio di giorni fa. La salita non é particolarmente feroce ma inesorabilmente scompare la vegetazione e le cime si fanno arrotondate. La discesa invece regala alcune belle strettoie affiancate da burroni che mi tolgono il sonno, alla fine saranno 2.000 i metri di dislivello necessari ad arrivare ai 2.000m della vallata sottostante dove ad attenderci troviamo un fiumiciattolo che seziona un paesaggio semidesertico ricco di cactus e sassi. Cacchio comincia a fare caldo ma, ovviamente, ecco un´altra ascesa a 4.000 metri; valicato anche questo secondo passo, al lato della pista fa la sua comparsa un rigagnolo di acqua irrobustito dalla spruzzata di neve caduta nella notte (per cosí poco l´ho mancata!): il paesaggio si fa piú rigoglioso e la discesa avviene in mezzo al verde ed a tranquilli villaggi andini.

10 ore esatte dopo la partenza, l´arrivo ad Andahuaylas (2.700m e spiccioli). Scendo volentieri ma, in definitiva, il viaggio si é rivelato assolutamente sopportabile; nessuna crisi di nervi, nessun esaurimento, nessun dolore alla schiena, nessuna nevrosi alle gambe. Anche in questo caso devo scrivere: ho fatto di peggio. Mi viene il dubbio che agli autori della mia guida manchino alcune esperienze "rough and terrible" per dirla con le parole che loro stessi usano.

In quello che assomiglia piú ad un mercato delle vacche che ad un ufficio di una compagnia di trasporti, compro il biglietto per Abancay, partenza domattina alle 6:30 (bene, non devo cambiare l´orario della sveglia).

Nella mia passeggiata per la accogliente e simpatica Andahuaylas faccio l´affare della giornata: un té caldo (finalmente, la mia gola esulta), una brioche ed uno yogurt fatto in casa con marmellata di frutti di bosco a poco piú di mezzo euro. Quest´ultimo era una cosa da svenire.

 

 

 

AYACUCHO (PERU), 20 ottobre 2004

GIORNO 293 DI VIAGGIO

Notizie dal Peru: incidente ieri nella capitale, Lima, un auto é stata travolta da un carro armato. Le cause del sinistro paiono essere riconducibili alla scarsa manovrabilitá del blindato. Domanda: e allora perché lo mandano nel traffico cittadino? Mah...

Il mal di gola gioca a nascondino, un giorno viene, un altro sparisce. Io continuo a buttare giú concentrati di carote, mele, banane, uova, maca, algarrobina ed assimilabili, a qualcosa servirá.

Poderosa dormita finalmente e, dopo quasi tre settimane, ho trascorso un giorno senza muovermi, fermo qui in cittá a sistemare alcune cose prima delle prossime venti ore di viaggio. Lavato vestimenti e, con un perentorio colpo di mano, ho messo sotto una sarta a ricucire i jeans ormai ridotti a brandelli: ho risparmiato cosí un acquisto futile. Non lo stesso si puó dire per l’artigianato, settore che continuo a foraggiare quasi fossi un istituto di credito; oggi ho comprato delle eccellenti pietre locali lavorate a mano (ottime per zavorrare all’inverosimile i bagagli) e personalizzate al momento, un cappello usato da un indigeno delle montagne (da appendere al muro, strepitoso) ed una maschera cerimoniale inca in legno che rappresenta la luna.

Possibili implicazioni future in loco.

Ciao

 

 

 

AYACUCHO (PERU), 19 ottobre 2004

GIORNO 292 DI VIAGGIO

La mia bandiera sventola da ieri notte orgogliosamente anche ai 4.650m di Santa Inés. Strada piú alta del mondo e notte in quota, tutto timbrato con la precisione di un orologio svizzero.

Ieri pomeriggio, poco dopo aver scritto l’articolo, ho trovato un bus che passava per Santa Inés, partenza alle 18 locali in contemporanea con l’inizio di un temporale (“cominciamo bene” ho pensato). Poco a poco l’acqua diminuisce di intensitá e, per quanto la notte rimanga buia, in cielo la luna disegna i contorni delle nuvole. Dopo un’ora abbondante il Paso Abra Concha con tutti i suoi 4.853m sulle mie spalle ed un silenzio irreale, condizione fisica dello scrittore: disagio strutturale. La testa che oscilla da una spalla all’altra, gli occhi che si chiudono, respiro a momenti pesante, per fortuna si comincia a scendere. Scendo a Santa Inés alle 21:45, il cielo ancora annuvolato(“pazienza per le stelle, é giá molto essere qui” mi dico), la sola luce di un ristorante ad illuminare la scena, passo la strada e prendo alloggio per un euro e mezzo: stanza stile rifugio alta montagna, un comodino, un letto con 7 strati di coperte ed una candela. Ceno con l’ormai abitudinaria trucha frita (trota fritta) con un infuso caldo di un’erba incomprensibile. Mangio in fretta e lascio il tavolo, esco e...la sorpresa: un cielo completamente libero dalle nuvole, mi allontano velocemente da quell’unica luce e pensieroso mi dirigo nel buio lungo la strada velatamente illuminata dalla luna. Silenzio, silenzio e silenzio, l’unico a disturbare é il generatore del ristorante ormai in lontananza. Ancora una volta non ci ho capito niente di queste costellazioni ma quello che mi premeva dirgli, gliel’ho detto. Impeccabile assestamento fisico all’altitudine sotto le coperte con 3 roboanti squilli di trombone.

Questa mattina sono uscito dal covo alle 5:30, una camminata tra la pampa imbiancata dalla brina, poco lontano una laguna, le montagne all’orizzonte, nuvole grigie che si avvicinano. Aspetto il minibus delle 7, un’ora fino a Rumichaca, la prima mezz’ora spensierata giocando con Britney, nove mesi d’etá e la convinzione che il mio dito indice fosse un delizioso giocattolo da stringere tra le mani.

“Il difficile é arrivare a Rumichaca, da lí la strada é asfaltata e passano decine di pullmann diretti ad Ayacucho” il ritornello delle ultime ore. In effetti la strada é asfaltata ma siamo in Sudamerica e di certezze ce ne sono poche; ieri pomeriggio ha ceduto un ponte e la fila ai due lati dello stesso é contenuta solo perché da queste parti si vedono piú lama che esseri umani. I miei bagagli trovano riposo su una pompa di benzina, io gioco per strada con un sasso, passa un bus che ha guadato il torrentello ma tira dritto perché é strapieno; ci sará occasione per un nuovo incontro. Il sole se ne va risucchiato dalle nuvole, comincia a gocciolare, il freddo si fa un poco fastidioso. Sará fortuna? L’affetto di tanti amici che mi seguono con passione? Le preghiere di mia madre? Sará che gli audaci hanno un santo protettore particolare? Sará il rito quechua di buon viaggio che avevo fatto prima di lasciare Santa Inés? Non lo so, ma, come altre volte, una mano dal cielo scende a tirarmi fuori dagli impicci; dopo 2 ore di attesa aprono il ponte e cominciano a passare i pullmann, salgo sul primo in mezzo a poche persone estenuate da 17 ore di sosta forzata a 4.000 metri. Un’altra salita fino a 4.600m, altre decine di kilometri in altura, centinaia di lama al pascolo, montagne arancioni; non mi vergogno a dire che mi sono commosso un poco. Durante la discesa, fermo ad un lato della strada, il bus che non mi aveva caricato: il vetro anteriore sfondato ed una pozza di benzina sotto una ruota, all’interno i passeggeri in attesa di qualcuno che li carichi.

Ed ora Ayacucho, 2.740m ed un centomila abitanti, negli ultimi 40 anni laboratorio di idee e sogni “alternativi”: culla negli anni ’60 del movimento rivoluzionario ELN, punto di appoggio basilare in territorio peruviano di quella che sarebbe dovuta essere la revolución continental del Che Guevara e capitale nel decennio degli ’80 della guerriglia maoista Sendero Luminoso, nato e cresciuto all’interno dell’universitá locale. Cittá decisamente piacevole, pulita e piena di belle chiese, attiva, pulsante, mi ci sto trovando bene.

Ho dovuto ricorrere alla giá sperimentata bomba energetica di frutta, uova ed intrugli vegetali perché a momenti mi mancano le coordinate, questa notte punto ad un efficace riposo ristoratore. Domani vorrei andare a Huari, il primo villaggio amurallado del Sudamerica e trascorrere qualche ora rilassato per le vie ed i mercati di Ayacucho.

Dopodomani il pullmann parte alle 6:30, 10 ore circa di viaggio lungo la giá ampiamente citata “terrible road”, destino Andahuaylas; il giorno seguente ad attendermi sará il bus per Abancay, altre 6 sballottanti ore di strada (o sentiero?) fino ad Abancay. Da lí dovrebbero essere una gita scolastica le 5 ore di asfalto fino a Cuzco, ma siamo in Sudamerica, no?

 

 

 

HUANCAVELICA (PERU), 18 ottobre 2004

GIORNO 291 DI VIAGGIO

Un po' di fastidio alla gola, forse qualche linea di febbre ma il giorno che aspettavo é arrivato e non sono venuto fin qua per stare a letto.

"...the roads climbs steeply with switchbacks between herds of llamas and alpacas ggrazing on rocky perches...", "...road conditions are terrible...", "...roads, all dirt, are in poor conditions, sometimes impassable in the rainy season...", "...roads are amazingly rough...count kilometres diligently to keep a record of where you are..."; frasi come queste, lette in un pomeriggio o sera italiani qualsiasi hanno reso il viaggio da Huancavelica a Ayacucho una delle miei traguardi principali di viaggiatore. Atteso e sperato da quattro anni, sognato ed immaginato non so piú quante volte, finalmente il momento per vivere tutto questo é arrivato: mi sporgo dalla finestra e vedo le montagne che mi aspettano con un sorriso enigmatico, il cielo si sta annuvolando e spero che il tempo sia clemente. Da adesso in avanti gli occhi servono per osservare e non per leggere, l'animo per respirare e non per fantasticare.

Dopo il viaggio sfibrante in treno (7 ore e mezza invece che 5, arrivo in piena notte a Huancavelica) il primo problema; la guida mi lascia in panne, da qui è difficile passare per dove voglio io, oltre che per le condizioni della strada anche per la carenza di mezzi di trasporto, meglio sarebbe percorrere al contrario la strada di ieri di un paio d'ore e prendere un bus diretto per Ayacucho. In questa pausa di riflessione nella quale scrivo non ho ancora ben chiaro come e quando mi muovo da qui ma una cosa é certa: io indietro non torno.

Da Huancavelica ho tutta l'intenzione di dirigermi a sud, salendo fino ai 4.853m del Paso Abra Concha per poi scendere e passare la notte a Santa Inés (4.650m); voglio arrivare a carezzare le stelle, scambiare con loro quattro chiacchiere e dormire al loro fianco. Per me sarebbe il posto piú alto in cui avrei dormito. A qualche decina di kilometri, a 5.059m, vedrei il passo piú alto del pianeta. Arrivare ad Ayacucho per questa strada significherebbe percorrere la "strada piú alta del mondo", raramente al di sotto dei 4.000m per 150 kilometri; passare attraverso altipiani abitati tra piú alti sulla Terra. Una bella sfida a me stesso, considerato il freddo che giá ho trovato qui a 3.680m: impossibile che non ci siano trasporti, devo solo guardare un po' meglio e parlare con le persone giuste. Ce la faccio, non esistono dubbi al riguardo.

Sará una patologica neccessitá di muoversi o la fame di sapere? Io la chiamo semplicemente voglia di strada e cosí ecco che, dietro a questa mini-avventura, dietro Cuzco e gli altipiani andini, dietro il Lago Titicaca, in questi ultimi giorni é sorta all'orizzonte la prossima destinazione con la "D" maiuscola, il prossimo obiettivo, la prossima meta: La Higuera (Bolivia).

Un saluto a tutti, vado a fare quello che va fatto.

 

 

 

HUANCAYO (PERU), 17 ottobre 2004

GIORNO 290 DI VIAGGIO

Da quanti ci conosciamo, Ferdi? 24? Di piú? Ne abbiamo passate tante insieme, a Feltre o in giro da qualche parte. Non voglio che la nostra amicizia si sciolga, vorrei essre lí di persona a spiegarti, per essre sicuro che tu capisca, ma purtroppo devo farlo tramite internet. Come iniziare? Sí, insomma...beh, l’altra sera con l’immancabile pollo e patatine, ho ordinato una Inca Kola...non ti agitare per favore e, come temevo, l’ho anche abbastanza apprezzata. Spero che questo fatto grave non intacchi la tua stima nei miei confronti, perché giá la mia nei miei confronti é scesa particolarmente.

Incredibile cosa possa fare la suggestione, la fantasia, l’attesa. Da quando sono venuto in Peru la prima volta, quattro anni fa, ho sempre letto affascinato le righe della guida su La Oroya, avamposto degli altipiani andini per chi arrivi via terra da Lima, sede della stazione a scartamento doppio (si dice cosí?) piú alta del mondo. Me la sono immaginata in mille modi, disegnata in chissá quante forme diverse, sperando un giorno di passarci, beh l’altro giorno eccomi lá, di passaggio da Huánaco a Huancayo; pur nel suo squallore, sporcizia ed inquinamento (uno dei posti meno indicati per chi soffre di asma, dicono) mi ha emozionato. Non riuscivo a vederla serenamente, per me era uno dei tanti posti immaginati ed attesi da tempo, era come un traguardo sperato nelle mie letture di viaggio: non importa le ciminiere, la confusione, la sensazione di soffocamento, io avevo occhi solo per le strane ed originali formazione geologiche delle montagne che stanno attorno, per il cielo verniciato d’azzurro e puntellato da nuvole color argento. Per qualche secondo ho visto la stazione che mi ha reso questa cittadina un obiettivo, per me é stato sufficiente cosí.

Prima di arrivare a Huancayo, una bella valle aperta, con colori caldi quasi simili a quelli dei nostri autunni in collina, nuvole basse che sembra si possano toccare con un dito. Huancayo é una cittá piena di vita, c’é sempre tanta gente per strada, durante il giorno e la sera, una bella Plaza de Armas ed un artigianato notevole; nei villaggi nei dintorni, poi, si possono ancora vedere gli artigiani alle prese con i telai mentre tessono tappeti e copriletti, oppure si puó visitare San Jeronimo, una delle capitali peruviane dell’artigianato in argento. Il tutto in colectivo oppure a piedi, seguendo le rotaie che si perdono nell’orizzonte infinito della Valle Mantaro, tra pecore e vacche al pascolo.

Huancayo mi regala inoltre una piacevole sorpresa, succhi naturali (o extractos, senza aggiunta di acqua) a prezzi ridicoli (meno di mezzo euro). Ieri ho provato il cosiddetto extracto mixto: carote, mela, papaya, banana, latte, un uovo, esencia di vaniglia, cannella in polvere, algarrobina (un estratto vegetale che tonifica tutto) e miele. Una bomba energetica; cos’é che si rischia con le uova fresche? Non mi ricordo, salmonellosi? Beh, ‘sta roba qua é il mio attuale pensiero.

Notizie sul fronte sanitario: non erano pulci quelle che mi martoriavano, mi ha spiegato un simpatico peruviano, ma moscerini assassini (con inclinazioni al vampirismo, aggiungo io) molto frequenti nelle zone di Huaraz e Huánaco in questo periodo. A titolo di curiositá riporto il numero di punture che ho contato nell’avambraccio destro: 133. Le pioggie hanno fatto la loro prima timida comparsa. Niente di particolarmente grave, ma se comincia seriamente non so proprio come arrivarci a Cuzco. Oggi alle 14 partenza in treno, dai 3.271m di Huancayo ai 3.781 di Huancavelica, 38 tunnel, 5 ore di viaggio per 142km attraverso villaggi andini sparpagliati lungo la linea ferroviaria. Il problema piú grande é diventato il trasportare la mole di prodotti artigianali di cui ancora ieri mi sono appesantito: una sciarpa, due arazzi, cinque tappeti. Non ho studiato ingegneria ma é arrivato il momento di usare le nozioni basilari che conosco.

 

 

 

HUÁNACO (PERU), 15 ottobre 2004

GIORNO 288 DI VIAGGIO

L´ultima volta che avevo visto un tale ammassamento su un mezzo di trasporto era stato circa un anno fa sulla Milano-Venezia, peró quello era un camion che trasportava maiali; stritolato su un sedile di un bus, con la borsa sulle gambe e addosso di tutto (mani, braccia, piedi), ho percorso oggi il tratto di strada tra La Unión e Huánaco, 6 previste trasformatesi poi in 7 e mezza a causa delle continue soste a raccogliere gente e della necessitá di guidare con prudenza per evitare che cadessero persone dal tetto.

Decisamente negli ultimi giorni la cosa si é fatta pesante, un po´ per la zona che sto attraversando, un po´ per mala suerte. Un paio di giorni fa, il bus delle 16 si é presentato con un paio d´ore di ritardo a casua di una festa paesana che ne aveva bloccato il passaggio. Come? Semplice, riempiendo di pietre l´unica via del villaggio. Ieri il pullmino che avrebbe dovuto portarmi fino a La Unión ci ha scaricato in un´altra cittá perché problemi di documenti (non in regola, ovviamente) non gli permetteva di arrivare a destinazione; come non bastasse, appena saliti sul nuovo piccolissimo mini-van ho quasi perso una lente a contatto. Ho cercato di tirare avanti il piú possibile, alla fine alla prima sosta l´ho tolta e rimessa con immensa gioia dell´occhio sinistro che si é visto depositare un concentrato di polvere e gas di scarico. Nell´hostal in cui ho preso alloggio (non che avessi molta scelta, peraltro) le pareti che dividevano le stanze erano di compensato, l´ideale quando si hanno al lato destro una bambina ben riposata in vena di giocare e gridare ed al lato sinistro una motosega umana di fabbricazione sudamericana; non bastava, alle 3 adunata generale in corridoio con il caratteristico vociare tipico delle persone prive di rispetto per gli altri. Vabbé, osservo con attenzione e curiositá il mio avambraccio destro massacrato da punture non so ancora se di un insetto locale o di pulci (ancora). E poi il carro bestiame di cui sopra: la bambina al mio fianco si gira di scatto e vomita sul maglione della madre, la quale da circa due ore teneva appositamente in mano un sacchetto. A me rimane solamente da assaporare il profumo. Poco piú avanti, quasi contemporaneamente (mezzogiorno dev´essere un´ora critica per i bambini di queste zone) un´altra bambina si caca addosso: causa il muro di persone non vedo lo svolgersi delle operazioni ma immagino la perizia che ci sia voluta per ovviare al danno in mezzo ad una ressa del genere. La sorellina, un poco piú adulta e quindi piú smaliziata, alla sosta pranzo scende, si allontana di ben un paio di metri e, sul ciglio della strada, si cala i pantaloni e piscia; la vedo impegnata ed infatti a seguire comincia a produrre una quantitá di merda (molliccia e di colore chiaro per i piú interessati all´argomento) dalle proporzioni inusitate. In zone e tra gente dove il pudore ed il senso civico si leggono solo sul vocabolario, non mi faccio il benché minimo problema ad estrarre la macchina fotografica ed a immortalare il momento. Non pubblico la foto perché sul sito c´é scritto che é vietata la riproduzione di immagini scabrose di minori. Arrivata in albergo scopro che una tasca dello zaino é ripiena di crema doposole (brasiliana oltretutto, immaginarsi la qualitá); ovviamente qualcuno gli si é seduto sopra sul tetto. Eh sí, stanco, affamato e pieno di pulci, sono tuonate un bel po´ di bestemmie dalla stanza 212 mentre mettevo tutto il mio ingegno per ripulire il tutto.

Insomma, giorni abbastanza impegnativi, come previsto; se é una serie di concidenze fortuite, non mi preoccupo, se é una prova di forza, sono pronto. La mia resistenza ormai ha raggiunto dimensioni galattiche.

 

 

 

HUARAZ (PERU), 13 ottobre 2004

GIORNO 286 DI VIAGGIO

Dai miei appunti di viaggio:

“Altri 4 giorni in zone di cui diligentemente prendo nota nella sezione ‘note’ della mia guida perchè non compaiono nelle mie cartine. 4 giorni tra paesaggi che mi esento dallo descrivere nei dettagli per non sminuirne la bellezza; ad ogni angolo una montagna imponente, una valle abissale, strade sul limite di burroni senza prova d’appello. 4 giorni tra villaggi in cui regna il silenzio, solo sporadicamente disturbato dal rumore di qualche motore che arriva e se ne va nel nulla. 4 giorni immerso nella gente andina, custode storica di queste terre, circondato da bambini capaci con la loro presenza di turbare la mia serenità. Li osservo da giorni, a volte quasi maniacalmente, domandandomi se i loro occhi mi parlano di pace assoluta o di apatica rassegnazione. Penzolano quasi inermi dalle schiene delle madri con i loro grandi occhi scuri che sembrano studiare il vuoto, camminano incerti ciondolando nei loro vestiti sporchi e strappati, le guance scure segnate dal sole delle Ande. E i loro silenzi, lunghi, eterni, come insensibili a quello che attorno sta succedendo; sballottati nei bus, urtati dalle persone, castigati dal sole accecante o perseguitati dal freddo tagliente, non una parola, non un mugugno, un pianto, parlano per loro gli occhi che di tanto in tanto ruotano da una parte all’altra o le manine protese verso chissà che. Cammini per strada e li trovi seduti per terra, da soli, oppure che vanno su e giù per le vie ripide e sterrate di questi avamposti di case tra le montagne; ti guardano, ti fissano e sembra che ti stiano scavando dentro. Ti muovi in bus e li vedi, ancora soli, sull’uscio di casa, oppure in lontananza seduti sul prato, oppure ancora che litigano con un pezzo di legno o con qualche sasso; si fermano un istante, come interrotti, ed osservano ingenui il mostro a quattro ruote che solleva nuvole di polvere e sparisce nello spazio di un attimo. Non sanno che, da qualche finestrino, qualcuno li sta guardando angustiato. Bambini che mi verrebbe voglia di abbracciare o con i quali vorrei anche solo giocherellare, bambini che però mi fanno venire rabbia quando li vedo sporchi, o con le mani luride in bocca, quando si spalmano il cibo sul viso o sulle magliette mentre cercano di mangiare o quando raccolgono per terra qualcosa da ingerire, quando si rotolano per strada o puliscono il pavimento con le mani. E’ anni che li osservo ed ancora oggi mi stupisco nel vederli così indipendenti da piccoli e così sorprendentemente maturi, cresciuti rapidamente in una realtà che li vuole autonomi in fretta; alcuni dicono privi di futuro e sull’orlo della fame, concordo ma aggiungo liberi dagli effimeri tormenti esistenziali e dagli isterismi sociali della nostra perfetta società occidentale. Rabbia e tenerezza, fastidio e compassione. Una miscela di stati d’animo che mi ribolle dentro in continuazione ed alla quale da giorni cerco di dare senza successo una spiegazione logica.

Questi giorni quasi rimangono privi di una connotazione temporale, ho percorso un viaggio senza tempo sulle Ande, scoprendomi a rivisitare i miei quasi 32 anni attraverso i visi e le espressioni della gente Quechua. Non ho trovato nemmeno una risposta, ma mille domande in più, quelle sì”.

Un fiume di parole servirebbe per raccontare tutto il resto di questi pochi giorni ma, francamente, mi sembra superfluo. Regalo un’immagine, una sola, un istante che, assieme a decine di bambini, popola gli ultimi minuti prima di addormentarmi: in bus, ascesa ai 4.370m del passo ‘sa Dio che’, un’ora dopo l’arrivederci del sole, quasi buio completo, oltre il bambino al mio fianco che mi fissa stralunato mentre la madre lo allatta, le pendici interminabili di una montagna. Tra decine di terrazzamenti e cultivos che danno allo scenario un’aria geometrica, una luce silenziosa, una casa isolata; un perplesso ma affascinato punto interrogativo, una immensa ed incommensurabile sensazione di pace interiore.

 

 

 

HUARAZ (PERU), 8 ottobre 2004

GIORNO 271 DI VIAGGIO

Alle 5 e mezza di questa mattina arrivo alla stazione degli autobus di Trujillo (una delle tante, da queste parti ogni compagnia ha la sua), dopo un breve tira e molla tra autista e bigliettaio salgo sul bus, appoggio delicatamente lo zaino sul cruscotto e sprofondo nel sedile.

Quando apro gli occhi trovo attorno a me ciminiere, strade sporche, confusione ed un cielo coperto un po’ dalla nebbia, un po’ dalle nuvole: sono a Chimbote. Aspetto un’oretta e cambio bus, direzione montagne. Usciti dalla città, si entra in una valle di sassi e polvere, sparisce quasi completamente la vegetazione; nelle successive sei ore passerò attraverso uno dei più bei panorami che io abbia mai trovato in Sudamerica, questa volta sì da togliere il fiato. Sassi, sassi e sassi, la strada uno sterrato continuo, montagne enormi con pareti spesso quasi perpendicolari, rocce con diverse tonalità di rosso e, per finire, un cañon strettissimo (a occhio e croce non più di un centinaio di metri) con, al lato della strada, un burrone che butta dritto su un torrente impetuoso. L’ultimo paio d’ore trascorrono salendo da 2.000 a 3.000 metri in un altipiano abbastanza ampio con finalmente un po’ di vegetazione; sul lato est, maestosa, la Cordillera Blanca, picchi oltre i 6.000m con ghiacciai che paiono caderci addosso. Arrivato a Huaraz, faccio appena in tempo a godermi uno spettacolo di nuvole arancioni che abbracciano cime coperte di neve, paradiso di alpinisti e scalatori di tutto il mondo. Mentre cammino svagato alla ricerca di una camera, un paio di ragazze mi chiedono se possono farsi fotografare con me; seduto e leggendo la guida per capire dov’ero finito, un’altra mi si siede a fianco e mi chiede se le posso dare il mio indirizzo di posta elettronica. Parrebbe che esercito un certo fascino, oltretutto è venerdi sera, tutto coinciderebbe perfettamente...se non che sono io: tra una mezz’oretta, alle 21:30, vado in camera a perdermi sognante nelle mie letture.

 

 

 

TRUJILLO (PERU), 7 ottobre 2004

GIORNO 280 DI VIAGGIO

Chan Chán sta a 5 kilometri da Trujillo, localitá che contende ad Arequipa il titolo di seconda cittá peruviana dopo l’obrobriosa Lima. E’ la piú grande cittá costruita in mattoni (crudi) al mondo, dichiarata Patrimonio dell’Umanitá negli anni ’80 (mi pare nel 1986) con due fondamentali vincoli: fosse “asportata” la strada asfaltata che passava sopra i resti del piú grande palazzo e venissero allontanate le persone che abusivamente si erano impossessate di parti dell’antica cittá per viverci. Niente rispetto delle condizioni, niente denaro: in questi quasi vent’anni non é arrivato un dollaro.

La cittá, come molti dei resti delle antiche civiltá di queste zone, é da centinaia di anni in balia delle condizioni atmosferiche per cui c’é abbastanza poco da visitare, oltre a questo la guida non mi é parsa particolarmente brillante, soprattutto alle mie domande. Come accade alle volte, piú delle nozioni e i dati restano impresse nella memoria le sensazioni e cosí di questo pur meraviglioso sito mi porteró dentro la sensazione di solitudine ed abbandono della cittá, con il sibilo del vento tra le mura ed il rumore imperioso dell’oceano ad un kilometro di distanza.

All’altro lato di Trujillo le piramidi Huaca del Sol e Huaca de la Luna, civiltá Moche, un’altra civiltá pre-incaica (secc. I-VIII). La prima costruzione, di carattere amministrativo-politico, é (ancora) la piú grande al mondo (in mattoni crudi) ed in generale una delle piú grandi in Sudamerica, tuttavia non é visitabile. Nella seconda, invece, sono state portate alla luce negli anni ’90 alcune pitture o bassorilievi rappresentanti l’unica divinitá Moche, Ai Apaec, dio delle montagne; la piramide aveva funzione religiosa e, particolarmente durante i devastanti fenomeni passati del Niño, vi avvenivano cerimonie basate su sacrifici umani. Anche qui la cronica carenza di fondi rende difficili i lavori di scavo (superfluo precisare che ho chiesto se potevo fermarmi a lavorare).

Le mie visite (e studi) delle civiltá pre-incaiche del nord finisce qui, domattina la sveglia alle 5 fa da preludio al “ballo” delle prossime settimane: scalo a Chimbote, poi l’ascesa fino ai 3.000m di Huaraz e l’abbraccio alla Cordillera Blanca. Le grandi montagne mi aspettano.

 

 

 

CHICLAYO (PERU), 4 ottobre 2004

GIORNO 277 DI VIAGGIO

Sará che negli ultimi mesi ho viaggiato per montagne, mare e foresta, peró a me questi paesaggi desertici, dune di sabbia, pianure aride di vuoto assoluto continuano a lasciarmi a bocca aperta mentre rimbalzo da un posto ad un altro. Poco distante da queste parti, quello che viene considerato il deserto píú grande del Sudamerica.

Dopo Piura, Chiclayo é un’altra piacevole sorpresa, abitata da persone squisite, animata ma al tempo stesso tranquilla e sicura, sorvegliata da un sole feroce ma battuta da un costante (al di fuori dell’estate) vento fresco: maniche corte durante il giorno, giubbotto pesante dopo il tramonto.

Oggi ho visitato il sito archeologico di Túcume, capitale del regno Lambayeque, fondata nell’anno 1000, conquistata dagli Inca nel 1470 ed abbandonata nel 1533. Piramidi di terra di dimensioni considerevoli, scavi ancora in corso; scusate la barbara ignoranza, ma senza guida ci ho capito ben poco. Un paio di settimane fa é passata da queste parti una troupe di fotografi italiani, probabile che tra qualche tempo comparirá qualche servizio a riguardo.

La prioritá al momento é quella di ovviare ai problemi intestinali regalatimi da un’insalata mista (mista con cocktail di batteri). Niente di particolarmente grave ma apprezzabile come non mai il cesso a lato delle piramidi.

La notizia del giorno questa volta viene registrata alla voce “cultura e tempo libero”: le bionde non sono piú di moda. E che facciamo, mi domando? Le cestiniamo?

A quelli che mi seguono con passione, un piccolo ricordo in allegato, senza effetti speciali ma ricco di poesia e significati.

Un abbraccio dal Sudamerica

 

 

 

PIURA (PERU), 2 ottobre 2004

GIORNO 275 DI VIAGGIO

Nel giorno interamericano dell’acqua, simpatica la sfilata di bambini per le vie della cittadina per sensibilizzare la gente al problema.

Gli occhi sbarrati ed il viso smarrito mi fanno capire che nemmeno all’Ufficio del Turismo hanno idea di quello che sia il punto più a ovest del Sudamerica (più tardi scoprirò che anche a pochi kilometri di distanza nessuno sa niente); me lo trovo da solo, mezzi per arrivarci compresi. Gli ultimi kilometri a piedi sotto il sole ed in mezzo ad un paesaggio desertico mi sono ancora impressi davanti agli occhi. All’estremitá che piú estremitá non si può, non una targa, un segnale, un cartello, davanti a me solamente l’oceano battuto da un vento spietato, a farmi compagnia un paio di leoni marini e, a poca distanza, un tranquillo gruppo di fenicotteri. Silenzioso e solitario sono rimasto seduto a guardare il niente e ad ascoltare il vento, in uno di quei momenti regalati apposta per guardarsi indietro e fare un bilancio; ho ripensato agli altri “estremi” che avevo toccato o avvicinato, come ci ero arrivato ed ho realizzato quanto ho macinato in questi mesi. Con oggi ho chiuso il mio abbraccio simbolico al “mio” Sudamerica, ho provato soddisfazione, felicità ed orgoglio, azzarderei anche una sensazione di appagamento...durata lo spazio di una frazione di secondo.

La notizia del giorno è la minaccia di George W. Bush di estromettere il Peru dal Trattato di Libero Commercio (capirai, per come funziona...) se questo non provvede a risolvere in fretta i contenziosi in sospeso con le imprese nordamericane. Mi piacerebbe sapere cosa pensa questo signore a proposito delle pendenze legali che durano da 25 anni di alcune compagnie petrolifere statunitensi per i disastri ambientali e sociali provocati nell’Amazzonia ecuadoriana. Probabilmente non pensa niente, lui agisce.

 

 

 

PIURA (PERU), 1 ottobre 2004

GIORNO 274 DI VIAGGIO

Uauh! Nove ore tirate di viaggio, pullmann, camioncino, taxi colectivo ed ancora bus ma una bella giornata stancante da ricordare con piacere. Si viaggia verso un passaggio di frontiera poco usato dagli stessi ecuadoriani e peruviani, men che meno da stranieri. Spettacolare e divertente: spettacolare per i paesaggi, all’inizio montagne colorate di un verde “alpino”, poi dietro l’angolo sparisce la vegetazione, poi compare in fondo alla valle un’oasi di vegetazione, si sale e si scende di continuo, da 3.000 a 2.000 poi ancora a 2.800 ed ancora in picchiata finché per fortuna ci fermiamo per una sosta perché comincia a girarmi la testa. Valicata l’ennesima montagna entriamo in una valle le cui montagne sono popolate di alberi fantasma, solo tronchi e rami secchi senza alcuna foglia, spettrale ma tremendamente attraente. Divertente perché inframmezzato da soste incomprensibili ed assurde, un esempio su tutti perché l’autista ha fame. Noblesse oblige dopo un paio d’ore di viaggio: si ferma il pullmann, una signora sulla settantina, spazientita, si improvvisa capo-popolo e protesta con vigore perché siamo in ritardo, “Allora, andiamo o no? Siamo giá in ritardo di mezz’ora!”. “Deve dirlo all’autista, signora”- risponde serafico il cobrador (quello che raccatta i soldi dei biglietti ai passeggeri) – “é in bagno”. “Ma cosa sta cagando! E’ mezz’ora che é lí dentro! Cos’ha, la diarrea?”. Non é mai troppo tardi per rivelare il sangue blu che scorre nelle vene...

Non c’é niente da fare, queste zone prossime alla frontiera esercitano su di me un fascino particolare. Perché? Forse perché abitate da gente solitamente dall’apparenza solitaria? Perché si respira un’aria di lontananza dal proprio Paese? Perché sembra di vivere in un limbo territoriale senza padri né padroni? Non lo so, peró ancora oggi ho sentito questa strana e forte attrazione.

Dopo i soliti e ripetuti tentativi di “furto al gringo”, un camioncino mi porta alla frontiera: bella, bella ed ancora bella, cinque persone tra lato ecuadoriano e lato peruviano, un silenzio quasi irreale, appena percettibile il rumore delle due bandiere che sventolano stanche mosse dal vento caldo che pare asfissiare anche la volontá di pensare. Il consueto paio di timbri svogliati, una ventina di dollari cambiati al volo in soles, poi un catorcio a quattro ruote carico di bombole di gas (cariche ovviamente) si muove verso Sullana, la prima cittadina peruviana di una certa dimensione. Il primo Peru ha i colori e le forme di una signora che scientemente ma di malavoglia elargisce tangenti ai poliziotti sulla strada per non vedersi confiscate le suddette bombole (contrabbando il reato in oggetto), colline sabbiose e panorami semi-desertici, una cappa indefinibile che offusca il colore del cielo, una strada quasi perfettamente diritta per kilometri e kilometri, capre e galline che attraversano stancamente la strada, giovani a torso nudo e pantaloni corti sulla soglia di capanne di legno e paglia, risció motorizzati dallo charme orientale ed un tramonto rosso fuoco come da tanto non vedevo. La sensazione di questi momenti? Il primo giorno di vacanza dopo la fine della scuola.

Quando arrivo a Piura é giá buio pesto e regna sovrana la confusione dei clacson e delle macchine. In tutto questo bailame di spostamenti ho dimenticato due cose basiche del viaggiare: controllare quanto vale il sol su dollaro ed euro e ricordare che giorno della settimana é. Lentamente anche i miei principi basilari vanno alla deriva. La prima sensazione é buona, come tutte le localitá dal clima caldo decine e decine di persone sono riversate per le strade a passeggiare e chiacchierare (uno shock per il sottoscritto che da settimane non scendeva sotto i 1.500 metri), Internet costa un terzo di quello che costava in Ecuador ed i pasti un poco piú della metá.

Tutta per voi, Ferdi e Scap: Desde 1935, hay una sola y el Peru sabe porque. Che sará mai? Inca Kola! Beh, anche noi tre immaginiamo perché ce n’é una sola.

Salendo ad una montagna il seguente cartello in legno: la mejor definición de lo que somos es lo que hacemos (la migliore definizione di quello che siamo é quello che facciamo).

Let it roll, baby, roll, all night long.

 

 

 

LOJA (ECUADOR), 30 settembre 2004

GIORNO 273 DI VIAGGIO

Rinforzato il buon umore per la telefonata di un grande amico, ieri mattina mi sono svegliato alle 5:15, un’occhiata alla stazione, le ultime cose dentro allo zaino, poi via dall’albergo. Il treno da Riobamba a Alausí é probabilmente la cosa in assoluto piú turistica in Ecuador, un must per tutti, dal panzone in perenne affanno allo zainista (libera traduzione di mochilero o backpacker) piú scapestrato: la cosa che attrae molti é sicuramente il fatto di poter viaggiare sul tetto del treno e non negli scompartimenti, non a caso oggigiorno pressoché solo stranieri percorrono questa linea e i sedili restano desolatamente vuoti. La gente ai lati delle rotaie, soprattutto i bambini, escono di corsa dalle case o appaiono in mezzo ai campi per salutare il convoglio, alle fermate invece si accalcano urlanti in attesa che qualcuno (purtroppo molti) gli tiri lecca-lecca o altre porcate simili. Come giá in Peru, dal tetto del treno piove di tutto di piú. Per il sottoscritto emerso da zone quasi infrequentate da stranieri, salire in groppa a questo arnese all’inizio é stata un po’ dura tuttavia le prime due ore di freddo pungente mi hanno aiutato a pensare ad altro. Il treno sale fino ad un altopiano a circa 3.200m, poca vegetazione, coltivi tagliati geometricamente e qualche casa qua e lá; dopo la stazione di Alausí la discesa a tornanti verso la Nariz del Diablo (Naso del Diavolo), la sosta per le foto ricordo ed il ritorno ad Alausí. Il ricordo che porto di queste 7 ore treno é la novitá del viaggio su di un tetto, per me ne é valsa la pena, per quello che riguarda i tanto decantati paesaggi, beh, niente da togliere il fiato, ho visto decisamente di meglio. Allo sbarco in stazione il rompete le righe generale, alcuni salgono sulle rispettive macchine, altri tornano agli hotel, altri al ristorante, il solito insaziabile gruppo di irriducibili zainisti sale sul bus e si beve altre 4 ore di montagna fino a Cuenca.

Questa mattina sveglia ad un’ora clemente e rapida visita alla bella cittá, poi, messo il timbro anche a questo Patrimonio dell’Umanitá, partenza per Loja attraverso panorami finalmente verdi ed illuminati a sprazzi dal sole. Di Cuenca mi resterá una eccellente impressione di cittá ed un faticoso ricordo di un’ora di camminata sotto una pioggia torrenziale caricato di zaino e borse alla ricerca di un misterioso hotel.

Per una volta basta parlare di quello che si´fatto o visto, scrivo un po’ di me, di come passano questi giorni e dei miei programmi a medio termine. Nelle ultime due settimane sono completamente sparite le peraltro giá sporadiche uscite serali, alle 20 normalmente sono sul letto immerso nelle mie letture o impegnato a prendere appunti e segnare alcuni dati. La sveglia solitamente suona tra le 7 e le 7:30 e la colazione consiste di caffelatte ed un paio di biscotti. Ultimamente, dovuto ai frequenti spostamenti, agli orari o a zone “difficili”, ricordo poche giornate con tre pasti completi: le panetterie sono uno dei luoghi da me piú frequentati qui in Ecuador e, come ieri sera, ci si puó sfamare (meglio dire, bloccare la fame) con un paio di panini vuoti ed un dolce. Oggi a pranzo, dopo cira 6 mesi, ho sentito ancora in bocca il sapore di una mela. Dopo Chile, Patagonia e Brasile (le tre zone piú care in Sudamerica) finalmente ho riassestato un poco i conti e le spese giornaliere da ormai 3 mesi non superano i 10-12 euro. Magliette ed affini finiscono nel sacchetto della lavanderia quando sono davvero impresentabili e purtroppo, dopo l’ultimo lavaggio a Cali, i jeans sono definitivamente crollati e cominciano ad aprirsi voragini preoccupanti (se non altro per l’aria fredda che entra). Le docce sono in egual misura calde e fredde, queste ultime ahimé proprio nei posti piú sperduti, in montagna, dove ci sarebbe bisogno dell’esatto contrario; poco a poco i capelli crescono (mai tagliati) e con loro, ultimamente, pure la barba. Passo molto tempo a guardare, pensare, osservare e riflettere. La salute é buona, ho un paio di strani segni sulle braccia ma...boh. Le spalle sono un poco sofferenti, gli acquisti al mercato di Otavalo, infatti, hanno appesantito di molto il bagaglio ed in questo momento mi sposto con addosso una trentina di kili, distribuiti tra zaino ed un borsone; questo implica, nell’attesa di scaricarli, la necessitá di spostarsi poco dal Terminal degli autobus e di avere poca possibilitá di camminare. A rendere un poco peggiore la situazione, negli ultimi giorni sono cominciate le piogge, la temperatura comunque si mantiene gradevole.

Sdraiato sul letto, con cose stese dappertutto nella speranza che si asciugassero (stese nel senso che erano appoggiate sul pavimento perché alle pareti c’erano giusto un paio di chiodi), ieri sera ho aperto la guida per tracciare un strada che mi permetta di vedere quello che voglio e di arrivare a Cuzco (Peru) prima dell’inizio della stagione delle piogge prevista per novembre. Con tutti i se ed i ma del caso, i forse, i probabilmente, i bah, i “sa il cazzo se”, i “dipende da” o i “a seconda che”...domani dovrei entrare in Peru destinazione Piura, cittá sulla costa, punto di partenza per arrivare al punto piú occidentale del Sudamerica (l’unico punto estremo che mi manca a questo punto); a seguire punto decisamente sull’”Egitto del Sudamerica” ovvero la parte nord del Peru ricca di siti archeologici pre-incaici, tombe, cittá, piramidi di civiltá poco conosciute. Dopo una settimana il ritorno alla montagna e qui, me lo ripeto di continuo, “saranno tutti cazzi miei”: per arrivare a Cuzco ho scelto (ovviamente) la via piú difficile e dura, ma anche la piú avventurosa e premiante, quella a cavallo delle Ande passando per la Cordillera Blanca, tra alcuni degli altopiani piú alti del mondo, a lato di ghiacciai e laghi color turchese, villaggi andini quasi incontaminati, per la strada transitabile piú alta del mondo (piú di 100km al di sopra dei 4.000m con una punta oltre i 5.000m), attraverso le zone controllate negli anni ’80 da Sendero Luminoso. Autobus, macchine e camion passano quando cazzo gli pare e piace, ancora posti senza luce elettrica ed acqua calda. Non nascondo che questa parte era una delle destinazioni principali giá al momento della partenza e da sempre é stata considerata dal sottoscritto come il passaggio piú ostico nel sub-continente sudamericano: le strade sono quello che sono (sperando che non piova) e, per riuscire ad arrivare nei tempi datimi, quasi ogni giorno ci saranno almeno 4-5 ore di spostamenti e dovró riprendere a “recuperare ore” viaggiando di notte. Sono un po’ impaziente perchè giá da settimane ce l’ho nel mirino. Mi piacciono queste giornate e mi piacciono perchè, sfatto sul letto con gli occhi rivolti al soffitto, le ossa stanche di sedili scossi da buche e sassi, mi sento gratificato, felice, spavaldo, impaziente, piú forte di prima, stanco e pieno di energie allo stesso tempo. Uscire dal letto diventa difficile ma non manca mai l’entusiasmo di tirare gli ultimi lacci allo zaino, allacciare le scarpe e riprendere la strada. Emozioni e sensazioni che nessuna stanchezza puó affievolire, uno sguardo di sfida che nessuna difficoltá o imprevisto puó spegnere. La grande sfida sará vedere come reagiró, con 30 kili addosso, al passaggio dal mare ai 4.000m; troveró il modo. Probabilmente arriverá anche il momento del maglione che mi porto appresso da mesi senza usarlo. E chissá...anche il momento della nevicata.

Aprite le porte, sto arrivando.

 

 

 

RIOBAMBA (ECUADOR), 27 settembre 2004

GIORNO 270 DI VIAGGIO

Di nuovo in una città dopo tre giorni abbastanza difficili. Il circuito del Quilotoa indubbiamente non è una passeggiata, paesaggi meravigliosi ma trasporti ed infrastrutture diciamo poco agevoli.

La prima notte ad un a cinquantina di metri dal cratere del vulcano Quilotoa, 3.800m alloggiato praticamente in una casa di una famiglia indigena quichwa. La visita al cratere spettacolare, impressionante la vista dall’alto di questo enorme recipiente al cui interno, 300 metri in basso, una laguna color verde smeraldo. Eccezzionale la marmellata alle more della padrona di casa, simpatica l’accoglienza riservata al sottoscritto, per il resto freddo pungente, struttura ancora in costruzione, niente acqua calda, niente acqua corrente, niente luce elettrica. A compensazione (per me più che sufficiente), una semplice ed utilissima candela e delle coperte incredibilmente calde. Ho assistito alla preparazione del pasto, donne ovunque (preferisco non sapere dov’erano gli uomini) a pelare patate e carote a velocità supersoniche, pentoloni di dimensioni inaudite che ribollono di chissà che, bambini che vanno e vengono. A parte la giovane ragazza conosciuta nel bus, quasi nessuno parla spagnolo, ci si intende a gesti. L’unica stanza decentemente calda è la cucina, per questo mi ci siedo su una panca a leggere il mio libro; dalla copertina, il protagonista delle mie letture sembra guardarmi in tono di sfida e di superiorità. Fino a che punto so resistere? Quando vado a pisciare all’aperto me lo domando anch’io.

La mattina seguente visito il mercato di Zumbahua, ancora maiali trascinati al guinzaglio, pecore caricate sui tetti degli autobus, frutta e verdura ad uso e consumo della gente del posto. Seduto per strada, aspetto che passi qualcosa che mi porti a Chugchilàn, una, due, tre, quattro, cinque ore. A Quito mi hanno detto che da qui in avanti diventa pericoloso, gli indigeni sono aggrressivi, due anni fa un paio di balordi hanno ucciso padre e bambina svizzeri perchè non si facevano rubare. A parte quest’ultimo episodio (vero), sono alle prese con le solite cagate dette con la speranza che uno si affidi a qualche guida. Nonostante l’attesa sia snervante, appesantita dal vento e dalla polvere, proprio queste leggende metropolitane mi spingono e rimanere lì. Finalmente passa un bus, la prima mezz’ora è un martirio in piedi nel corridoio con la testa piegata in avanti a causa del tetto bassissimo, gente dovunque; poi riesco a sedermi, immerso in un odore rivoltante. A Chugchilàn la abituale doccia con acqua fredda, la passeggiata nei 15 metri della calle principale, un bicchiere di chicha di mais, sempre ed immancabilmente il mio libro che ormai mi accompagna dovunque, cena e a letto alle nove di sera, ancora accompagnato da una rilassante candela.

L’indomani salgo fino alla cima della montagna che custodisce questo villaggio, qualche simpatico incontro con degli educatissimi indigeni del posto, foto ricordo, una decina di minuti di riflessione (ero venuto qui per stare da solo, ricordate?), poi la discesa. Un altro bus, un’altra trappola di odori da ribaltare lo stomaco (e dire che il mio è ormai abituato a tutto), un’altra tragedia di polvere, però ancora panorami mozzafiato di cañon, vulcani e montagne dai colori tristi, secche per la cronica latitanza delle piogge. Arrivato a Sigchos mi ritrovo in una festa di paese, sono stanco al punto da non voler decidere che fare, fermarmi o proseguire e chiudere il giro. Un paio di panini appena sfornati, uno yogurt, una piccola passeggiata, compro il biglietto che una signora non vuole utilizzare e prendo l’ennesimo, questa volta ultimo, bus, destinazione Latacunga, città da dove ero partito qualche giorno fa. A bordo un ragazzo sulla ventina, o addormentato, o svenuto o in coma etilico, il vomito che gli cola sulla maglietta (risultato della usuale festa in stile sudamericano); a peso lo fanno scendere, dopo cinque minuti non si capisce perchè lo riportano a bordo. Lo scaricheranno per strada, dove uno dei passeggeri dice che abita. Alla triplice frontiera tra l’assurdo, l’inspiegabile ed il comico, passiamo la sbarra che segnala il posto di pedaggio; una penosa traccia di polvere era prima, una penosa traccia di polvere rimane dopo.

Con un’ora di ritardo arriviamo a destinazione, riprendo lo zaino che avevo lasciato in albergo e mi trasferisco in un altro molto più economico e dal caratteristico odore di morto. C’è ancora la festa della Mama Negra, è tutto chiuso, finisco a mangiare in un approssimativo ristorante cinese: avvolti nel riso cucinato non meno di tre giorni fa, gamberetti, pollo e carne, quest’ultima con un sapore inqualificabile. Affido alle pagine del mio diario personale alcune note ed appunti sulla razza indigena Quichwa con cui ho avuto a che fare negli ultimi giorni, è ancora troppo presto per fare delle riflessioni ma di certo qualcosa sta cambiando nel mio modo di guardare a questa gente. Preparo tutto per la partenza, prendo nota degli ultimi giorni, mi cambio la maglietta diventata marroncina a causa della polvere e, nonostante la musica assordante ed i fuochi artificiali proprio nella piazza sottostante, prendo sonno. Nel tavolino accanto a me, quegli occhi in copertina adesso mi lanciano un’occhiata soddisfatta ed orgogliosa.

 

 

 

LATACUNGA (ECUADOR), 23 settembre 2004

GIORNO 266 DI VIAGGIO

Quando varco la soglia dell`hostal, alla mia giovane amica delle Galàpagos si illumina il viso e mi viene incontro correndo. Il suo bacio quasi timido ed il suo abbraccio genuino spazzano via in un attimo tutta la diffidenza, i sospetti, le paure, la tensione che pesano sulle spalle. Mentre mi guarda con i suoi occhioni marroni ed il solare solare, mi sembra che il segreto della vita sia così semplice, così a portata di mano e con naturalezza svanisce la mia armatura, il mio scudo di protezione di straniero in una capitale sudamericana. Mi ha già raccontato meraviglie della sua città, Puerto Ayora, mi ha detto di come suo zio abbia appena terminato di costruire una casa e promette di aiutarmi a costruire la mia cabaña in riva al mare, dovevivere nella pace assoluta; conosce un posto,mi dice, che è perfetto per me. “Andiamoci domani, ti ci porto io” mi azzarda. La mia amica Natasha avrà si o no 7 anni e le nostre conversazioni semplici e dirette resteranno uno dei ricordi più belli dei miei tre giorni a Quito.

Ho lasciato anche questa capitale e mi sono diretto a sud, spariscono all’improvviso i paesaggi brulli e polverosi e le montagne cominciano a verdeggiare. Ai lati dell’ampia valle che percorro compaiono i famosi vulcani ecuadoreñi. Un paio d’ore e metto piede a Latacunga dove, proprio ieri sera, comincia la festa della Mama Negra; alle otto di sera la banda della Policia inizia a suonare, poi appare sulla scena un soggetto microfonato che prende le redini della serata. Con una voce decisamente floscia introduce i personaggi presenti davanti al municipio, sbaglia sette o otto volte il cerimoniale e chiama il sindaco in una decina di maniere differenti (notare che il sindaco è in carica da13 anni, non dal’altro ieri). Il primo cittadino è un personaggio tondeggiante di circa un metro e sessanta, basettoni abbondanti fino alle mandibole e capelli tinti con effetto bagnato ad altezza spalle; prende possesso del microfono per ringraziare i presenti e con voce roca e sofferente (io mi guardavo in giro per vedere se c’era qualcuno con un defibrillatore) strepita per una buona mezz’ora ricordando i suoi tredici anni di amministrazione cittadina. Arriva poi il momento delle danza tradizionali mentre vengono distribuiti gratuitamente ai presenti biscotti fatti in casa (eccellenti) e vomito caldo (non servo commenti, penso di avere reso l’idea). Tra l’altro, questa indecente bevanda aveva all’interno dei pezzettini di qualcosa che preferisco non conoscere. Il clou della serata arriva con il castillo, una costruzione approssimativa di fuochi artificiali che viene accesa sul parco della piazza centrale; dopo un 5 minuti di tristezza, ecco cadere dall’alto della struttura un paio di angeli. Tra gli “ooohhh” del pubblico, da queste illuminate creature celestiali partono a caso dei razzi ad altezza uomo: il primo centra una palma del parco e per poco non le dà fuoco, il secondo si spegne sul tetto della cattedrale storica, un altro impallina in pieno uno spettatore lasciandogli come ricordo un bel buco sulla giacca a vento e, mentre la gente ride terrorizzata e corre da tutte le parti in cerca di un rifugio, un altro razzo per poco non ditrugge una delle finestre del municipio. A contorno del bombardamento, il moscio al microfono grida all’impazzata “viva Latacunga, viva la Mama Negra!”, probabilmente credendolo un efficace diversivo per distrarre la gente. Non mi risulta che ci siano stati feriti. Questa mattina sono stato al mercato di Saquisilì, passeggiando tra banane, erbe, patate, maiali al guinzaglio, pecore, capre e galline in gabbia. All’orizzonte, tra le nubi, la vetta incappucciata di neve del vulcano Cotopaxi che però proprio ieri sera si era lasciato ammirare in tutto il suo splendore. Domani lascio per qualche giorno la Panamericana e mi butto alla ricerca di un po’ di avventura, silenzio e solitudine. Lascio lo zaino qui, mi porto via lo stretto necessario per non morire assiderato. In questi ultimi giorni ho messo bene a fuoco quello che è il mio prossimo obiettivo: una nevicata.

Ciao

 

 

 

QUITO (ECUADOR), 21 settembre 2004

GIORNO 264 DI VIAGGIO

La mia ottava capitale sudamericana trae il suo nome dalla parola safiki qui (centro) e tu (terra), raggiunge una larghezza massima di circa 4 kilometri e si estende per una lunghezza di 45 kilometri. Giace a 2.860 metri, dopo La Paz la capitale piú alta in Sudamerica, ed ospita 1,6 milioni di abitanti. Il centro storico é un meraviglioso esempio di architettura coloniale, non a caso decretato Patrimonio dell’Umanitá dall’UNESCO, ben conservato, ben tenuto e ben segnalato; peccato solo l’inquinamento e la costante sensazione di insicurezza che si ha camminandovi, quest’ultimo fattore probabilmente dovuto in parte alla pessima reputazione che la cittá gode in termini di furti ed assalti. Al di là di questo, comunque, alcune meraviglie degne di nota, come l’interno della chiesa La Merced per esempio, palazzi color pastello (quante volte l’avró scritta questa cosa in tutti questi mesi?) ed una basilica in perfetto stile gotico. La ciudad nueva, invece, offre tutto quello che il gringo in ferie puó desiderare: bar, pub (che fitta al cuore la scritta ‘Guinness’), locali, ristoranti e via dicendo, ovviamente a prezzi infinitamente piú bassi rispetto agli standard americani ed europei, non ai miei purtroppo. Non c’è problema, comunque, ho subito individuato il ristorantino arabo nel quale faccio il pieno di kebab ai prezzi che dico io (ovviamente sono arrivato alla contrattazione pure con l’arabo).

Mia madre dice che “non si puó vivere solo di sogni”, sará ma da questi ricevo l’energia vitale che mi sorregge in quest’avventura, grazie a questi riesco a volare da un posto all’altro con lo stesso entusiasmo del primo giorno. Oggi ne ho realizzato un altro che coltivavo da tempo: camminare sulla linea dell’Equatore, passeggiare sulla frontiera tra l’emisfero boreale e quello australe. La cittadina (un po’ una pena a dir la veritá) Mitad del Mundo si trova ad una ventina di kilometri a nord di Quito, un’ora di autobus; bar, ristoranti e negozietti sempre in stile “Alpitour”, un museo ed altre sale informative. Nel corso del XVIII secolo cominciò la polemica tra i seguaci di Newton che sostenevano come i poli fossero leggermente schiacciati ed i seguaci di Cassini, che propendevano per l’esatto contrario. Il re Luigi XV (non è quello di Lady Oscar, vero?) ordinó alla Académie di risolvere il dilemma, per questo nel 1735 partirono due spedizioni, una diretta al Polo Nord e l’altra da queste parti. Venne confermata la prima teoria e, a seguito delle scoperte e degli studi che vennero effettuati in queste zone, nel XIX il presidente di questo Paese (un venezuelano, bah...) battezzó definitivamente questa terra con il nome di Ecuador (equatore). Fra tutto, la cosa piú´interessante è stato il Museo Inti Nan: ho verificato con i miei occhi che, sulla linea dell’Equatore l’acqua scende senza formare vortici, né in senso orario né anti-orario, un uovo sta perfettamente in equilibrio sopra un chiodo (mi dicono per effetto della forza di gravitá che non “pende” nè da una parte ne dall’altra) e, dulcis in fundo, ho sparato con una cerbottana di una tribí indigena amazzonica centrando (con mio grande stupore ed orgoglio) il bersaglio. A causa della mia solita prolissitá, sono arrivato al sito a mezzogiorno. Considerato che fra un paio di giorni cade l’Equinozio di primavera, vi racconteró di persona con dovizia di particolari e bestemmie cosa significa veramente avere “il sole a picco” sulla testa. Porca boia!

Un nota negativa: ieri arrivo alla Basilica, la simpatica ragazza mi spiega che dalla torre si ammira un panorama stupendo della cittá (ero lí per questo), chiedo quanto costa e mi sento rispondere “2 dollari prezzo normale, 3 dollari per stranieri”. Le chiedo come si spiega questo, beata ingenuitá mi risponde sorridente “perché si presume che gli stranieri vengano qui per visitarci”. Dolcemente le suggerisco un “o forse perché si presume che siano ricchi?” e sorridente me ne vado. Chissá se avrá capito.

 

 

 

QUITO (ECUADOR), 19 settembre 2004

GIORNO 262 DI VIAGGIO

Si può sentire un sentimento fraterno per persone che non si hanno mai visto? Ci si può sentire tremendamente vicini a gente nata dall'altra parte del mondo, cresciuta in una cultura completamente diversa? Lo stato d'animo con cui sono "atterrato" nel mondo andino di Otavalo era proprio questo. Razza andina, donne con le tradizionali camice bianche ricamate, strati e strati di gonne, sandali neri spesso senza calze nonostante gli oltre 2.500m. Trovo senza fatica il sorriso di alcune di queste signore, lo sguardo tra il malinconico e l'affaticato, e mi sento come se fossi tornato in un luogo della mia infanzia. Non è il freddo quello che mi entra nelle ossa la prima notte ma l'immagine di alcune di queste donne rannicchiate su sè stesse nella piazza del mercato mentre cercano di proteggersi dalle temperature poco estive aspettando la mattina seguente per montare i loro stand; cammino tra alcune di loro e ne incrocio lo sguardo, mi raccontano con gli occhi storie di fatica, sofferenza ed umiltà.

Il sabato è il giorno più importante per il mercato di Otavalo e la cittadina si riempie di ogni genere di merce e di colori, quasi ogni angolo del Paese presenta i suoi prodotti; cerco lo stand della signora con la quale avevo scambiato un paio di parole la sera prima, non ci crede che sono tornato. Avrà una sessantina d'anni, l'accento tipico della gente Quichua, il solito viso segnato dal sole, un po' per scherzo l'aiuto a montare la sua tenda e ad esporre la sua merce mentre tutto intorno gli altri venditori sorridono al vedere uno straniero alle prese con maglioni, sciarpe, berretti e mille altre cose dai mille colori. Dio bono capo se mi avessi visto come contrattavo con questi qua, tira e molla infiniti, purtroppo non si poteva discutere su termini di pagamento e cifre fisse! Ancora una volta termina la giornata di mercato ed io mi ritrovo con una valigia (nuova, ovviamente) piena di cose; seguo l'esempio di amico Carlo, compro e venderò a qualcuno in Italia. Aiuto la signora e le figlie a smontare l'ambaradan, scambiamo quattro chiacchiere sulla cultura Quichua e sul mestiere dell'artesano, me ne vado con il mio nome Quichua: Amaru.

Questa mattina partenza per la capitale, Quito, città del signor Byron Moreno (chi è? dico almeno cinque persone che se lo ricordano bene: Igor Doria, Walter Travella, Luiggi Trevisson, Ferdinando Coppa e Gabriele Mariotti). A differenza dell'altro giorno quando mi sono sucato l'ennesima foratura, oggi tutto regolare. Come ogni domenica, poca gente in giro, aria tranquilla, nuvoloso ma non freddo. Anche se di pochi kilometri, sono tornato nell'emisfero australe.

Ciao

 

 

 

OTAVALO (ECUADOR), 17 settembre 2004

GIORNO 260 DI VIAGGIO

- Sono entrato in Colombia da una porta secondaria, l’Amazzonia, timidamente e con un sentimento di curiosità mista a preoccupazione. Tre giorni nella tranquilla Leticia, località silenziosa disturbata soltanto dal ronzio delle decine di motorini che scorrazzano per le vie cittadine. La mancanza di altre vie di comunicazione mi costringe ad arrivare a Bogotà dal cielo; una settimana per scoprire un quartiere meraviglioso ed una città piena di arte e cultura. Dalla capitale a Villa de Leiva dove una tempesta in quota mi regala la prima influenza colombiana, compagna di viaggio a Tunja ed alle rilassate località di Malaga e Pamplona, ai bordi della Sierra del Cocuy. A bordo di busetas condotte da pazzi spericolati arrivo e resto affascinato dalle cittadine coloniali di Giròn e Barichara però deluso dalla decantata Bucaramanga, spezzo il viaggio verso la costa nord passando una notte nella fornace sonnolenta di Aguachica. Un paio di giorni a Santa Marta ammirando tramonti meravigliosi, poi il silenzio surreale della Peninsula de la Guajira martoriato da vento caldo e sabbia; due giorni all’interno del Parque Tayrona, dondolante su un’amaca sotto un tetto di paglia e cullato dal rumore delle onde dell’oceano. Il fascino incredibile di Cartagena mi calamita nella ciudad amurallada per quasi una settimana, poi il saluto al mare e la salita verso Medellìn. Sette giorni pieni per la capitale paisa, avanti e indietro per i suoi quartieri, poi un sabato notte in una Santa Fè de Antioquia fuori dal mondo. Saliscendi verso Manizales, poi il ritorno a Bogotà, ancora teatro, cinema e concerti. Passeggiate per la Zona Cafetera circondato da piantagioni di banane e caffè, poi la città della rumba, Cali. Dalla capitale mondiale della salsa ad uno dei siti archeologici più importanti e misteriosi del continente sudamericano, San Agustìn, attraverso altipiani sterminati e foreste vergini di un silenzio surreale, poi ancora su e giù per montagne e colline per arrivare a Tierradentro, fratellino meno conosciuto e frequentato; quattro giorni di storia impreziositi da persone di straordinaria cordialità, gentilezza ed ospitalità. Una sorpresa inattesa, Popayàn, città dalle tante chiese e dalle vie ricche di case ed edifici coloniali. Infine l’ultimo pezzettino, fino ad Ipiales, scortato da montagne, vulcani e cañon; la visita ad una strana e bella chiesa in stile gotico, poi il commiato;

- Una settimana dopo che me ne sono andato, a Leticia viene intercettato un rifornimento di armi ed attrezzature militari diretto alla guerriglia, uno dei più grandi carichi degli ultimi anni. Durante i primi giorni a Bogotà, la polizia scopre del tritolo destinato ad un attacco terrorista al Transmilenio, il sistema di trasporto pubblico della capitale, mentre una notte, cercando un posto dove mangiare, io ed il mio amico Rony siamo assaltati da un paio di balordi locali. Incredibile pensare che dalle tranquille e silenziose Malaga e Barichara si possano vedere tanto da vicino le montagne rifugio di guerriglia e paramilitari. Faccio in tempo a lasciare la calda Aguachica che un ragazzo viene sequestrato mentre sta camminando per strada. Poco distante dal paradisiaco Parque Tayrona, circa un anno fa si registrava l’ultimo sequestro ai danni di viaggiatori stranieri. Il giorno dopo che ci sono passato comodamente seduto sul sedile di una busetas, a Buenavista vengono confiscate tre tonnellate e mezzo di cocaina, record assoluto della zona. Circa una settimana prima che ci arrivassi, a Medellìn una bomba artigianale ferisce 35 persone che assistevano per strada ad una sfilata di carri. Il mese precedente al mio arrivo, sulla strada per Santa Fè de Antioquia la guerriglia ferma e deruba una comitiva di bus che portava a spasso dei bambini di 9-12 anni. Nella mia seconda volta a Bogotà, dei falsi agenti della Policia Anti-narcoticos tentano di infinocchiarmi per strada, sono prigioniero di non so bene che cosa e ad una festa mi mettono in una bevanda un po’ di allucinogeni. Pochi giorni prima che ci passi io, quasi sulla stessa rotta, a Popayàn un giapponese viene drogato su un autobus e derubato di tutto quello che ha. In maggio, il bus su cui viaggia l’olandese che condivide con me la stanza a Popayàn viene fermato dalle FARC per un “controllo passeggeri”;

- Il Paese è caratterizzato da altissimi indici di violenza sia tra gli attori del conflitto armato (Forza pubblica, guerriglia, paramilitari e narcotrafficanti) che tra la delinquenza comune, diffusa in tutto il territorio nazionale. Nel 2003 sono stati registrati circa 22.000 omicidi ed oltre 1900 sequestri di persona. Nonostante sia stata accentuata un'azione di interdizione militare contro la guerriglia e paramilitari e narcotrafficanti, da parte delle Autorità Colombiane, la situazione rimane molto pericolosa e pertanto si sconsiglia di intraprendere un viaggio in Colombia, se non ritenuto strettamente necessario.

Zone di cautela

Visitabili con particolari precauzioni: grandi centri urbani (Bogotà, Medellin, Cali e Barranquilla, Cartagena, Santa Marta) limitatamente ad alcuni quartieri considerati relativamente più sicuri, zona amazzonica turistica di Leticia, [...]

Avvertenze

Si consiglia ai connazionali che dovessero intraprendere un viaggio in Colombia di contattare anticipatamente l'Ambasciata d'Italia a Bogotà, o di segnalare all'arrivo, la propria presenza nel Paese all'Ambasciata o al Consolato Onorario dipendente più vicino.

Sono sconsigliati i viaggi via terra all'interno del Paese, soprattutto di notte o fuori dalle arterie principali, per la possibile presenza di blocchi stradali da parte della guerriglia o della delinquenza comune.

Si consiglia l'utilizzo di voli aerei commerciali per gli spostamenti all'interno del paese.

Nelle aree urbane evitare per quanto possibile la circolazione notturna.

Il visitatore straniero è generalmente sinonimo di persona abbiente e pertanto obiettivo della criminalità. In tale contesto, oltre agli innumerevoli scippi e aggressioni, sono diffuse le seguenti peculiari fattispecie:

a) Sequestro di persona: in Colombia si registrano mediamente 5 sequestri al giorno, che a volte interessano anche semplici turisti indipendentemente dalle condizioni economiche. Usare la massima cautela negli spostamenti, e frequentare luoghi di ritrovo con persone conosciute.

b) L'uso di droghe come la scopolamina che rendono succube la vittima. Esse vengono utilizzate a scopo di rapina, e talvolta di violenza sessuale; la scopolamina è inodore ed incolore e rende quindi relativamente semplice il suo somministro sotto qualsiasi forma. È consigliabile quindi evitare sempre l'offerta di bevande ed altri alimenti da parte di persone sconosciute.

c) Furto di valuta: è ampiamente praticata in Colombia la truffa da parte di falsi agenti di polizia che chiedono alle vittime di consegnare valuta straniera per sedicenti controlli della loro autenticità.

d) Spaccio di valuta falsa: non effettuare cambi di valuta per conto di persone sconosciute, spesso si tratta di tentativi di spacciare valuta straniera falsa; l'azione comporta il coinvolgimento nel reato di spaccio di valuta straniera falsa o in quello più grave di associazione a delinquere.

e) Furto all'aeroporto o alle stazioni ferroviarie: sono solitamente luoghi deputati alla realizzazione di furti ai danni dei viaggiatori. Si raccomanda di non lasciare mai incustoditi i propri bagagli.

[...]

g) Durante i trasferimenti tenere sempre sotto controllo i propri bagagli onde evitare possibile introduzione di droghe da trasportare al di fuori del Paese.

Zone a rischio (da evitare)

Sono in particolare da evitare le zone non urbane dei distretti di Antioquia, Valle, Nariño, Cesàr, Guajira, Putumayo, Caquetà, Casanare, Guaviare, Arauca, Meta, regione Maddalena Medio (comprendente parte di Santander, Bolivar, Norte de Santander), zona Sierra Nevada, regione di Urabà.

Tre descrizioni differenti, tre prospettive differenti, tre modi diversi di vedere lo stesso Paese, a seconda di quello che “si vuole vedere”; semplicisticamente, il racconto di un viaggio, il ricordo che ne avrà mia madre e la descrizione ufficiale con cui sono stato indottrinato negli ultimi anni (la terza parte riproduce rigorosamente quanto riportato dal nostro Ministero degli Esteri). Lo confesso, sono venuto in Colombia attratto dalla pessima fama di cui godeva. Il contrasto tra le descrizioni apocalittiche e catastrofiche che incontravo in giornali e televisioni ed i racconti incantati dei pochi viaggiatori che ci avevano messo piede in un certo modo mi affascinava, mi attraeva l’idea di dimostrare ancora una volta, a chi no lo so, forse per primo a me stesso, come, prima di giudicare, sia sempre meglio vedere con i propri occhi ed ascoltare con le proprie orecchie. Sono entrato in questo Paese in punta di piedi, deciso a dare un’occhiata per sentire che aria tirava ed alla fine ci ho passato 75 giorni: ci ho parlato, l’ho visitato, l’ho studiato, l’ho osservato e, in fondo, credo di averlo capito abbastanza. Complesso da inquadrare, ricco di forti contrasti nelle tradizioni, nei paesaggi e nelle persone, con ottimi spunti storici e gente tra le più ospitali che abbia trovato nel mondo (cito fra tutti gli abitanti di San Agustìn e Tierradentro). Me ne vado dal Paese dell’acqua Cristal, dello yogurt Alpina, delle birre Aguila, Costeña, Club Colombia e Poker, del sancocho, del succo Hit, della gaseosa Postobon manzana, della mojarra, della manzamorra e dell’avena e del ron Viejo de Caldas.

Nonostante quello che ha scritto, scrive e scriverà la mia famiglia, non è un sollievo andarsene da questa terra, tuttavia me ne vado felice, felice per aver trasformato uno dei miei sogni di viaggiatore in un bagaglio di conoscenze ed immagini.

 

 

 

POPAYÁN (COLOMBIA), 15 settembre 2004

GIORNO 258 DI VIAGGIO

La guida si chiama Luís Alfredo. La temperatura é piacevole nonostante il cielo coperto ed il velo di cenere sputato nell'aria dal vulcano Galera risvegliatosi un paio di settimane fa. Non si sa granché sulla civiltá che ha abitato San Agustín, le teorie piú accreditate datano il periodo tra il 4500a.C. ed il 1400d.C. circa con l'arrivo degli Incas. Il sito archeologico é sostanzialmente un grande cimitero con tombe e statue dai particolari interessanti. E' molto accreditata la teoria secondo cui esistessero relazioni commerciali e culturali tra questa civiltá da un lato e quella egizia ed indiana dall'altro. Le tombe sono ornate da statue che rappresentano il defunto ed i guardiani del suo viaggio verso la reincarnazione; in alcuni casi queste statue assumono forma di esseri umani, altre volte di umani ed animali, altre volte ancora di animali differenti. Davanti alla tomba principale, le tre modeste buche dove venivano interrati vivi tre ragazzi o ragazze sotto l'effetto di alluginogeni. Tra le cose piú interessanti, i particolari di alcune di queste statue identici alla cultura egizia, il copricapo tipico dei faraoni per esempio oppure gli occhi a forma di testa d'aquila. Nella zona cerimoniale, tra un rigagnolo d'acqua ed un altro, compaiono le figure del leone (animale mai vissuto da queste parti) e di un elefante dalle orecchie piccole (tipico del subcontinente indiano). Una statua rappresenta una donna che suona uno strumento a naso, anche questo caratteristico della cultura indiana. In un'altra rappresentazione appaiono particolari molto simili al gioco 'de la pelota' dei maya. A volte, i tratti degli occhi sono quelli tipici orientali. Le conoscenze mediche vengono testimoniate da rappresentazioni del cuore e delle trombe di Fallopio. Si calcola che quello che é visibile oggigiorno sia solamente il 10% dell'intera estensione originale del sito, interrato in fretta e furia poco prima che arrivassero gli incas che, con il tradizionale costume dei conquistatori, distruggevano tutto ció che trovavano. La societá agustiniana non era né patriarcale né matriarcale, chiunque poteva raggiungere qualsiasi posizione; gli sciamani, come sempre, occupavano un ruolo di primo piano, alimentavano di continuo la loro cultura e, liberandosi del peso del proprio corpo, "praticavano con la mente viaggi nel cosmo" (parole testuali). La conoscenza di una quantitá impressionante di sostanze alluginogene permetteva ovviamente questo tipo di esperienze. Parte delle statue sono conservate in un museo a Berlino e sono considerate dalla Germania "bottino di guerra" della seconda guerra mondiale.

A bordo di taxi e jeep passo da San Agustín a Tierradentro, altro sito archeologico spesso sconosciuto agli stessi colombiani. Scaricato come un pacco postale in mezzo ad una stradina di fango circondata da una decina di case mi raccatto un posto dove dormire (poco meno di 2 euro) ed aspetto il giorno seguente per la visita. Insieme ad un ragazzo ed una ragazza ceki e ad un belga, percorriamo i 14 kilometri dell'anello archeologico visitando tombe (tante) e statue (poche); a differenza di quelle di San Agustín, le tombe sono qui molto piú grandi ed alcune sono verniciate all'interno. La civiltá di Tierradentro presenta alcune caratteristiche tipiche della altre civiltá pre-ispaniche peró gli 'hipogeos' (tombe che ripropongono nella forma le abitazioni usate in vita) sono un'assoluta peculiaritá nel panorama archeologico delle Americhe. Interessante la visita ma spettacolare l'ascesa fino alla cima dell'Aguacate, montagna dalla quale si dominano le vallate intorno al sito e si gode di uno splendido panorama ancora ricco di coltivazioni di banane e caffé (quelle di coca e di marijuana sono ben nascoste).

Dopo un paio di settimane di nuvole o "inquinamento luminoso", finalmente ieri notte un cielo sereno; tornando all'hospedaje con i nostri 5 litri di 'chicha' tento di riconoscere qualche costellazione ma praticamente non ci capisco una mazza.

Questa mattina alle 6 la partenza da Tierradentro. La curiositá con cui mi guardavano i bambini, la fatica con cui il bus si trascinava sulle salite in mezzo a montagne ricoperte da vegetazione vergine e la signora che, prima di scendere, mi si avvicina per stringermi la mano e per ricordarmi che sono il benvenuto, rinforzano la convinzione di essere entrato in una terra calpestata da pochi stranieri e da ancora meno colombiani. La gente che ho incontrato in questi ultimi quattro giorni non ha paragoni fra tutte quelle con cui sono entrato in contatto; umiltá e cortesia solo per citare due cose.

Stronzate quello che spesso ho letto, stronzate quello che alcuni mi hanno detto, stronzate le idee che

avevo quando sono entrato in questi luoghi meno di una settimana fa: la guerriglia qui non si vede da almeno 3 anni.

 

 

 

SAN AGUSTÍN (COLOMBIA), 11 settembre 2004

GIORNO 254 DI VIAGGIO

La ragione principale per cui visitare Cali é la rumba del fine-settimana, ovvero la festa che si scatena per le vie di quella che viene reputata da molti la capitale mondiale della salsa. Ovviamente, io me ne sono andato la mattina del venerdí, avendo poca voglia di fare festa, soprattutto di ballare e soprattutto la salsa.

Nei giorni scorsi qualcuno mi ha scritto che, dopo quello che avevo passato, era arrivato il momento di raccontare avventure fantastiche. Beh...il viaggio da Cali a San Agustín é stato decisamente avventuroso. Per il fantastico meglio ripassare nei prossimi giorni. All´incirca al kilometro 120 una simpatica foratura ci costringe a fermarci per riparare la gomma: l´uomo dell´officina di fortuna (una capanna sul ciglio della strada), piú sporco che vivo, effettua il cambio-gomma in un´ora. Lo effettua bene perché 15 kilometri dopo la suddetta gomma si riaffloscia tristemente. Assolutamente insensibile all´avvenimento, mi appisolo durante l´intervento del nuovo meccanico. Arrivati a Popayan, la massiccia presenza dell´esercito riporta alla memoria che non mi trovo in una zona particolarmente pacifica. Passati i primi kilometri di ascesa verso le montagne, un altro botto e la gomma va puff! (sará un caso ma é proprio quella sotto il mio sedile...). Raggiungiamo un altro pronto soccorso per automezzi e velocipedi (in mezz´ora si é fermato di tutto in quel posto: macchine, bus, trattori, biciclette) ed un simpatico omino dagli inconfondibili tratti andini effettua la terza riparazione del giorno, scuotendo la testa al vedere il risultato delle operazioni precedenti. Poco a poco saliamo fino ad oltre 3.000m, le montagne perdono la loro coperta di vegetazione e la strada si trasforma in una pista di sassi, pozzanghere e fango. La sensazione che fino a poco tempo fa questa terra fosse abbandonata al suo destino viene sostenuta dal vedere come i militari stiano costruendo adesso le loro mini-caserme. Bei panorami fanno da anteprima ad un nuovo cambiamento, questa volta si entra all´interno di una sconfinata foresta vergine, ogni tanto ai lati della strada qualche piccolo rifugio naturale incavato tra le piante: postazioni militari o vecchi punti di partenza per assalti ai bus da parte delle FARC? Mah, sicuramente questa parte del Paese passa per essere uno dei feudi storici della guerriglia. Poco prima di mettere la testa dentro ques´oasi di pace, peró, un´altra sosta per foratura; questa volta niente intromissioni esterne, a sdraiarsi sotto il pullmino é l´autista in prima persona. Mentre cala il buio penso a quello che sta scritto sulla guida: "assolutamente da evitare viaggiare dopo il tramonto per queste zone", bah...penso "in fondo i tempi cambiano, questa guida probabilmente non é aggiornata, cosa vuoi che succeda?", me ne faccio una ragione ma quando guardo fuori dal finestrino non ne ricavo propriamente una sensazione tranquillizzante. Comunque usciamo da questa giungla di vegetazione ed arriviamo ad un ristorante (!) dove l´autista pensa bene di fermarsi per aspettare il pullmino che era partito 3 ore dopo il nostro per sostituire la gomma (avete perso il conto? siamo alla quinta). Mangio qualcosa prima di morire, risaliamo e si riparte, qualche botta mortale al semiasse ma per fortuna non capita piú niente, perlomeno al mezzo di locomozione; sí perché, essendo in ritardo, il capo pensa bene di non prendere la strada fino a San Agustín (che per pura sfiga era la mia destinazione) ma di scaricare quelli che ci erano diretti (io ed un giovanotto di 16 anni) ad un incrocio. Una jeep ci raccoglie e ci evita i 5 km di salita a piedi che, nelle mie condizioni di fame e di nervi, sarebbero stati letali; un normale trasferimento di 8 ore trasformato in un calvario di 12 ore e mezza (non male per i292 kilometri percorsi). Pollo e patate per evitare che San Agustín diventi la mia tomba e a letto.

Questa mattina cambio albergo ed un australiano mi propone una gita a cavallo (la moglie era ammalata e lui aveva giá pagato). Perché no? Per fortuna un cavallo e non un ronzino, per la veritá mi sembra un poco strano peró penso "come posso giudicare se la mia ultima volta risale a quattro anni fa?". Una strada sterrata in mezzo a coltivazioni di caffé e canne da zucchero, poi davanti a me un canyon impressionante con una discesa terrificante e la guida che dice serafica: "ah, il tuo cavallo si chiama Marijuana...si insomma, gli piace mangiare marijuana, proprio ieri l´ho beccato ruminarla avidamente".... Perfetto! Una mulattiera che avrei paura a fare a piedi in sella ad un cavallo allucinato. Non sono morto, non sono caduto da cavallo, in certi momenti mi sono pure disimpegnato con una certa eleganza, ma 4 ore di cavallo lasciano il segno e adesso appoggiare il culo su una sedia é un flagello difficile da sopportare.

Domani mi regalo la visita al sito archeologico di San Agustín, considerato da molti come uno dei siti piú affascinanti ed interessanti del continente sudamericano.

Lunedí dovrei prendere la strada per un´altra meraviglia archeologica, Tierradentro. Un rebus di pullmini, taxi, bus e carrette colorate attraverso terre incognite agli stessi colombiani e villaggi che manco esistono sulle mappe. Non c´é problema dicono gli autoctoni e io a questa gente meravigliosamente cordiale non posso che credere. Ciao

 

 

 

SANTIAGO DE CALI (COLOMBIA), 9 settembre 2004

GIORNO 252 DI VIAGGIO

Mi ha sempre messo a disagio mangiare mentre qualcuno mi osserva, soprattutto quando a farlo è un barbone, però quello dell’altra sera aveva qualcosa di particolare; gli ho portato fuori i resti della mia cena scusandomi per il fatto che era avanzata poca roba ma la sua risposta è stata: “non importa non importa, è tanto per me”. In quel momento ho ritrovato la cosa più importante che avevo perso: me stesso. Un attimo, il tempo di guardarlo negli occhi e...puff!, l’incantesimo (o quello che era) è finito.

La visita al Parque Nacional del Cafè è stata utile per imparare alcune cose e per viaggiare in mezzo a coltivazioni sconfinate di caffè e banane. La leggenda racconta che la storia del caffè nasce un giorno quando un pastore venne incuriosito da come il suo gregge saltava impazzito dopo aver mangiato un frutto dal colore rosso. La pianta originale arriva dall’Abissinia meridionale, nella zona di una città chiamata Kaffa, in seguito carovane di viaggiatori trasportarono il prodotto verso l’Asia meridionale; i primi giardini e le prime coltivazioni furono incontrate nello Yemen. L’introduzione della pianta in Colombia risale al 1723 per mano dei Gesuiti mentre le prime coltivazioni nella regione del Cauca (dove sta il museo) avvengono nel 1732; ebrei, baschi e castigliani sono i primi colonizzatori della zona, gli antesignani della razza paisa. La famiglia sta alla base della struttura sociale e forma il perno della finca campesina, il numero di figli dipende dal fabbisogno di manodopera. Le case venivano costruite ad ‘L’ o a ‘7’ per impedire l’ingresso degli spiriti maligni con l’entrata posta sempre nell’angolo chiuso; le sedie destinate alle figlie che ricevevano visita dai fidanzati erano collocate nel terrazzo a fianco di quelle dei genitori dimodochè, quando questi ultimi andavano a dormire, il giovanotto prendesse la strada di casa. Le qualità di caffè prodotte oggigiorno in Colombia sono quattro: Tipica (caffè arabica), Borbon, Caturra e Colombia, quest’ultima sviluppata grazie agli studi di Cinecafè per resistere alle malattie delle piante tradizionali e non necessitare di funghicidi. Approssimatamente un milione di persone lavorano oggi nell’industria del caffè che rappresenta da sola ¼ delle entrate nazionali colombiane. Dopo il petrolio, il caffè è il prodotto di maggiore esportazione dei Paesi in via di sviluppo. La Colombia rappresenta uno dei maggiori produttori internazionali, raggiungendo nel 1992 una quota del mercato mondiale pari al 21,7%.

Sono contento perchè ho convinto Angelica a tentare di nuovo l’esame di ammissione alla facoltà di Medicina; dopo la bocciatura dello scorso anno, adesso sta frequentando ‘Trabajo Social’. Il suo sogno rimane comunque Medicina, perchè non tentare di nuovo? Che c’è da perdere? Mi ha promesso di scrivermi per dirmi come vanno la preparazione e l’esame.

Pioggia a dirotto durante il viaggio fino a Cali. Non sapevo che esistesse la versione spagnola di “Non voglio mica la Luna” (peraltro aprezzabile). Il Plan Patriota, ovvero la strategia di conquista completa del territorio da parte dell’Esercito ai danni di guerriglia e paramilitari pare stia dando ottimi risultati, perlomeno questo è quello che riportano giornali e televisione.

In questo momento mi trovo a Cali, anche questa città conosciuta per la fama raggiunta negli anni ’80 e ’90 grazie al traffico di cocaina. Il centro non mi piace, palazzoni alti e vie strette rendono l’atmosfera un po’ cupa mentre l’inquinamento e l’umidità fanno il resto. Questa mattina ho visitato un po’ la città ed assistito ad un ciclo di conferenze sul popolamento della costa pacifica, le strategie di urbanizzazione sostenibile ed il riutilizzo delle risorse naturali; qualche dato preoccupante (la carica batterica sulle mani dopo una cagata), qualcuno suggestivo (con una corretta igiene personale si ridurrebbe del 45% la malasalute pubblilca colombiana) e molti altri interessanti. L’elevato numero di gente di colore credo dipenda principalmente dalla vicinanza alla costa pacifica, destinazione di molti discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. La guida riportava che le ragazze di Cali erano le più belle qui in Colombia: sapevo che gli inglesi non capiscono un cazzo di queste cose. Per quanto mi attraesse molto il nome del JJ Hotel, alla fine sono finito all’Hotel Sartor; le foto di Piazza San Marco e delle calli di Venezia appese ai muri non hanno fatto altro che confermarmi la regione di provenienza del proprietario. La convenienza dei prezzi rende la struttura l’approdo preferito di coppiette improvvisate (bello l’eufemismo, eh?); il primo è arrivato verso le 19:30, tarchiato e a testa bassa insieme ad un mostro di un metro e novanta; della seconda coppia si è presentata prima lei, ragazzina di 16-18 anni, con lui a distanza di un cinque metri; il terzo è entrato spavaldo alla reception in motorino (Vespa?), ha pagato la camera con il casco in testa e, tesissimo in attesa di lei (ancora lei, la prima, si vede che piace alla gente del luogo) , mi ha chiesto “cosa mi hai detto, scusa?” mentre io praticamente ronfavo sul divano; beh, in fondo coppie normali, ah no!, ecco che mentre leggo un libro risuona potente dalla camera accanto la voce di un travone e di un vecchietto; gli altri...boh, mi sono addormentato ed ho dormito bene come non mi capitava da tanti giorni. Vorrei evitare di fare altri prelievi in Colombia quindi, considerati gli 11 giorni che mi sono dato per visitare le ultime cose, budget di sopravvivenza e pedalare!

Due bei murales sui muri di Armenia: Lo esencial es invisible, sole se ve bien en el corazon (l’essenziale è invisibile, solamente si vede bene nel cuore) e, il mio preferito, El hombre no envejece cuando se le arruega la piel sino cuando se les arruegan los sueños y las esperanzas (l’uomo non invecchia quando compaiono rughe nella pelle ma quando a far le rughe sono i suoi sogni e le sue speranze).

Non so se scriverò prima di sabato quindi ne approfitto adesso: comincia un’altro viaggio, vai Diavolo!

 

 

 

ARMENIA (COLOMBIA), 7 settembre 2004

GIORNO 250 DI VIAGGIO

Me ne sono andato da Bogotà, la schiena e le gambe gonfiate de arrossate dalle punture di pulci, uno stato d'animo misto di ansia e sollievo.

Ho pensato a lungo durante gli ultimi giorni se scrivere quello che mi è capitato, non mi piaceva il pensiero di alcuni di voi che ridendo o scuotendo la testa. Alla fine mi sono convinto que questo è un diario di viaggio e racconta quello che vedo, sento e provo, indipendentemente dalle reazioni della gente che lo legge.

A Bogotà ho passato molto più del tempo che avrei dovuto, prigioniero di una stregoneria fattami da una persona di cui preferisco non parlare. Strane cose mi sono capitate: dolori forti de improvvisi senza una spiegazione, incontri strani, coincidenze preocupanti. Il peggio tra venerdì notte e sabato sera, sicuramente anche per effetto di qualche droga che mi era stata messa in una bevanda. Durante una festa mi si avvicina un ragazzo dal viso conosciuto, mi domanda come mai ancora dalle parti di Bogotà (come se sapesse che me n'ero andato e tornato), inizia a parlarmi di filosofia rivolgendomi delle domande che con il passare dei minuti diventano inquietanti, mi perdo nei meandri del mio stesso spirito. Anni fa mio zio mi insegnò che andare a fondo di filosofia e psicanalsi significa addentrarsi in un labirinto pericoloso dal quale a volte risulta difficile uscire; la notte di venerdì ho capito cosa voleva dire. Appena entrato in camera sono cominciate le allucinazioni e le visioni, si sovrapponevano le immagini di persone che domandavano, indagavano, alludevano, l'incubo martellante di essere perseguitato, ricordi che tornavano da un passato remoto, l'immagine del mio corpo morto mentre io sto volando chissà dove. La sensazione di vivere qualcosa di orribile e di doverne uscire al più presto: come trovarsi in un labirinto sommerso di acqua cercando il più in fretta possibile la via d'uscita per non morire annegato. Finalmente capisco chi era quel ragazzo: uno dei quelli che una notte di qualche settimana fa assistevano al tentativo di furto ai danni di un mio amico mentre stavamo camminando per Bogotà. Il mio corpo si muove libero da qualsiasi mio comando, le gambe tremano, devo pisciare ma la pisciata sembra durare minuti e non secondi. Il giorno dopo un po' meglio, anche se resta la confusione tra ciò che è reale e ciò che non lo è, mentre cammino per il centro mi tocco per essere sicuro di portare i vestiti, al cinema assisto ad una pellicola senza vederne le immagini. Mi sento un burattino nelle mani di un'altra persona, manovrato per raggiungere qualcosa, incapace di prendere autonomamente una decisione. Mi dicono che le streghe si nutrono dell'anima degli uomini e non del loro corpo, la mia forza di volontà non so dove si sia persa, evaporata con il passare dei giorni; vorrei andarmene e proseguire il mio viaggio ma qualcosa mi trattiene, qualcosa che non so cos'è, non so dov'è e non riesco a materializzare. Vedo il suo viso ed i suoi occhi che mi sorridono, cerco di starle lontano ma dovunque vada me la ritrovo per strada. Parlo con me stesso, penso alla mia famiglia ed ai miei amici, provo a convincermi che devo andarmene, che quello che mi aspetta è molto meglio di quello sto vivendo ma l'idea di andarmene proprio non mi va giù. Indeciso e confuso, non so come, ieri mattina mi metto lo zaino sulle spalle e vado alla Terminal, non un secondo senza pensare “perchè non mi fermo ancora un giorno?”. Mi parlo come si parla ad un bambino tentando di convincerlo di una cosa che non ha ssolutamente voglia di ascoltare; ancora sul pullmann penso di scendere e di tornare indietro, devo uscire dalla città prima di cominciare a svegliarmi un poco.

Questa mattina faccio colazione e passano le note di una delle canzoni che mi hanno accompagnato in Colombia, è come se si riavvolgesse un nastro e tornassi indietro di qualche giorno, come se uscissi da un dormiveglia; penso a quello che è successo ma molte cose mi sfuggono e volano via.

Come ho già scritto ad alcuni di voi, non pretendo che crediate a tutto quello che ho scritto e, per certi versi, è meglio così. Vi chiedo di evitare risposte e commenti tipo “cerca di bere meno” o “smettila di fumare marijuana”, sarebbero poco divertenti.

 

 

 

BOGOTA`, 1 settembre 2004

GIORNO 244 DI VIAGGIO

Con la scusa di un pomeriggio tra amici, ieri sera sono riusciti a spostare la mia partenza a domani (?). Continuo ad andare al cinema, spesso gratis. Ho chiacchierato molto e piacevolmente con un inglese che ha lavorato per il dipartimento anti-droga del governo britannico. Ho comprato due libri: "Il terrore come politica estera degli Stati Uniti" ed una biografia di Ernesto Guevara (e' arrivato il momento si approfondire un poco il personaggio). Ho conosiuto una ragazza che viene dalla costa pacifica colombiana, abbiamo parlato di un suo amico che appartiene ad uno dei fronti locali delle FARC; sapete chi fornisce le armi ai guerriglieri? Gli Stati Uniti d'America.

 

 

 

BOGOTÁ, 30 agosto 2004

GIORNO 242 DI VIAGGIO

Bogotá ha giá dato la sua risposta. L'arte é un patrimonio di tutti che, come tale, va reso accessibile alla comunitá oppure é un patrimonio di tutti che peró si puó permettere solo una parte della societá?

Premesso che, in questo preciso momento, un euro vale 3.075$, questo é il prezzo dell'arte (perlomeno quella che sono riuscito a mettere in saccoccia in questi giorni) nella capitale colombiana:

* Film-El hombre que mira al suroeste, $5.000;

* Film-Farenheit 9/11, $5.500;

* Film-El Bonaerense, $5.000;

* Música de cámara-Melodías populares nacionales, $2.000;

* Concerto di percussioni, entrada libre;

* Film (anteprima nazionale)-Diarios de motocicleta, $5.000;

* Musiche di Gluck, Donizetti, Verdi, Puccini, Wagner (Orquesta Filarmonica de Bogotá), entrada libre;

* Lezione astronomica al Planetario, entrada libre;

* Film-Viva Zapata!, entrada libre; * Film-Ultimo Tango en París, entrada libre.

Mettere tutti nelle condizioni di masticare cultura, di conoscere, di imparare, di toccare con mano il prodotto dell'umanitá é questione di volontá, non di possibilitá.

Decine di cinema, sale di proiezione, teatri privati, pubblici o indipendenti, auditori, spazi all'aperto, musei, strutture scientifiche che sfornano quotidianamente lavoro, genialitá e sapienza, gratis o a prezzi "sociali". "Esta es tu casa" era lo slogan di domenica 29 agosto 2004, l'opuscolo distribuito alla cittadinanza indicava scrupolosamente le iniziative a disposizione per vivere la propria cittá come la propria casa. Un'iniziativa della municipalitá di Bogotá.

L'ars politica non come ideologia ma come modello di intelligenza e serietá.

 

 

 

BOGOTÁ, 27 agosto 2004

GIORNO 239 DI VIAGGIO

Erica mi ha chiesto di prepararle una pasta italiana, compriamo gli ingredienti ed andiamo a casa sua: scendiamo alla stazione del Metro e mi rendo conto sul momento che abita in uno dei quartieri che tante volte avevo osservato dai finestrini di un bus. Agglomerati di case spesso mai terminate, costruite in maniera approssimativa, qualche volta senza i servizi di base, le strade che non sono altro che spazi vuoti lasciati tra una costruzione ed un'altra. In Brasile le chiamerebbero 'favelas', da queste parti si dice 'comunas'. Quando entro a casa sua mi vergogno (perché?) come un cane per quanto piccolo é l'appartamento: vivono in due con due bambini, una stanza con due letti divisi da una parete a metá, un piccolo armadio, uno specchio, la cucina in uno spazio di circa un metro quadrato ed il bagno un poco piú grande. In fondo non avrei niente di cui vergognarmi ma la prima mezz'ora mi lascia davvero scioccato ed imbarazzato. Mangiamo e discutiamo con la compagna di appartamento (ma si puó chiamare cosí?), ogni tanto arriva qualcuno che strabuzza gli occhi quando si trova a parlare con uno straniero. Mi chiedono le solite cose: com'é la vita in Europa, se é facile trovare lavoro, se é vero che tutti sono felici. Ancora una volta mi trovo a smontare questo falso mito dell'Europa come El Dorado. Da Medellín mi sono mosso alla volta di Manizales, 4 ore di rally a bordo di un pullmino guidato dal solito pazzo scatenato, ancora saliscendi su strade scassate di montagna: ho viaggiato dappertutto e dovunque in vita mia ma questa volta quasi quasi vomito l'anima. In certi momenti mi tengo alle maniglie del sedile per riuscire a stare seduto, nemmeno riesco a scattare qualche fotografia del panorama. Arrivati a destinazione, il consueto sorrisetto complice del pilota accompagnato da un compiaciuto "eh eh, visto che siamo arrivati con un quarto d'ora d'anticipo?"; vorrei rispondergli qualcosa, avrei cosí tante cose da dirgli ma mi domando se poi le capirebbe. Meglio lasciar perdere, penso.

Passo una notte a Manizales e decido di ripartire il giorno seguente. Il viaggio a Bogotá é un ottimo esempio di quello che é la Colombia: salite e discese paurose, dislivelli di 3.000 metri, temperature che oscillano tra i 30 ed i 15 gradi, il tutto nello spazio di poche ore, a volte di decine di minuti, montagne dai prati verdissimi e pianure giallastre per la carenza di acqua, vegetazione di alta montagna affiancata a foresta tropicale ed a centinaia di piante di banane. Ho visitato pochi altri Paesi con questa concentrazione di contrasti.

A Bogotá arrivo nel pomeriggio, quando esco a passeggiare un poco per La Candelaria vedo case conosciute e respiro aria familiare, incontro persone che mi chiamano per nome e mi abbracciano chiedendomi dove fossi stato, com'era andata, quando rimanevo in cittá. Dopo mesi di viaggio in solitaria, posti sempre nuovi, continuamente sistemazioni da cercare, relazioni da costruire sempre sotto la protezione di un poco di diffidenza, ritrovo una cosa che avevo quasi dimenticato: il calore di un'amicizia, l'affetto di un abbraccio. "Donde estan mis amigos, está mi tierra" (dove stanno i miei amici, sta la mia terra) stava scritto in un cartello lungo la strada che mi portava qui; appunto, sto a casa, mi sento a mio agio, sono invitato a casa di questo o di quello, mi offrono da bere. Sento questo quartiere come un rifugio, un tetto sotto il quale ripararmi in compagnia di altre persone. La mia stanza ha un'enorme vetrata che dá sulle montagne che custodiscono Bogotá, prima di chiudere gli occhi la notte ammiro un panorama di luci bianche ed arancioni che illuminano il cuore storico della cittá, il mattino il sole mi bacia in fronte e mi dá il benvenuto a questo mondo di cultura ed arte, amici e svaghi.

Ieri ho passato il pomeriggio al cinema, un paio di pellicole interessanti. Consiglio a tutti la seconda che ho visto, Farnenheit 9/11, un film di Michael Moore: un paio di cadute di stile qua e lá ma un ottimo film-documentario sulla realtá del pupazzo yankee, quello che la CNN non fa vedere ed il Corriere della Sera non racconta. Mi ha fatto piangere (quasi) e ridere di gusto, molte cose non erano novitá ma mi hanno invitato a riflettere.

Questa sera credo che andró all'Opera, un concerto di Mozart in una specie di teatro non ho ben capito dove. Domani mattina alle 10 torno a vedere il mio film, Diarios de Motocicleta, preceduto questa volta da un'introduzione sulla vita di Ernesto Guevara De La Serna e sui perché del suo viaggio.

A tutti un saluto affettuoso

 

 

 

MEDELLÍN, 23 agosto 2004

GIORNO 235 DI VIAGGIO

Un’imprecisione nella mail precedente: Medellín era conosciuta come la cittá più pericolosa del mondo nella prima metá degli anni ’90, non nella seconda. Chiedo venia.

C’é chi mi ha scritto (una donna) per sapere se é vero che qui a Medellín ci sono le ragazze piú belle del Sudamerica; premesso che la bellezza é un concetto del tutto relativo, per quello che mi riguarda posso dire che sono veramente belle. Difficile dire se le piú belle, peró direi che puó essere vero. Sono tante e belle, cioé proprio belle, insomma notevoli, ragazzi sono davvero belle. Mamma mia se sono belle. Spuntano da tutte le parti. A momenti sembra una persecuzione. Si, sono belle.

Ho visitato il quartiere dov’é nato Pablo Escobar e l’ho trovato come me lo avevano descritto: tranquillo, ben tenuto, ricco di verde e di strutture sportive inanziate dal Patroncito. Un poco deludente invece la visita al Planetario, povera di contenuti e decisamente breve la lezione sulle stelle dell’emisfero nord.

Ad un gruppo di israeliani che stavano nel mio albergo é successa esattamente la stessa cosa che era capitata a me, qualcuno é entrato in camera e si é allegramente portato via qualche banconota di pesos colombiani o di dollari. Ho cercato di aiutarli ma tentare di sporgere denuncia qui a Medellín é cosa praticamente impossibile. La collusione fra polizia e quelli dell’albergo impedisce qualsiasi intervento, anche volendo passare oltre a questo si vaga da una stazione di polizia ad un’altra, molti non sanno, ognuno dice la sua o consiglia di andare in un posto piuttosto che in un altro ed anche quando si arriva a destinazione il commento sconfortato (di una poliziotta) che ci si sente dare é: “andate direttamente alla Policia Judicial, almeno loro possono venire subito all’hotel, aprire un’indagine e mettergli paura, denunciarli semplicemente non serve a niente perché verrebbe aperto un processo che peró, per chiudersi, necessita della presenza fisica dei denuncianti...quanto al denaro, beh, improbabile che vi ritorni in mano qualcosa”.

Sabato ho lasciato per una notte Medellín per visitare Santa Fé de Antioquia, 80km su e giú per le montagne dell’Occidente Antioqueño, 2 ore e mezza di strada scassata con le ossa a pezzi per l’influenza; una piacevolezza di cui avrei fatto volentieri a meno. Cittadina di 12.000 abitanti quasi perfettamente preservata nella sua architettura e nelle sue tradizioni dall’isolamento geografico, ganaderos a cavallo con i loro tipici cappelli ed un’educazione fuori dal comune. Anche qui peró parliamo di zone martoriate dalla guerriglia, l’ultimo sequestro da queste parti non piú tardi un mese fa: l’esercito continua a sorvegliare le vie d’accesso principali, qui addirittura inseriscono nel computer i nomi ed i dati di tutte le persone che entrano in questa zona.

Di pochi giorni fa la proposta di tregua alle FARC (il gruppo principale della guerriglia) da parte del governo colombiano; la liberazione di tutti i guerriglieri in questo momento incarcerati in cambio della liberazione di tutti i militari tenuti come ostaggi (alcuni lo sono da sei anni). La risposta é attesa ad ore. Intanto la notizia che la Colombia é quasi diventato il Paese con piú mine anti-uomo al mondo, mi pare che solo la Cambogia viva una situazione peggiore.

A distanza di qualche settimana dall’accaduto e con maggiori informazioni a riguardo, riporto quello che é avvenuto ad Asunción (Paraguay), la piú grande tragedia mai avvenuta in Sudamerica: lo scoppio di un incendio all’interno di un centro commerciale crea il panico fra la gente che tenta di scappare. Il servizio d’ordine, preoccupato che le persone se ne vadano senza pagare il conto, blocca gran parte delle uscite di sicurezza; 400 morti, per lo piú donne e bambini. Il Sudamerica funziona anche cosí.

 

 

 

MEDELLÍN, 17 agosto 2004

GIORNO 229 DI VIAGGIO

Qualche giorno fa il mio viaggio ha preso una svolta importante: a parte qualche breve parentesi, dopo 7 mesi di caldo e mare ho lasciato la costa per dirigermi verso l'interno. La prossima località balneare la ritroverò, probabilmente, in Chile tra qualche mese.

Mi è sembrato bello lasciare Cartagena con un ricordo romantico e così l'ultima sera ho scelto di scrivere il mio diario di viaggio seduto sulla muraglia che protegge la città storica osservando le ultime luci del giorno; da una parte il cielo oscurato dalle nuvole e squarciato da alcuni lampi, dall'altra una nave che attraversava il sole seduto all'orizzonte. Il giorno seguente sono partito alla volta di Monterìa, capoluogo di un dipartimento basato sull'allevamento e sull'agricoltura e con forte presenza di 'paracos' (paramilitari); ho trascorso la serata lottando con il caldo e passeggiando sulle rive del fiume con qualche iguana o scimmietta che ogni tanto mi accompagnava. Visto che il mio rapporto con mamma Natura è ottimo, in camera c'era pure un'invasione di scarafaggi. Il giorno seguente la partenza con destinazione Medellín attraverso paesaggi meravigliosi e montagne infestate dalle FARC (la guerriglia più conosciuta e temuta in Colombia); non è successo niente ma in certi momenti cresceva una sensazione strana favorita senza dubbio da un bel film di guerra proiettato nella televisione del pullmino. Tra i vari paesini e cittadine che ho attraversato, ricordo Buenavista dove il giorno prima erano state recuperate dalla Policia 3 tonnellate e mezzo (record) di cocaina.

Sabato sono arrivato quindi a Medellín, un paio di milioni di abitanti, 1.526 m sul livello del mare, capitale mondiale nel decennio scorso (assieme a Cali) del narcotraffico e riconosciuta nella seconda metá degli anni '90 come la città più pericolosa del mondo. Città natale e dimora pressochè fissa di Pablo Escobar, 'El patroncito', creatore e leader indiscusso del Cartello di Medellín, spietato e gentile, ricco e generoso, inflessibile ed altruista, ancora oggi ricordato dalla gente 'paisa' (gli abitanti di Medellìn) con sentimenti contraddittori. Un uomo capace di accumulare tanta ricchezza da potersi presentare davanti al premier colombiano e di proporgli di patteggiare la sua libertá con il pagamento completo del debito esterno del Paese (negli anni '90 i ricavi dell'industria del narcotraffico erano superiori agli investimenti dell'intero settore privato colombiano).

La città è circondata dalle montagne ed ha un taglio decisamente moderno, solo qualche giorno fa è stato inaugurato il Metro Cable, credo l'unica cabinovia utilizzata in una città per collegare alcuni quartieri disagiati con la linea della metropolitana. La biblioteca universitaria offre la possibilità di vedere film gratuitamente. Il Parque de los Deseos è stato costruito in una zona appositamente pocco illuminata con un sistema di luci dal basso verso l'alto per favorire l'osservazione delle stelle. Il Parque de los Pies Descalsos offre un complesso di getti d'acqua e di fontanelle per rilassarsi durante il giorno con i piedi in ammollo. Sul Cerro Nutibara è stato ricostruito un tipico villaggio antioquieño (la regione di Medellín). L'Università è dotata di un Museo che in ogni momento presenta una mostra od una esposizione gratuita. La Cattedrale è una delle più grandi costruzioni in mattoni al mondo. La piazza su cui si affaccia il Palacio de la Cultura è una mostra all'aria aperta dell'arte di Botero, con statue dalle forme tondeggianti dove in ogni momento è appoggiato qualcuno a farsi scattare una foto o a riposare. Ogni quartiere ha una sua chiesa, quasi tutte di stili e colori differenti. La gente è terribilmente gentile e la signora del ristorante nel quale sono ormai cliente fisso non perde occasione per indicarmi qualcosa di nuovo da visitare o per offrirmi qualcosa da assaggiare. Unico neo della cittá, il colore un po' troppo scuro degli edifici del centro, effetto in parte imputabile all'inquinamento. Come d'abitudine, lunedì era festivo (lo è praticamente la metà dei lunedì colombiani); ho provato a chiedere a cosa era dovuto ma molti non sapevano, pare fosse il giorno 'de la antioquieñidad' (praticamente come se in Veneto si festeggiasse il giorno della veneticità, beh non sarebbe neanche una cattiva idea...); la ricorrenza era il 12 agosto ma per comodità la festività viene celebrata un lunedì.

Per quello che riguarda il sottoscritto, segnalo con una certa felicità la presenza di acqua calda nella mia doccia (erano ormai mesi che non ne avevo il privilegio). Apprendo in televisione che Chavez ha vinto e guardo con curiosità un signore americano di nome Jimmy Carter (presidente dell'omonima Fondazione) ed un altro pupazzetto yankee di cui non ricordo il nome che danno la loro validazione (sigh) all'esito del referendum. Mi sono goduto un film a cui avevo pensato proprio qualche giorno fa: "mi chiamo John Coffey, signora, come la bevanda, ma si scrive in maniera completamente diversa", chissà come si chiama...Mentre ero a cenare, sono entrati in camera ed hanno aperto lo zaino senza però rubare niente.

Domani vorrei fare un salto al Planetario, passeggiare per il quartiere commerciale, vedere il quartiere dove è nato Pablo Escobar e cominciare a mettere piede in qualche villaggio fuori della cinta urbana. Da quello che mi dicono la situazione nella regione è abbastanza tranquilla, quantomeno le strade sono transitabili: vorrei visitare a fondo questa regione.

 

 

 

CARTAGENA (COLOMBIA), 12 agosto 2004

GIORNO 224 D VIAGGIO

Ho visitato ormai parecchio di questa di questa bellissima cittá; questa mattina sono stato a vedere Bocachica (colazione mezza dozzina di ostriche e gasosa all'uva, 0,90 euro), il canale che fungeva da porta d'accesso alla cittá durante gli anni della dominazione spagnola. Due forti ai lati del canale sorvegliavano l'ingresso ed erano legati tra loro da una catena di legno massiccio che impediva alle navi di entare liberamente; la costruzione dei due forti su differenti altezze permetteva inoltre un efficace fuoco incrociato.

La cittá di Cartagena rivestí all'inizio un ruolo secondario all'interno della geopolitica spagnola nelle Americhe, solo il massiccio afflusso di schiavi africani a partire dal 1533 ne aumentó, popolazione, dmensione e prestigio. La posizione geografica e le enormi ricchezze dell'attuale territorio colombiano la resero in seguito pedina fondamentale nel controllo delle terre spagnole ad occidente. La cultura afro rimane comunque presente nel tessuto sociale della cittá, soprattutto nella musica, nella cucina e nella religione. Oggigiorno la popolazione supera di poco il milione di abitanti, 800.000 sono di pelle nera.

Ieri sono stato a visitare La Boquilla, villaggio di pescatori poco a nord di Cartagena, cabañas con tetto in paglia sulla spiaggia ed atmosfera rilassata. Dopo l'aragosta, Diogenes mi racconta dei tempi in cui Pablo Escobar, capo del cartello di Medellín, passava da queste parti a godersi l'aria di mare. Persona gentile, cordiale ed altruista, mi si dice; adorava queste piccole cabañas dove potersi riposare e quando ne trovava una particolarmente di suo gradimento non lesinava denaro perché venisse risistemata. Quante volte i pescatori del posto, riconoscenti al 'patroncito', hanno aiutato i trafficanti a recuperare i sacchi di cocaina gettati in mare perché non venissero trovati dalla polizia marina; ancora oggi, dice Diogenes, "non hai idea di quante volte, durante la pesca, tiriamo a bordo sacchi di cocaina abbandonati in fondo al mare".

Che bello passare le serate in qualche piccola piazza del centro parlando con qualche artigiano, suonatore o signore del luogo; o camminare per le vie della cittá storica con il naso all'insú per guardare, ancora una volta, i balconi delle case o i portoni dei palazzi; oppure ancora sedersi al buio sulle mura di cinta lasciandosi carezzare, finalmente, dalla brezza fresca che viene dal mare ed ascoltando il rumore delle onde che si infrangono sugl scogli.

All'inizio del XVI secolo, con lo svilupparsi dell'Inquisizione nella Penisola iberica, l'emigrazione ebrea prese la strada delle Americhe, Caraibi destinazione preferita. Banditi inizialmente dalla cittá storica, in quanto emigranti illegali, lentamente gli ebrei (di provenienza perlopiú italiana e spagnola) fecero valere le loro conoscenze ingegneristiche per costruire la cittá e svilupparne il commercio. Poco a poco trovarono posto nei vari quartieri a seconda della mansione che svolgevano mentre le persone di colore erano assolutamente bandite dal Centro, considerato come luogo accessibile solamente a coloro che vi ci vivevano. Con la nascita dello stato di Israele, la cittá conosce l'inizio del suo periodo di sfascio; la maggioranza degli ebrei se ne va e le case rimangono vuote, abbandonate e prive di manutenzione. Durante gli anni 70 la parte storica di Cartagena cade praticamente in pezzi e la gente di colore comincia ad acquistare proprietá; molte delle persone si rifiutano di vivere fianco a fianco dei negri ed abbandona a sua volta la cittá. Una serie ripetuta di brogli elettorali impedisce l'elezione di un sindaco di colore, considerato non rappresentativo della cittá e non "onorevole". La proclamazione da parte dell'UNESCO di cittá "Patrimonio Storico dell'Umanitá" permette la ricostruzione ed il restauro della parte "amurrallada" e converte Cartagena nella vetrina della Colombia verso il mondo. E' sparita peró l'anima della cittá ed é difficile incontrare un vero 'cartagenero'; l'abitudine di sedersi di sera sulla porta di casa, parlando ed osservando lo scorrere della vita notturna, quasi non fa piú parte del modus vivendi di questa cittá; il senso di ospitalitá, che tanta gente aveva attratto negl anni 60 e 70, é dventato ormai un argomento di conversazione.

Nella seconda metá degli anni '30 e nei primi anni '40 la Colombia era abitata da diversi nazisti, impegnati a sviluppare il piano d invasione agli Stati Uniti via mare e via aerea. Leticia (nella parte amazzonica) e Turbaco (poco lontano da Cartagena) possedevano un'avanguardia dell'aviazione Luftwaffe, in seguito convertita in aviazione commerciale e successivamente ancora nella compagnia aerea Avianca (tuttora esistente). Al termine della II guerra mondiale, in Colombia trovarono nascodiglio diversi criminali nazisti (sede preferita la Sierra orientale ed in particolare la cittá di Berlín) e rifugiati politici della nuova Germania dell'Est. Lo stesso Hitler morí da queste parti nel 1955. Meglio del Chile e dell'Argentina, la Colombia riesce a garantire anonimato e rifugio a coloro che vogliono/devono sparire; il Mossad, servizio segreto israeliano, difficilmente riuscí a scovare qualcuno

da queste parti. Il crollo del muro di Berlino e la disponibilitá della nuova Germania a ri-accogliere i rifugiati scappati negli anni '40 e '50, generó il flusso migratorio e finanziario contrario; tornarono in patria in diversi e se ne andó dal Sudamerica una quantitá ingente di denaro: le risorse del IV Reich se ne andavano dalle Americhe, a farne le spese soprattutto l'economia argentina.

Il denaro fu ció che sostanzialmente tiró le fila del regime nazista; il genocidio fu orchestrato ad arte dagli alti gerarchi all'insaputa del Fuhrer con l'obiettivo d indebolirne l'immagine, privarlo del potere ed appropiarsi del denaro ebreo.

Me lo ha detto Oscar Baumgartner Perez non so che, ebreo di origine tedesca.

 

 

 

CARTAGENA DE INDIAS (COLOMBIA), 9 agosto 2004

GIORNO 221 DI VIAGGIO

Bello il trasferimento da Barranquilla a Cartagena, in mezzo al verde della campagna colombiana. Arrivato a destinazione, l'autista del bus che mi portava in centro si é dimenticato di dirmi dove scendere e cosí ne ho ricavato un bel giro turistico per la cittá.

Cartagena é proprio come me l'avevano descritta: meravigliosa. Ho pochi dubbi sul fatto che sia la cittadina piú bella che ho visitato finora in Sudamerica. La parte storica é quasi completamente circondata dalle mura di fortificazione costruite dagli spagnoli e questo, giá di per sé, la rende molto attraente. E' possibile camminare sulle mura e ciondolare guardando il mare che arriva a pochi metri. All'interno, chiese e chiesette, piccole e grandi piazze, edifici e case con balconi e terrazze ricchi di fiori. Non é un caso che Cartagena sia stata per anni un porto strategico fondamentale per la corona spagnola: da qui infatti partivano i grandi carichi di oro ed argento verso il Vecchio Continente, qui si trova la fortezza piú grande costruita dagli spagnoli nelle Americhe e sempre qui sono avvenuti i grandi saccheggi di Sir Drake e del marchese de Poitis. Per proteggere la cittá sono state costruite altre fortezze minori ed un canale di 114 km che collega Cartagena al fiume Magdalena.

Si vede che é agosto dal numero di turisti che girano per le strade cotti dal sole ed armati di macchine fotografiche; americana ed italiana le rappresentanze maggiori. Poche nuove per il resto; la suola della mia scarpa destra, incollata con il mastice una settimana fa, regge bene; al ragazzo che ha viaggiato in cabina con me nel Rio delle Amazzoni hanno rubato la macchina fotografica ed hanno tentato di strangolarlo ( Copacabana, Bolivia); il caldo continua soffocante, 31-33 gradi costanti durante il giorno.

Saludos

 

 

 

BARRANQUILLA (COLOMBIA), 7 agosto 2004

GIORNO 219 DI VIAGGIO

Mi sono alzato alle 3:15 senza molta fatica, tanta era la voglia di andarmene da Maracaibo. Un quarto d'ora dopo giá cominciavano i problemi: come mi aveva detto il pomeriggio prima il padrone dell'albergo, ho chiesto al signore alla reception che mi chiamase un taxi e questo mi risponde "sì, mi dà la carta telefonica?"...Me lo sono cercato da solo, in mezzo alla strada. Mezz'ora dopo ero al Terminal davanti all'ufficio della compagnia che mi avrebbe dovuto portare a Barranquilla; attaccato con lo scotch alla parete un foglio con scritto 'no hay cupo' (non ci sono posti sul pullmann), meno di un giorno prima la signora di quello stesso ufficio aveva detto a me ed ad un'anziana signora di presentarsi alle 4 per fare i biglietti, faccia pure scocciata quando le avevo chiesto se eravamo sicuri di trovare posto. Va bene, saliamo in 8 (c'erano anche 3 bambini) su una vecchia e scassata Ford e ci dirigiamo verso il confine; 6 controlli di documenti in 2 ore di viaggio, ogni volta che la macchina (?!) veniva spenta serviva una batteria per riaccenderla, uno dei passeggeri viaggiava con una bambina che non era sua figlia e della quale non aveva documenti (no problem, il tutto veniva risolto con 5.000 bolivares alla volta). Poco prima del confine, la tassa di uscita dal Paese (una delle tasse più bieche che possano esistere, sarebbe più logico pagare per entrare o no?). Alla frontiera l'autista chiede ad ognuno di noi 1.000 bolivares da allungare al militare per evitare che vengano perguisiti i bagagli. In fila per il timbro d'ingresso in Colombia, sempre l'autista mi propone di sorpassare la coda pagando 5.000 bolivares; "no, ne ho piene le palle di pagare e mi faccio la coda!", va bene facciamo tu 4.000 ed io 1.000 ("no!"), va bene tu 3.000 ed io 2.000 ("no!"), ma dai io 3.000 e tu 2.000 ("no!"). Non so come ma, già esausto dopo 3 giorni nell'inferno di Maracaibo, i miei nervi hanno retto.

Finalmente in Colombia facce più sorridenti e atmosfera più rilassata. Alle 14 sono sceso a Barranquilla, altro posticino (dicono) effervescente.

Nel complesso Maracaibo sarebbe anche una bella cittá, con un centro ricco di case carine e colorate, un parco molto ben tenuto ed una chiesa curiosamente colorata di blu. L'aria che si respira camminandoci, però...tutti che ti osservano con sguardi poco confortanti e, quando chiedi qualcosa, atteggiamento scocciato ed insofferente: mentre stavo entrando al Terminal, ieri pomeriggio, un bulletto al volante di un taxi mi passa lentamente davanti dicendo "ti brucerei bene nel fuoco", con la compagnia a bordo sghignazzante. E potrei andare avanti fino a domani mattina scrivendo tutte le altre occasioni in cui questa gente non ha perso occasione per dare sfoggio di ignoranza e maleducazione. Lasciamo per una volta stare l'aplomb e la poesia. Un saluto sincero a tutte quelle persone che hanno fatto da coreografia alla mia visita in Maracaibo: andate a prenderlo nel culo.

 

 

 

MARACAIBO (REPUBLICA BOLIVARIANA DE VENEZUELA), 5 agosto 2004

GIORNO 127 DI VIAGGIO

Sono a Maracaibo, in Venezuela (o meglio, Republica Bolivariana de Venezuela). I lettori più fedeli ed attenti sanno già perchè sono espatriato dalla Colombia per venire qui. Non c'è bisogno che aggiunga altro.

C'è poco da raccontare di questi ultimi giorni, butto giù solamente alcuni appunti di viaggio. Circa una settimana fa, in una cittadina dove mi ero fermato per passare una notte, uno dei gruppi guerriglieri colombiani (l'ELN) ha sequestrato un ragazzo: la notizia non mi ha lasciato indifferente. Ho scoperto che il Parco dove ho passato un paio di giorni, fino all'anno scorso era zona abbastanza turbolenta. Interessante il viaggio dalla Colombia al Venezuela con posti di blocco ovunque e ripetuti controlli di passaporti e bagagli; i militari venezuelani sembrano decisamente più cazzuti dei loro colleghi colombiani. Preparato al salasso del visto per il Venezuela (30USD), ho piacevolmente scoperto che l'ingresso era gratuito. Qualcuno mi sa dire quanto minchia vale 'sto Bolivar venezuelano? Bello parlare con i compagni di pullmann riguardo la sicurezza della città in cui si sta per arrivare, essere tranquillizzati dalle parole di tutti e poi sbarcare alle 9 di sera in una piazza non meno precisata (io ero già pronto al Terminal) con addetti alla sicurezza in giubbotto anti-proiettile. "Il centro a quest'ora non te lo raccomando 'por nada'" mi dice il soldatino; ho preso alloggio in pieno centro e ho capito quello che intendeva. L'appuntamento con la storia è fissato per domenica 15 agosto, giorno del referendum pro o contro Chavez, 'El presidente'; NO rappresenta il voto a suo favore, SI contro. Tutti paiono contro di lui ma la città è tappezzata di manifesti a suo favore e sui muri c'è scritto di tutto; le frasi che mi piacciono di più sono "No y no y punto", "Buss maldito asesino" e "No a la invasiòn yankee". La sensazione di molti è che si avranno diversi problemi di ordine pubblico, inutile specificare che mi piacerebbe restare.

Hasta la victoria!

 

 

 

SANTA MARTA (COLOMBIA), 3 agosto 2004

GIORNO 125 DI VIAGGIO

Ancora a Santa Marta, questa volta esco da un paio di giorni al Parque Tayrona: foresta pluviale, spiaggie pressoché deserte, natura incontaminata e notti in amaca (cazzo che cattive le zanzare!).

Tutto sommato un bel posticino dove rilassarsi e stare lontani dalla massa di gente (ma ne avevo proprio bisogno?), peccato solo la massiccia presenza di israeliani, come al solito poco rispettosi e maleducati. Piselli, tonno e wurstel in scatola la ricca alimentazione che mi ha fatto compagnia. Mare davvero molto bello peró decisamente pericoloso per farci il bagno a causa delle forti correnti submarine (cosí mi hanno detto, ma esistono?). Un poco fastidiose le gigantesche cavallette che mi saltavano in faccia mentre camminavo nella foresta. L'oceano che si accanisce contro gli scogli mi ha intimorito un poco, quando mi sono distratto un attimo e mi sono visto davanti agli occhi un muro di schiuma bianca ho capito che era arrivato il momento di tornare all'amaca a mangiare la pappa.

"Zai, zono partito zinque anni fa da Misano in moto, Grecia, Turchia, Iran, Pakistan poi non mi hanno fatto entrare in India...il zolito sburattinamento, allora sono andato in Tailandia, poi Laoz, Cambozia, Zri Lanka, Nepal...ho laziato a moto a Zingapore e zono andato in Indonezia e Auztralia, zi mi hanno rubato 12.000 dollari in Traveller Cheque...é una zozietá computerale...zi inzomma ti fregano e poi ancora...capizi quello che dico, ancora ancora é per loro e tu...che ztavo dizendo? ah zi, tutti davanti al computer zi zentono importanti ma importanti per che coza che non hanno niente, lo fanno cretino cretino, zi un cretino azzoluto e poi anche vogliono la zua carne per vivere una vita che non é la loro...zai che ti dico, le zcoreggie per esempio che fazzio non sono le mie, zi zioé non hanno il mio odore, é l'odore dei loro corpi che zanno di cadavere...e ancora pretendono, hai capito? pretendono... pretendono...tutto per quel loro modo di vivere che...boh. Zai gli hanno fatto prendere di tutto, fumo, alcool e tutte le paztiglie possibili, giú giú butta giú e poi lo hanno fatto zmettere, zi ho zmesso...mah non capizco poi per quale vantaggio computerale...". Beh, fra tutti gli svitati che ho incontrato in vita mia, questo signore dai capelli bianchi (raccolti in una coda verso l'alto) di Misano rappresenta in assoluto il numero 1. Delle 3-4 ore che mi ha parlato, non ci ho capito una mazza; se c'é una frontiera alla normalitá, lui non solo l'ha giá superata ma é gia a quella successiva. Schizofrenia, sdoppiamento della personalitá (parla di sé in terza persona, ci ho messo 2 ore a capirlo), mania di persecuzione la diagnosi approssimativa che gli ho fatto ma siamo alla punta dell'iceberg. Non parla alcuna lingua straniera (peraltro non é che sia proprio padrone nemmeno dell'italiano) e viaggia con un foglio di quaderno dove ha disegnato una sua personalissima piantina del Sudamerica. Tutte le volte che lo ho osservato durante questi due giorni, o stava cucinando o stava cucendo. O cercato di fargli capire che Medellin é in Colombia ma lui ci é passato e mi assicura che é a Panama. Grande Enrico, vaya con Dios!

Prima di partire per il Parco, lo scorso fine settimana, la Fiesta del Mar; quella che credevo niente di piú di una sagra paesana era in realtá uno degli appuntamenti piú importanti in Colombia, 150.000 persone a spasso, festa in ogni angolo, birra e ron a fiumi, televisione di stato, titoli sui maggiori quotidiani del Paese ed incoronazione della "Regina del mare". Mio personale commento all'evento: buona la birra.

 

 

 

SANTA MARTA, 30 luglio 2004

GIORNO 211 DI VIAGGIO

Chiedo scusa a tutti quelli che si erano raccomandati ed ai quali avevo promesso che non avrei preso rischi qui in Colombia, ma davvero non potevo mancare questo appuntamento: dopo essere stato al 'punto más al sur' del continente sudamericano (Chile) ed a quello 'mais oriental' (Brasile), potevo forse saltare la Peninsula de la Guajira, il promontorio piú al nord?

Le basi su cui é stata pensata e costruita la mia avventura in questa terra non sono state sicuramente delle migliori: presenza di guerrilla, zona con molto contrabbando (per lo piú cocaina) verso il Venezuela e popolazione indigena che tassa "a suo modo" quelli che passano da queste parti. Alcuni parlano addirittura di furti e sequestri ai danni dei turisti. L' "altamente sconsigliato viaggiare da soli per la Guajira" riportato nella mia guida é stata la scintilla che mi ha fatto definitivamente decidere di andarci. In fondo, senza rischi che vita sarebbe?

Di tutto quanto ero al corrente, comunque, niente mi ha messo cosí in ginocchio come il caldo, il vento, il sole atroce e la polvere. Credo di essere arrivato davvero molto vicino al limite delle mie possibilitá fisiche.

Il pullmann preso a Santa Marta mi ha scaricato dopo un paio d'ore ad un incrocio, ho aspettato una mezz'oretta e sono stato portato in un taxi colectivo fino ad un altro crocevia; nonostante fossi al riparo sotto un tetto, il vento ed il caldo (38 gradi all'ombra) hanno cominciato a martellarmi per tutte le 3 ore successive di attesa, fino a quando un camioncino che trasportava qualcosa come un refrigeratore si é fermato davanti a me chiedendomi se andavo al Cabo (esattamente la mia destinazione). "Trovati il posto migliore lí dietro, amigo" ed il posto migliore lí dietro era appoggiato alla ruota di scorta con una mano sul pavimento e l'altra impegnata a tenere lo zaino perché non cadesse. Un'ora di sterrato con sassi che volavano da tutte le parti e polvere in abbondanza. Sceso a terra, ancora una poco piacevole ora a piedi zaino in spalla in mezzo ad un paesaggio desertico (chi ha condiviso con me l'Outback australiano sa quello di cui parlo) agitato solo da un vento feroce che infieriva su quello che ormai rimaneva del sottoscritto. Poco prima del tramonto entro nell'unico albergo di Cabo de la Vela, uno stabile in costruzione con qualche camera spartana, niente elettricitá né acqua corrente; al posto del progresso, una candela ed un secchio d'acqua. Dopo aver tolto il grosso dello sporco di cui ero vestito, un po' di relax davanti al mare colorato di rosso dalle ultime luci del giorno.

I costi eccessivi ed una situazione non propriamente allegra mi hanno impedito di raggiungere la fine della Peninsula. Cabo de la Vela rappresenta per ora il punto piú a nord raggiunto dal sottoscritto in Sudamerica, un villaggio di circa 20 case abitato quasi solamente da indigeni che a volte nemmeno parlano spagnolo. Nessun telefono, poche abitazioni con corrente elettrica ed un piccolo negozio che vende meno del minimo indispensabile. Il giorno seguente mi sono spinto fino al faro, 3 ore circa di cammino per capire meglio di cosa é fatta questa terra: sabbia, sassi e sterpaglie. Il mare é molto bello ma la presenza di squaletti e mante impedisce di fare il bagno in molte parti.

La mattina della partenza la signora dell'hotel ha voluto offrirmi la colazione: pulpa de tiburón desmenuzado (praticamente polpettone di squalo appena pescato dal marito), salatissimo ma eccellente. Il viaggio di ritorno, prima sul retro di un fuoristrada e poi nel bagagliaio di una jeep, ha rimesso a dura prova le mie forze e quando ho appoggiato lo zaino nell'albergo (anche qui l'unico) di Manaure le mie povere costole erano a pezzi, il collo e le braccia bruciate dal sole. Ancora una volta un tramonto spettacolare ha zittito ogni sofferenza.

Oggi ho affrontato l'ultimo pezzo di strada per uscire da La Guajira, comodamente (si fa per dire) in taxi colectivo ed in pullmann. Ad essere un poco giú di tono adesso é il mio cuoricino; la ragazza che ho conosciuto nel bus pareva davvero una persona speciale ma speciale era anche la sua situazione: stava andando ad una cittá diversa dalla mia e lunedi comincia a lavorare in Venezuela. Ho comunque il numero di telefono...magari un giorno ci si reincontra.

Ora un po' di riposo alle mie ossa, Fiesta del Mar qui a Santa Marta durante il fine settimana.

Evviva

 

 

 

GIRÓN (COLOMBIA), 21 luglio 2004

GIORNO 202 DI VIAGGIO

Incomprensioni, sorprese, rischi e grandi paesaggi anche oggi.

Mi presento in una panetteria per la colazione, magno, chiedo il conto: la signora mi dice 1.600 pesos, batte alla cassa cifre per un totale di 1.400, pago 1.500. Me ne guardo bene dal chiedere qualsiasi spiegazione. Bah...

Arrivo al Terminal e chiedo del mini-van delle 8:30 per Bucaramanga ma mi dicono che é giá tutto pieno. Poco male perché a fianco un'altra compagnia offre lo stesso tragitto, pago il biglietto e...mi trovo in un taxi. L'autista deve avere qualche problema esitenziale (o mentale) oppure piú semplicemente crede nella reincarnazione perché nel giro di 10 minuti mi rendo conto di essere inscatolato assieme ad altri tre passeggeri in una specie di macchina della morte: il pilota segue traiettorie tutte sue zig-zagando tra una buca e l'altra, superando in rettilineo ed in curva senza alcuna differenza, procedendo nella nebbia a fari spenti e, una volta arrivati a destinazione, proclamando al controllore con una certa soddisfazione: Pamplona-Bucaramanga delle ore 9, eh eh...

Per arrivare in questa deliziosa perla dall'aria coloniale e patria del tabacco, ancora montagne ed ancora spettacolari. Da Pamplona si sale fino a 3.500m ammirando la maestositá della Cordillera e delle valli che ne sono incastonate, osservando la gente a cavallo che indossa le tradizionali 'ruanas' ed incontrando i normali posti di blocco della 'Policia de la Carretera': questa volta non sono lí per farsi vedere ed ecco che il mio zaino diventa un tappeto di magliette, scarpe e quant'altro nel bel mezzo della strada. Sempre con molta cortesia, alla fine il poliziotto mi aiuta a ricomporre il tutto fino alla fine e mi ringrazia della collaborazione. Non sa che il reale pericolo non sono i passeggeri ma l'autista...

Valicato il passo, il lato occidentale della Cordillera si presenta decisamente diverso: nuvoloso, umido e ricco di vegetazione tropicale. La discesa fino ai 1.000m di Bucaramanga avviene per lo piú alla cieca, si riesce comunque ad ammirare il panorama di questa bella cittá protetta all'interno di una valle ampia e molto verde. Da qui a Girón una gita di piacere: 15 minuti di buseta, in tempo per trovare un hotel prima che cominci a piovere.

'Guerrilla y paramilitares': mentre sto leggendo un libro di sociologia sull'argomento e dopo aver parlato con una ex-attivista del M-19 (uno dei gruppi della 'guerrilla' piú conosciuti ed ora disciolto) mi mancava l'ultimo lato della campana: ieri, al termine della parata per la Festa dell'Indipendenza, mi sono fermato a parlare con il maggiore Lopez, vice-comandante del battaglione di stanza a Pamplona. La zona che sto attraversando era pressoché intransitabile fino a 4 anni fa, ora l'epicentro della tensione é stato spostato un centinaio di kilometri piú a nord, con forme di eversione del tutto originali: guerrilla e paramilitares trovano qui (unico caso nel Paese) il modo di convivere, uniti contro l'esercito. Senza dubbio una delle zone piú calde, me ne guardo bene dall'avvicinarmi.

Ciao ciao

 

 

 

PAMPLONA (COLOMBIA), 19 luglio 2004

GIORNO 200 DI VIAGGIO

Raggiungere Pamplona da Tunja significa percorrere circa 360km in oltre 13 ore in un saliscendi di montagne pattugliate dall'esercito e custodite dalla nebbia. La strada é asfaltata a tratti, talvolta costeggia un fiume, altre volte si affaccia su uno strapiombo da togliere il fiato; il panorama é povero di vegetazione ma ricco di vallate scavate tra montagne imperiose, si passa a fatica da 1.300m a 3.900m, da un clima piacevolmente tiepido ad un'aria stuzzicante e frizzante.

Si capisce che non ci si trova in uno dei posti piú raccomandabili del mondo dalla massiccia presenza dell'esercito, per lo piú militari di leva tra i 18 ed i 20 anni, armati di fucili ma sorridenti a disponibili. A volte gli stessi salgono sul pullmann e viaggiano con noi (come scorta?) qualche decina di minuti. Il paesaggio avvolto dalle nuvole rende l'atmosfera un poco misteriosa e dopo il tramonto qualche strana luce rompe la monotonia del buio sulle montagne, come se qualcuno stesse osservando il lento incedere della 'buseta' nella quale sto viaggiando. L'aria che si respira a Malaga é quella della trranquilla cittadina di montagna (2.300m, 28.000 abitanti), la gioventú se ne sta a bighellonare nella piazza centrale di cui nessuno (né giovani né adulti) conosce il nome; i postumi dell'influenza mi regalano giusto le energie per una cena, una passeggiata ed una tranquilla ora di lettura.

Ho appena finito di dire a mia madre al telefono che il trasferimento che sto per fare é in pianura, che mi ritrovo a valicare un passo a 3.900m; il pullmann sul quale viaggio assomiglia piú al Brucomela (sí, proprio quello delle giostre) che ad un mezzo di trasporto e vederlo ansimare sulla salita di questa montagna martoriata dalla pioggia mi fa pensare a quanta vita ancora gli resti. L'inclinazione che assume a causa di qualche enorme pozzanghera o gli strapiombi che mi vedo a pochi centimetri dal naso mi regalano la sensazione tipica degli ultimi secondi di vita ma il panorama della Cordillera vale ampiamente un poco di sporco sulle mutande.

Nell'ultima ora del giorno completo anche il trasferimento a Pamplona, cittadina un po' piú grande (52.000 abitanti) ma sempre a 2.300m, appoggiata ad una montagna dalla quale spunta una timida luna nuova. La mia presenza non passa inosservata e quando attraverso la piazza centrrale alla ricerca di un hotel una ragazza corre verso di me per chiedermi di cosa ho bisogno; mi indica cortesemente dove andare, dove é la via centrale e dove ci possiamo vedere piú tardi (ovviamente questo lo avevo chiesto io...).

Domani la Festa dell'Indipendenza chiude questo periodo di vacanze per gli studenti. Me ne sto qui tranquillo a gozzovigliare, poi (forse) mercoledí prendo la strada per Bucaramanga, altro pezzo (dicono) spettacolare.

Buona Festa dell'Indipendenza Stefano!

 

 

 

TUNJA, 17 luglio 2004

GIORNO 198 DI VIAGGIO

Un israeliano, un australiano, un nicaragueño ed un italiano; proprio un bel gruppo. Abbiamo passato una settimana di baldoria a Bogotá, a bar vedendoci le partite della Copa America, al banco parlando e conoscendo chiunque entrasse a bere qualcosa oppure raccontandoci i nostri viaggi.

Rony é di un paesino vicino Tel Aviv, 26 anni, é arrivato in Colombia dal Peru via Leticia, Damian ha 25 anni ed é cresciuto a Golden Coast, in Australia, arriva via aerea da Buenos Aires, Fidel é un ventinenne di Managua, provenienza Costarica, il sottoscritto...beh si sa quasi tutto. Una bella compagnia, tutti piú o meno con lo stesso itinerario e quindi...facciamolo insieme, perché no? A uno piace la Tequila, all'altro il vino, a quell'altro il ron e a quell'altro ancora la birra ma mi pare che nessuno si faccia grossi problemi al riguardo.

In teoria si sarebbe dovuti partire lunedí scorso, poi peró uno non puó, quell'altro ha un appuntamento...bene, poco male, si parte giovedí, destinazione Sierra Grande, Parque Tayrona e nord del Paese. Oggi è sabato e...viaggio solo.

L'australiano ha conosciuto una ragazza olandese quando era a Buenos Aires e se ne è innamorato, dopo chiacchierate e chiaccherate, sbronze e confessioni, lo convinciamo che la vita é una sola ed é inutile stare a ragionare con la testa, meglio vivere di pazzie e di istinto: un po' testardo il tipo peró alla fine sale su un aereo per Lima e da lí, con un autobus (?), prende la strada per La Paz ( in questo momento dovrebbe essere in viaggio festeggiando il suo compleanno.

Il nicaragueño non sa bene se la ragazza con la quale ha rotto da poco negli Stati Uniti é la ragazza per lui, se n'è venuto qui anche per capirlo: tra un birra e l'altra salta fuori una colombiana, che faccio che non faccio, parto o resto, alla fine convinciamo anche lui a rimanere in cittá. 'Agarra la honda!', la Sierra ed il nord restano lí per sempre, non così le emozioni.

Partiamo io e Rony, il mio amico tormentato perché la sua ragazza in Israele pare che stia vivendo un momento di crisi ed abbia conosciuto un'altra persona. Questo anno di viaggio gli ha fatto capire che lei è la donna della vita, il suo rientro é prevsito per ottobre ma non si puó correre il rischio di perderla per una banalitá. Ne parliamo spesso durante gli ultimi giorni, durante il trasferimento a Villa de Leyva e ieri camminando fino ai 3.800 metri della laguna di Iquaque, casa di Satana (cazzo quanto freddo, vento, acqua, nebbia). Secondo me la soluzione è presto fatta, preferisco peró che sia lui a dirmela: questa mattina alle 4 lo saluto mentre esce dall'Hostal per prendere la prima buseta per Bogotá dove cercherá di organizzare il piú tempestivo dei rientri. Fra una settimana lei parte per l'India, c'é bisogno di arrivare entro il 21 (che romantico!), il giorno del loro anniversario. Non sa ancora cosa le dirá, ma sará poi necessario dirle qualcosa?

E così questa mattina, rincoglionito da una notte insonne per la febbre e per il mal di gola, mi ritrovo ancora una volta solo soletto, mi trascino verso la piazza da dove partono le busetas e me ne vado a Tunja, 2.860m 75km a sud di Bogotá. Nel pomeriggio cominciano i quarti di finale, Argentina-Peru ed a seguire Colombia-Costarica. Domani comincio la mia avventura nella Sierra Grande, super felice per le scelte che hanno preso i miei amici.

Il mio amore? Beh, non diciamo niente per il momento...

Ciao

 

 

 

BOGOTÁ, 12 luglio 2004

GIORNO 193 DI VIAGGIO

Yo me voy porque en los "subways" no crecen los bejucos;

porque ya no huele el aire prisonero de las calles

a azafrán, ni a tomillo, ni a hembra en primavera.

Me voy porque a los parques les pusieron morzadas.

Me voy porque aquí ya no se puede reir a carcajadas;

porque los crepuscolos se compran enlatados;

porque agonizaron, inermes, los ultimos rebeldes.

Me voy porque hasta los besos se encuentran censurados.

Me voy porque ya ordenaron investigar a la alegría;

porque a los niños les raptaron sus hadas;

porque a los libros los encerraron en la carcél.

Me voy porque a la muerte la están vendiendo en cápsulas.

Me voy porque a las mujeres les rondaron el sexo;

porque al alcohol le editaron sus sueños;

porque en lugar de sauces se cultivan barrotes.

Porque aditaron, todos, los disques del pavor.

Me voy porque en las calles tan sólo ríe el miedo.

[Luis ZALAMEA, 1921 Colombia]

Dedicata al mio grande amico Carlo Cappelletti e a tutti quelli che se ne sono andati.

 

 

 

BOGOTÀ, 9 luglio 2004

GIORNO 190 DI VIAGGIO

Abbastanza traumatico il passaggio da Leticia a Bogotà, dalla foresta amazzonica alla montagna (Bogotà sta a 2.650m), da 30 gradi a 14, dall'aria pura alla cappa di smog. Dopo quasi 5 mesi ricompaiono dallo zaino pile e jeans, è finito per ora il tempo delle ciabatte.

Il quartiere La Candelaria è il centro e la parte storica della capitale e si trova ai piedi delle montagne: a differenza di molte altre metropoli, la città non si sviluppa attorno bensì ai piedi del centro. In totale ci vivono circa 6,8 milioni di persone. Dal mio punto di vista meglio del San Telmo di Buenos Aires, mi vengono in mente solo Parigi tra le città che riescono ad avere un quartiere tanto affascinante, bello e ricco di storia come questo La Candelaria; case in stile coloniale, strane statue in bronzo, colori pastello, terrazzi ben conservati, chiese, università rialenti al 1600, studenti ed artisti che passeggiano tra palazzi e viette strette e ripide che si perdono nelle montagne. All'imbrunire aprono le decine e decine di cafè e bar dall'atmosfera bohemien, luci soffuse o candele, arredamenti curiosi ed affascinanti, musica di ogni genere (dal reggae al pop, dal tango argentino alla cumbia colombiana, dalla rumba al rock) e prezzi convenienti. Un piacere assoluto camminare alla ricerca di un posto dove passare qualche ora.

Per il resto l'ambiente è quello della grande città, gente indaffarata, uffici e traffico mortale; durante il giorno e soprattutto durante la notte, soldati armati (armi israeliane suggerisce il mio compagno di viaggio di Tel Aviv) pattugliano le strade e perquisiscono i passanti alla ricerca di armi o droga. Ieri notte la mia prima esperienza: gambe aperte, braccia al muro e mento sollevato grazie.

Mi informo su dove posso andare in Colombia e come ci posso arrivare e sto studiando che giro fare, fino a lunedì (perlomeno) comunque non se ne parla di muoversi.

Buon fine settimana

 

 

 

LETICIA, 6 luglio 2004

GIORNO 187 DI VIAGGIO

L'aeroporto di Manaus non è stato sicuramente uno dei posti più comodi per dormire, tentare di addormentarsi sui seggiolini con poggia-braccia (si dice così?) ha richiesto un certo impegno. Per fortuna le compagnie aeree brasiliane, con i loro cronici ritardi e casini, mi hanno regalato un bel ritardo che mi ha permesso di dormire in aereo. Il volo Manaus-Tabatinga, vendutomi dalla compagnia di bandiera Varig, è stato operato da Rico, compagnia chiusa per diverso tempo lo scorso anno dopo che un paio di aerei erano precipitati nella foresta amazzonica; non ho fatto fatica a capirne la cause: lo scalo a Tefè, invece che durare mezz'ora, é durato più di un'ora e mezza per eccesso di carico di bagagli...Non voglio sapere come il problema sia stato risolto.

Questi giorni a Leticia sono strascorsi piacevolmente correndo da una parte all'altra per cercare di far entrare in Colombia la nostra amica lettone, scrivendo lettere, producendo documenti, fotocopie, estratti di Internet. Niente da fare, alla fine la menzogna sarebbe stata la soluzione più semplice ed efficace: sarebbe bastato farle dire che Latvia era Lituania invece che Lettonia ed adesso avrebbe il permesso di ingresso pure lei. A questo punto i miei compagni di viaggio cambiano rotta ed io me ne vado a Bogotá domani solo soletto (e la cosa devo dire mi fa un certo piacere).

Non ne capisco il motivo ma la cittadina è piena di poliziotti e militari (probabilmente un dislocamento nelle vicinanze), c'é pure la "Policia de los menores" che, durante la serata danzante di domenica, informa i minori che sono 23 ed è meglio andare a dormire. Il café con leche viene servito con la cannuccia. In un ristorante viene portata in tavola la pizza ma non le posate ("qui normalmente non si usano" la spiegazione della cameriera). La birra non ha una gradazione alcoolica particolarmente elevata. A breve proveró il rum locale.

La cittadina sta nell'estremo sud-est della Colombia, é tranquillissima e la gente é molto amichevole (finalmente dopo il Brasile!), dall'altra parte del fiume sta il Peru e percorrendo la strada principale si arriva (a piedi ) in Brasile. La chiamano Triplice Frontiera.

Domani alle 11:55 parte il volo di linea Aero Republíca per Bogotá, 2 ore circa di volo, 95 euro. E cambiato pure il fuso orario, ora sono 6 ore indietro rispetto all'Italia.

Oggi pomeriggio Colombia in campo per la partita d'esordio della Copa America, ore 17 locali in diretta sul primo canale. Ciao ciao

 

 

 

MANAUS, 2 luglio 2004

GIORNO 183 DI VIAGGIO

Nella mia personale e continua battaglia contro quelli che cercano di fottermi, ieri ho segnato un eccellente punto a favore. Manaus posso dire di averla visitata abbastanza bene, solo non riesco a capire dove vadano a cacciarsi la sera, bah...

Gli interessanti Museo do Homem do Norte e Museo do Indio forniscono discrete informazioni sulle popolazioni indigene che ancora oggi abitano queste terre. Qualsiasi cosa ha una sua leggenda che ne racconta le origini: interessante notare come quasi tutte le cose commestibili traggano la loro origine dalla morte di qualche essere umano, perlopiu bambini. Il rapporto dell'indio con la natura é di estremo rispetto, come quello nei confronti dell'uomo: si caccia e si pesca solamente quello di cui si ha bisogno, gli eccessi non fanno parte del loro modo di vivere.

L'incontro delle acque (Encontro das Aguas) si trova a circa un'ora di navigazione da Manaus ed é uno spettacolo davvero meraviglioso: le acque del Rio Solimões (color cappuccino) e del Rio Negro (color blu-nero scuro) corrono fianco a fianco per 9-12 kilometri, a seconda delle condizioni del momento, in un gioco della natura che dura da millenni. Il Rio Solimões é piu denso e piu rapido (8-9 km/h contro i 2-3 km/h del Rio Negro) mentre il Rio Negro é piú acido e piú caldo: il combinarsi di tutti questi fattori crea un unico fiume di due colori distinti. Le differenti caratteristiche delle acque creano inolre differenti condizioni nella flora e nella fauna: la parte del Rio Solimões é piú ricca di animali (soprattutto di zanzare) e, durante il periodo degli allagamenti, é un insieme di lagune e paludi, mentre alla parte del Rio Negro appartiene la cosiddetta "foresta primaria" ed é praticamente priva di zanzare. Navigare in canoa attraverso la foresta durante questo periodo é stata una cosa affascinante, in mezzo ad alberi e piante di tutti i tipi sotto un soffitto di foglie e liane. Silenzio quasi assoluto, qualche strano rumore o verso ogni tanto. Curiosa la pianta Vitoria Regia, praticamente una foglia a padella capace, grazie a delle bolle d'aria che si creano tra l'acqua e la foglia, di sopportare un peso di 15-25 kili (ci ho visto un piccolo alligatore sopra). Causa forma estrema di terrore misto a panico e crisi respiratoria ho preferito declinare l'invito a farmi mettere attorno al collo una jiboia (anaconda di queste parti)...pazienza, comprero una cartolina. Assieme a me, nell'impavida attraversata della foresta, una signora anziana ed un signore i cui nonni erano originari rispettivamente di Paderno Bellunese (ma esiste?) e di Enego.

La vittoria del Portogallo e stata accompagnata da un fiume inarrestabile di birra e da grida animali di gioia da parte della comunita portoghese riunita (ovviamente) nel bar dove mi trovavo io: io mi sono limitato alla birra.

La mia permanenza in Brasile volge ormai al termine, dietro l'angolo si affaccia giá la prossima destinazione. Sogno di viaggiatore ed avventuriero, una delle mete 'top' giá al momento della partenza: la Colombia.

Domattina all'alba mi aspetta il check-in per l'ultimo viaggio in Brasile, destinazione Tabatinga, la triplice frontiera Brasile-Peru-Colombia. Da li a piedi, direzione Leticia, dall'altra parte del confine.

Ci si riscrive da Bogotá, la capitale.

Ciao

 

 

 

MANAUS, 29 giugno 2004

GIORNO 180 DI VIAGGIO

E la citta piu calda del Brasile e non faccio fatica a crederlo, qualcuno direbbe "si schiatta"...

Il viaggio fino a qui lungo il Rio delle Amazzoni é stato senza dubbio uno dei punti piu alti di quest'avventura in Sudamerica. Un'opportunita incredibile per conoscere persone di tutti i tipi (viaggiatori fulminati, gente con alle spalle anni e anni di viaggi, neo-mamme di 15-16 anni, signore anziane che vanno o tornano dopo aver visitato qualche parente, ragazzini che vanno nella citta in cerca di fortuna ecc. ecc.), per parlare o per rimanere in silenzio ore ed ore, per leggere o per guardare il paesaggio, per dormire o per passare il pomeriggio a bere (cacchio il brandy con la Coca Cola alle 2 del pomeriggio...), per saltellare qua e la o per dondolare sull'amaca, per pensare a quella che e stata o a quella che sará la strada. La descrizione della luna che illumina la foresta amazzonica o il fiume preferisco evitarla per non essere banale. Simil delfini che saltano nell'acqua accompagnando il battello. Bambini o donne che si avvicinano a bordo di canoe per ricevere regali o vendere qualcosa (qualche giovanotto si stara guardando contento con indosso qualcuna delle mie magliette). Il sole che va a nascondersi dietro la foresta mentre il colore dell'acqua diventa sempre piu cappuccino. L'assoluto silenzio della notte. Le lucciole (?) che compaiono qua e la su qualche albero. Una Jiboia (anaconda amazzonica) che si sollazza al sole sopra un tronco (ma lo vista veramente oppure era solamente suggestione?). Una stella (mai vista una di queste dimensioni) che attraversa la Croce del Sud lasciando dietro di sé una scia incredibilmente luminosa. Qualche battello o barchetta che si sposta da una parte all'altra del fiume. Ti fermi nel mezzo della notte in una cittadina sperduta e, mentre si avvicinano tutti per chiederti di dove sei e dove vai, un paio di bottiglie di birra ti spariscono nella gola nello spazio di un minuto. Quando arrivi a Manaus, dopo cinque giorni e mezzo di viaggio, ti immalinconisci nel vedere alle luci dell'alba tutti i tuoi compagni di viaggio prendere la propria strada, abbracciare qualcuno, caricarsi sulle spalle lo zaino, trascinarsi decine e decine di borse e borsettine, il tempo é volato e vorresti che quella fosse solo una fermata temporanea, desidereresti sentire ancora il cupo suono del battello che richiama a bordo la comitiva. Niente da fare, resto sul molo ad osservare le ultime scene di quest'avventura meravigliosa mentre il via-vai di persone si trasforma nello stanco caracollare di qualche marinaio di passaggio.

I 'gringos' pero hanno formato una bella compagnia e ci diamo appuntamento per una festa serale. Io, con la mia nuova ciurma (un inglese ed una lettone), procuro un bel alberghetto vicino al Teatro e partecipo alla spesa generale: delle 40 birre che finiscono a soggiornare nel frigorifero di Robert resta, a fine serata, giusto il necessario per la colazione. Gli altri 15 litri vengono prosciugati al bar. Li vedo seduti con il teatro e la piazzetta sullo sfondo ma per me restano sempre quelli del battello Santarém e dietro di loro non vedo cemento ma alberi.

 

 

 

BELÉM, 22 giugno 2004

GIORNO 173 DI VIAGGIO

E arrivato un grande giorno (Italia-Bulgaria c'entra poco...), questa sera si salpa alla volta di Santarém a bordo di un non ben precisato mezzo fluviale, due giorni e mezzo di navigazione nel Rio delle Amazzoni ed affluenti. Sono abbastanza eccitato dalla cosa, un po' per la novita del viaggio in 'navío', un po' per il fatto di vedere questo fiume famoso e leggendario. Ho inoltre la sensazione di conoscere persone interessanti, mah...L'equipaggiamento speciale con cui mi presento a bordo é composto da una tazza in plastica color arancione pallido, due bottiglie di acqua 1,5 litri, frutta e porcherie varie.

Ieri sera, mentre gustavo al molo la mia ultima (per questa volta) birra Amazon, nuvoloni e saette facevano dell'orizzonte amazzonico uno spettacolo invitante; l'idea di entrarvi di lí a poche ore, mi ha iniettato molta voglia di partire.

Per la prima volta quest'anno, domenica non ha piovuto e questo ha segnato l'arrivo dell'estate a Belém, ieri addirittura sembrava che la temperatura fosse piu sopportabile; solo un'impressione, come il vento smette di soffiare, la sudorazione ricomincia fino a bagnare completamente i vestiti che si hanno addosso. In questo momento é nuvoloso e soffia vento da est, l'ideale per agitare un po' le acque della baia e rendere movimentato il viaggio...

La partenza é prevista per le 18, il sottoscritto va comunque nella zona del porto verso le 15 tentanto il colpaccio, ovverossia la visione di Italia-Bulgaria in diretta.

Questi giorni a Belém sono serviti per fare vita mondana (eccellente la Amazon Beer, una delle migliori birre sudamericane che io abbia provato), conoscere la cittá, riposare, cucire un po' di cose pressoche distrutte, fare compere. Me ne vado da questo posto con un'ottima impressione. Per tutto il fine settimana ci sono state feste, sfilate, balli e mercatini in varie parti della cittá; per quanto rispettoso dei diritti di tutti, non ho partecipato alla terza sfilata di gay e lesbiche in segno di protesta contro l'inciviltá della gente che vi aderiva: alla fine del corteo, infatti, il tragitto era ridotto a un immondizzaio.

La profilassi anti-malarica mi sta un po' complicando la vita, alcune ghiandole mi si sono gonfiate, un principio di otite (spero che resti tale), infiammazione in bocca e generale sensazione di rincoglionimento. Il fatto che ci debba andare avanti ancora perlomeno per 5 settimane non puó che farmi piacere...

Bene bene, é quasi mezzogiorno e restano ancora poche cose da fare, giusto il pranzo e la spesa, una rapida passeggiata per il centro, gli ultimi preparativi allo zaino, il bus per il porto (zona poco raccomandabile, dicono), spero un'entusiasmante partita e poi solo Rio delle Amazzoni, Amazzonia.

Vai Italietta! Vai Uzzo!

 

 

 

SÃO LUIS, 14 giugno 2004

GIORNO 165 DI VIAGGIO

Ciao raga, tutto rego?

Dunque dunque, sono vicino (beh, relativamente, 13 ore di pullmann) al confine nord del Brasile, in questa apparentemente carina citta dalla forte cultura africana.

Nelle ultime due settimane tanto mare, sole, caldo, qualche temporale, molta avventura.

Ho lasciato João Pessoa per visitare una delle mecche italiane del turismo vacanziero: Natal. Bello il viaggio attraverso kilometri e kilometri di coltivazioni di canna da zucchero che si perdevano all'orizzonte. Ho passato la notte vicino alla spiaggia di Ponta Negra e ne sono fuggito il giorno dopo; una via fronte mare piena di ristoranti e negozi dove coppiette di turisti europei facevano shopping, il tutto con frasi del tipo "caro, non trovi che questo costume mi faccia eccessivamente grassa?", "caspita, davvero non costa niente qui...", "certo che e proprio un paradiso". Spiaggia piccola e corta, palazzoni in costruzione dovunque, niente da fare, non faceva per me. Ho lasciato Natal ai suoi seri problemi di prostituzione minorile.

Da Natal sono finito a Canoa Quebrada e questa e stata una piacevole sorpresa: per quanto piena di italiani che vi ci vivono, il posto e molto carino, economico, con delle spettacolari 'falesie' di fronte al mare verde e caldo. Non so quale minchia di corrente passi da quelle parti, ma assicuro che la temperatura dell'acqua non era inferiore ai 30 gradi, dava quasi fastidio uscire dal mare. Ci sono diverse pousadas e quella dove sono finito io era gestita da un fenomenale olandese di circa 50 anni la cui vita e tutta un romanzo: il personaggio lo si puo inquadrare dicendo che vedeva le novelas insieme al sottoscritto e poi lo si trovava alle 4 del mattino sorseggiando una birra di fianco alla piscina ("penso alla vita", mi diceva). Due sono le cose che, a distanza di quasi due settimane, ancora mi sorprendono di Canoa e me ne fanno sentire un po' la nostalgia: il silenzio incredibile ed il fatto che e pressoche inesistente una notte di buio pesto. Una sera sono stato ad una festa reggae in spiaggia e la luna piena illuminava quasi a giorno le persone ed il mare. Impagabile! Circa sette anni fa, in questa tranquilla localita di mare, viveva Manu Chao.

In questa parte del Brasile gli italiani sono conosciuti come puttanieri e consumatori di cocaina: dicono che l'orda selvaggia che arriva durante il mese di agosto sia qualcosa di impressionante (o rivoltante, scegliete voi l'aggettivo a seconda di come vedete le cose). Intanto, durante il viaggio, ne ho conosciuto uno che e venuto in Brasile tre mesi fa con il solo scopo di trombare. Fino ad ora e stato ( mi rifiuto di usare il verbo visitare) 3 citta: Rio de Janeiro, Salvador de Bahia e Fortaleza. Beata miseria... Sono voluto andare a vedere di persona Fortaleza, conosciuta anche con l'appellativo "puteiro" (troiaio o puttanaio): un'altra esperienza sconfortante. Per fortuna che la serata e stata risollevata dalla visione di un film che, per dove e quando l'ho visto, e stato sensazionale: 'Diarios de Motocicleta', film argentino sul primo viaggio in motocicletta per il sudamerica di Ernesto Guevara. Lo consiglio a tutti, in primis ai viaggiatori.

Celebro con la tristezza nel cuore il decesso delle mie gloriose ciabatte infradito, costretto a sostituirle dopo che il piede aveva cominciato a toccare l'asfalto.

Da Fortaleza sono partito alla volta di Jericoacoara, una delle destinazioni preferite dagli italiani in agosto e dai viaggiatori zaino in spalla. Paesaggisticamente un paradiso, con spiagge infinite di sabbia bianca, acqua caldissima e dune ed oasi da mozzare il fiato; da commuovere il tramonto sul mare (una rarita in Brasile) visto dalla grande duna. Il posto comunque non e piu l'amena localita di un tempo e si incontrano spesso viaggiatori di ogni tipo ed eta. Le strade ancora di sabbia danno comunque ancora un senso di romanticismo a questo posto meraviglioso. La prima notte ho trovato in camera a farmi compagnia un ragno lungo almeno 20 centimetri, ucciso senza pieta dal padrone della pousada; tornato solo, ho potuto scrivere serenamente il mio diario di viaggio alla luce di una candela.

A bordo di un buggy sono andato da Jeri a Camocim (sempre verso nord) passando per Tatajuba, questa si una destinazione fuori dal mondo con solo spiaggia e palme; il viaggio e qualcosa di strepitoso e la macchina si arrampica sulle dune regalando panorami di laghetti e lagune verde smeraldo.

Da Camocim in poi comincia la vera avventura, con trasporti rari e ad orari incerti, poche strade e nessuno in grado di dare informazioni; praticamente ci si muove abbandonati a se stessi. In qualche modo sono giunto a Parnaiba, da qui volevo risalire il delta del Rio omonimo ma la barca era fuori uso e quindi sono salito su un bus alla volta di Tutoia: da qui al volo sono stato raccattato da una 'jardineira' (un camion adibito al trasporto passeggeri con delle panche di legno spezza-schiena) e sono finito a Paulino Neves, un posticino dimenticato da Dio appoggiato sul Rio Novo. Dopo un tramonto meraviglioso ho assistito (ci mancherebbe altro) alla mia novela nella televisione pubblica messa nella piazza centrale sotto un albero di caju e, dopo cena, ho osservato la gente del posto passare la serata giocando a tombola per strada. La mattina alle 6 un'altra jardineira mi ha portato a Barreirinhas percorrendo in due ore e mezza i 42 kilometri di pista di sabbia attraverso prati, mata, dune, lagune, fango. Arrivato giusto in tempo per prendere la barca di linea che sul Rio Preguiças mi ha portato fino ad Atins, paesino di circa 150 anime porta d'ingresso al Parco Nacional dos Lençois Maranhenses. La pousada dove ho alloggiato aveva i tetti in rami di palme maio ho preferito passare le due notti che sono rimasto li dormendo in amaca sotto le stelle (credo sia superfluo perdermi a descrivere la quantita infinita di stelle che mi sorvegliavano dall'alto). La doccia non esiste, per 'tomar banho' si usa un bidone pieno d'acqua ed un barattolo con il quale ci bagna. Le sette ore e mezza di camminata nel Parco sono state la giusta ricompensa alla fatica fatta per arrivarci: una distesa sterminata di dune bianche che tolgono il fiato contrastando con l'azzurro del cielo ed il verde delle lagune di acqua dolce che si nascondono ai loro piedi. Non mi ricordo gia quanti bagni ho fatto in queste piscine naturali ed ogni volta era una sensazione straordinaria.

I padroni della pousada sono state persone eccezionali e mi hanno trattato come un signore: indimenticabili i piatti di gamberetti e gamberoni che ho ingurgitato in questi due giorni.

La jardineria che mi ha prelevato da questo paradiso incontaminato e partita questa mattina alle 4 viaggiando nel buio attraverso le lagune e le paludi create dal rio: mentre il sole colorava di arancione le nuvole gia ero arrivato di nuovo a Barreirinhas e stavo passando le acque calme del Rio Preguiças. Le solite piacevoli 3 ore di attesa prima di prendere un pullmann, questa volta un mezzo di trasporto normale, fino a São Luis.

 

 

 

JOÃO PESSOA, 28 maggio2004

GIORNO 148 DI VIAGGIO

Le ultime settimane sono passate tra mare, spiagge, alcune citta, persone scazzate e brava gente, malanni fisici ed un po' di malinconia.

Lasciata Salvador de Bahia mi sono diretto verso nord, percorrendo praticamente tutto il litorale. Citta di mare desolate, bar e ristoranti chiusi, poca gente ed un po' di pioggia mi hanno fatto sentire un po' di solitudine. Il tempo di passare il fine settimana, comunque, e tutto é passato. Arrivato a Maceio mi sono dovuto fermare quasi una settimana per recuperare la piena salute, la sorte peró mi ha regalato la possibilita di farlo in un posto molto bello: attorno a Maceio (circa 500.000 abitanti) dicono esserci alcune delle spiagge piu belle del Brasile, ne ho visitate alcune e ne é valsa la pena. Le spiagge della citta, invece, sono protette da una barriera corallina che crea praticamente una piscina naturale con la temperatura dell'acqua a 30-32 gradi. Visitando una delle cittadine storiche nei dintorni ho rischiato per la prima volta in questo viaggio seriamente la vita: salito su un pullmino, questo é partito a mille all'ora verso Marechal Deodoro trovando all'uscita di una curva un camion in mezzo alla strada che faceva manovra. La frenata ha fatto scoppiare una delle ruote anteriori e l'autista e riuscito non so come a tenere il mezzo in strada e a non farlo finire nel fosso ai lati della strada. Il tutto é durato circa 10 secondi, piú che sufficienti a far salire un po' l'adrenalina.

Da Maceio sono salito verso Recife ed Olinda, quest'ultima una cittadina carina con molte chiese ed un'atmosfera molto rilassata. A Recife ho avuto la possibilita di assistere ad una serata di musica afro e di vedere, mentro aspettavo il bus per tornare a dormire, un personaggio solitario con un serpente in mano. Bah...Recife in questi ultimi tempi é salita alla cronaca per gli attacchi sempre piú frequenti di squali, nell'ultimo fine settimana sono state attaccate due persone che avevano l'acqua poco sopra le ginocchia. Ho ritenuto opportuno non fare il bagno...

Da queste parti é in arrivo la stagione delle piogge, arrivano all'improvviso, durano alle volte un'oretta e se ne vanno per poi ripresentari ancora all'improvviso. Piu a nord si va, piu dovrebbe comunque migliorare anche il tempo.

Ieri sono arrivato a João Pessoa, circa 130km a nord di Recife, un bel viaggio attraversando verdi piantagioni sconfinate di canna da zucchero. La poverta é tanta, sempre maggiore, i prezzi scendono inesorabilmente, le spiagge da sogno si moltiplicano e la gente appare sempre piú rilassata. A pochi kilometri da dove sono in questo momento, c'é il punto piú a est del continente sudamericano, nel pomeriggio vado a respirarlo e a fare qualche foto; dopo aver visto quello piú a sud (in Chile), anche quello piú orientale, mi piace.

L'aver incontrato e conosciuto tanta gente boa (soprattutto viaggiatori) mi ha aiutato molto in questi ultimi giorni a recuperare anche il buon umore che se n'era un po' andato: sono stato invitato ad una festa vicino Manaus in un'isola amazzonica alla fine di giugno, vediamo come si evolve il tragitto.

Complimenti (grande!) a Ferdi, sai giá il perche...Auguri per una pronta e completa guarigione al dott. Mauro. A chi ha lasciato il rugby domenica 16 maggio, complimenti per la carriera sportiva ed auguri per quella professionale. Walter tranquillo, non ho ancora trovato nessuna...pero stasera ho un appuntamento. O circo já foi embora mas os palhaços ficaram; grazie della compagnia Barbara, mi ha fatto molto piacere conoscerti, un giorno ci rivedremo, chissá...

Un saluto a tutti

Andiamo ad una cerimonia Candomblé (religione afro-brasiliana di Salvador).

Siamo in dieci.

Io salgo per primo e poi, uno alla volta, passiamo a prendere nei rispettivi alberghi gli altri 9.

Senza sentir parlare la gente, come si fanno a riconoscere i due italiani?

Sono gli unici con addosso il profumo...

 

 

 

SALVADOR DE BAHIA, 12 maggio 2004

GIORNO 132 DI VIAGGIO

Decisioni al volo, cambiamenti di idea all'utlimo momento e vento della sorte a favore in questi ultimi giorni di viaggio.

Il sabato é trascorso smaltendo la 'resaca' della sera prima (dura da superare la 'cachaça...), la domenica invece la partenza alla volta di Ilhéus, citta abbastanza carina sul mare ma che, come tutte le localita di mare fuori stagione, sta coperta di un velo di malinconia. Lo stato é quello di Bahia, lo si capisce dal fatto che dove c'é musica, c'é gente che balla, sorriso sulle labbra e voglia di divertirsi.

Il lunedi parto in direzione Valença, sperando di trovare un posto piu a misura d'uomo ma con un po' piú di vita: le 5 simpatiche ore di viaggio trascorrono tra colline verdi ricche di vegetazione e gente che sale qua e lá. I paesetti paiono tutti abbastanza stanchi, piccoli porticcioli dove si respira aria svogliata ideali per tirarsi fuori dal mondo. Spero sempre che ''la mia Valença'' sia un po' piú viva ma purtroppo l'idea che me ne faccio attraversandola in pullmann non e delle migliori. Prendo la decisione al volo mentre stiamo entando nella Rodoviaria: affido tutto al fato e proseguo fino alla destinazione finale, una localita a me assolutamente sconosciuta che ha come unica valida ragione per arrivarci quella di essere altre 2 ore piu a nord. Ed eccomi quindi in un'isola di fronte a Salvador de Bahia, la ''cittá piú africana dell'Emisfero Occidentale'' (cosí la definisce la guida, qualcuno mi puó spiegare per favore qual'é l'Emisfero Occidentale?), la culla della cultura afro-brasiliana e bla bla bla. Attacco conversazione con un tipo stravaccato su una panchina e cosa sentono le mie orecchiette? Il giorno seguente a Salvador de Bahia c'é la 'commemoração do Bobby Marley'. Ora, francamente parlando, poteva il qui presente mancare all'avvenimento? No, dico, Bob Marley, mica un minchione qualsiasi...Pronti via, passo la notte nell'isola e l'indomani sbarco a Salvador con tutto il 'necessaire' per una buona commemorazione del re del Reggae. Ieri sera ore 20:00 presente in piazza, piatto di spiedini di carne con insalata in una mano e caipirinha nell'altra, insieme ad una mandria scatenata di gente che ballava dappertutto. Per digerire seconda caipirinha e a seguire mi tuffo anch'io nella bolgia a ballare. A mezzanotte rientro ben soddisfatto in albergo e mi godo la magnifica vista della baia di Salvador impreziosita dalle luci delle navi attraccate al largo e da quelle dei paesetti in lontananza.

Tra qualche ora vado ad assistere ad una cerimonia di Candomblé, la religione degli schiavi africani deportati in Brasile dall'Africa. Serve un abbigliamento con dei colori particolari, niente macchina fotografica, poche persone. Vediamo se fa effetto.

Ciao

 

 

 

PORTO SEGURO, 7 maggio 2004

GIORNO 127 DI VIAGGIO

Un diario di viaggio non puo sempre essere ricco di avventure e racconti, qualche volta puo raccontare di pace e tranquillita.

Bene, annuncio ufficialmente l'arrivo del primo periodo di svacco generale. Il mare e notevole, la temperatura durante il giorno oscilla tra i 30 ed i 35 gradi, c'e un costante piacevole venticello fresco che spira dal mare, la sabbia finalmente e apprezzabile ed ogni tanto compare qualche kiosko che vende acqua di cocco. Ieri sono stato al mare, il mio posto (nel senso che non c'era proprio una minchia di nessuno) era una spiaggia di circa 5 kilometri, ogni tanto due passi poi ancora svacco. Oggi...vedi sopra, con la variante di una festa questa sera in un'isoletta a partire dalle 22...

Per la cronaca questo e il posto dove nel 1500 i portoghesi hanno messo piede per la prima volta; per forza non se ne volevano piu andare...

In onore agli Alpini che in questo fine settimana si ritrovano a Trieste per l'Adunata Nazionale (primo grande appuntamento dell'anno che mi perdo), da ieri sera si indossa maglia commemorativa dell'evento. Terro altro il prestigio del Corpo in terra straniera!

Alpini sempre!

Per quello che riguarda la mia telenovela preferita (Da Cor do Pecado), Preta ha incontrato casualmente l'uomo per il quale aveva perso la testa (Paco) che credeva morto. Lui e promesso sposo di un'alltra pero, ma proprio nella puntata di questa sera i due si re-incontreranno mentre lui sta annunciando ufficialmente il fidanzamento. Appuntamento Rete Globo, ore 19:15. Da non perdere!

 

 

 

PORTO SEGURO, 5 maggio 2004

GIORNO 125 DI VIAGGIO

Qualche giorno fa e ricorso il decennale della morte di Ayrton Senna, giornali e televisioni ne hanno parlato per giorni: poster, inchieste, servizi, interviste si sono sprecati. L`idea avuta dall'autista del mio pullmann per commemorarlo, pero, e stata piu originale: inscenare una bella prova speciale sulla tratta Belo Horizonte-Conceição da Barra. E cosi il povero Stefanuccio ha passato la notte tra lunedi e martedi sentendosi per una volta una "camera car", con il bus che in alcune curve quasi si inclinava a 45 gradi, staccate al limite e sorpassi da paura. Ho fatto i miei complimenti al driver, 12h45' per percorrere quei lerci 750km non e tempo da tutti...

Sono arrivato a Conçeição da Barra con il collo a pezzi (strano...) e sotto un diluvio torrenziale. Nuvole e vento mi avrebbero spinto ad andare ma la stanchezza era troppa, ho infilato una Pousada e mi sono gettato sotto la doccia: all'uscita sono stato premiato da una giornata splendida, sole a picco e piu nessuna traccia del maltempo. Il mare e la spiaggia non erano all'altezza delle aspettative, ho passato il tempo a passeggiare e cazzeggiare. Dopo la doverosa pennica pomeridiana sono tornato in spiaggia per godermi il tramonto e sono rimasto sosrpreso dalle tante persone che venivano a fare la stessa cosa; sdraiatomi sulla panchina ho capito poi il perche: non erano li per il tamonto bensi per un'eclissi lunare con luna quasi piena! Bella figata, solo appena smorzata dal panino con hamburger puzzolente e formaggio scaduto.

Questa mattina ho cominciato la mia odissea verso nord, sono partito alle 7:45 e sono arrivato a Porto Seguro dopo le 18 cambiando 5 autobus...Il paesaggio diventa piu verde e la poverta comincia a farsi piu evidente: tanti bambini fanno il bagno nei fiumiciattoli ai bordi della strada. Arrivo a destinazione proprio mentre una luna piena di colore arancione sale all'orizzonte.

Girovago un po' alla ricerca di un posto dove alloggiare, poi scelgo a caso una Pousada: quando entro vedo la faccia inconfondibile di mio zio Rinaldino, si! Questo e il posto dove stare!

E adesso, alla facciazza di tutti, me vado a bbere na bira!

Ciao

 

 

 

BELO HORIZONTE, 3 maggio 2004

GIORNO 123 DI VIAGGIO

Ieri sera la Giggia e tornata a casa e con lei sono finite le due settimane nella zona di Minas Gerais. Di citta coloniali per adesso ne ho viste abbastanza, ho voglia di cambiare palcoscenico: questa mattina ho provato l'esperienza della vaccinazione in Brasile (ottime le macchie di sangue sulla maglietta appena cambiata) e questa sera parto alla volta di Conceiçao da Barra, sul mare.

Il giorno 122 di viaggio e stato scandito ovviamente dallo scudetto numero 17 dei Ragazzi, il primo (e ultimo?) seguito e vinto dall'altro lato del mondo. Dopo l'attesa, la partita, i cori, le polemiche e le semi-risse, strano tuffarsi nella serenita di una domenica brasiliana qualsiasi, dove praticamente a nessuno fraga una mazza della mia felicita. Penso alla baraonda che ci sara in Italia, a tutte le persone che scrivono e parlano di questo sport, ai tanti ignoranti, incompetenti, incongruenti, opportunisti e voltagabbana che prendono parte al carrozzone de calcio. Chi si ricorda l'estate 2003? Estate torrida, precampionato disastroso, pressoche tutte sconfitte, la miseria di un gol: ecco gli avvoltoi del sensazionalismo, la marmaglia di banderuole che sputa sentenze, scrive fanfarronate, grida giudizi. Li ripenso oggi, gli stessi falsi giornalisti e tuttologi altezzosi, opinionisti improvvisati e scribacchini, quaqquaraqua e buffoni in giacca e cravatta, riempirsi la bocca di elogi sperticati e saltare sul carro del vincitore, portabandiera di una razza senza dignita e coerenza. Mi passano per la mente i loro volti e sento gracchiare le loro voci prima di rituffarmi nell'indifferenza di Belo Horizonte e pensare che, forse, e ancora piu bello vedervi campioni da qui. Grazie!

 

 

 

BELO HORIZONTE, 30 aprile 2004

GIORNO 120 DI VIAGGIO

Cerchiamo di fare un po' di ordine.

Il giorno di Pasqua ho lasciato Curitiba di buon mattino diretto al mare, ho attraversato "il mostro" (São Paulo) ed ho proseguito per Santos. Il Brasile cambia volto: spiagge lunghissime, palme, donne, succhi di frutta a meno di 30 centesimi di euro. Santos e stata una piacevole sorpresa, il centro ricco di storia (e ancora aperta la vecchia Borsa del Café), le case in stile coloniale, la tranquillita del mare. Dopo un paio di giorni ho cominciato a risalire verso Rio de Janeiro fermandomi in un paio di piccole localita sulla costa: la strada regala bei panorami, lingue di spiaggia deserte protette dalla foresta e baie dal mare turchese. Dopo essere stato sottoposto ad un bombardamento di avvertimenti sulla pericolosita di Rio e nel bel mezzo di una guerra per il controllo del traffico di droga nella favela Rosinha, la mattina di venerdi 16 aprile (in condizioni di massima sicurezza con affardellamento totale dello zaino) ho messo piede nella "Cidade Maravilhosa" con ben chiare in testa 3 cose: occhi aperti, mai abbassare la guardia, evitare di girare di notte. Dopo una prudentissima passeggiata pomeridiana, sono rientrato in albergo per una doccia: all'uscita ho conosciuto un simpatico ragazzo francese anche lui in vagabondaggio per il Sudamerica, insieme siamo andati in centro ad assistere ad un concerto...aprés duex trois quatre bières, un tourbillon de caipirinhas, une promenade et finalement, coupe de theatre, le petard final! Prima sera a Rio, ciok.

Il giorno dopo, proveniente da São Paulo, si aggrega al sottoscritto il simpatico burlone Luca, gia compagno di bevute a Feltre; secondo giorno, secondo alloggio, questa volta si passa la notte a Copacabana. Fenomenale passeggiata sulla spiaggia probabilmente piu conosciuta al mondo e, a seguire, tradizionale pioggia di birre a caipirinhas al kiosko 31. La notte all'Help, il locale piu di moda tra gli stranieri alla ricerca di donne: per ragioni di pubblica decenza stendo un velo pietoso sull'andamento della serata, sugli incontri avuti all'interno del suddetto e sullo spettacolo in scena.

I brasiliani vivono per 3 cose: bere, donne e calcio. Al risveglio domenicale mi manca giust'appunto la terza. Lo Zanna ed il Lucone finiscono quindi nientepocodimenoche al Maracana per la finale del campionato carioca tra il Flamengo ed il Vasco de Gama: stipati come le bestie, assistiamo alla sconfortante esibizione delle due squadre (mai piu una partita di calcio brasiliano, ne dal vivo, ne in TV), condividendo simpatici ed indimenticabili momenti accanto ai giovani calati dalle favelas. Ne esce arricchito il mio vocabolario di insulti e parolacce. Con un po' di malinconia, vedo il Lucone andarsene.

Il lunedi arriva invece la Giggia. Restiamo a Rio qualche giorno per visitare la citta: francamente non e che mi abbia entusiasmato, sicuramente una delle citta piu panoramiche che ho visto (soprattutto quando vista dal Corcovado) ma vissuta dal di dentro mi ha lasciato una sensazione di insoddisfazione. Le spiagge di Barra da Tijuca e di Ipanema mi sono piaciute molto di piu che Copacabana, anche se arrivare in quest'ultima in un giorno di sole con questa sabbia bianca, le palme ed il cielo azzurro mi ha dato una bella emozione. Resta un ricordo indimenticabile aver ammirato la citta di notte dal Corcovado. Non e cosi pericolosa come dicono.

Da Rio si va verso São João del Rei, da qui verso le cittadine di Tiradentes (eccellente), Ouro Preto, Mariana e Diamantina. Tutte localita coloniali, collinose, edifici antichi, strade di pietra; l'impressione migliore me l'ha lasciata Diamantina, piu fuori dal giro turistico, piu tranquilla, piu genuina, il suo silenzio dopo il tramonto parla piu di mille guide. Abbiamo lasciato alle spalle il caldo umido e torrido di Rio, da queste parti fa piu fresco, piu secco ed il tempo e piu variabile. I due giorni passati ad Ouro Preto sono stati nebbiosi ed umidi ma a posteriori ne sono stato contento, hanno arricchito di fascino questo posto. Rimanere seduti per terra, avvolti nel caldo umido della mantellina a guardare le nuvole che prima nascondono e poi rivelano questa cittadina ricca di chiese e di storia, con il viso bagnato da una pioggerellina finissima, e stato il momento piu bello. Siamo stati anche a visitare la mina di oro vicina alla citta: si capisce che le condizioni di lavoro del tempo erano certamente difficili ma non e nemmeno proponibile un confronto con le mine di Potosi in Bolivia.

Adesso siamo a Belo Horizonte, la terza citta brasiliana piu grande: e tornato il caldo ma siamo a livelli ragionevoli. Stasera e venerdi, che si spalanchino le porte dei locali! Ciao a tutti

 

 

 

CURITIBA, 10 aprile 2004

GIORNO 100 DI VIAGGIO

100 giorni di viaggio:

UN COSA DA VESTIRE: pantaloni da rugby

UNA GIORNATA: traversata in barca a vela del Canale di Beagle

UNA PERSONA: quella che non ho ancora conosciuto

UNA FRASE: il primo passo nel partire e il primo passo verso il ritorno

UNA COSA CHE AVEVO PREVISTO: puo piovere

UNA COSA CHE NON AVEVO PREVISTO: puo piovere forte

UNA MERAVIGLIA: ghiacciaio Perito Moreno UNA SCOPERTA: Uruguay

UN PIATTO: asado vacio (Uruguay)

HO IMPARATO: lavare a mano e cucire

HO DIMENTICATO: perdere tempo ad una scrivania

DEVO IMPARARE: fare autostop

CHI ME L'HA FATTO FARE: dormire all'aperto in sacco a pelo

ORGOGLIOSO DI: aver scoperto e trovato Nova Feltre

UNA CANZONE DA CANTARE: Bella Ciao

UNA CANZONE DA ASCOLTARE: La Storia (De Gregori)

KILOMETRI FATTI: 14.600

ORE DI VIAGGIO: 289

MI HA INCURIOSITO: la quantita di gente durante la notte nei Terminal

MI HA FATTO INCAZZARE: il furto a Bariloche

MI HA FATTO RIDERE: i bestemmioni in dialetto in Brasile

MI HA COMMOSSO: la saga dell'immigrazione veneta a Rio Grande do Sul

CHE FIGATA!: cambiare programma ogni giorno

CHE PALLE!: l'umidita nella foresta

CHE TRISTEZZA!: i boschi distrutti nel sud del Chile

E' STATO: viaggio

SPERO SARA': viaggio

 

 

 

FOZ DO IGUAÇU, 8 aprile 2004

GIORNO 98 DI VIAGGIO

Con un certo sollievo sono tornato in Brasile. Tra ieri e oggi ho visto i due lati delle cascate di Iguaçu, prima quello argentino, poi quello brasiliano. La parte argentina e piu ricca di passerelle, sentieri e panorami, quella brasiliana offre pero alcune vedute davvero incantevoli. Si capisce perche le cascate sono le piu grandi del mondo (Roosevelt al proposito commento "poor Niagara"); il rumore dell'acqua che cade mi ha accompagnato ancora poco prima di addormentarmi. Dopo il ghiacciao Perito Moreno, la Garganta del Diablo (il cuore delle cascate) entra senza dubbio fra le bellezze della natura piu belle che abbia visto e restarci davanti bagnandosi il corpo con le gocce di acqua che risalivano dal profondo della cascata e stato impagabile.

Purtroppo siamo nella Settimana Santa e questo, unito con il fatto che mi trovo in uno dei posti piu visitati del Sudamerica, implica la consueta variopinta massa di turisti. Non prendetelo come un giudizio ma semplicemente come una constatazione di questa due giorni a Iguaçu; per quanto abbia molti amici simpatici e continui a conoscerne, i giovani argentini non perdono occasione per dimostrarmi perche sono malvoluti dai vicini sudamericani: maleducazione, poco rispetto degli altri e confusione fanno parte abitualmente del loro modo di comportarsi. Il premio invece ai buffoni di corte va agli italiani; facciamocene una ragione ragazzi miei, siamo proprio ridicoli. Un caso su tutti: sta per partire il trenino all'interno del Parco, scende all'improvviso un signore italiano (non dico da dove veniva) e la moglie non trova di meglio che fargli una bella scenata condendo lo sproloquio con amenita tipo "d'ora in poi non ti parlo piu amore mio" oppure "ma ci sara un cartello con delle indicazioni oppure si va a caso nella foresta?"...

Nel pomeriggio sono stato alla centrale Idroelettrica di Itaipu, considerata una delle dieci meraviglie del mondo costruite dall'uomo: ad oggi la piu grande centrale idroelletrica del mondo, gestita in compartecipazione da Brasile e Paraguay, con meta dell'energia prodotta fornisce corrente elettrica al 95% del Paraguay.

Questa notte parto per Curitiba dove dovrei arrivare domani alle prime luci dell'alba. Ieri alla Rodoviaria ho incrociato un ragazzo che non vedevo da 2 mesi e che avevo conosciuto ad Ushuaia; mi ha presentato la sua ragazza colombiana, di Bogota, per chi mi conosce non serve che aggiunga altro...

Tornando verso casuccia ieri sera ho visto alla fermata del taxi che i miei ragazzi sono stati buttati fuori ignominosamente dalla Champions: non sono piu riuscito a pensare ad altro e la mia mente e stata bersagliata di continuo da questo pensiero martellante per tutti i successivi 10 secondi, quando sono svenuto nel letto con il mio piacevole mal di gola.

Ciao

 

 

 

PUERTO IGUAZU, 6 aprile 2004

GIORNO 96 DI VIAGGIO

"Non esiste un posto con quel nome li" mi dice la signora della Biblioteca mentre mi guarda con aria tranquilla e sapiente, "dove lo ha sentito?". Come fai a dirle che non ti ricordi chi te lo ha detto e quando? Le spiego che vengo da una cittadina in Italia che si chiama Feltre e che mi piacerebbe scoprire se esiste veramente in Brasile un posto chiamato Nova Feltre. "Non ne ho mai sentito parlare" e per avere conferma chiama al telefono la madre novantenne che fa praticamente da memoria storica: anche la madre concorda, mai sentito. Esce anche la direttrice della Biblioteca per capire cosa sta succedendo, chiedo perlomeno di poter consultare qualche libro per verificare di persona ma niente da fare, a Santa Maria non esiste un Archivio e comunque non ce n'e bisogno, mi dice, nemmeno lei ha mai sentito nominare questo posto. Che non esista va bene, ma l'assenza totale di collaborazione non mi va giu: punto anch'io i piedi. Tiro fuori l'agenda con gli appunti che avevo preso a Caxias do Sul (li l'archivio ce l'hanno eccome) e leggo ad alta voce come in un libro venga espressamente citata una piccola localita chiamata Nova Feltre; capito che non mi avrebbero fatto fuori con molta facilita, mi rifilano il numero di telefono del parroco, "se e esistito veramente quel posto, lui lo sa" e me ne vado. Vado dalle suore a cercare il parroco ma questi non c'e e mi chiamano un'altra persona: come gia altre volte e una 'gauchada' ad aprire la scena. Disponibilita, gentilezza e conoscenza fanno di Valmor Torri la mia guida all'interno del mondo dell'immigrazione italiana nella zona di Santa Maria, la cosiddetta IV colonia, la parte piu occidentale di Rio Grande do Sul. Mi viene a prendere, mi porta in ufficio, gli spiego la situazione e discutiamo in generale di come e avvenuta la colonizzazione da queste parti; secondo le mie ricerche Nova Feltre e stato un piccolo popolamento nella zona di Formigueiro, creato da alcuni coloni che si erano spostati da un nucleo gia esistente. Pensa un attimo, alza il telefono e chiede informazioni: Nova Feltre esiste ed e esattamente dove dicevo io, oggi si chiama con un altro nome. Il giorno dopo mi passa a prendere con la macchina ed andiamo a visitare Val Feltrina: oggi vi vivono circa 50 persone, andiamo fino in fondo alla valle, dove c'e la chiesa di San Vittore e Corona (patroni della citta italiana di Feltre). Poi visitiamo altre localita fino ad arrivare alla fermata finale: alcuni chilometri di strada rossa polverosa si perdono nella campagna finche, dopo una piccola collina, compare un gruppo di circa 20 case. L'anziana signora dell'unico negozio conferma: "si, una volta questo posto si chiamava Nova Feltre, poi hanno voluto cambiargli nome, stiamo cercando di convincere il sindaco di Formigueiro a ridargli il nome vecchio, quello datogli dai primi coloni". Una foto e si rientra a casa. La ricerca e finita e sono felice di farmi i complimenti.

Essendo venerdi sera si esce, ancora una volta senza mezze misure: la porta della camera si chiude alle 5:30, due ore dopo sveglia. Il pullmann mi porta a Santo Angelo, nella regione brasiliana delle Missioni gesuitiche. L'indomani visita alla missione di Sao Miguel das Missoes.

Il giorno seguente altro trasferimento, si torna in Argentina, destinazione San Ignacio dove c'e un'altra missione Patrimonio dell'UNESCO.

Adesso sono a Puerto Iguazu, lato argentino della famose cascate. Domani visita in giornata con rientro in Brasile in serata (se riesco). Dopodomani, prima dell'arrivo della massa di gente per la Pasqua, visita al lato brasiliano e fuga verso est.

Cerco di curarmi il leggero mal di gola che mi e venuto grazie all'aria condizionata degli autobus.

Ciao

 

 

 

SANTA MARIA, 1 aprile 2004

GIORNO 91 DI VIAGGIO

Deplorevole, indecente e frustrante sono i primi aggettivi che mi vengono in mente per descrivere la quantita di sgnacchere che c'e a Santa Maria, citta di 300.000 abitanti nel profondo interno di Rio Grande do Sul: alte e basse, bianche, nere e mulatte, capelli corti, capelli lunghi, pantaloni e minigonne ce n'e per tutti i gusti. Scendere in strada significa passare ore da batticuore.

Per fortuna c'e anche l'antidoto a questa disgrazia: lo squallore del mio albergo. Preso possesso della stanza numero 7 dopo una feroce trattativa con il padrone (ha fatto tutto lui, ha lanciato il prezzo e poi mi ha fatto lo sconto a scalare in base ai giorni che mi fermo...) sono andato a fare una doccia. L'infernale apparecchio non ha mezze misure: o acqua gelida di nevaio oppure spremuta di magma terrestre...Quello della stanza di fronte ascolta la Santa Messa con effetto cinema (nel senso che tutta la platea in strada puo fruire del suo audio) mentre al piano di sotto coppiette piu o meno giovani affittano una stanza ad ore. La maniglia della porta e presente all'interno, all'esterno non esiste (in effetti a cosa serve? e sufficiente una scarpata per aprirla...). Puo capitare durante un viaggio che uno abbia cosi bisogno che corra a prendere una camera in albergo per andare in cesso ma il contrario...avere in albergo un cesso che fa cosi schifo che uno va alla stazione degli autobus per cagare non mi era ancora capitato (fino ad oggi). Nella notte III guerra mondiale contro uno stormo di zanzare possedute da Satana, risultato tracce di sangue sui muri a cadaveri per terra.

Sono arrivato da queste parti per completare la visita alle zone dell'immigrazione italiana, oggi ho trovato Nova Feltre e domani (se Dio vuole) ci vado, annettendo visita a Val Veroneze e Val Feltrina.

E finita la montagna, da queste parti solo pianura e caldo umido.

Informazione di servizio a Ferdi, Nicola e Flavio della Locanda: venerdi scorso mi sono impuntato ed ho deciso di fare serata, ho scelto il locale e ci sono andato. Sono uscito con i buttafuori al termine delle pulizie (6:00 AM). Bella serata, bella musica, solo non ho capito una cosa: perche Cafu stava sul palco a suonare e cantare? E cosa ci faceva Firpo in compagnia di 2 ragazze? Mah...

La moda giovane delle ultime settimane a Belo Horizonte e quella di rubare i semafori pedonali per poi venderli (ma a chi? bah...).

Un saluto ad Alvaro Guerra, paron del negozio Fetina de Formaio di Carlos Barbosa che mi ha fatto assaggiare formaggi ed affettati in quantita: l'intervista al giornale sara per la prossima volta! Mi racconta un simpatico aneddoto sui bergamaschi della zona: un anziano signore dice alla moglie di preparare la polenta cosi da mangiare per pranzo polenta e cacciagione, prende il fucile ed esce di casa. Torna dopo qualche ora senza niente, incazzato come una biscia con la moglie che gli dice: "e adesso cosa mangiamo che non hai procurato niente?". L'orgoglio ferito prende il sopravvento e la risposta non si fa attendere: "Polenta e porca madon...". Tutto fa cultura, come mi ha insegnato Sergio Sonda "bisognera pur farli laorar 'sti preti...".

L'altra sera ho visto un programma su un canale inglese, il titolo era "Il posto assolutamente da vedere prima di morire". I top 15 sono risultati:15- Niagara Falls 14-Machu Picchu 13-Chichen Itza 12-Ayers Rock 11-Lake Luoise, the rockies 10-Taj Mahal 9-New York 8-Sydney 7-Las Vegas 6-Golden Temple, Amristar 5-Cape Town 4 -South Island (New Zealand) 3-Disney World 2-Great Barrier Reef 1-Grand Canyon. Ognuno puo trarre le conclusioni che vuole, mentre voi pensate io vado a bermi una bella birra fresca (670cl ovviamente...).

 

 

 

BENTO GONÇALVES, 29 marzo 2004

GIORNO 88 DI VIAGGIO

Non si ricorda nella storia un effetto metereologico di questo tipo in questa zona del mondo: un ciclone tropicale (o un uragano, i metereologi non hanno ancora deciso come chiamarlo) si e sviluppato in mare vicino alla costa di Santa Catarina, la coda ha distrutto qualche caseggiato. Tutti paiono molto sorpresi, io sono abbastanza sereno. Normale che capiti qualcosa di inusuale quando passo io...

Facciamo un po' il punto della situazione. Negli ultimi dieci giorni ho cercato di ricostruire la storia dell'immigrazione veneta nella regione di Rio Grande do Sul, per questo motivo ho fatto base a Caxias do Sul e mi sono mosso per visitare cittadine e paesi nei dintorni. Sono stato ad Antonio Prado, una cittadina considerata Patrimonio Dell'Umanita per via delle circa 45 case antiche costruite all'inizio del secolo scorso ed ancora quasi perfettamente conservate: il crollo di un ponte ed il conseguente isolamento per circa 60 anni hanno permesso che le costruzioni originarie e la cultura della zona sopravvivesse intatta fino ad oggi. Flores da Cunha, la vecchia Nova Trento e una gradevole localita di collina, cosi come Farroupilha (vecchia Nova Vicenza). Restano poche costruzioni originarie, la presenza dell'immigrazione la si vede perlopiu nei nomi e nelle insegne dei negozi. Garibaldi e invece un gran bel posto, con case antiche molto ben conservate ed un bel Museo Municipale; come Bento Gonçalves e una cittadina decisamente ricca ed insieme a Carlos Barbosa costituisce il triangolo dove viene prodotto il migliore vino del Brasile. Qui si puo ancora bere il succo d'uva: accompagnarlo con fagioli, polenta e carne e uno spettacolo. Veranopolis e un'altra tranquilla cittadina di montagna (se si puo chiamare montagna questa serra), con strade di porfido e foresta vergine a fare da contorno.

Con Eduardo sono stato a Nova Padua, terra dove a fare da "paroni" sono i Sonda, famiglia originaria di Rosa (VI). Accompagnato da lui in macchina sono arrivato al punto panoramico (chiamato, guarda un po', Sonda) e poi dalla nonna che vive in "colonia". Avendo saltato la colazione ho sfruttato al meglio il senso di ospitalita di questa gente e, fra una storia e l'altra, sono arrivati in tavola formaggio (fatto in famiglia), salame (fatto in famiglia), pane (fatto in famiglia), vino (fatto in famiglia), marmellata di fichi (fatta in famiglia) e d'uva (fatta...in famiglia). L'uomo del campo (Domenego) era a raccogliere frutta ed arrivato un po' dopo: "porco Di..." ed ha aperto un'altra damigiana da 5 litri.

Ho trovato nella famiglia Sonda un'umanita straordinaria ed ho passato una notte a casa loro in Caxias: ho mangiato il mio primo 'churrasco' (piu o meno carne allo spiedo), gallina in umido, polenta, bevuto vino fatto in casa, ingozzato come un porco e assaggiato un paio di graspe. Abbiamo riso tutta la sera e passato una piacevole giornata in famiglia. Per la gentilezza, il senso di ospitalita, la cortesia e la disponibilita, i miei ringraziamenti non saranno mai abbastanza. Vale ancora la promessa che vi ho fatto uscendo di casa: un giorno tornero.

Un giorno di ricerche nell'archivio municipale di Caxias mi e costato il trovare Nova Feltre, fantomatica localita di cui alcuni in Italia mi hanno parlato e che non compare in nessuna cartina geografica. Pare che sia un piccolo quartiere ora annesso a Formigueira, vicino a Santa Maria; nei prossimi giorni andro a pescare anche questo posto. Senza vedere questa localita la mia ricerca non puo dirsi completa.

 

 

 

CAXIAS DO SUL, 24 marzo 2004

GIORNO 83 DI VIAGGIO

Tra la fine del XIX e l´inizio del XX secolo l´immigrazione veneta rappresento il 48% del totale verso il Brasile. In alcuni posti, come il Parana, questa cifra raggiunge il 90%. Nel Rio Grande do Sul un terzo arrivo dalla provincia di Vicenza, il 26% da quella di Treviso.

L´avventura cominciava quasi sempre a Genova (per alcuni gia molto prima quando dovevano scendere a valle con il carretto), "36 giorni di macchina a vapore" per arrivare fino a Rio De Janeiro dove venivano ricevute le prime cure e la gente veniva inviata alle rispettive destinazioni. La traversata oceanica non era per niente agevole e spesso durante il viaggio morivano e si ammalavano decine di persone, buttate in mare perche non contagiassero gli altri. Molti degli uomini, donne, bambini e vecchi che partirono per la "Merica" non riuscirono mai neanche a vederla. "Assistemmo allo sbarco di un pover´uomo, padre di 5 figli piccoli, che scendeva fatica le scale della nave spingendo avanti i figli che piangevano e portando tra le braccia il cadavere della moglie morta da poche ore. Appoggiatolo a terra, lo vedemmo salire nuovamente le scale per tornare poco dopo con il cadavere del figlio tra le braccia."

Alcuni finivano dove avevano chiesto, altri da tutt´altra parte, lontani dalla famiglia e dagli amici per i quali erano venuti in Brasile. Quelli che proseguivano per Rio Grande do Sul affrontavano altri 10-12 giorni di "vapore", poi ancora imbarcazioni oppure a piedi; nel centro d´immigrazione l´attesa per ricevere il lotto di terra (in alcuni casi si arrivava ad aspettare mesi). La terra assegnata agli italiani era quella della Serra, cioe la montagna: occorreva quindi mettersi in marcia verso il luogo di destinazione. "Questa marcia verso lo sconosciuto, verso la foresta vergine, per una strada che non era mai piu larga di un sentiero nel mezzo della foresta, segno profondamente gli immigranti. La foresta vergine, lo stato impraticabile della strada facevano di questo viaggio un´epopea che gli italiani non erano preparati ad affrontare. Questa marcia di 3 giorni e 3 notti, senza riparo, senza alimenti, sotto il sole e la pioggia, il freddo ed il calore, veniva fatta da persone gia stremate dalla lunga traversata di mare e fiumi, alcuni malati, altri segnati da sofferenze fisiche e morali. Era fatta da vecchi e bambini, donne incinte e madri con figli in braccio. Arrivare a Caxias da Sao Sebastiao de Cai significava salire da 10 a 800 metri di altitudine."

Gli aiuti finanziari per costruire la casa, gli strumenti agricoli, le sementi e gli altri favori promessi dal Governo brasiliano rimasero del tutto sconosciuti nei primi anni dell´immigrazione. Per guadagnare qualcosa e comprarsi quindi il necessario, gli uomini lavoravano 15 giorni al mese alla costruzione di strade e ponti: quando a mancare era anche questa possibilita di lavoro, solo la solidarieta di altri coloni riusciva a tenere in vita i nuovi arrivati.

La terra che ricevevano era foresta allo stato puro: ci si dovette aprire il cammino con la falce, affrontare le bestie del posto e far fronte agli indigeni che vissero l´immigrazione come furto della loro terra.

DALL´ITALIA NOI SIAMO PARTITI,

SIAMO PARTITI COL NOSTRO ONORE,

TRENTASEI GIORNI DI MACCHINA A VAPORE,

ED IN AMERICA SIAMO ARRIVA.

A L´AMERICA NOI SIAMO ARRIVATI,

NON ABBIAMO TROVATO NE PAGLIA NE FIENO,

ABBIAMO DORMITO SUL NUDO TERRENO,

COME LE BESTIE ABBIAMO RIPOSA.

MA L´AMERICA L´E LUNGA E L´E LARGA,

E CIRCONDATA DA MONTI E DA PIANI,

E CON L´INDUSTRIA DEI NOSTRI ITALIANI,

ABBIAMO FORMATO PAESI E CITTA.

La gente ancora oggi e segnata dalla fatica e dalle sofferenze dei genitori e dei nonni: gli anziani soprattuto, quando mi sanno veneto, mi guardano con gli occhi un po tristi e malinconici di chi non ha avuto la fortuna di vedere la sua terra d´origine di cui tanto ha sentito parlare nei racconti dei vecchi di famiglia.

Durante questi giorni sono stato per musei e biblioteche, ho consultato libri e letto le lettere inviate da e per l´Italia, visitato citta, paesetti e relativi cimiteri, parlato con i "talian". Non mi vergogno a dire che, almeno un paio di volte, mi sono commosso pensando a quello che e stato affrontato in quegli anni. Mi fa piacere pensare che almeno il ricordare i cognomi di alcune di queste famiglie sia un bel gesto per esprimere la mia ammirazione a questi pionieri, veri eroi realmente esistiti.

Ad ANNA RECH ho trovato Susin, Boff, Sachett, Dalzotto, Dal Pra, Lunardon, Citton, Scopel, Scariot, Molin, Zanol, Ruaro, Dal Piaz, Pelizzari, Gardelin, Bordin, Corso, Lise, Giacomet, Tonet, Rech. A GRAMADO Basei e Rossa da Belluno. A FARROUPILHA (vecchia Nova Trento) Feltrin, Paniz, Brambilla, Pavan. A CARAVAGGIO Zucco, Pasa, Pellizzari, Giacomel, Franceschet, Somacal. Ad ANTONIO PRADO De Boni, Scopel, Chiarello, Pasa, Piazza, Rech, Pegoraro, Conte, Graziottin, Golin, Bocchese, Cadore, Zanella, Visentin, Faraon, Della Giustina, Macagnan, Pauletti, Mazzocco, Baggio, Barp, Marin, Susin, Furlin, De Nale, Tieppo, Grandi, Marcon, Gabrielli, Zardo.

 

 

 

CAXIAS DO SUL, 17 marzo 2004

GIORNO 76 DI VIAGGIO

Stefanuccio e in famiglia! Caxias do Sul, stato di Rio Grande do Sul, feudo veneto in terra brasiliana.

Ho lasciato l`Uruguay dopo aver visto Punta del Este, una delle cattedrali sudamericane del turismo di massa, oggi praticamente deserta per la fine della stagione; in giro solo qualche persona anziana ed i pochi abitanti del posto. Alberghi chiusi, ristoranti sprangati, barche a vela parcheggiate...se ne riparla l´anno prossimo. Per la prima volta in Uruguay ho avuto a che fare con persone poco educate, si vede che la massa costante di turisti ha abituato troppo bene da queste parti. Nella sagra paesana "Call me" di Spagna continua a riscuotere un certo successo.

Durante il viaggio verso il Brasile ho fatto sosta a Chui, un´altra cittadina di confine divisa in due da un`Avenida. Nel lato brasiliano molti negozi sono di proprieta araba, molte e suggestive le teorie sul perche questa gente viva in questa parte del mondo. Ho visitato un forte molto bello, peccato solo che tempestasse e che facesse un poco freddo: un`anima pia, mossa a compassione, mi ha raccattato per strada e mi ha accompagnato fino all`albergo dove ho potuto perlomeno cambiarmi.

Mi sono fermato a Porto Alegre una giornata, ovviamente dormendo nella zona in assoluto piu sconsigliata, quella attorno alla Rodoviaria: ho stabilito il mio primato per una cena, 2 reais, circa 0,70 euro. Sono tranquillamente svaccato in un parco e cosa passa la radio: la Pausini, benvenuto anche in Brasile, Stefanuccio!

A molti dei semafori della citta, quando diventa rosso, dei giovani si mettono davanti alle macchine con dei cartelli pubblicitari. Secondo me una bella idea, bravi.

Esco da porto Alegre e durante il viaggio (circa 2 ore) mi diverto a leggere i cartelli pubblicitari o le fabbriche che stanno ai lati della strada: Cadore Pizos Azulejos, Cassol Pre-fabricados, Transportadora Trevisan, Vinhos Scopel, Scarlet Moda Femenina. La parte montagnosa dello Stato di Rio Grande do Sul (del quale ovviamente provvedero ad acquistare subito una bandiera) e roccaforte italiana e soprattutto veneta. I nomi di molte citta e paesi lo testimoniano: Meneghetti, Nova Milano, Nova Brescia, Nova Bassano, Nova Padua, Garibaldi, Anita Garibaldi, Monte Belo do Sul, Nova Roma do Sul, Sao Joao do Polesine, Alpestre, Trentin, Ana Rech, Imigrante, Progresso, Beluno. Ma finalmente...Caxias do Sul: terra veneta, terra nostra. Le vie portano i nomi di molti veneti venuti da qeste parti alla fine dell`800. Finalmente si puo camminare tranquilli per le strade, e sparita l`afa della pianura, anche durante il giorno si sta bene e non si cola di sudore.

Ieri mattina sono partito alla volta di Ana Rech, un nome tipico delle mie zone, e non sono rimasto deluso; 15 kilometri (a piedi ovviamente) per arrivare ad una cittadina di 30.000 abitanti immersa nel verde della Serra. Entro al ristorante per mangiare (pasta e riso ma soprattutto fasoi e capus!), la ragazza nota la maglietta (non a caso avevo scelto quella della mia regione) e chiama il padrone del locale. "Di dove sei?"-"Italia, Veneto, Feltre"-"No sta dirme, fatu che po qua? Bon bon, ti magna che po parlemo" in un misto di dialetto bellunese e vicentino. Da li mi hanno spedito dal fotografo dove ho visto tutte le 346 foto della comitiva di italiani di Pedavena che sono venuti qui lo scorso anno: il fotografo, Pauletti di cognome, parla solo dialetto feltrino. Poi da Don Bruno, il parroco, che mi fa visitare la chiesa (e conservata una statua della madona regalo della parrocchia di seren del Grappa), mi racconta la vita di questa comunita e mi regala due libri con la storia di Anna Rech. Nativa di Pren, lascia l`Italia a 49 anni dopo la morte del marito e con i 7 figli raggiunge il Brasile nel 1877. Su suggerimento della gente del luogo si allontana dall`agglomerato di case che era una volta Caxias e si installa a circa 15 kilometri dove apre una Pousada per dare ristoro e da dormire ai viandanti che passavano da quelle parti: la gentilezza ed il senso di ospitalita della signora fanno si che, quando si comincia a parlare di dare un nome al paesello che si era sviluppato, la gente non ne vuole sapere di un nome diverso da quello di Anna Rech.

Per i miei amici di Feltre, queste le parole del parroco: "caro mio, na olta l`era dura. quei che rivea qua i era pore grami e ghe tochea laorar". E la gente che arrivo costrui la zona che oggi produce il miglior vino del Brasile. Anni di sacrifici e di sudore, i pionieri andavano avanti:"canta che te fa ben" si dicevano, e do a laorar. Il titolo di una di queste canzoni: Le femene le tute companhe (questa per te, Carota).

Adesso vado, la mia gente mi aspetta.

 

 

Stefano Zannini    zanna72@gmail.com 

http://inviaggio2004.splinder.com/

 

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