Perù, viaggio sulle Ande Peruviane

Diario di viaggio APRILE 2004

di Carlo Pancera

 

 

D I A R I O

10 aprile pomeriggio

SI PARTE ! caricata la macchina, giù in autostrada a parlare del viaggio, e a leggere brani di pagine della guida, e discutere sul percorso, e a sognare ad occhi aperti.

Tante aspettative; il viaggio non è ancora incominciato che è già caricato di un sacco di elucubrazioni dell’immaginario, di significati e di attese. Assenza dal lavoro, impegni interrotti, si lascia la casa con la famiglia da cui si resterà assenti con la sensazione di causare una mancanza non leggera, investimento di soldi, desiderio di fare grandi cose, e timori che tutto fili liscio... Insomma c’è un po’ di emozione nell’andare a letto a dormire la sera prima e mettere la sveglia per le quattro e mezza. Eh sì perchè al solito la faccenda volo sta in questi termini: bisogna essere là due ore prima, quindi bisogna uscire molto presto per prendere il taxi per l’areoporto, e perciò io e Ben siamo venuti giù da Cence questa sera, e poi oltretutto il volo è per Madrid, poi c’è da aspettare là e cambiare, eccetera, eccetera, quindi insomma prima di salire proprio sull’aereo per il Perù, ce ne passa del tempo in preliminari...

 

11 aprile 2004

E così eccoci al buio e al freddo (è mattino o notte?) fuori dalla porta di casa a attendere il taxi ordinato l’altro ieri. Il tempo passa ed ogni minuto è infinito, e la taxista non arriva ! Tutto è perduto, soldi, volo, vacanze, avventura, e questo e quest’altro. Ma dov’è? cosa fa? cerco il numero di telefono non lo trovo forse per l’agitazione, e intanto il tempo passa, e lei non arriva... basta! è deciso, chiamo un taxi col radiotaxi. Oddio speriamo di fare in tempo, ma certo che facciamo in tempo. Oh ecco il taxi, ho proprio fatto bene a chiamarlo, chissà perchè non è venuta e non mi ha chiamato, bah.... e...invece eccola che arriva anche lei in contemporanea. Ora ci sono due taxi davanti al cancello nel buio. Vabbè tutto si risolve pagando la corsa all’altro e con la dichiarazione di colpa della taxista che dice che ci detrae quella spesa dalla cifra finale.

E’ passato un sacchissimo di tempo e siamo ancora qui ! nei corridoi anonimi dell’areoporto di Madrid a guardare vetrine di negozi che non ci possono interessare di meno e che abbiamo già visto cinque minuti fa e mezzora fa eccetera. Siamo partiti ieri, e siamo partiti di nuovo stamane -ovvero stanotte- e ancora non siamo partiti...

SI PARTE ! questa volta sì che siamo seduti sull’aereo per Lima, e quando si scenderà di qui si scende in terra peruana, dall’altra parte dell’oceano, e dall’altra parte del continente sudamericano sul lato del Pacifico, dall’altro emisfero, sotto l’equatore. Altro cielo, altro clima, altro mondo, altre stelle.

Certo che è ben lungo il volo, ma ora siamo fuori dall’areoporto di Lima che respiriamo quest’aria e parliamo con Angel e la sua ragazza canadese, e saliamo sul taxi che ci ha procurato ed è ancora lo stesso giorno: l’11 di aprile, domenica di Pasqua. evviva. L’unica nota negativa è che mi hanno rubato dalle tasche dello zaino proprio dei sacchetti in cui avevo messo tutti i giocattolini da regalare a bambini nei villaggi, me ne resta solo uno. Comunque. Cambio un po’ di €uro (poco più di 3,90 nuevos Soles per 1€).

L’auto attraversa per un sacco di tempo questa metropoli del terzo mondo, con traffico caotico, puzze di scappamenti, di nafta o benzina a bassi ottani, con fumo nero che ti va in faccia entrando dal finestrino, e clacsonate continue, con zig-zag e frenate e accelerate, è un vero viaggio. Ci sono autostrade urbane per andare da una parte all’altra della megalopoli. E ora ? ahora mismo hemos llegado ! stiamo in un moderno aparthotel (=residence) vicino al lungomare, “Las Suites”, cioè in un appartamentino con cucina, frigo, televisore, due bagni, due letti da una parte, e al di là di una divisoria in legno che si può far scorrere per separare la sala dalla camera da letto, un divano che è un altro letto che quindi ha la sua privacy -e appunto il suo bagno- vista panoramica, e prima colazione a buffet inclusa. Prezzo per l’appartamentino a notte per due $40 dollari usa. Depositati in camera i bagagli stiamo già passeggiando per un vialone del bel quartiere di Miraflores per andare a cenare. E prendo il solomillo a la plancha, lombatina di maiale alla piastra, mentre gli altri si scolano un bicchierone di Pisco Sour (alcoolico locale preparato a frappé). Brindisi generale.

 

lunedì 12 aprile

con la dormita si digerisce tutto, si annulla la differenza di fuso orario di sette ore, e passeggiamo lungo i malecònes (=argini) alti sulla costa di Miraflores tra i giardinetti, ammirando le nuovissime torri con appartamenti di lusso prima linea sul mare, in vendita a prezzi abbordabili (pensierino...). Incrociamo varie cameriere o dog sitter che accompagnano giù i cani dei signori a far pipì, poi incontriamo giovani o meno giovani signore, signorine, signori, giovanotti che fanno footing, e uno in muta che va giù a fare surf, e altri in bici. E cammina e cammina con il profumo dei giardini e della spuma dell’oceano, ci sediamo che già siamo un po’ stanchini. Prendiamo un taxi privato e per pochissimi soldi ci facciamo portare a San Isidro nel giardino degli olivi. Passeggiamo, incontriamo due bimbi conciati come barboni cui do dei soldini che li fanno felici. entriamo in una bella libreria “La Casa Verde” dove compro un romanzo, e una raccolta di favole e racconti andini. Poi in un bel bar mangio una Cesar’s Salad e guardiamo una rivista sulle miniere. Poi prendiamo un taxi che ci fa riattraversare la megalopoli facendo stradine scorciatoie e autostrade urbane a più corsie, e ci porta al Museo de Oro.

Emozioni grandissime. No comment: bisogna proprio vederlo. Peccato che ora sia un po’ in abbandono, mal mantenuto, con pezzi mancanti, lampadine rotte, polvere. Perchè il padrone della collezione (è un museo privato) il potente eccentrico e ricchissimo Miguel Gallo è morto e gli eredi se lo contendono, nel frattempo qualcuno di loro si è portato a casa nel caveau qualche bel pezzo che dice che era suo....

Il taxi è ancora là fuori e ci aspetta, così spendiamo di nuovo una cifretta (in termini locali) che si intasca di nuovo lui, e ci fa riattraversare la megalopoli per depositarci nel centro storico, el casco antiguo, nella vasta Plaza de Armas. Eccoci nella capitale del Vicereame spagnolo delle Indie del Perù. Tutto è ben mantenuto, forse da poco restaurato, e appena ridipinto. A questo punto ci ricordiamo di avere un po’ fame, e andiamo nello storico bar Cordàno (è del 1905) a prendere un panino. E’ del tutto vuoto in entrambe le sale, e silenzioso, grandi specchi alle pareti, tutto in legno, con il banco in granito, tavolini rotondi di granito con gambe in ferro battuto, ci sono solo alcune povere cose esposte dietro il vetro opaco del bancone, un prosciutto, del formaggio. Un vecchio camarero stanco ci chiede cosa vogliamo, due panini con prosciutto e formaggio e due bibite. Entra qualche curioso, uno sballato urla lì fuori in strada e nessuno gli da retta, entra un bambino tutto sporco, chiede qualcosa gli do un soldino. Quello della cassa e il cameriere si mettono a un tavolino a mangiare. intanto una vecchia cassetta fa risuonare musica popolare criolla un po’ melanconica, con i soliti lamenti per tragiche storie d’amore e delusioni, cantate con voce un po’ stridula.

Usciamo, andiamo alla sede del Correo Central che non si chiama più così perchè oramai è stato tutto liberalizzato e privatizzato, quindi è un ufficio del Serpost, dove spediamo le cartoline per liberarci subito del pensiero (è difficile e raro trovare francobolli -carisssssimi), aspettiamo invano presso lo sportello di filatelia dove Ben vorrebbe comprare alcune serie con  fauna peruana, ma l’impiegata se ne era appena andata, assentata forse per il pranzo? Poi girovaghiamo un poco, cambiamo soldi in una banca (il Banco de la Naciòn) un po’ confusionaria e vecchio stile. In strada ci ferma un indio delle ande che ci chiede qualche vecchia moneta italiana e ci da una vecchia moneta da un Sol con su la figura di un llama; è un tipo gentile.

La sera ci incontriamo con un amico di Angel, Héctor Espinosa, nella hall dell’albergo e gli diciamo i nostri progetti di viaggio, lui ci garantisce che il señor Lino che è un suo conoscente, è persona fidatissima e esperta, e affitta fuori strada e in certi casi anche fa da autista.  Héctor è un ingegnere e si occupa di prospezioni minerarie e quindi a volte deve andare in luoghi impervi, poco  o male collegati, a volte va nella giungla della selva amazzonica in posti irraggiungibili se non con barche fluviali a motore, per accompagnare ricercatori di pozzi, giacimenti, filoni, miniere eccetera. Spesso li fa accompagnare da Lino quando ci sono da percorrere strade sconnesse e poco battute. Comunque Lino conosce tutta la zona andina ed essendo nativo di un villaggio nella campagna di Ayacucho, sa la lingua quechua (kechua). Combiniamo il prezzo e un appuntamento per domani.

 

13 de avril

Ci incontriamo con Héctor e con un taxi andiamo alla sede centrale dell’Istituto Geografico militare nazionale. Qui hanno tutte le carte più dettagliate del paese, si sfogliano immensi atlanti, cartellette con cartine, ci sono varie carte appese alle pareti dove puoi mostrare la zona di tuo interesse, e infine quelle di carattere stradale (mi immagino non quelle di interesse militare) le puoi acquistare direttamente. Allora ci immergiamo in confronti tra carte diverse, di differenti annualità, con differenti scale e inquadrature, e alla fine facciamo la nostra scelta e usciamo di lì con le migliori carte esistenti in Perù...! Non credo che questo sia possibile in molti paesi europei.

Per pranzo andiamo al ristorante “Aromas Peruanos” non distante da lì, dopo uno dei tanti grandi Ovalos stradali. A pranzo è un Buffet libre con solo specialità regionali peruviane. C’è veramente l’imbarazzo della scelta, e comunque assaggiamo un po’ di tutto. C’è del buono e del meno buono, ma è tutto fresco e di qualità. per questo è affollatissimo di impiegati e c’è un continuo ricambio dei vassoi del buffet. Molti piatti sono a base di rape. Ci sono delle simpatiche chicas che ti consigliano e che servono ai tavoli, scherziamo un poco con loro. Ricordo con piacere Delfina con il suo naso indio, e Milagro con i suoi occhialini da studentessa, ragazze semplici e sorridenti, gradevoli e gentili. Milagro poi mi dirà che pensava che fossi ecuadoreño per il mio particolare accento...

Nel primo pomeriggio andiamo da tutt’altra parte, alla sede dell’ INReA, cioè l’Instituto Nacional de Recursos y Agricoltura, dove hanno tutte le foto del territorio peruviano prese dai satelliti metereologici e in genere dai vari satelliti, shuttle, e dalla base orbitante ecc. Un conoscente di Héctor si mette a nostra completa disposizione, e dopo varie ricerche in una sala zeppa di computer con gente che sta lavorando a interpretare foto recenti per individuare possibili componenti geologiche del terreno interessanti dal punto di vista delle risorse naturali, individua una buona foto di un paio di anni fa dell’area che forse visiteremo. Chiede a Ben se vuole che gli facciano un ingrandimento e una stampa e con che colorazioni. Così alla fine usciremo con una rarissima anzi unica, foto stampata della zona tra Lucma nella valle di Vilcanota e il rio Apurìmac giù fino alla confluenza col rio Pampas, dove si vedono i sentieri e le possibili vie d’accesso per fiume alle rovine di Espiritu Pampa....!

Usciamo orgogliosi col nostro rotolo sotto il braccio, e passiamo sorridenti sotto lo sguardo incuriosito della possente giovane donna india in divisa militare che fa da guardia armata all’ingresso, con il suo nasone e il mento sfuggente, viso color ocra brunato, tipo certi personaggi del cartone disneyano su Pocahontas.

Allo sportello della cassa dove il tizio ci aveva accompagnato per pagare, c’era appiccicato sul vetro un volantino ciclostilato intitolato “Si pudiera educar a mis hijos de nuevo” che mi incuriosisce, e lo dico al tizio, allora lui parla con la cassiera se lo fa staccare e mi va a fare una fotocopia !

Andiamo poi in un bar a festeggiare con un Pisco Sour, e Héctor ci racconta dell’ultimo suo viaggio oltre Pucallpa, e di altri viaggi in Amazònas sul rio Madre de Diòs (o Amaru, o Inambari nelle lingue locali), oltre Puerto Maldonado, oppure oltre Boca Manu, in luoghi dove ci sono ancora tribù di “no contactados” cioè di indigeni che non conoscono gli uomini “civilizados”, e dove le carte non dicono nulla e le foto aeree dicono poco. Qui ci vuole un telefono con parabola, e certe apparecchiature che per via satellitare danno la tua posizione con longitudine e latitudine esatta al secondo, e altre che rilevano la composizione chimica e minerale del terreno sino a 5 metri nel sottosuolo. Se per chi si accampa per svolgere ricerche le cose si mettono male chiama via satellite e con piccolo idrovolante o un elicottero li vanno a prelevare. Ma non sono solo geologi e ingenieri minerari o petroliferi gli interessati, ci sono anche archeologi, perchè dopo la scoperta di città antiche come Choquequirao, Espiritu Pampa, e altre recenti località, si sono trovati siti incaici o addirittura preincaici anche nell’Amazònas, tipo Paitìri. Però non è facile procedere per questi percorsi perchè ci sono guardiani indigeni dipinti in volto, ostili ad ogni intrusione. Ma naturalmente poi non mancano cercatori d’oro di frodo, di diamanti e pietre preziose, di gas naturali, che poi tengono tutto segreto e fanno strani traffici. Nè mancano i narcotrafficanti. La selva ora è oggetto di ricerche da parte di studiosi di farmacologia, di chimica, di botanica, che hanno trovato negli ultimi decenni molti fiori, bacche, cortecce di grande interesse per le loro proprietà naturali. Insomma il Perù è ancora un paese in corso di popolamento e di sfruttamento, per cui parti del territorio sono ancora da esplorare o analizzare, molte risorse sono ancora non valorizzate. Questa gente non conosce del tutto il proprio paese, è ancora in atto l’attività conoscitiva del territorio e di prospezione delle risorse, e le carte geografiche sono ancora in corso di redazione...! Torniamo e attraversiamo la nuova recentissima zona delle sedi delle grandi multinazionali con i loro modernissimi grattaceli e palazzi disgnati da grandi architetti. Il futuro di questo magnifico immenso Perù (e dei suoi abitanti) è nelle loro mani.

Al rientro in albergo a Miraflores, troviamo il nostro chofer  Lino Mitma Huamani con la moglie, seduti in una Toyota “Runner” 4x4 Full Equipo, in nostra attesa. La jeep è perfettamente lustrata e brillante, motore appena revisionato, perlustro le gomme da montagna in ottimo stato, dotata di pezzi di ricambio, pronta per il viaggio. Invito anche la signora ad entrare in albergo ma si nega e mi prende la mano destra tra le sue due mani e guardandomi negli occhi mi sussurra: “Que Diòs os bendiga caballeros !”.

L’ultima sera nella civile capitale giriamo qua e là, ci sono ancora delle librerie aperte e compro una guida più aggiornata della mia, e Ben cerca una traduzione in spagnolo del diario di Hiram Bingham, che non trova.

Si leggono ai campanelli dei portoni, cognomi non solo spagnoli, o catalani, ma anche italiani, tedeschi, inglesi, quechua...

Dalle scritte deduco che ci sono differenze linguistiche tra il peruviano e il castillano doc di spagna: playa de aparcamiento (spiazzo per parcheggio), jugos de fruta (succhi di frutta), retorno (ritorno), bolleto (biglietto, tiket), grifo (pompa di benzina), cochera para carros (rimessa per auto), chompa (golf), papas (patate), acà (qua, usato sempre al posto di aquì =qui), Alameda (viale alberato), jiròn (via minore), palta (per avogado), ecc.

Rientrando per le vie deserte incrociamo una piccola “vecchia” montanara scesa a Lima per qualche mercato, ecco una vera faccia india, con la pelle raggrinzita color mogano, tutta incurvata, bassa di statura e minuta di corporatura, poverissima, intimorita con gli occhi bassi passa veloce senza guardarci. Eccoli: son questi gli incas del Duemila.

 

 

miercoles 14 de avrìl

SI PARTE ! inizia il nostro viaggio. Caricati i bagagli saliamo sul carro e Lino si dirige spedito verso l’imbocco della Panamericana Sur.

Fuori dalla continuità di case, iniziano le baraccopoli, poi le capanne, e tutta un’area che esiste in funzione della megalopoli, a servizio delle sue necessità di verdura, polli, manodopera non qualificata eccetera. E la basura, i depositi di spazzatura, sia materiale che di umanità varia degradata dalla miseria e dal bisogno. Puzze di nafta, fumi, polvere.

A Cañete ci sono carretti carichi di canne, portati da quattro asini affiancati (la quadrilla), ce ne sono anche con tre ciuchi (la “triglia” diciamo noi), uomini, donne, bambini con grandi carichi sul dorso. Accanto convivono alcune oasi di modernità, centri balneari.

Aree fertili si alternano ad aree paludose, e a zone aride. Poi inizia il grande deserto di polvere o per lo più sabbioso.

Ogni tanto si leggono vecchie scritte inneggianti a  Abimail, il “Vendicatore” che secondo il mito ritornerà, Sendero vuelve !

Uccelli con grandi aperture alari sembrano fare eco a quelle scritte e a quelle radicali speranze di rivalsa.

Nel deserto di sabbia e polvere c’è vento denso di salsedine che giunge dall’oceano, ma più dentro e più rasoterra si addensa la neblina, che permette a rade piantine sommariamente protette a sopravvivere anche loro a fatica.

Si succedono piccoli pueblados di capanne di canne o di paglia appoggiate sulla sabbia, precarie come i loro costruttori e che dovrebbero servire da riparo notturno contro il vento e la nebbia. Ci sono cavalli, mucche, asini, cani, pecore, capre, tutti spesso, volentieri e senza preavviso, attraversano la panamericana, che oramai è già ridotta ad una sorta di strada provinciale mal tenuta.

“IncaKola solo hay una y Peru sabe por qué” ma ha un colorino color pipì chiara che sembra di bere una fiala per analisi delle orine...tanto più se non è propriamente gelata, ma temperatura ambiente. Preferibile dunque la bebida gringa. Buoni: mango, papaya, ananas (piña), avogado (palta).

In certi villaggi si coltiva il cotone, vediamo dei ragazzini proprio piccoli che portano a fatica sulla schiena una balla di cotone ciascuno. Da queste parti si vedono anche i rari neri discendenti dagli africani “importati” senza successo dai coloni spagnoli, e mulatti.

Si adoperano mattoni di fango e terra, mischiati a paglia, ed essiccati al sole, chiamati adobe. Tutta la vita, l’economia, la sussistenza, i materiali, tutto è legato alla terra e a quel che fornisce, al luogo in cui si vive, agli animali che ci vivono, al sole, alla pioggia, tutto è conforme a questi elementi cui si è indissolubilmente dipendenti; da noi oramai siamo in gran misura slegati da tutto ciò, tanto che ci siamo dimenticati che siamo parte della natura e non qualcosa a sè stante che si confronta con la natura come fosse un oggetto, un qualcosa di altro, di esterno, per contenerla, adattarla e modificarla ai nostri fini.

Alla periferia di Pisco si gira a sinistra e si sale, lasciamo la costa e cominciamo ad avviarci verso l’interno.

Inizia un nuovo capitolo.

Si paga anche qui un peaje e non solo sull’autopista panamericana della costa, vedremo poi che si paga quasi per tutte le strade asfaltate. La rete viaria asfaltata sembra essere quasi tutta recente, anche certe strade sembrano comunque aperte da poco. Praticamente a tutti i ponti moderni con strutture di ferro, si paga un pedaggio. La polizia ci consegna addirittura un dépliant chiamato “Guìa bàsica de recomendaciones para los usuarios de la vìa”. Da qui incominciamo ad apprendere che le distanze oltre, e più, che in kilometri sono espresse in “tiempo de viaje aprox. en circunstancia normales” per cui per andare dalla costa alla cittadina, o borgo, di Haytarà a 113 kilometri, si indica, pur essendo una strada asfaltata abbastanza nuova e ben fatta, 2 ore essendo in salita (2.300 metri sul livello del mare) e con molte curve. E in effetti più o meno corrisponde, sempre tenuto conto degli animali, degli uomini che camminano lungo la strada, dei paesini, delle buche o legni o sassi che ci possono essere, eccetera, e della guida degli altri.

Vediamo la fortezza del Tambo colorado, che sembra segnare l’ingresso in quello che fu l’impero montanaro dei sovrani inca. Entriamo.

Eccoci a Haytarà, che significa in quechua, fiori. Ci fermiamo per una sosta per il pranzo. E subito, appena spento il motore, il silenzio, l’aria tersa di montagna, gli odori campagnoli. Nalla piazza centrale c’è un “ristorantino” tenuto da una signora indaffarata ma tranquilla, ci sono già alcuni ai tavoli, poi arriveranno dei lavoratori in pausa, un camionista, e due signorine forse al rientro da qualche istituto professionale. Naturalmente c’è la trucha (=trota) come in moltissimi altri posti lungo i fiumi. Ordiniamo carne de cordero asada (agnello arrosto) con papas y arroz blanco. Buono morbido, porzione non abbondante ma sufficiente, per bere, acqua naturale in bottiglia e una cerveza (birra); al termine mate de manzanilla (una specie di camomilla, gli infusi si chiamano tutti così perchè forse in origine si beveva da una zucca, mate, essiccata) che fa bene per affrontare il malessere provocato dagli sbalzi di altitudine. Fra 35 km arriveremo a 3800 (a Tacrapunta) e fra 67 km a 4400 (a San Felipe). Lino, e lo constaterò anche in altri, dice 38, 44. Paghiamo il conto anche per lui, poichè l’accordo è che gli pagheremo al ritorno un tot al giorno per l’affitto dell’auto e un tot per il servizio d’autista, e in più provvediamo alla benzina, e alle spese di vitto e alloggio (il totale, oltretutto diviso a metà tra noi due, sarà molto minore del solo affitto rent a car di un auto berlina medio piccola in qualsiasi paese europeo). 

Ma, torniamo nel comedòr del paese: per tre il conto è di quasi quattro €uro. Cominciamo così a conoscere i prezzi reali del mercato interno locale, almeno nell’area andina. Sui tavoli sopra alla tovaglia ci sono dei vetri, per non sporcare e poter pulire più facilmente, e tra il vetro e la tovaglia avevano infilato in ogni tavolo dei ciclostilati con cuentos popolari (racconti). Ad es.: il papà sgrida la figlioletta di tre anni perchè sta sprecando della carta da pacco dorata che doveva servire per i regali di Natale. Ma questa scatola è il mio regalo dice lei, il padre guarda ma la scatola è vuota, e allora la risgrida. Ma lei dice che invece è piena di bacini per lui. Il padre confuso si scusa. Da allora lui la terrà per anni di fianco al letto, così nei momenti di sconforto prenderà ogni tanto da lì un bacino.

Un’altra: un ragazzo è innamorato di una ragazza, ma si vergogna a dirglielo, quando poi le si rivelerà sarà troppo tardi, e lei gli dirà che anche lei lo aveva sempre desiderato ma che si vergognava a dirglielo.

Passeggio per la piazza e ricopio questo Comunicado scritto a mano appeso fuori da un portone in occasione della inaugurazione del kiosko escolar il 7 aprile (la scuola è pubblica ma non gratuita):

“Requisitos: 1) Pago adelantado de un mes  2) puntualmente, en caso contrario se resindirà el contrato

 3) espender productos que no dañen la salud de los niños, y manteniendo la higiene

4) Mostrar buena presencia y buen trato personal a los usuarios (niños, niñas, docentes, y otros)

5) ser padre de familia, o apoderado”  (= o facente funzioni).

In realtà c’erano molti errori che nel mio notes non avevo riportato. Anche nelle scritte elettorali sui muri noto molti errori, o imprecisioni del tipo: “como Alcalde vota Conislla” (anziché Consilla); o come Abimail che a volte è Abisail, ecc.

Seguendo la valle del rio Pisco passiamo nel dipartimento andino di Huancavelica. Al Puente de Chicchiobamba, 3740 metri, tento di far pipì ma mi sento congelare. C’è neblina a iniziare dal successivo Puente Linamama, 3984 m. Poi a quota quattromila si vedono i primi alpàcos, un grande gregge sui pendii. Lungo la costa scoscesa ci sono canaletti per l’acqua paralleli in orizzontale, forse perchè così trattengono l’acqua piovana che còla all’ingiù. Vediamo anche cinque o sei muli selvatici che corrono, vicino al paesino di Ayavì, a 4155 m. Ci sono dei laghetti come Chocclococha (=lago a forma di pannocchia di mais) e il panorama è vastissimo, sterminato, ammaliante. Al passo (4250 m.) ci sono quattro casupole di pietra e paglia, con sedute fuori dalla porta delle donne. Si vendono biscotti e cose varie, e soprattutto gasolina y aceite de motor (benzina e olio per motore), e siccome è l’unico punto di distrubuzione che si sia visto da molto tempo, Lino prudentemente si ferma. Qui non c’è, nè ci potrebbe essere un distributore con la pompa, quindi ci sono in bella vista grandi taniche di benzina sul bordo della strada e una scritta a mano su legno. Quindi una donna va a prendere un imbuto e poi con gran fatica tira su un contenitore medio-piccolo e versa la benzina (in parte anche fuori), e a occhio dice quanto ha messo e quanto pagare. Intanto scherzo con il gruppetto di donne, ragazze e un paio di bambine che stanno leggendo su un giornaletto storielle di amore e gelosia, tipo pettegolezzi, e loro mi guardano stupefatte e sorridono con occhi che brillano. All’ultimo momento compro un paio di rotoli di carta igienica che possono sempre venir utili, come è già successo, sia durante il lungo viaggio sia nelle soste ai “bar”, sia in albergo. Un nuevo Sol, cioè quasi 25 eurocents; faccio un paio di carezze all’immancabile cane, la signora sembra molto contenta, mi salutano. Da qui si vedono grandi montagne rocciose che terminano con un tavoliere a picco. Sono fatte di roccie rosse, con strisce marroni, gialline, e parzialmente ricoperte di licheni verdini. Si domina sull’alto pianoro vastissimo. Nuvoloni neri immensi pieni di pioggia corrono sul paesino di Chocclococha. Sulla terra rossa, cabras, carneros, caballos, burritos, vacas, y toros. Sì, tori in alta montagna. Abbiamo visto appunto una bella e grande “valle verde”, con i suoi terrazzamenti coi canalini di irrigazione, greggi al pascolo, mandrie di bovini, tori sparsi, cavalli selvatici al galoppo, e una (1) casupola o capanna di sassi e paglia, il suo orticello cintato da muretti di pietre... sola in tutta la grande bella valle. Sembrava un po’ come nel film, la capanna che Highlander si fece sugli altipiani furi dalla portata di chiunque, proprio per non essere mai più trovato. Ma come si fa a descrivere un paesaggio? io non lo so. Qui continua a vedersi un vastissimo territorio quasi disabitato, proprio selvaggio, con i ghiacciai permanenti in vista (uno sulla destra in fondo è di 5168 m., un altro a sinistra è di 5231 m. con a fianco un suo fratello) che se ne stanno là da sempre, un po’ incappucciati dalle loro amiche nuvole, un pochino ogni tanto mettono fuori il capo per controllare. Enrique Lòpez Albùjar nel primo dei suoi Cuentos Andinos (1920) che ho comprato alla Libreria La Casa Verde, quello intitolato “Los tres Jircas” (jirca in quechua significa cerro =poggio, collo, dorso, ma soprattutto: monte che chiude) inizia così: “Tre moli, tre cime, tre sentinelle che si ergono intorno alla Città dei Cavalieri di Leòn di Huànuco.

I tre jirca-yayag, come li chiamano gli indios” (jirca-yayag è el padre cerro).

A seconda dei minerali che prevalgono o che affiorano in superficie sul terreno, la terra è rossa o verde o color amaranto, o bianco latte, o marrone. Di conseguenza deve essere questo un territorio ricchissimo di minerali di ogni tipo, dal ferro allo zolfo. E così c’è un torrente di acqua rossa, sì proprio d’acqua rossa-rossa. Poco dopo, forse da una antica miniera (?) cola acqua come da una fonte, e colando giù lascia depositi lucidi arrotondati di diversi colori.... In queste vallate ci sono sui pendii molte cave, buche, caverne di varie dimensioni, che conferiscono ancor più, se possibile, al paesaggio un aspetto che direi primordiale, perchè la sensazione che ti prende è proprio quella di stare osservando il pianeta nell’aspetto che aveva alle origini, prima dell’uomo, prima della prima scena del film Duemilauno. E poi è indescrivibile, e anche una foto o una ripresa con videocamera, o una pittura, non potrebbero rendere questa tavolozza naturale di colori che se ne sta distesa da tempi immemorabili su questi amplissimi panorami quassù in alto (siamo sopra i 4000 m.). I raggi diagonali da sotto le nuvole  -sono oramai quasi le cinque, las cinco de la tarde- illuminano di sghimbescio un colle giallo, poi c’è l’ambra, il violaceo, l’amaranto, il verdino con sfumature un po’ azzurrine, e quei solidi monti di pietra nera con i loro ghiacciai bianchissimi, fonti di luce abbagliante.

Piccoli llamas disseminati come puntolini sono sparsi qua e là. e il nitore dell’aria rarefatta ti mette ben in vista sprazzi di cielo superazzurrino con nuvole bianche-bianche e accanto nuvoloni neri.

I rari esseri umani sono prevalentemente donne montanare con cappello “da uomo”, e qualche montanaro scuro con cappuccio colorato (chullu).

La pioggia caduta mista a grandine fina, evapora dall’asfalto fumando (i raggi del sole quando spuntano sono “equatoriali” e d’alta montagna, cioè fortissimi). Sull’Abra (=Passo) Apacheta imbiancato (4746 m.),

esco un momento dall’auto, e mi trovo investito da un’aria tersa fredda sottile strana che mi fa raggrinzire le labbra e socchiudere gli occhi istintivamente, e mi avvio ad un’andatura un po’ più sveltina del passo normale, per mettermi semplicemente sull’altro lato per farmi fotografare vicino al cartello, e sono sfinito, spompato, distrutto, ansimante, leggero fischio alle orecchie  con un certo giramento di testa che mi consiglia di rimettermi subito-subito buonino seduto nella protettiva Toyota 4x4. Ecco questo è il soroche, ovvero il malestar de altura. Altro che mate de manzanilla ! da domani mi prendo il mate de coca.

Continuiamo verso Rumichaca, e oltre, incontriamo piccoli pueblados di alpaqueros. Qua e là strisce verticali verdissime di coltivazioni di papas; ci sono moltissime qualità diverse di patate, gialle, rosse, bianche, grandi, piccole, tonde a bozzi, ... con sapori differenti e nomi diversi in quechua. Così come il maìs è di varie qualità, a piccoli grani, o grossi, giallo, rossastro, nero, con pannocchia larga, lunga, grande, piccola. Ora si incomincia a vedere più di frequente qualche paesino. Prendono ciuffi di picho per fare la copertura dei tetti delle casupole. Anche l’essere umano è un ottimo animale da soma. Sulle casette ricompaiono anche le scritte a vernice per la propaganda elettorale. “vota come Alcalde il dottor....” o il professor..., l’ingegnere Tale o Talaltro. La politica è affare per i ricchi, per chi vuol essere tra i riveriti potenti che decidono. D’altronde se ci andasse qualcuno di questi montanari, o mandriani, o pastori, o contadini a fare l’alcalde, cosa saprebbe fare? Così li coinvolgono nelle loro ambizioni per potersi poi fare gli affari propri.

Ricompaiono quegli alberelli con le foglie verdine e da un lato argentate che si muovono velocissime sul loro asse, il picciuolo, mostrando ora un lato ora l’altro per il vento. La terra è tutta erosa dalle piogge e lascia emergere roccie parallele, mette a nudo la sua conformazione, il suo scheletro.

Il borrego (in castigliano=agnellino) e il carnero (=montone), Lino dice che in Perù si chiamano così la femmina e il maschio (la hembra y el varòn) della pecora. Chissà. Ci sono poi molte capre e cavritos. E moltissimi porcelli un po’ selvatici pelosi, neri o marroni; Lino ci dice che si chiamano chanchos e che sono addomesticati. Compare per la prima volta ai nostri occhi il trigo (=frumento) accanto al maìs e alle patate.

Effettivamente come diceva il dépliant, ci vogliono più di tre ore per salire, e per andare a Rumichaca, e poi Apacheta, Casacancha, eccetera, ce ne vogliono altrettante in discesa per giungere alla nostra meta che è Ayacucho. Si chiama troche (in castigliano =scorciatoia, sentiero, in inglese track) quando è una pista di terra camionabile, per camionetas, tir (i grossi trucks americani), corriere, bus, percorribile da carros, mezzi attrezzati, e invece si chiama pista (in castigliano =traccia) quando è carretera asfaltada extraurbana buona per automobili da città. La gente viaggia su questi troches in corriere che vanno su e giù per tutto il Paese. A Lima alla stazione centrale dei bus, Terminal Terrestre, ci sono corriere che partono per il Venezuela, per  l’Ecuador, il Chile, la Bolivia....! sono pullman che viaggiano giorno e notte continuativamente, ad es. per la Colombia, per una settimana intera !

Ogni tanto si incontra un Puesto de Salud, cha sarebbe una specie di infermeria di pronto soccorso, per un primo intervento, un presidio sanitario. Si leggono cartelli nei paesi con scritto ad es.: “Mejoramos la educaciòn rural!”, di tanto in tanto si vede un kiosko escolar, oppure kiosko de educaciòn mayor, che sarebbe una tettoia in un prato, sotto cui riunirsi con un insegnante.

Spesso alla sera si vedono bambini che portano grandi carichi di erbetta verde per i conigli, o altro, di cui sono incaricati loro perchè è più leggera.

Le donne invece son sempre cariche di questi sacconi colorati a strisce, pieni di pesi, messi sulla testa, sul collo, di traverso, sulle spalle, tutte curve col loro cappello che vanno. A volte ci è capitato che chiedessero di portarle il saccone fino al paese tale o al tal punto, all’incrocio, al bivio, o alla fermata della corriera o dei camion per contadini. Una specie di autostop per il sacco. Ma noi siamo pieni, senza posto per quei grandi volumi di fieno o foglie di coca, o altro. Le due trecce lunghe, anche se magari di capelli grigi per l’età, sono annodate alle due estremità dietro la schiena se sono sposate.

A 330 kilometri di strada dalla costa, ecco finalmente quasi all’imbrunire Ayacucho, dopo 10 ore di auto. Il nome deriverebbe da aya (=morti) e cucho (=angolo) forse a ricordo della sconfitta della fiera popolazione autoctona pre-incaica dei Chanca, scacciati dal conquistatore Inca Roca, re della valle del Cuzco. Fu importante postazione spagnola di difesa della strada tra Lima e Cusco, fondata già nel 1550 da venti famiglie che si stabilirono qua. E’ famosa per la bellezza e la precisione dei suoi retablos, cioè un insieme di figurine di cartapesta, gesso e colla di farina di mais, tutte colorate, che rappresentano varie scenette popolari attorno alle immagini dei quattro evangelisti, il tutto incastonato dentro una scatola di varie dimensioni, da grande a piccolina, che si chiude con due sportelli come un armadio.

Arrivati nei pressi della stazione dei pullman nella parte alta, c’è la scritta “prohibido comercio a menos de 50 metros” e subito tutt’attorno alla stazione ci sono tante tiendas (=negozio, bancarella) e contadine accucciate che vendono i loro prodotti esposti sulle loro colorate mantas che poi richiuderanno a mo’ di sacco. Tanti tricicli colorati che fanno da taxi. Ed ecco giù la bella ampia plaza mayor con i portici tutt’attorno, i giardinetti in mezzo con il monumento al generale Sucre eroe dell’indipendenza, i palazzi governativi, le chiese barocche. Ci alloggiamo in una bella casona coloniale (=grande edificio per le famiglie patrizie spagnole appoderate nel vicereame). Costruita nel 1630, fu residenza del Corregidor . Acquistata e restaurata nel 1972 dallo spagnolo Aznar, essendo stata dichiarata monumento storico, fu museo, ma ora dal 1991 è trasformata in albergo Santa Rosa (la santa patrona del Perù) a tre stelle, “il più bell’ albergo della città” mi dice subito la señora. Prendiamo una habitaciòn triples, ma poi chiediamo se c’è una simple para el chofer, e teniamo quella grande allo stesso prezzo perchè in effetti si paga un tot a testa.  Tanto c’è posto, è appena finita la Semana Santa che vede convergere migliaia di persone per le grandiose fiestas e le processioni che qui si tengono. Per una notte, primero desayuno incluìdo paghiamo per tre 162 soles, circa 40€. (per Lino la singola senza bagno viene 55 soles). Come si vanta la señora, c’è agua caliente, oltre a quella fria, teléfono, baño con ducha, tv, terrazzino sulla strada, e anche la cochera, che significa poi che si parcheggia el carro dentro, nel secondo cortile. Infatti la casona è composta di due corti su cui si affacciano archi al piano terra e al piano rialzato, per cui poi ci metteremo nello spazio davanti alla porta della camera, dove c’è un tavolo con sedie, a guardare giù dalla balconata interna e a scrivere e chiacchierare. Ma poi usciamo per cena e per sgranchirci le gambe, respirare aria buona e visitare il centro. “Una caminata (termine anch’esso non certo molto in uso in spagna) a través de los pasillos de nuestro hotel le mostrarà toda la belleza arquitectònica del antiguo centro històrico de la ciudad, rodeado de Grandes Templos y Bellos Tejados de arcilla” (=e i bei tetti di argilla). E in effetti la piazza è vicinissima, “ubicaciòn céntrica a 1/2 cuadra de la plaza mayor” diceva il volantino dell’albergo con la consueta modalità di indicare le distanze in città misurando per isolati, o blocchi, la cuadra.

Intanto scopriamo che (e questo si verificherà anche in altre località) tutti chiamano la città Huamànga, con l’antico nome (da huaman=aquila). Quindi mentre su tutte le carte geografiche e stradali, sui cartelli, sui depliant, su ogni carta stampata, eccetera, si chiama Ayacucho, tutti comunque dicono sempre tra di loro (magari non coi turisti) Huamànga, c’è la famosa piedra de Huamanga che è una specie di alabastro, c’è l’altrettanto famosa Universidad de Huamanga -fondata nel 1677- dove insegnava il professore di filosofia Abimael Guzmàn, fondatore e capo di “Sendero Luminoso” il partito armato maoista che scatenò una terribile guerriglia 25 anni fa.

Prendiamo un jugo de naranja (=una spremuta di arance, in castigliano doc si direbbe zumo) seduti ad un tavolino in un patio di una casona in cui è sistemata la scuola di turismo, passeggiamo per la via pedonale dove ci sono ben tre farmacie a pochi passi l’una dall’altra, e alla fine c’è una piazza con una bellissima chiesa barocca e di fronte una scalinata con un ampio spiazzo sopraelevato con un arco da cui si accede a una casona, e lì c’erano varie donne nei loro costumi colorati che vendevano dolcini, cruasanes, cornetti, panini di varie forme. Compriamo varie briochine e panini per il viaggio di domani, 6 per circa 14 €urocents, facciamo scorta, sono freschissime e buonissime. Giriamo ancora un po’, interessante la chiesa e convento, del 1605, della compagnia dei gesuiti, e la chiesa dei domenicani, del 1548, con il loggiato dove i membri del tribunale dell’inquisizione comminavano le condanne capitali (si veniva impiccati in cima al campanile).

Poi andiamo a cenare, incontriamo Lino che ci indica una polleria, “Kevin - pollos a la brasa”, mangiamo mezzo pollo allo spiedo ciascuno e patate fritte con cocacola e birra, per 12 soles circa 3 €uro (Lino aveva speso 5 soles). La sera sul tavolo della balconata interna studiamo la cartina per l’itinerario di domani.

 

jueves 15 de avril

Ci alziamo alle 6, colazione nel bar del cortile interno, e via si riparte. Ci sembra di essere in perù da un sacco di tempo. Da qua ad Abancay non c’è strada asfaltata, e non è nemmeno che sia una “normale” strada di terra ben battuta, no è proprio come un sentiero con sassi, buche, sassoni, pozze, stretto e con mille curve e spesso a strapiombo col bordo di ghiaia che frana. Brutto e senza che ci sia stato mantenimento da tempo immemorabile, il primo lungo tratto, quasi tutto in salita, è tremendo si traballa e sobbalza molto, non riesco nemmeno a prendere piccoli appunti promemoria, nulla. Si procede al massimo a 20/30 all’ora. Al solito incontriamo solo rari camion, qualche corriera, qualche combi, o quei taxi collectivos per le lunghe distanze con sacconi sopra il potabagagli. Ma di solito non c’è nessuno sul percorso. Eppure è la strada nazionale nord-sud parallela alla costa, che unisce importanti città come appunto Ayacucho, Andahuaylas, Abancay. Faremo 245 kilometri in 9 ore. Non ci sono cartelli stradali, non si sa in che paese si è arrivati, spesso se ci sono carteles (in castigliano letreros), non si capisce bene dove indichino, cosa significhino, e anzi fanno più confusione, magari sono molto vecchi. Insomma bisogna chiedere. Lino chiama “hola pata !” quei giovani cui chiede informazioni, se no dice “amigo”, oppure “señora, señorita”. Ma non è facile: non sanno, oppure non sanno spiegare, oppure non sanno lo spagnolo abbastanza bene. Sempre deve chiedere tre volte alla stessa persona, e poi a volte è meglio richiedere a qualcun altro per avere conferma. Il fatto è che non sono abituati a parlare con estranei, non parlano molto comunque, e poi sono là nel loro mondo, con tempi lenti, silenzio, e arriva all’improvviso questo che dice delle cose con uno strano accento, e chiede cose strane o ovvie. A volte le donne rispondono in quechua, ma anche Lino sembra che non sempre capisca la pronuncia. Chiede conferma, parlando sempre solo in spagnolo, e se dicono aoryk allora vuol dire sì. Così imparo aoryk (=sì), mànan (=no), e llapanchìk (=tutti quanti).

Oramai i costumi maschili sono rarissimi, anche molte ragazze non portano più il costume locale. Ci sono vari cartelloni statali inneggianti alla modernizzazione (“Mujeres y varones tenemos los mismos derechos”), o che incitano con consigli (“Planifica tu familia! vivràs mejor”).

Ci sono molte coltivazioni di maìs che qui chiamano chòquolo, cioè pannocchia, e arbusti con foglie a cinque dita, con i cui semi si colora il cuoio. In moltissimi borghi c’è uno spiazzo centrale ampio, un po’ rettangolare, magari qui si affaccia la scuola o la caserma o il posto di polizia, oppure c’è il campo di calcio. Comunque rappresenta uno spazio razionalizzato, con edifici moderni. Nei villaggi nulla di tutto ciò. In un villaggio vediamo che si stanno preparando a una fiesta, ci sono coppie di tori sui tetti, nastri colorati che uniscono tetti, o pali, o che pendono da pali inghirlandati, con girandole colorate. Alcuni abitanti stanno convergendo dove si fa un falò, qui le donne hanno giacche “da uomo”. Più in là incrociamo un ranchero con chitarra che sta recandosi al villaggio per la fiesta.

Ci fermiamo per uno spuntino nel paese di Chumbas a circa 1800/2000 metri. Sostiamo al “restaurant bodega Doña Paquita”, ma non c’è nessuno, chiediamo, ci indicano dove potrebbe essere, ci sono alcune donne chiediamo loro, la chiamano, intanto entro e mi pare un posto accettabile, un negozio emporio di generi vari, con un paio di tavoli. Ma la signora dice che non ha tempo (o voglia), di andare più avanti che c’è un altro comedòr. Qui più avanti c’è una fermata delle corriere, e proprio adesso scende tutto un pullman davanti a un comedòr per pranzare, scorgo tra la folla un giovane europeo con l’abbigliamento e la capigliatura che solo un viaggiatore, e di quell’età, può avere, per un istante si incrociano gli sguardi, scocca un’intesa, ci siamo riconosciuti a vicenda; comunicazione avvenuta. Chiediamo se c’è un altro posto per mangiare, perchè qui si è creata troppa confusione proprio adesso, e ci indicano più giù dopo lo spiazzo. Ci fermiamo in una trattoria che subito ci piace. E’ incredibile come in tutta quella polvere, con i pavimenti di terra battuta eccetera riescano ad essere puliti e ordinati. Richiediamo il pranzo, mentre alcuni altri già stanno mangiando degli appetitosi piatti. Vado in “bagno”, un semplice bugliolo, ma con accanto un lavandino per lavarsi le mani con un piccolo saponino. Passo a dare un’occhiata alla cucina dove una giovane signora sta indaffarata ma tranquilla cucinando in un ambiente poco illuminato da un buco sul soffitto, e con le sue povere attrezzature, ma tutto è ordinato e pulito nella misura del possibile per quel contesto. Ordino una tortilla di verdure cotte e riso bianco. Da bere una minerale, e poi un mate de coca. Mangiamo e chiacchieriamo, vado a fare un giretto e mi assaporo tutta la calma (il pullman è già ripartito) del paesino, con il suo carretto-negozio, il chancho che se ne va in giro a fare lo spazzino, lo spiazzo dove forse fanno il mercato settimanale, e più giù una coltivazione, forse, di tantissimi cactus credo da fichi d’india. L’aria è tersa da montagna, pulita, fine, il sole forte ma non eccessivo, c’è una leggera brezza, tanto silenzio. Mi fermerei qui se non dovessimo arrivare prima del buio il più avanti possibile. Chiedo il conto che, se ben ricordo è sui 13,50 soles per tre (poco più di tre €uro), e scambiamo quattro parole con la giovane signora, molto piacevole, sorridente, con gli occhi luminosi, che ci chiede da dove veniamo (sa cos’è l’Italia!) e cosa vogliamo visitare, ci da consigli, parla di quanto la incuriosirebbe viaggiare, e dimostra di sapere tante cose, è sveglia, intelligente, pronta. Un vero piacere, “desculpen las charlas, Os hé hecho gastar tiempo” “nos hemos quedado a hablar con Usted con mucho gusto”, mi scusino le chiacchiere Vi ho fatto perder tempo, no ci siamo intrattenuti a parlare con lei con molto piacere.

Di nuovo attraversiamo i panorami mozzafiato degli altopiani andini, con stagni, capanne, vasti pascoli con mandriani a cavallo, mi viene in mente il film di Kurosawa sulla Siberia “Dersù Uzalà”. Valli disabitate nel senso che sono anche senza animali, altipiani tipo certe foto sulla steppa della Mongolia. Certe visioni varrebbero già da sole il viaggio dall’Europa.

Facciamo sosta a un grifo (benzinaio) senza pompa in un paesino dove c’è mercato. Sono cose di scadente qualità fatte in serie, bruttine. C’è una sezione escolar perchè tra poco, o in questi giorni inizia la scuola.  Avevamo pensato di fermarci a Chincheras perchè nella cartina sembrava un centro importante, ma non c’è nulla ed è proprio squallida. Poi finalmente, dopo che abbiamo continuato a rinviare la meta, arriviamo alla città di Andahuaylas che è già sera tardi. Viaggio questo veramente stancante, anche se ci ha regalato paesaggi stupendi e interessantissimi passaggi attraverso villaggi e paesi di campagna ancora tradizionali.

Questa volta vorremmo non spendere tanto per alloggiare in tre, visto che a Ayacucho abbiamo speso “non poco” per Lino, e allora individuiamo un albergo più “semplice”, anche questo in centro. E’ veramente squallidone, tutte le stanze danno sul cortile centrale e comunicano con un ballatoio per due piani. Ma sono tutte vicinissime e piccole, e i muri sono di cartongesso. E dentro non c’è null’altro che due brande di legno su un pavimento di legno, con tante coperte di lana, non un armadietto, o almeno una mensola. Sembra un rifugio montano, ma brutto. Il bagno in camera  (Lino prende una camera singola senza bagno) è mezzo allagato, come sciaquone per il water c’è un bidone con lattina-mestolo. L’acqua del lavandino va sul pavimento di linoleum. Vabbé, per una notte sola. Ma l’indomani avremo strani pruriti sulle gambe...

Usciamo, c’è un mercatino squallido, anche qui con sezione scuola, dove compro una sciarpa di alpaca a due soles (=50 €urocents). Su un muro c’è un cartellone con la foto e le parole di un maestro popolare famoso in Perù, che incitava ad essere disinteressati nell’intraprendere la professione magistrale, e ad immedesimarsi in essa considerandola come una vera e propria “missione laica”.

Poi andiamo a mangiare in un posto squallido dove ci fraintendiamo e ci portano la comida corrida, il menù fisso completo, primo una minestra in brodo che assaggiamo appena e piantiamo lì visto l’odore e il sapore, una insalatina mista di verdure crude che restituiamo non fidandoci di come han lavato le verdure (abbiamo visto la “cucina”), un quarto di pollo allo spiedo con patate fritte, cocacola e birra, sei soles a testa (=1 €uro e mezzo). Ci alziamo per tornare esausti in albergo, ma si mette a iniziare proprio allora il Diluvio Universale. Aspettiamo, il vento fa sbattere continuamente la porta ed entra vento gelido. C’è una famigliola che è eccitatissima per essere uscita al ristorante, sono tutti bruttini anche la bimba. Infine diminuisce l’intensità degli scrosci e usciamo, prendiamo al volo un taxi che passava per la via buia e andiamo in albergo. All’ingresso c’era Lino che non riusciva a dormire, chiacchieriamo un po’ con il tizio dell’albergo, mentre il suo giovane aiutante dorme nel retro del gabbiotto di vetri del banco. Al giro delle scale c’è un vecchio condor imbalsamato, impolverato. Andiamo nella cuccia a dormire, cercando di non badare al chiacchiericcio di quelli che sono qui per il mercatino, o perchè hanno messo delle bancarelle, e che parlano dei loro affari. Resterà comunque indimenticabile Andahuaylas, buco oscuro dell’ambizione delle cittadine di provincia ad intraprendere la via della modernità perdendo ogni identità e restando povere.

 

viernes 16 de avril

Ci alziamo alle 6 e partiamo subito dopo aver pagato i 35 soles per tre letti (= 8 €uro e mezzo). E’ quasi tutto chiuso, ma c’è il sole, facciamo colazione in una fornitissima pasticceria dove mangiamo ottime brioches e paste, caffelatte come si deve superabbondante, e chiacchieriamo con il padrone che ritiene di essere forse di lontane origini italiane, molto gentile e cordiale. Comunque, nonostante una piacevole canzone della brava Roxana Gutierrez che sospira per un bell’Andahuaylino, noi non ne abbiamo visti proprio, e lasciamo volentieri questa città, che non conserva nemmeno un ricordo degli antichi Andahuaylas, prospera popolazione autoctona pre-incaica.  Partiamo alla ricerca assurda di benzina andando prima di qua e poi di là. Finalmente in un paesello fuori città, su in alto, troveremo il grifo Gavilàn (=gabbiano), ed effettivamente e stranamente ci sono dei gabbiani...! La gasolina, lasciata la costa, è sempre solo ad 84 ottani, e Lino fa soltanto 50 soles -come già ieri- nella speranza di trovare poi un distributore almeno a 90 ottani.

Al mattino presto tutti gli scolaretti lindi e pettinati vanno a piedi verso qualche scuola. Ieri avevamo visto, invece quelli più grandi che ritornavano alla sera da un collegio secondario, che poi abbiamo visto ed era lontanissimo per andarci a piedi, avendo la fortuna di fare almeno il rientro in discesa (!).

Gli andini generalmente sono gente piccola, e nelle disperate periferie cittadine sono pure magrissssimi.

Lo Stato fa mettere delle latrine a ogni famiglia, e quindi qui il paesaggio nei villaggi è costellato di cabine di lamiera dipinta di verde con tettuccio a fianco di ogni casetta-capanna.

Qui campeggia una grande scritta che avevo già visto su alcuni camiones “La ùnica esperanza es Jesùs”, nonostante lo sforzo di modernizzazione in atto che al di là della corruzione dei vari politici sembra essere un obiettivo perseguito da ogni governo, entro i limiti dei suoi interessi.

Passando dentro ad un paesotto nello spiazzo centrale dobbiamo fendere una massa compatta, ci sono decine e decine di donne che attendono di poter salire su alcuni camiones che le prendono su per portarle negli impervi luoghi sulle alture dove impiegarle per la cosecha, per il raccolto delle patate o d’altro. Ci guardano alcune imbronciate, altre sorridenti, altre indifferenti, alcune rispondono al saluto. Sarebbero tutte da fotografare tanto son belle, con i loro cappelli da uomo, con i colori che hanno indosso, per i loro volti, per gli sguardi, per la estrema semplicità della scena e dell’atmosfera che avvolge questa scena mattutina di montagna.

Guardo fuori dal finestrino come forse una volta facevano dalle carrozze. In effetti siccome andiamo al massimo a 20/30 kmh, probabilmente andiamo alla stessa velocità a cui viaggiavano le prime auto che fecero questi percorsi, e forse anche i primi viaggiatori a cavallo; dunque qui contrariamente a quello su cui ragionava Freire, e che poi insegnava don Milani, non è cambiato gran ché il rapporto distanza - mezzo - tempo. Cioè le nuove tecnologie non bastano a fare la differenza se non sono accompagnate da un migliora-mento delle infrastrutture (in questo caso la rete viaria asfaltata). In definitiva faremo Pisco-Cusco, cioè una distanza di circa 600/650 kilometri, in quasi trenta ore di guida.

Bisogna dire che facendo continuamente su e giù a questa andatura, si può ben constatare come vi siano veri e propri Mondi separati, altri universi geografici, etnici, di civiltà materiali, di tempi storici differenti, che si alternano. Altri Mondi disposti a strisce orizzontali parallele, che vivono in dimensioni proprie. Un conto sono quelli giù in fondo valle al caldo umido, vestiti di cotone bianco, con il loro machete in mano, in mezzo ai bananeti e ai mosquitos; altro sono quelli delle cittadine con le loro ambizioni di esser vestiti come nei rotocalchi, con abiti moderni sintetici, ma che nelle periferie di bidonvilles senza servizi igienici, nella polvere e nei fumi degli scappamenti dei camion, sono solo sporchi e poveri e senza lavoro, con il golf bucato e i pantaloni jeans consunti e macchiati; un conto sono i contadini dei paesi di montagna, con le loro attività agricole, i lavori di intreccio della paglia, con le stuoie furi dalla porta con stesi i vari semi ad essiccare al sole, le pannocchie accatastate in casa; o più in alto i montanari con i loro costumi, i pastori con le greggi o più su i vaccari o gli alpaqueros con le mandrie, i loro ritmi di vita tradizionali, la povertà dignitosa di chi ha sempre vissuto col poco che poteva ricavare dalla terra o dagli animali; sono mondi che non si intersecano senza contatto gli uni con gli altri, che vivono in dimensioni differenti, e in climi sia metereologici che ambientali e culturali diversi. E li ripassi tutti, ogni volta che vai su per poi tornar giù e riandar su, perchè così sono le strade sterrate che attraversano le cordigliere: su e giù.

Qui accanto a noi ora osservo dal finestrino una donna abbarbicata al suo uomo su una vecchissima moto, che vanno verso un altro villaggio distante. Sui pendii dall’altra parte (le valli a volte sono proprio strette) i campicelli di patate o d’altro, sono isolati qua e là in pendenze ripidissime; come faranno a raggiungerli, coltivarli, e poi raccogliere e portare il raccolto a casa o al mercato ?

Il pensiero mi va al padre di mio nonno a Caravaggio sui monti dietro a Bergamo, con la sua famigliola di una dozzina o più figli. A mio nonno al compimento dei 12 anni dissero ecco prendi due soldini, qualche indumento e va a Milano, vedrai che là troverai di meglio per vivere, e lui si incamminò a piedi. Poi trovato per fortuna un posto come garzone presso una bottega di marmorino, chiamò il fratello maggiore che era falegname. E’ più o meno a quei tempi che nelle nostre campagne si viveva come ora mi pare vivano qui, almeno per l’aspetto materiale, senza attrezzi moderni, senza “comfort” abitativi, senza molta igiene, secondo le usanze e i mestieri tradizionali, in una dimensione un po’ comunitaria del villaggio isolato, in cui la penuria e la povertà estrema era condizione normale di vita.

Da un cartello che lo annuncia, si capisce che in uno spiazzo di un paese una agenzia di aiuti internazionali al Terzo Mondo ha costruito un lavatoio pubblico. In un altro paese invece una organizzazione chiamata “Inter-Vida” ha portato l’acqua potabile. Lungo la stada su un pendio scosceso in una zona totalmente disabitata vediamo come un piccolo cantiere, una capanna di paglia per il muratore, un cavallo per i suoi spostamenti, e sta costruendo una casetta in muratura per una singola famiglia, per conto di un’altra agenzia internazionale.

La strada segue pedissequamente la conformazione orografica, essendoci pochissimi ponti, si percorre tutta una valle dal versante di qua e poi si ripercorre dal versante di là, per cui per procedere di non molte centinaia di metri si fanno lunghi percorsi. Ci sono tratti di strada bianca, o rossa, o giallina, strade strette, più larghe, polverose o sassose. I tetti delle capanne sono di paglia a ciuffi oppure sopra la paglia ci mettono la terra e ci cresce il prato. Non fanno mantenimento della casa, perchè ci stanno dentro poco, quasi solo la notte, per cui è solo un riparo alle intemperie, quando è vecchia e crolla la lasciano così diroccata e ne fanno un’altra più in là. Solamente nelle parti basse dei valloni, dove fa caldo, ho visto curare l’estetica delle abitazioni, con disegni geometrici sui muri, o decorazioni. Qui su siamo ancora in piena presenza di una economia di cacciatori-raccoglitori; è appena ora agli albori un processo di modernizzazione (e di ingresso di una economia monetaria).

Anche Lino però non sa a volte rispondere bene a certe nostre curiosità e domande del tipo “che cos’è questo?”, “cosa significa questa cosa?”, “che cosa intendi esattamente quando dici questo?” e così via. Spesso si crea un equivoco e c’è sfasatura di contenuti tra domanda e risposta. Ugualmente accade certe volte, mi pare, quando chiede qualcosa ai locali; deve sempre ripetere la domanda, anche tre volte. In certi casi la gente da tutto per scontato, altre volte sembra che non siano abituati a ricevere queste domande, altre volte forse la difficoltà nel rispondere sta nella scarsa dimistichezza con la lingua spagnola che magari hanno studiato a scuola in quelle classi elementari che possono aver frequentato da piccoli, oppure il loro vocabolario spagnolo è limitato a ciò che è utile e funzionale ad es al mercato, per i contatti commerciali, ma non sanno altro. Scendo per fare una foto in un villaggio, e poi mi accorgo che da lontano uno ha sollevato in alto il suo bimbo piccolo per mostrarmelo con orgoglio.

Di solito i piccoli se li portano con sè ovunque vadano e qualsiasi cosa stiano facendo. Quando sono più cresciuti e sanno camminare bene, di solito li affidano a qualche familare o fratello, sorella più grandini, e li lasciano al villaggio. (Mi tornano alla mente certi viaggi che da piccolo facevo con mio padre che come medico legale andava in certi paesini per farsi spiegare come erano andati i fatti ad es relativi ad un incidente, e mi portava con sè. Ma anche poi ai viaggi che facevamo tutti e tre sulla Lambretta, o poi con la Topolino-giardiniera in Maremma o nel sud-Italia).

Il kilometro come unità di misura delle distanze qui non significa proprio niente, e infatti ben pochi sanno rispondere dicendo la distanza in kilometri. Una distanza va commisurata al tempo. Va misurata in tempo di cammino, o di torpedone, o di camioneta; e varia da luogo a luogo, a seconda della orografia, delle condizioni della strada, degli intralci dati da attraversamento frequente di bestiame, o altri fattori, come quelli metereologici, o ad es. se si sale molto in alto. Da Andahuaylas ad Abancay sono 140 km circa e ci mettiamo 4 ore e mezza, perchè ad es appunto superiamo un passo oltre i 4000 metri con cattive condizioni atmosferiche, e la situazione del fondo stradale lo rende scivoloso e conviene andare molto piano.

Visti da lontano i ghiacciai perenni Nevado di Sacsarayoc (circa seimila m.) e Nevado Salkantay (6271 m.), hanno tutto l’aspetto e l’imponenza di dei immortali. A sinistra c’è il Santuario naturale di Ampay con i suoi laghetti.

Ma ora finalmente con una lunghissima discesa su stradone polveroso bianco, giungiamo nella moderna città di Abancay , capoluogo del dipartimento dell’Apurìmac. Qui però i tricicli-taxi sono a pedale. Ci fermiamo a mangiare in una chifa cioè in una trattoria cinese, qui c’è appunto una folta comunità radunata nel bàrrio chino, il quartiere cinese. Mangiamo un po’ diverso dal solito a 28.75 soles, 7€ per tre. Ripartiamo perchè il nostro obiettivo, che già abbiamo mancato a Andahuaylas era di trovare un accesso per raggiungere per via fluviale la zona di Espiritu Pampa. Ma quando abbiamo attraversato il rio Pampaconas era troppo forte la corrente e infatti non c’era nessuna imbarcazione, da Andahuaylas non abbiamo capito come raggiungere la confluenza del Pampas nel rio Apurìmac dove forse avrebbe potuto esserci un imbarcadero, e ora dopo Abancay la autopista per Cusco finalmente asfaltata dovrà attraversare con un ponte l’Apurìmac. Ma prima bisognerà di nuovo salire e poi si riscenderà.

E dunque qui inizia un nuovo capitolo perchè dopo un po’ raggiungiamo una località dove c’è un importantissimo sito archeologico. D’ora in poi infatti oltre all’aspetto paesaggistico, naturalistico, antropologico, folklorico, si aggiungerà spesso tra gli interessi del viaggio anche l’aspetto di àmbito storico e archeologico.

Dopo il passo a quattromila metri, con il mirador a Socclaccasa, facciamo dunque una piccola deviazione per visitare il sito di Saywite a 3500m. Anche qui constatiamo che la grafia nel riportare le denominazioni di siti antichi, o in quechua, è estremamente variabile. Probabilmente prima del 1975, quando il quechua (prima scritto Kechua)fu riconosciuto come lingua nazionale, si traslitteravano i termini in modo differente. Quindi si può trovare scritto Saihuite o Saywite, Huari o Wary; ora giustamente si distingue tra la q e la k, o tra h o jota, o doppia c, tra i e y.

In un prato vicino a un bosco c’è uno sdraiato per terra che dorme e che sentendoci arrivare si va a sedere un po’ più su, è il guardiano del sito. Ci chiede una cifra spropositata per la visita, 20 soles per due biglietti (Lino non pagherà mai in tutti i siti che visiteremo), biglietti che comunque dice che ha terminato. Dunque vediamo questo che si rivela essere un grande complesso archeologico. L’attrazione maggiore è quella che si vede subito comunque anche senza fare il biglietto, cioè il grande monilite nero. E’ alto due metri e mezzo con un diametro di quattro metri. Si tratta di una sorta di uovo di varie tonnellate “tagliato” a metà. Il guardia dice che le figure scolpite sulla superficie superiore dell’uovo rappresentano una mappa geografica di tutto l’impero degli Incas. Si individua più in là una reggia con il trono, rivolto al sorgere del sole, fontane e canali digradanti, poi un altare per lo sposalizio con gli spiriti degli antepassati, e in fondo all’avvallamento una piattaforma per il culto al sole e alla luna, e infine poco discosto un cosiddetto “orologio” astronomico in pietra. Il guardia si scusa prima di iniziare ma dice che lui deve dire il suo discorsetto, perchè è il suo dovere (?). E così inizia e il discorso è tutto intessuto di finte domande retoriche che si autopone per poi fare una breve sospensione e dare la risposta. Parla piano, un po’ sottovoce. E’ interessante ma non convince del tutto. a parte il fatto che dice che gli archeologi hanno identificato in quei tempietti in alto Machu Picchu, che invece sino al 1911 quando la scoprì Hiram Bingham, nessuno né gli spagnoli, né poi gli storici americani o europei, aveva mai saputo che esistesse, e in quelli in basso Choquequirao, scoperta più di recente. A un certo punto mi scuso ma gli chiedo se c’è un bagno, e mi dice di seguire un po’ il costado e poi entrare nel bosquecito. Dopo ci porta in una casetta un po’ diroccata, dove sta lui, è come un micro museino con un vecchio pannello esplicativo mal fatto, e delle piccole vetrinette polverose all’ombra, con qualche coccio. Non ci sono non dico libri o una guida, ma nemmeno dépliants, opuscoletti, foglietti ciclostilati, con dei dati su Saywite, nè alcunchè in vendita. Non resta dunque che accontentarsi del suo discorsetto. Non si capisce cosa ci abbia portato qui a fare nella casetta.

Ritornando al monolite scolpito, mi pare limitativo dire che è una carta geografica dei domini inca, mi pare che sia molto di più. Gli Inca chiamavano il loro impero universale, cioè lo denominavano con il termine Tawantinsuyo, perchè dicevano che si estendeva sui quattro angoli del Mondo, o ai Quattro Punti Cardinali (e il Cuzco era l’Ombelico del Mondo). Quindi le raffigurazioni di templi, scalinate, canali, corredate da sculture di animali, sono “semplicemente” simboliche. Sarebbe altrimenti curioso che per identificare certi luoghi geografici le figure fossero solo zoomorfe anzichè rappresentare popolazioni o tipi umani (c’è la Selva, la Sierra, la campagna e la Costa) I simboli appunto sono il puma, il giaguaro, la rana, il serpente cobra, la scimmia, il llama decapitato per sacrificio rituale, il gamberone, un uccello. Anche le città sono due: la alta e la bassa. E c’è pure il simbolo religioso degli Inca, che poi è stato chiamato la croce andina, ma che si riferisce piuttosto alla costellazione della stella del sud, ad una scala di gradini ascendenti e discendenti, cui sono attribuiti vari significati. La strada forse è quella che univa Espiritu Pampa e Vilcabamba, a Choquequirao, a Machu Picchu e poi terminava a Saywite, ma più probabilmente è il percoso che unisce tutte le quattro rotte del Mondo (altra traduzione di Tawantinsuyo). Così come i vari rìos confluiscono nel grande mare che è l’oceano pacifico che contorna e racchiude tutte le terre. Insomma essendo questo sito un complesso cultuale e rituale di carattere religioso, sacrale e insieme regale, il monolite di Saywite rappresenta simbolicamente il Cosmo tutto, la Grande Madre che è il Mondo con le forme di vita che ha generato. Da quella selvaggia a quella civile, da quella che ha come sua virtù la saggezza a quella che possiede l’energia e la potenza, dallo strisciante al volatile, eccetera. Ma si sentirebbe appunto la necessità di un opuscolo, un librino che riportasse le ipotesi degli studiosi che a questo sito si sono dedicati...Ma queste carenze purtroppo le sentiremo poi anche in varie altre località archeologiche.

Scendiamo poi a Curahuasi tra i campi di anìs (=anice) di cui questa area è capitale mondiale, perchè questa varietà di piantina di un verdino chiarissimo, i cui semi sono tanto apprezzati, cresce solo a questa altitudine (tra i 3000 e i 3500 m.) e preferibilmente in un terreno con questa composizione minerale. Proseguiamo e dopo il passo di Huamànmayo scendiamo al ponte di Cùnyac a 1900 m.; risulta chiaro che sulle acque dell’Apurimac qui non si può andare. Entriamo nel dipartimento del Cusco. Penseremo se e come andare ad Espiritu Pampa, eventualmente da Vilcabamba, o se rinunciare e cambiare programma.

Le rovine di Tarawasi sono vicine a LimaTambo attraverso cui passiamo, ma oramai è tardi e non ci andiamo. Scendiamo verso Izcuchaca tra gli alberi “Pisonay”. Ci sono spesso dei badén (=guadi), dunque anche la bella strada asfaltata viene ogni tanto letteralmente spazzata via da torrenti impetuosi che si ingrossano d’improvviso e la invadono. Si prosegue tra paeselli con vecchie o anche vecchissime scritte elettorali. Questa, mista quechua-spagnolo ad esempio c’è di frequente: “Llapanchìk marquen asì” (=fate tutti quanti il segno così”). Poi c’è spesso una scritta che ricorda o inneggia a Pachakuteq, un importante Inca dell’inizio del 1400 (forse fu preso come simbolo elettorale di un partito locale). La pista dunque è ben asfaltata ma ugualmente, soprattutto a quest’ora tarda, l’intralcio è dato da animali che non solo attraversano, ma che passano, la percorrono, stazionano, lungo e sopra la strada. I chanchos sono spesso legati sul bordo stradale, ma si slegano, oppure i proprietari se li vengono a riprendere e li portano al guinzaglio verso casa camminando sulla strada. Se no ci sono mucche e pecore. Ma infine eccoci per le 18 a Cusco (siamo partiti stamane alle 8).

Eccoci dunque in quella che, venendo da 30 ore di auto a 35Km all’ora attraverso le campagne, i villaggi montani, le zone agricole o di pastorizia, ci appare insomma come una metropoli moderna, la grande capitale delle Ande, l’antica capitale inca (in quechua significa centro, ombelico)e inizialmente anche del vicereame spagnolo, a 3.400 metri di altitudine. L’impatto col casco antiguo è strabiliante. Tutto ben illuminato e valorizzato al massimo dello splendore! Imponenti le chiese con una architettura barocca coloniale tutta sul marrone scuro e il bianco. Poi le vedremo dentro, cariche d’oro e di specchi, e di affreschi. Attraversiamo varie piazze con fontane, alberoni secolari, a volte le mura di base sono incaiche. Impressiona nella plaza de armas la chiesa dei gesuiti con accanto la casa dell’Inquisizione.

Ci sistemiamo all’Hostal Incawasi, 23 dollari per una doppia con bagno proprio nella grande piazza centrale. D’altronde i prezzi qui sono superiori che in altre località andine perchè questo è il centro principale del turismo internazionale che viene in Perù. Lino cercherà un alberghetto che abbia una cochera, e lo troverà poco più in là della piazza a 35 soles (8€), e se ne andrà a mangiare il solito mezzo pollo alla brace al comedor “Los Angeles - pollos y parilladas” per due €uro. Mentre noi andiamo a spasso, e poi cercheremo un buon ristorante piacevole e rilassante, per festeggiare il compimento di questa prima “tappa” del nostro viaggio. Stupendo ristorante in un edificio coloniale con gli interni in legno, mangiamo alla bow-window che da proprio sulla piazza illuminata, una cena come si deve, 70 soles (16/17 €), pensavamo molto di più, dato il posto, il servizio, e dato che  siamo a Cusco. Al mercato ufficiale della associazione degli artigiani del Cusco che sta dentro la chiesa gesuitica, ci sono tantissime belle cose, fatte bene e con gusto. Compro una casaca per 70 soles che è stupenda, contratto un po’ ma poco perchè la signora mi sussurra piano che in questo momento ha tanti problemi, le chiedo della sua famiglia, è molto contenta e mi racconta un po’, la ascolto con interesse. Poi mi dice ti faccio uno sconto ma, e mi sorride abbassando la voce e gli occhi, tu torna domani per prendere qualcos’altro per favore, e rialzandosi mi aggiunge con serietà: hai visto come lavoriamo bene, e qui la qualità è garantita. Va bene senz’altro, e le dico “Que Diòs bendiga su familia y que todo pueda pasarle bién”, mi prende con le due mani la mia con gratitudine. Mi commuovo. Forse non molti turisti le hanno dedicato del tempo.

 Torniamo e incontriamo Lino che ci aspettava davanti all’albergo, combiniamo per domattina alle sette in un piacevole e semplice bar dove si può fare el desayuno, per poi ripartire in direzione della valle di Vilcabamba.

La notte è rovinata da una compagnia di ragazzini e ragazzine inglesi che festeggiano l’ultima sera bevendo birra, cantando, e parlando a voce alta, escono poi tornano, è un tormento, una violenza verso tutti gli altri clienti, finalmente la masnada di questi irruenti menefreghisti cafoni egocentrici va verso l’uscita, alle quattro e mezza partono per l’areoporto, ma, oddio, dopo c’è una che piange e si dispera e un’altra la consola...poi per fortuna anche queste crollano addormentate per eccesso di birra.

 

Sabado 17 de avril

Ci alziamo alle sei, vado a fare un giretto e vado a comprare un chaleco (=giubbotto) rosso per 35 soles, poi facciamo una bella colazione con caffelatte come si deve e ottime brioches, succo d’arancia, burro e marmellatina fatta in casa.

Ben va con Lino per sistemare diversamente i bagagli. Chiacchiero con la vicina di tavolo, che mi dice essere una antropologa americana, sulla possibile interpretazione dei rilievi scolpiti sul monolite di Saywite, poi mi congeda perchè stava scrivendo, ma comunque anch’io dovevo andare. Facciamo gasolina dopo le solite ricerche di un grifo con gas da 90, che ci svelano anche qui una periferia scassata e allo sfascio, e partiamo.

Ritorniamo a Izcuchaca giriamo a destra verso Pucyura, costeggiamo la Laguna (=lago) Huaypo, si favoleggia che qui (o nel vicino lago Piuray) gli incas abbiano gettato i manufatti d’oro che volevano mettere in salvo. Il lago non è utilizzato sulle rive, anche se potrebbe essere una bella attrazione turistica, comunque non ci sono nè case nè barche da pesca. Nella campagna nella conca vicino al Cuzco avevamo visto per la prima volta un trattore. Ora qui vediamo donne che da tutte le parti stanno venendo giù per il mercato, con abiti di colori e di decori differenti; vedo per la prima volta una con il suo cappellino a disco piatto. Diverse donne hanno invece una specie di cappello a cilindro bianco. Andando a Urubamba si vedono anche terrazzamenti incaici sui pendii. Sullo sfondo alti picchi, come il Chicòn, e forse il Pumahuanja, ma le nuvole presto li coprono. Passiamo un ponte (il fiume qui si chiama Urubamba ma più su è chiamato Vilcanota, o Wilcamayu)e entriamo nella cittadina. Molta confusione in questo piccolo centro, camion, grandi trucks, corriere, taxi, gente, polvere. Proseguendo, dopo un paio di ponti la pista asfaltata finisce a Ollantaytambo, la nostra meta per oggi. Tambo ai tempi degli incas era un fortilizio, un caravanserraglio, cioè un posto di sosta, ma anche un magazzino, un castello, una postazione di frontiera. Qui Pizarro subì una inattesa sconfitta.

Ed eccoci (questa volta addirittura già prima di pranzo!) a Ollantaytambo dalle possenti mura. Già da prima di arrivarci grandi mura incaiche sbarrano la valle, qui il mondo del Valle Sagrado del Cuzco finisce, si chiude. Poi si entra nel paesino montanaro, con i suoi odori, con i contadini seduti in piazza. Tanti colori, costumi di gruppi diversi. Una donna di mezza età si sta lavando i lunghi capelli in due catini appoggiati per terra, nonostante l’aria freddina. Io mi metto la mia casaca nuova di alpaca bella calda. C’è una “vecchia” che sta seduta filando la lana, mi avvicino con la macchina fotografica e faccio segno che vorrei farle una foto, ma non mi considera nemmeno; allora mi avvicino e le dico “nonnina vorrei proprio portarmi a casa una tua foto, non ti dispiace?” mi fa segno che va bene, faccio un paio di scatti, e poi le dico “aspetta che ti porto qualcosa” vado nel bar dove ho lasciato il borsello con Ben e le porto dei soldini, solleva la testa e annuisce. Andiamo verso il sito dove certi stanno montando una bancarella.  E poi si volge lo sguardo, e domina e ci sovrasta il granito grigio dell’enorme terrazzamento del costado del monte. Anche qui non c’è quasi nessuno (intendo dire che oltre a noi non ci sono altri estranei, o sono assai rari) e ci si gode ciò che la vista può abbracciare. Pagato il biglietto da sei dollari che vale per qui, per l’antica Pisaq e per Chinchero, saliamo o meglio scaliamo questi incredibili gradoni ripidi, e più su iniziano delle mura scure composte da pietroni anzi macigni tutti ben lievigati e lisciati, incastrati a secco perfettamente uno sull’altro... e poi più su ancora immensi monoliti di pofido rosa (pietra che non si trova in loco)liscissimi che dovevano comporre la stanza più sacra del tempio. Mi siedo su un maestoso trono di pietra grigia ben levigata, forse il trono di Ollantay... Attorno tanti enormi “cubetti del Lego” sparpagliati a terra; come si potrà mai rimettere su il tutto e ricostruire il puzzle? Poco più in là c’è un bimbetto tutto vestito con i colori del suo villaggio, mi avvicino, “Puès cuantos añitos tienes chico?” Mi pare abbia detto 6 con una vocina sottile. “Qué me cuentas?” Allora mi dice che lui sa cantare un cuento. “de verdad?! y como haces?” e comincia a recitare una poesiola in quechua con una melodia da cantilena, ma la voce esce appena appena. Alla fine lo applaudo e gli do una monetina, scappa via. Lì vicino poi vedo che ci sono due o tre operai del sito archeologico, che vangano e scoprono un po’ di più una pietra interrata, forse quello è il figlio di uno di loro; scherzano su questi sassi dicendosi, “guarda guarda cos’ho trovato”. Intanto Ben è tutto intento a disegnare per ritrarre queste stupende costruzioni e il panorama. Da lassù c’è proprio un bel dislivello a picco sull’altra parte del paese. Si vede un campo, un orto, laggiù c’è un toro che mugghia. Intanto arriva una guida con un gruppetto di tre o quattro e dice che guardando là in fondo verso la valle aperta, si vede la piramide e ne parla. Ma io guardo e non vedo proprio nessuna costruzione. Continuiamo la visita verso l’altro lato. Sostiamo a lungo in un edificio, Ben fa altri disegni e io scrivo i miei appunti. Ci arrampichiamo, come formichine cocciute, sbanfando e facendo prudenti soste, di qua e poi di là, allibiti e senza riuscire in alcun modo a darci ragione delle tecniche di costruzione. Oltretutto fa rabbia che non si sappia quasi nulla nemmeno delle reali funzioni cui erano adibiti questi spazi.

I cristianissimi sovrani di Spagna con i loro generalacci dell’esercito, coadiuvati dagli insaziabili gesuiti con la loro santa inquisizione, non solo hanno soggiogato questi popoli amerindi, non solo hanno sconfitto ma anche ucciso proditoriamente spudoratamente il loro grande re contravvenendo alla parola data pubblicamente sul loro stesso onore, ma non contenti di ciò hanno poi ucciso praticamente tutti i personaggi di rilievo e di cultura, non solo hanno posto fine all’esistenza di questo Stato e alla sua amministrazione ed organizzazione, ma hanno abbattuto i palazzi, bruciato i simboli, infine cancellato una intera civiltà, ma non solo hanno imposto la loro religione come se ciò fosse cosa concepibile, ma hanno imposto la loro lingua, e quindi come se ciascuna delle cose sopra ricordate già non potesse bastare da sola, hanno deliberatamente fatto cessare di essere una cultura. Scomparsi i detentori dei saperi, eliminati col tempo anche i tecnici e gli artigiani, sono rimasti solo i poveri contadini quechua o aymarà con le loro superstizioni, le loro favole, le loro credenze, il loro folklore, insomma quel minimo di patrimonio esclusivamente orale che poteva restare, perpetuando dunque solo le conoscenze di una subcultura  dei ceti subalterni più ignoranti. Che assurda furia devastatrice, oltretutto controproducente perchè hanno distrutto un paese fiorente che valeva un perù...! Tanto ora sembra straordinario quel che resta a testimonianza di quella civiltà scomparsa solo cinque-quattro secoli fa, tanto più quella insaziabile ansia di potenza sembra inconcepibile. Mi viene in mente la follia di “Aguirre, la furia di Dio”, film di Herzog, ma quello comunque era l’eroe cristiano civilizzato, e non più il barbaro Attila sceso dalle steppe... Un cavaliere di Castiglia ne doveva aver uccisi almeno cento in ogni singola battaglia per potersi fregiare del suo titolo. L’inquisizione di Torquemada, sguinzagliata senza freni, lo schiavismo, l’idea di esseri umani sub-umani, di un impero satanico da estirpare ad ogni costo.... e in più ci si misero le epidemie di germi per cui loro non avevano difese organiche......

Che incontenibile Apocalisse ! (vedi più avanti l’intermezzo 2).

-------------------(intermezzo)

Comunque ora ritorniamo ai resti del sito di OllantayTambo. In uno dei pochissimi testi che riportino qualcosa della cultura antica, c’è il dramma conservato per via orale relativo ad Ollantay, e che uno spagnolo del Seicento, Espinoza Medrano, udì, ne fu affascinato e volle mettere per iscritto. In realtà sembra che E.M. fosse un quechua convertito e divenuto cantore della cattedrale di  Cusco. Come si sa il Grande Tempio del Sole nel Cuzco, fu abbattuto e per spregio e arroganza sulle sue fondamenta fu costruita la Chiesa e convento dei Domenicani, conservando solo la cosiddetta camera dorata, o recinto aureo, il Qorikancha, ma per edificarvi dentro una sorta di sacrario in cui Francisco Pizarro depose lo stendardo di Carlo V, così coprendola e occultandola. Nella biblioteca della chiesa dunque era stato depositato il testo del dramma Ollantay. L’Europa colta venne a conoscenza della sua bellezza letteraria solo quando un certo Pacheco Zegarra lo tradusse in francese e lo fece stampare a Parigi nel 1878.  La sua traduzione poi suscitò molte critiche e fu quindi edito finalmente il testo spagnolo sempre a Parigi nel 1938 dalla casa editrice specialistica “Biblioteca de cultura peruana”, e a Cusco dalla “Revista Universitaria” nel 1941. La seconda guerra mondiale ritardò la diffusione e la valorizzazione di quest’opera, che fu poi riportata in una antologia pubblicata in Messico da Lara nel 1947. Ma si trattava del testo riscritto nel corso del Settecento da due scrittori che dichiararono ciascuno che la propria era la vera trascrizione dell’opera. Nel 1950 per un ennesimo terremoto anche la camera dorata tornò a rivelarsi con i suoi muri assolutamente liscissimi composti di enormi massi di porfido perfettamente incastonati, dato che assieme a parte del chiostro, erano crollate le costruzioni sovrapposte al recinto sacro del Qorikancha; e nei lavori di restauro della chiesa e della adiacente biblioteca venne alla luce una cinquecentina col manoscritto originale del dramma, l’unica opera drammatica d’epoca incaica giunta sino a noi (!). Queste opere si rappresentavano nelle grandi spianate come a Sacsayhuamàn o negli anfiteatri come quello di Qenqo, o stando sui terrazzamenti.

Dunque si tramanda che Ollantay fosse un capo valoroso dell’armata incaica, considerato un eroe, e si fosse innamorato perdutamente della principessa Stella gioiosa (in quechua Cusi collur) figlia del grande Inca Pachakuteq (o Cusi Yupanqui), che già ho menzionato più sopra. Ma Ollantay confida al suo fedele paggio Pié Leggero questo segreto sentimento; inquieto per i gravi pericoli cui il suo signore si esporrebbe, il paggio si consulta col Gran Sacerdote, che subito affronta il generale dicendogli che ha consultato la Luna ed ha visto cosa c’è nel cuore dell’eroe, e per il suo bene cerca di dissuaderlo. Sconcertato O. risponde che gli è proprio impossibile smettere di amare. Il Gran Sacerdote lo consiglia allora di manifestare questi suoi sentimenti all’Inca. Intanto la fanciulla accortasi degli sguardi di O. confida alla madre il suo amore per lui. Entrato il re si stupisce per le lacrime della figlia, ma deve andare a una riunione con i suoi generali O. e Occhio di Pietra. Qui chiede loro di sconfiggere i nemici del sud. In privato O. coglie l’occasione per chiedergli la mano della principessa, Pachakuteq gli ricorda che lui è solo un vassallo. Intanto si viene a sapere che Stella di Gioia e la madre non si trovano più a palazzo e il re da ordine di ritrovarle e arrestarle. Giunge un messaggero recando un quipù  proviente dalle parti del fiume Wilcamayu. (I messaggi, non avendo i popoli andini la scrittura, erano codificati in cordicelle intrecciate con nodi, quipù , che solo gli esperti sapevano interpretare). Occhio di Pietra lo esamina e dice al sovrano che O. è fuggito e si è rinserrato nel Tambo, o fortezza, in fondo alla valle, insieme ai suoi soldati, e che ha trafugato delle insegne del potere, proclamandosi capo di tutti i ribelli al re. Pachakuteq lo incarica di debellare l’insubordinazione di O. Ma Ollantay è un eroe, vicino al popolo, e moltissimi accorrono da lui. Occhio di Pietra sarà sconfitto. Il dramma poi si sposta nel tempo e nello spazio all’interno del Acllahuasi, “Palazzo delle vergini”. Nel segreto di questo luogo inaccessibile agli uomini, vive una vergine, di nome Bella, e veniamo a sapere che è la figlia del rapporto avuto da Stella di Gioia e Ollantay. Poi da un incontro tra Pié Leggero e il Gran Sacerdote apprendiamo che intanto è morto il vecchio Inca ed è succeduto sul trono Tupac Yupanqui. Occhio di Pietra d’accordo col nuovo Inca tende un tranello a O. si presenta da lui come fuggiasco dalle torture che ha dovuto subire per la sconfitta sotto il Tambo, e O. lo accoglie per farlo curare. Intanto Bella viene a sapere che la madre è nel Palazzo de las Mamacunas (o mujeres escogidas) nascosta in un sotterraneo, la cerca e si riabbracciano. Il Gran Sacerdote comunica all’Inca che Occhio di Pietra ha fatto prigioniero Ollantay mentre era in trance per la pozione sacra bevuta durante la cerimonia all’Inti (il dio Sole)e che il Tambo è in fiamme. Dopo poco giungono i generali, il fedele e il ribelle, e Occhio di Pietra chiede al Gran Sacerdote se Ollantay non merita forse la morte, ma questi risponde che solo l’Inca può essere clemente. Quindi Ollantay è perdonato dal sovrano che gli ordina di sposarsi e passare alla vita civile. Ma O. risponde che è già sposato. Entra Bella che implora la liberazione di sua madre che è chiusa nei sotterranei. Tutti vanno a vedere, e Tupac Yupanqui la libera e tutto finisce nella gioia generale portata dalla liberazione di Stella della Gioia. L’Inca ristabilisce O. nella sua posizione di generale presso il forte che d’ora innanzi sarà chiamato Ollantaytambo e dove vivranno O., S.G., e la vergine Bella. (sunto liberamente tratto da: Louis Baudin,Il Perù degli Inca, Paris 1955, trad.it. edizioni Il Saggiatore, Milano, 1965.)

-----------------(fine dell’intermezzo)

 

Passiamo dall’altra parte, dove ci sono altri terrazzamenti grandiosi, e le casette vuote dove mettevano al sole e al vento le salme dei personaggi importanti. Scesi dal Tambo, ci sono canali e fontanelle una molto bella in particolare, che è quella dove facevano le abluzioni purificatorie le principesse. Poi usciamo, c’è una bellissima giovane montanara con un cappellino colorato a forma di scodella rovesciata, accucciata per terra nella piazzetta antistante. Mi avvicino, mi guarda ma non chiede nulla, le sorrido e le porgo due ciambelle di pane comprato ieri, mi guarda contenta, le domando se ha il suo bimbo nel sacco dietro la sciena mi fa segno di sì, “mi piacerebbe molto poterlo vedere un momento” allora apre delicatamente pian piano i lembi del fagotto, sorride e mi guarda con occhi scintillanti, le dico “Diòs mio que tan bonito que es tu niño!”, e si vede che è proprio felice. Non mi chiede soldi. La saluto e vado, ma sono proprio commosso.

Torniamo nella piazza centrale e chiediamo in un locale dove si fanno polli arrosto se si può mangiare, ma dice il padrone che non è ancora pronto, di ritornare fra dieci minuti. Ritorniamo dopo un quarto d’ora circa e già tutti i tavolini sono occupati e il padrone dice che adesso è troppo tardi, gli ricordiamo che avevamo prenotato, ma dice che quando avranno servito chi c’è, avranno terminato i polli. Mangiamo da un’altra parte in un localino messo su bene con gran gusto da chi conosce cosa piace a quelli come noi. E’ rilassante, dietro dove ci sono i servizi hanno un bel giardinetto. Paghiamo 30 soles per un buon pranzo completo, e chiediamo se hanno una camera, ma non hanno ancora aperto come albergo, ci dice di chiedere al dueño (=proprietario) del bar d’angolo in piazza. In effetti lui ci accompagna in un vicolo di terra retrostante dove c’è il suo nuovo Hostal “La ñusta”, la vergine, ma anche la principessa. Ci fa vedre la stanza, sobria, pulita, con tre brande di legno e tante coperte di alpaca, più in là una terrazzina con sedie e tavolini. Di lì si gode un bel panorama del Tambo, senza dover pagare il biglietto, gli dico; allora mi fa con aria un po’ misteriosa “da qui si può vedere il llama”, ah sì?, “e il condor”, ma davvero?, “avete visitato le rovine?” sì, “e non avete visto il volto incoronato di Wiracochan?”, dove?, “e la piramide?”, no. La conversazione finisce qui. La riferisco a Ben, ma non si capisce bene che cosa volesse dire, forse che a una certa ora rientrano le greggi, o che sulle montagne circostanti ci sono dei condor? mah. Dopo un po’ torna con un vecchio libro tutto consumato che è andato a prendere nel suo bar in piazza. E allora ci fa vedere che è un libro illustrato che spiega i significati che gli incas attribuivano alle loro costruzioni e a certe parti del paesaggio, e in cui ancora il popolo crede a livello di leggenda. E’ interessantissimo, ci fa una lezione sul mondo mitico incaico che spiega molte cose della loro mentalità e della loro cultura.

Con quel suo fare dimesso, e dicendo le cose contemporaneamente come fossero ovvie e come fossero meravigliose, ci porta sul terrazzino e ci mostra che dal Tambo guardando verso il cerro di fronte si vede chiaramente una conformazione rocciosa scoplita in modo che appare come il volto incoronato di Wiracochan accigliato che ci tiene sotto osservazione. Da uno sperone poco più sopra dove forse si intravede la sagoma di un re incoronato, ma è piuttosto rivolta verso la parte opposta, cioè dove dall’altra parte ancora della stretta valle c’è una roccia a forma di condor (il messaggero),che da qui possiamo appena indivinare, da lì viene la luce del sole che colpisce il volto dell’Inca (il figlio del Sole) e proprio lì spunta ilprimo raggio mattutino il giorno del solstizio d’inverno, il 21 giugno, e questo raggio che nelle brume di quell’ora si staglia in modo che lo si può proprio distinguere “materialmente”, istantaneamente vola a colpire il punto più sacro del tempio in porfido rosa che sta sopra il tambo, dove c’è la pietra nera con quella sporgenza chiamata Intiwatani, cioè il punto dove si coglie il raggio di luce solare, poi subito dopo si inclina un poco facendo angolo sull’Intiwatani e va ad attraversare la valle aperta dall’altra parte verso i campi coltivati, proprio dove c’è la parte superiore, o sacrale, della grande piramide. Ma quale piramide? Lo si vede bene nella foto fatta per illustrare il libro, e poi lo vedrò chiaramente coi miei occhi l’indomani andando verso quella parte: i campi sono coltivati in modo tale e con certe coltivazioni, per cui si crea da lontano l’effetto ottico di una piramide in rilievo a tre dimensioni... Pertanto in quell’istante magico, che appunto bisogna saper cogliere, si determina una carambola di giochi di luce per cui questo raggio attraversa tre volte i costados dei monti facendo come una lieve zeta, la sagoma di una saetta nell’oscurità brumosa ovvero nella tenue prima luminosità diffusa dell’albeggiare ! Sino a quel momento l’ombra fa apparire come chiusi gli occhi del grande Wiracochan, che con la luce sembra che si aprano e lui si risvegli. L’inviato del dio Wiracocha, cioè Wiracochan (o Tunupa) è il pellegrino, predicatore della conoscenza.

Ora ci è chiaro cosa vedevano gli inca e il loro popolo con la loro mentalità e la loro spiritualità tutta immersa e immedesimata nelle forze della madre natura. Ecco perchè il tempio sta proprio là, e laggiù c’è la grande piramide virtuale, e le dimore dei morti sono lassù, eccetera. Spettacolo superbo con tutto il popolo riunito in festa, il grande sacerdote già là sin da quando ancora brillavano le stelle nella notte (e c’era una connessione anche con le costellazioni poichè nel solstizio d’inverno nel punto in cui sorgerà il sole lì stazionano nel cielo le Pleiadi), e de repente scocca il raggio primigenio, la luce si può vedere nell’aria, anche l’aria si può vedere con i fumi e vapori che l’attraversano, il pulviscolo che in essa nuota, e si realizza la congiunzione dei punti più venerabili della grande montagna.

Dopo che queste immagini ci hanno lasciato esterefatti, abbiamo scoperto la presenza di Wiracochan che avevamo pur guardato ma senza vedere, senza avvedercene, immagini che ci resteranno a lungo nella mente, e a cui ritorneremo più volte col pensiero per riflettere sul suo senso, el dueño de la ñusta ci parla, ma sempre accennando appena con quel suo fare dimesso, e dicendo le cose come fossero ovvie, del fatto che tutto il Tambo sembra un grande llama adagiato al costado del monte, e il tempio del Sole è il suo occhio, ma anche la cittadina stessa del Tambo di Ollantay ha una sua particolare forma che si intravede dalla parte alta del Tambo. E’ stata programmata per essere edificata a forma di pannocchia di maìs. E’ una sorta di trapezio in cui ogni cuadra (cancha) con il suo cortile, appare dall’alto come un grano, e quindi tutte le stradine sono regolarmente verticali e orizzontali, incontrandosi ad angolo retto, creando dieci cuadras per cinque. A fianco scorre il rio, nel perimetro un canale d’acqua corrente, nelle strade “verticali” maggiori uno scolo fa defluire l’acqua piovana, e nelle minori canaletti derivati portano via gli scarichi. Poi andremo a passeggiare su e giù per la pannocchia del casco antiguo (=centro storico), ammirando questa antica programmazione urbanistica di montagna.

Sono affascinato, voglio assolutamente comprare una copia di quel libro. Mi dice di andare a chiedere in quel ristorantino dove abbiamo mangiato. E’ un testo di Fernando e di Edgar Elorrieta Salazar, intitolato Cusco y el Valle Sagrado de los Incas, pubblicato dalle edizioni Tampu di Cusco alla fine dell’anno scorso, anche in traduzione inglese. Corro fuori e vado a chiedere, ma non ce l’hanno, allora vado nel bar della ñusta in piazza e chiedo alla giovane se forse ho capito male le parole del dueño, ma lei non sa, chiede, ma dice che forse nel posto di fianco a quello in cui avete mangiato. Allora torno là ma nessuno sa di alcun libro, per fortuna arriva una bella giovane signora che è loro parente che mi fa richiamare, lei lo sa, lo vendono in un negozio che c’è più giù dove c’è lo spiazzo verso l’ingresso del sito archeologico. “Ah bene allora ci vado”, “no aspetti ora è chiuso ci vado io che li conosco e poi glielo porto”. “D’accordo la aspetto qui”, “no, no non si scomodi mi dica dove sta alloggiato e glielo porterò poi io con comodo” “sono all’Hostal La ñusta nel cuarto (=camera) numero tale, mille grazie”. Così torno in camera e vedo che Ben è rimasto là nel terrazzino per disegnare il volto di Wiracochan. Torno all’ingresso e vedo che lei sta arrivando con a mano un bimbetto seguiti da uno stupendo labrador chiaro. Vado loro incontro ringraziando e mi accuccio a salutare il bellissimo bimbo che è suo figlio di tre anni. Scherzo un poco con lui e con il cagnone buonissimo che il bimbo adora. Saliamo per le scale e mentre vado in camera per prendere i soldi contratto un po’ il prezzo del libro, ma lei non è autorizzata a questo, intanto arriva Ben che dice che ne vuole assolutamente uno anche lui, poi vedo che è in inglese, allora le dico che se mi porta due copie del libro in spagnolo può chiedere al proprietario del negozio se ci fa uno sconto, pagheremo in dollari, e che io le darò un regalino per suo figlio. Allora corre via svelta dicendo ritorno subito. Intanto che Ben si sistema in camera per colorare con gli acquarelli i disegni fatti, le vado incontro al locale di fianco al ristorantino. Là vedo che c’è il cagnone e anche il bimbo, allora gli do il regalino, che sarebbe un giocattolo rotto di quando mio figlio era piccolo, e cioè la testa, la sola testa, di un cane giallo. E gli dico “mira ahorita te voy a regalar un perrito amarillo, te gustarìa?” e tiro fuori la testina, è sorpreso, strabiliato, contentissimo. Corre da uno che dentro il locale stava facendo lavori di falegnameria, è suo padre, “guarda ho anche un cagnino giallo!” gli dico che è il fratellino del suo cane, intanto arriva la mamma coi libri, “guarda, le dice, il mio cane ha un fratellino!” e lo fa vedere al cane che lo annusa. La mamma mi fa un sorriso meraviglioso. Andiamo verso l’albergo perchè non ha il resto da darmi (il prezzo è un pochino scontato) e vedo se Ben ha degli spiccioli, il bimbo allora mi chiama “torna dove vai ? Papa Nal, Papa Nal !” la mamma mi spiega che vorrebbe dire papà Nadàl (=Babbo Natale).

Così anche più tardi quando passerò di lì lui mi chiamerà da lontano, “Papa Nal, Papa Nal !”. Per così poco sono diventato nel suo immaginario addirittura la personificazione di Babbo Natale che giunge da lontanissimo per portare un regalo proprio a lui...

Giriamo un po’ per il paese, ci sono grandi casone con la base di massi incastrati e certi portoni ancora trapaezioidali. Vicino al mercato della verdura c’è un punto dove si possono legare i cavalli, come vedo fare da uno che era arrivato di corsa. C’è un magazzino con fuori la scritta:“Se alquìlan caballos, carpas, bolsas de dormir” (=si noleggiano cavalli, tende da campo, e sacchi a pelo). La sera ricoverano gli animali nelle corti, e accendono i fuochi per cucinare. La maggior parte dei negozi sono “Abarrotes”, cioè generi vari (in castillano abarrote è un pacco, un fagotto, mentre qui tienda de abarrotes, è negozio di alimentari, chissà forse deriva dal fatto che ci sono tanti pacchi di cose, fagotti con generi alimentari...per cui abarrotero sarebbe il pizzicagnolo), bodega vuol dire negozio tipo drogheria (in castillano, cantina, magazzino, più che altro di vini), mentre botica è lo spaccio dei sanitari, medicinali di largo uso, cure naturali, spezie, ma anche merceria.  A fianco del mercato c’è una chiesetta con su scritto “Choquekillca” =Proteggici. Il comedor infantil (para almuerzar) alla sera si trasforma in sala e scuola di ballo e di ginnastica. Alle sei è buio e vanno in giro nelle taverne, cafeterias, bares, a guardare la televisione o ascoltare la radio per le partite di calcio, chiacchierare, ci sono carrettini ambulanti che vendono bibite fresche, gelati, oppure cose calde. Il kéquele è un pane tipo panettone con cioccolato a scaglie. Alle cinque al massimo già non ci sono più visitatori, non c’è più bisogno di vender qualcosa a qualcuno, il paese recupera la sua dimensione reale e da mercato si trasforma in villaggio di montagna.

Andiamo al posto di polizia locale dall’altra parte della piazza per informarci sul percorso per Vilcabamba. Già ci vedono che ci stiamo dirigendo verso di loro e sono incuriositi ma uno entra dentro e lascia l’altro a sentire cosa vogliamo. Questo è gentilissimo, si sente molto investito da questa responsabilità di dire bene a degli stranieri com’è il percorso da fare. Allora chiama l’altro, che si è capito che era andato di sopra e si era già tolta la camicia dell’uniforme. Poi scende e dice che lui è proprio di quella valle e conosce tutto, è supergentilissimo. Comincia a dire qualcosa, ma poi gli diciamo di mostrare sulla nostra cartina dell’istituto geografico militare che è molto precisa. Allora manda l’altro a procurarsi un foglio di carta abbastanza grande perchè ce la fa lui la cartina del percorso. Arriva con un foglio tipo A4 ma manca la penna, allora offro la mia, ma no lui ha la sua di là in ufficio. E incomincia a fare un disegno, ma non viene bene perchè presto giunge alla fine del foglio, allora lo rifà da capo sull’altro lato. Descrive la salita fino al passo, che si chiama Abra Màlaga, ma là non c’è nulla, bisogna scendere dall’altra parte e andare per un bel po’ prima di trovare da fermarsi a mangiare. Poi comunque ci vorrà un secondo foglio per continuare la sua descrizione minuziosissima -e utilissima- su dove c’è un grifo per la benzina, dove un posto di polizia per informazioni, dove un restaurante, dove un telefono, dove un hostal, eccetera. Ci fa tante raccomandazioni per il posto dove c’è il ponte sul fiume perchè è facile sbagliarsi, e che lì c’è un suo ex collega e suo amico, di rivolgerci a lui sia per mangiare che eventualmente per dormire. Poi ci dice che in fondo alla valle c’è un sacerdote italiano, e che per arrivare proprio a Vilcabamba dopo la fine della strada c’è un truche in salita. Forse ci conviene dormire a Lucma o comunque verso la fine, per poi andare su a Vilcabamba il giorno dopo. Ma perchè -chiediamo- quanto ci vuole ad arrivare sino in fondo?, una decina di ore. Bisogna proprio che partiamo presto. Ci saluta con molta cordialità e tanti sorrisi.

Andiamo al ristorantino del nostro albergo, ma è ancora presto, intanto prendiamo un mate de coca e chiacchiero con un ragazzino tornato da scuola, Johnny Rojas Huamàn (mi colpisce la presenza nel suo nome di inglese, spagnolo, quechua) di Kishuàra un paesino vicino; ha 12 anni, è molto sveglio e curioso, mi chiede dov’è l’Italia e poi com’è, cosa si fa. Intanto è arrivata la giovane che fa da cameriera e ordiniamo la cena, queso y papas, formaggio e patate, abbondanti, birra, cocacola, e mate de anìs, 12 soles (3€uro) per due.

Abbiamo appena finito di cenare che mi accorgo che fuori dalla porta c’è gente, anzi tutta la piazza è piena. Stasera in paese grande avvenimento si proietta un film. E’ proprio come in “Nuovo Cinema Paradiso” di   sugli anni ‘50 in un paese di campagna del nostro meridione. Che cosa fantastica, ora ci è consentito in questo paese delle Ande di tornare indietro nel tempo e vivere Nuovo Cinema Paradiso dal vero. Non solo c’è tutto il paese, ma ci sono anche quelli venuti giù apposta dai dintorni per l’avvenimento, altro che tv, c’è il cinema! Si sono seduti da tutte le parti, i paesani su loro sedie, e certi stanno nel frattempo mangiando qualcosa. Famiglie intere sui gradini a guardare. Un pullman attrezzato si è messo proprio in mezzo, e sul tetto è salito l’operatore, poi si sono andati ad agganciare per l’elettricità ad un lampione vicino, e si proietta il film sulla parete di una casa col muro bianco, ma restano incluse anche due finestre... L’audio, oltre all’immagine, è talmente scadente che gracchia distorce e si capisce poco. Sul lampione fornitore, ogni tanto si accende una lucina fioca, che traballa va a intermittenza, e poi per un pochino si accende pienamente, impedendo la visione ma subito dopo si rispegne, e fra un po’ il tutto ricomincia da capo. L’altro lampione impedisce un poco la vista, ma non troppo. Si proietta “La vida de Jesùs”, un vecchio kolossal americano primi anni Sessanta, che avevo già visto a suo tempo da ragazzo. Colori sbiaditi sull’azzurrino. Ma lo spettacolo è mettersi a guardare all’inverso, cioè a guardare il pubblico che guarda. Certi stanno seduti vicini tra loro e seguono con intenso interesse, altri stanno ben poco attenti, e parlano, si distraggono. Altri gironzolano. C’è solo una donna che ha tenuto aperto il proprio baracchino di frutta e caramelle, ma si è pesantemente addormentata sul suo sgabello vicino al banco. I bambini scorrazzano e giocano.

Poi a film finito, sale de repente sul tetto del pullman un predicatore di una chiesa evangelica nordamericana. “Pentitevi!” grida, “Ripulitevi dai vostri peccati! Siete, siamo, tutti peccatori! Solo Jesùs può rimettere i vostri peccati”. Intanto li guardo, oramai certi li riconosco, sono quelli del mercatino, dei negozi, dei bar, gente montanara molto semplice, e almeno mi son sembrati, molto tranquilli e miti, che peccati dovrebbero avere commesso  nella loro vita quotidiana fatta di lavoro nei campi, ristrettezze economiche, risparmi, che tornano alle case stanchi e assonnati ? “Avete visto come Gesù ha sofferto per voi? lo ha fatto per mondarvi dei vostri peccati. Sareste colpevoli verso la sua generosità se non vi pentiste!”. Perchè dovrebbero sentirsi in colpa per come vivono? Perchè volerli far sentire in colpa? Questo è tutto ciò che c’è da dir loro? “Dite assieme a me la preghiera”. E poi “Quanti l’hanno recitata? Sù, alzate la mano” La alzano solo quattro o cinque, tra cui una anziana donna che viene subito avvicinata da uno che le dice: confessa pure a me i tuoi peccati, in cosa hai peccato? Lei diventa molto titubante e imbarazzata. Quando il tipo si gira per andarsene, lei si fa subito il segno della croce. Forse inizialmente non aveva capito che non erano della chiesa cattolica, chissà. Forse con questa gente bisognerebbe parlare la loro lingua. Le chiese evangeliche americane stanno facendo una forte concorrenza alla religione corrente che è fatta di molte superstizioni, folklore, tradizioni, ritualità, che si sono innestate nel culto dei santi e nelle pratiche religiose cattoliche, verso cui queste chiese radicali sono molto intransigenti. Ma sono svantaggiati sia proprio per la loro severità e rigore (abbandona l’idolatria! pentiti per averla seguìta! ecc.) e anche per la loro origine gringa. Aderiscono molti che per i più diversi motivi sono arrabbiati con il curato, con i politici, con il padrone. Questa comunque è gente semplice, montanara, pratica, intenta alla sopravvivenza e nulla più, che rivendica la propria dignità sino a pochi anni fa dispregiata perchè indios, gente inferiore. E quindi stanno vivendo un momento di riscatto culturale e di valorizzazione delle tradizioni, dei costumi, della storia e della loro antica civiltà. Nel contempo hanno molto attaccamento per i riti cattolici, il culto dei santi, e la venerazione per la Vergine, nelle sofferenze di Gesù vedono le proprie e lo sentono come uno di loro. Mi vengono in mente un cartone disneyano aa.’50 “Las velas”, e i racconti che ho sentito sulle feste grandiose della Settimana Santa. Ma questo predicatore di stasera non ha saputo parlare ai loro cuori, non ha spiegato nulla, ha solo redarguito perchè non si sono uniti nella sua preghiera, non hanno alzato la mano, sono rimasti peccatori senza neppure chiedere la remissione e il perdono, e poi se ne è andato col suo pullman, veloce come era arrivato per portare i montanari almeno per una serata al cinema. E’ tutto qua, si staccano i fili, tutti i correligionari (una decina) salgono in pullman e ripartono, senza aver conosciuto nessuno di questa brava gente.

Il cinema è finito, torna il silenzio, il lampione oramai continua a tremare e fare luce intermittente. Pian piano tutti se ne vanno, chi a casa, chi sui camion. Ci sono tre grossi camion pesanti, come quelli per trasporto bestiame, per i bovini, per i tori. Si riempiono il cassone di persone, bambini, sacchi di patate, cipolle, mercanzia, ecc, e più o meno accucciati tutti stretti, partono per un viaggio nel buio magari di qualche ora, viste le strade...Partono in convoglio con gran fragore sull’acciotolato della piazza. Poi sopraggiunge un camioncino piccolo dall’altra parte, si riempie stipatissimo, e va. Un ultimo truck da tradotta animali, resta ancora un po’ a far puzza di nafta dal suo scappamento, il cassone viene coperto per benino con un grande telone chiuso anche ai lati, e va col suo carico, lasciando una densa e acre nuvolona nera. Di notte, al buio assoluto, totale, con i fari accesi su strade di terra e sassi e buche, traballando magari per ore su e giù per i passi andini...

Taytallay Tayta apachimeni yaktayquim benedicionikta = “Oh Padre mio, Padre manda al popolo la tua benedizione”, dice in quechua una invocazione (da una scritta fuori da una chiesetta, che ho ricopiato).

 

domingo 18 de avrìl 2004

Al mattino presto facciamo colazione al bar de la ñusta, e vengo a sapere che loro fanno anche da Casa de cambio, allora chiedo e la señora mi porta al suo negozio di Abarrotes che apre in quel momento e mi cambia gli €uro, le dico che a Lima mi avevano fatto un cambio migliore, ma mi dice “se io non ci ricavassi nemmeno questa piccola differenza allora per cosa lo farei? sii comprensivo, lasciami il mio guadagno”. E’ così disarmante che dico “va bene”, sto per darle i soldi e entra una, allora la señora mi da una occhiata per dire metti via i soldi. Poi finalmente esce entra un montanaro che ha fatto da guida in una escursione e vuole cambiare i dollari che gli hanno dato. E di nuovo metto via i miei soldi. Poi entra un’altra. Allora la señora chiude il negozio, mi cambia il denaro, e poi le chiedo una scheda telefonica per chiamare a casa, perchè qui non c’è -e non ci sarà più per vari giorni- campo per usare il mio movil, cellulare, e ho visto che loro hanno un telefono pubblico appeso al muro. Allora mi riaccompagna al bar, mi scrive su un foglio come dovrò fare le prossime volte per chiamare, e poi mi fa lei l’attivazione e la prima chiamata. Gentilissima anche se lenta, e noi abbiamo un po’ fretta di partire, ma oramai non posso interromperla. E così saluto tutti a casa. Lei ascolta divertita e poi mi saluta molto cordialmente. Partiamo, vengono fuori la cameriera e il ragazzino a salutare con la mano, poi vedo altri che avevo più volte incontrato in strada e li saluto e loro mi rispondono.

Ciao, ciao Ollantaytambo, sono stato bene qui da te con la tua gente. Mi ricorderò soprattutto dei bambini.

Intanto partono grossi camion pesanti che caricano su contadini/e e li portano nei campi alti per la cosecha, il raccolto. Iniziamo dunque la seconda parte avventurosa dopo la traversata della prima cordigliera tra Ayacucho, Andahuaylas, Abancay. Ci infiliamo su per la ripida salita di terra battuta, tra il grandioso ghiacciaio Verònica 5350 m. a sinistra e il il Picco Halamcoma 5367 m. Sulla strada tutto sta pian piano franando continua-mente.  di nuovo ritroviamo villaggi di capanne, valli tipo quella di “Highlander”, con il ruscello, le recinzioni per gli animali, i fumi dei focolari che escono dalla porta o traspirando dalla paglia del tetto. Salendo c’è una interessante testimonianza della presenza incaica a Tastayoc, entriamo tra due colonne di roccia, come tra due grandi guardiani, e procediamo lentamente tra fonti d’acqua, cavalli, burritos, carneros, papas.  Poi su fino al passo Abra Màlaga 4230 m. dove data la neblina e la pioggellina fine la strada di terra si fa un po’ melmosa e scivolosa. Qui sono sicure solo le aquile. Al Passo ci sono solo quattro povere baracche di sassi. Mi torna in mente il cartone disneyano “Pablito el drito y el burrito”, con l’asino che vola e che fa saltare a Pablito tutto il percorso su e giù per le valli. E poi il cartone -sempre Disney anni Cinquanta- dell’areoplanino postale che deve volare vicino al terribile Aconcàgua, il grande monte con i suoi ghiacciai sempre rannuvolato. Mi vengono immagini di mio nonno con i suoi sigari toscani, e quando lavorava la creta (era scultore), e suo fratello maggiore lo zio Polibio (falegname)che mi ha costruito una carriola e poi addirittura un monopattino, i discorsi di mio nonno sui marmorini, sul calco da fare in gesso, sulla fonderia del bronzo, e sul marmista....sto per addormentarmi. Stanotte avevo sognato i miei, e di quanto mio padre aveva tardato ad arrivare all’appuntamento, indossava quel suo cappotto caldo.

Ma mi risvegliano i guadi, questo è già il terzo non facile, l’acqua è un po’ altina e la corrente forte, a prima vista non sembra ma non è facile non scivolare o non affondare con le ruote nella ghiaia. Ai lati della strada ogni tanto fiori per i caduti. Prima un camion era appena stato rimesso in carreggiata e ora stava rimontando due ruote; l’autista si era fatta lì sul bordo una carpa di plastica (tendina)come riparo. Comunque è sempre strenua la fatica dei camion qui sulle Ande. In salita sbanfano e il motore si surriscalda e fuma, in discesa sono i freni che fumano e si consumano.

Ora inizia un tratto proprio di melma. Ed è tutto in discesa. Passiamo Canchayoc, cioè sei baracche di lamiera nel fango. Poi guadiamo Inespata, e poi Jollotachayoc. Ci sono ruscelli grandi, alti, impetuosi con cascate tra le rocce. Stiamo andando giù nella valle del Rio Lucumayo (da Lucuma o Lucma). Anche qui la velocità media è sui 30 kmh. Eccoci ad Alfamayo, quattro baracche oramai nella selva, tra i banani, con la sua piccola chiesetta sotto la scarpata. Penosi questi villaggetti di poveri cristi schiacciati dal caldo umido. Meglio i paesi dei montanari quechua. Vediamo di là dal fiume il fortino InkaTambo. Sì perchè gli Incas spinsero fin in questa valle fuori dal mondo e dimenticata da Dio, il loro dominio, tanto che poi sfuggendo ai conquistadores spagnoli si rifugiarono a Vilcabamba, ma non quella che oggi porta quel nome, bensì quella antica, che è proprio quella che stiamo cercando, però quale fosse l’antica Vilcabamba inca ancora non si sa, ma sembra che dovrebbe corrispondere a quell’area in cui si trovano i resti degli antichi centri di Lucma, Vitcos, Punkuyoc e dell’attuale zona chiamata Rosaspata.

Per l’intanto passiamo attraverso bananeti, agavi, fiori, baracche di latta, villaggetti di m. con poveri abitanti di questo fondovalle a 1800 m. circa.

Ci fermiamo a Huyro (nella carta dell’istituto geografico il nome è sbagliato, così come si vede anche che non conoscono bene le distanze, le curve, le proporzioni). Intanto sono passate già quatrro ore di guida, quindi ci vuole una sosta, e poi qui si può fare gasolina con l’imbuto. C’è un povero mercatino dove si vende choclo abbrustolito, polpette di patate ripiene di riso e verdura, ma il grasso in cui son fritte lascia a desiderare. Ci sono abiti di ultima “qualità” usciti dalle produzioni in serie locali, poi robaccia di plastica, camicie sintetiche (ottime per il caldo umido!...), puttanate varie da bancarella infima, e sembra di essere in un Luna Park dei più squallidi. In una bancarella con roba per la scuola compero due testi tanto per farmi un’idea, uno di letteratura peruana, e uno di storia nazionale, penosi sia nel metodo espositivo che nei contenuti. Un bambino quando sente il prezzo dice al venditore “ma no non costano così”, e io gli dico “lascia perdere non mi importa”, “tenga buon uomo”. Si trattava di tre soles. Beniamino compra un pacco di quattro bottigliette d’acqua, e due (2) sigarette. Ripartiamo.

Giunti finalmente a Chaullay non vediamo dov’è il ponte per passare dall’altra riva del fiume, manca qualsiasi cartello, quando ce ne rendiamo conto ci fermiamo ad un posto di polizia dove chiediamo. Siccome diciamo che abbiamo delle indicazioni fatteci da un collega di Ollantaytambo, che ci ha detto di chiedere a Chaullay del Señor Frisancho suo amico, allora chiamano il capo. Lì fuori c’è una donna che sta mangiando e dice lo so io, vengo di là, ora vi spiego, ma esce il poliziotto e deve spiegare lui. Stiamo andando verso Quillabamba, quindi dovremo tornare indietro e prestare molta attenzione. In questo punto il Vilcanota diviene rio Urubamba, e il Lucumayo si getta nell’Urubamba medesimo, per cui c’è una strada di terra che costeggia il fiume sulla destra, una sulla sinistra, e una, che è la nostra, invece risale il Vilcabamba che poco più in là pure entra nell’Urubamba. Chiaro ? in ogni modo poi vediamo il ponte sul Vilcanota giù sulla destra e scendiamo. Per iniziare la nostra salita su su sino quasi alle fonti del rio Vilcabamba là dove si dice che uno dei primi coloni spagnoli si fosse sistemato costruendo un grande mulino; e poi di là a piedi andare a vedere le rovine di Vitcos, Rosaspata ecc., insomma dell’antica Vilcabamba in cui si rifugiarono i ribelli dell’ultimo ridotto inca.

Lungo la strada si costeggiano vari cimiterini affondati nella selva, le tombe spesso sono colorate e tutte decorate con lustrini, striscioline. Sembrerebbe che nessuno faccia manutenzione, e certi sono proprio sommersi tra le erbacce. Una scritta sembrerebbe avere intenzioni consolatorie (?): “Aquì estaràs solo!”. La trucha (=strada di terra) in due o tre punti sembra che sia stata proprio appena ripristinata da derrumbes (=smottamenti) franati da poco. Così fino a Paltaybamba e oltre. Ecco di cosa parlavano tra loro i poliziotti per concludere che sì si può andare fino a Vilcabamba. Ci fermiamo a mangiare nel paese di Oyara dove si può fare anche gasolina. E’ molto tardi per il pranzo, ma la señora del comedor ci dice che ce lo prepara apposta, se abbiamo pazienza di attendere un poco. Sì, sì vorremmo proprio riposare un po’. Intanto uno ci dice che lui conosce delle vecchie miniere dove si trovano dei geodi e dei cristalli stupendi, se ci interessa quando torniamo indietro ce li fa trovare per venderceli. Intanto si raduna un po’ di gente per sapere chi siamo, se siamo di qualche istituto o fondazione o università, o che altro? Veniamo a sapere che è qui che c’è il sacerdote italiano, si chiama padre Umberto. Allora lo andiamo a cercare in chiesa, poi a casa sua, nella scuola, ma è partito stamane per i suoi giri nei dintorni, ritornerà fra non molto. Mangiamo riso, uova strapazzate con carne, cipolle, tomate, due minerali, una cocacola. Prendiamo anche sei chupitos per i bambini e i ragazzini che stanno qui fuori dal ristorantino. Totale tre €uro e mezzo per tre. Poi entrano altri perchè nell’altra stanza c’è il televisore e c’è una partita. Vado in bagno che è un bugliolo separato da un telo proprio lì adiacente a dove lei sta cucinando su un grande fuoco e conversa con suo fratello. C’è però l’acqua corrente e mi posso lavare le mani. Poi ci dirà che ha fatto tutto di fretta per farci trovare pronto il prima possibile, ma che si è dovuta far aiutare sennò non ce la faceva. E’ carina e gentile, sorridente.  Anche le ragazzine fuori sono curiose e ridacchiano. Veniamo a sapere che c’è un altro padre italiano, lui sta proprio a Vilcabamba dove finisce la trucha, e tiene una scuola professionale. Proseguiamo, e lungo la strada riconosciamo nella 4x4 che incrociamo quello che dev’essere padre Umberto, ci fermiamo e anche lui, scende e torna indietro per venirci incontro, resta sorpreso che gli parliamo in italiano. E’ gentilissimo, di Brescia, e ci dice che senz’altro padre Lino, così si chiama l’altro a Vilcabamba, ci ospiterà, di fare pure il suo nome, e ci da anche il nome della casa salesiana di Cusco dove pure se vogliamo ci potranno ospitare al ritorno (ritengo che ospitare voglia dire accoglierci, e magari a modico pagamento consumare dei pasti...?).

Siamo ricuorati perchè si sta facendo tardi, salendo aumenta l’aria fresca, siamo stanchi, e non so se ce la saremmo sentita di montare le tende secondo l’idea originaria. Oramai è imbrunire e la strada non finisce proprio mai, dopo l’ultimo paese credevamo, dalla carta geografica e dalle parole della guardia, che Vilcabamba fosse pochissimo più in là. Invece...dopo innumerevoli curve, in salita ripida, oramai nella nebbia e un po’ tramortiti, sembra che non arriveremo da nessuna parte. Ma invece infine eccoci. La scuola professionale e il centro sociale sono proprio all’inizio del villaggio.  Fermiamo il carro e qualcuno viene incontro.

A 3551 metri di altitudine giungiamo in una sorta di repubblichetta italiana quassù, in fondo in fondo, fuori dal mondo, alla fine di una valle fuori dal mondo, su su in cima... Entriamo nella casa della comunità direttamente in cucina. Fuori comincia a rinfrescare. Ci ristora già il solo fatto di parlare italiano, vedere facce consuete, comunicare con modi usuali, e poter raccontare le nostre impressioni di viaggio, e poi soprattutto ascoltare tutto quel che loro vivendo qui sanno di questa zona, e degli abitanti. E poi c’è il fuoco della grande “cucina economica” acceso, e ci offrono un bel thè caldo. Siamo proprio in un altro mondo qui dentro, e, anche se un po’ isolati quassù, ci pare di essere a casa.

Questo centro, con la scuola, le officine per l’addestramento artigianale, sono state fatte per iniziativa di gruppi italiani di volontariato e di sostegno ad opere di aiuto ai paesi poveri, di matrice salesiana. Questa in particolare fa parte della rete “Operazione Mato Grosso” nata verso il 1968/70 se non sbaglio, e poi cresciuta fino a comprendere vari centri non solo in Brasile, ma anche in Perù appunto, Ecuador, Colombia, Bolivia. Qui dunque c’è un gruppo di ragazzi e ragazze italiani che vivono in comunità, si autogestiscono, lavorano in vari progetti in corso. Inoltre ci sono un paio di religiosi e una religiosa che hanno preso i voti. Poi giovani peruani che lavorano qui come infermiera, cuoca, addetta alle camerate, organizzatrice. E i bambini e i giovani convitti che sono qui per studiare e lavorare e stanno a tempo pieno dormendo nelle camerate e mangiando nella mensa. Una notevole organizzazione. Hanno costruito la strada che arriva qui, dei ponti pedonali in vari posti, fatto argini, costruito loro tutti gli edifici, e l’arredamento. La scuola di falegnameria e carpenteria fa degli eccellenti lavori. In questi giorni c’è anche una volontaria che normalmente sta in un altro centro e che è qui in “vacanza” perchè sono venuti a trovarla i suoi genitori. Lei è ragioniera ed amministra un loro centro nel Nord del Perù, sono di Thiene, come padre Lino. C’è una ragazza di Bologna, che si occupa della nostra accoglienza, e chiacchieriamo un po’ mentre l’aiuto a fare i nostri letti in una camera con sei letti a castello che in questi giorni è libera perchè quel gruppo ora sta facendo un giro altrove. L’ala dell’edificio in cui ci sistemiamo è stata appena ultimata ed è ancora molto umida negli interni (che sono senza riscaldamento) però con tante belle copertone di alpaca ci si può stare. Ecco che dopo un po’ arriva anche lui, un quarantenne magro, asciutto, strabordante di energie. Come parroco di Vilcabamba ha girato in questi anni tutta l’area assai vasta della sua parrocchia, e oltre, con tutti i mezzi, in jeep, o dove non è possibile, a piedi, o a cavallo, andando nei posti più incredibili, nella selva, nel deserto, sui ghiacciai. Loro hanno anche ripulito dalle vegetazioni le rovine di Espiritu Pampa per incarico dell’istituto nazionale di cultura. Quindi conoscono bene le vie d’accesso, e capiamo che purtroppo non ci andremo, perchè ci vogliono tre giornate col cavallo, e quindi in totale minimo otto giorni a disposizione, che noi non abbiamo. Ma potremo facilmente fare un giro a piedi di una giornata per visitare le rovine di Vitcos e della zona di Rosaspata, p.Lino ci darà una guida, e questa è una grande consolazione. Una parte importante dei nostri obiettivi (attraversare le cordigliere sulle sterrate, Vilcabamba-Vitcos-Rosaspata, i siti Wari, la Riserva Naturale di Pampas Galeras, eccetera) sarà soddisfatta. Padre Lino con quel suo fare semplice e spigliato, gli occhi vivissimi, le battute di spirito, racconta di zone dove la religione popolare consisteva nel culto dei morti e dei santi, e senza sacerdoti per generazioni, si è mantenuta attraverso la tradizione orale. Tipo i cargos cioè persone di una comunità che si fanno carico a turno per un anno della celebrazione delle feste dal punto di vista sia organizzativo che finanziario. Proprio come avveniva nell’antichità, e così hanno consentito che si mantenesse una continuità di  quella religiosità che si era radicata nel periodo coloniale. Su questa ora ci si deve fondare per sviluppare la loro spiritualità a livelli più elaborati e più conformi al cristianesimo. Racconta delle loro leggende e ad esempio di quelle che riguardano le grandi montagne e i ghiacciai perenni. padre Lino conosce tutte le valli e i villaggi ed ha notato vari punti delle nostre carte, di cui è molto incuriosito, che sono del tutto sbagliati o altri che sarebbero da correggere e ritoccare. Intanto la signora di Thiene e un paio di ragazze stanno cucinando sul fuoco a legna con dei gran pentoloni la cena. Aiuto a apparecchiare la tavola, e intanto socializziamo un po’ di più. Fuori c’è qualcuno che bussa perchè ha bisogno di parlare con p.Lino, o con questa o con quello. Faccio così conoscenza anche con Pinuccia un bellissimo labrador che è la cagnona della casa.

Lui e alcuni altri raccontano dei cani di qui, che sono legati sempre alla casa e che conoscono tutti i percorsi di una zona vastissima, e in certi casi hanno fatto da guida al ritorno col buio o il maltempo.

Anche la gente del luogo ogni tanto si offre come guida, ma loro camminano il triplo di noi. Una volta p.Lino era davanti e la guida stava subito dietro, e in effetti ti sentivi il suo fiato nel collo, allora  a un certo punto la guida ha pensato che forse a stare così dappresso poteva dar fastidio e si è tenuta più distante, proprio quando traversando un guado con una corrente imprevedibilmente più forte di quanto ci si poteva aspettare, e p.Lino è scivolato in quel punto dove il fiume cominciava ad andar giù per la rapida, e la guida è arrivata in una frazione di secondo ad afferrarlo e tirarlo su dall’acqua. Dice che le guide e i montanari intanto che camminano raccontano storie incaiche e del folklore antico e tutti hanno grande rispetto per gli avvertimenti che contengono, le proibizioni, gli spiriti che in quei luoghi sono presenti. Tutti i lavoranti che ci sono qui (per fare i gradini, per i buchi stradali, o per altri lavori pesanti), tutti hanno il bolo di coca sotto la guancia. Padre Lino dice che la foglia di coca non è assolutamente equiparabile alle altre droghe perchè non da assuefazione, lui ha provato in casi in cui era molto affaticato, da energie e basta, contiene calcio, fosforo, ferro,proteine, vitamine. (Ma il bolo è impastato con calce di quinoa, il che permette di dar luogo ad una reazione chimica che libera dalla coca un pochino di cocaina).

La ragazza di Bologna si è laureata in scienze dell’educazione, e allora scambiamo due parole su quei corsi e docenti che l’hanno affascinata. Ha fatto volontariato nei gruppi che in Italia danno sostegno ai centri della O.M.-G., per riuscire a mandare viveri, o materiali, o vestiti, oppure addirittura macchinari per la scuola professionale. Ora ha preso l’impegno qui per due anni, ed è contentissima, si trova bene, si sente realizzata in quello che fa, le piace l’ambiente, si sente utile.

La signora in visita, invece dopo mi dice che anche le loro altre due figlie danno attività nei gruppi di sostegno e che hanno fatto anche dei periodi di volontariato qui, e che è molto bello, ma hanno continuato anche la loro vita, si sono sposate, hanno dei bimbi. Mentre la maggiore (quella che ora è qua) oramai è via da quattordici anni, e a loro genitori è un po’ dispiaciuta questa scelta così radicale, ma col tempo si sono rassegnati che lei è praticamente soltanto totalmente dedita a questa causa.

Andiamo in camera, Lino è già là che dorme, e anche noi ci addormentiamo all’istante.

 

19 di aprile

Ci alziamo alle sei, tutti i vestiti sono umidissimi; andiamo giù dove c’è il bagno e ci laviamo con acqua fredda. Fuori c’è un po’ di bruma che subito si dissiperà, fa fresco ma non troppo, l’aria è stupenda, il cielo entro breve diviene despejado, sgombro, e il sole forte. In cucina il signore di Thiene sta cercando di appiccare il fuoco ma dice che qui usano l’eucalipto che non è per niente adatto. La signora prepara subito la prima colazione e man mano arrivano tutti alla spicciolata mangiano e escono. Padre Lino alle sette è l’ora che dedica alle confessioni in chiesa, l’altro, il romano, deve subito andare per finire un lavoro sulla strada, perchè ora fanno tutto a mano, con le grandi piogge che ci sono state nei mesi scorsi il loro piccolo bob-cat cingolato è caduto con una frana giù dal ciglio stradale e si è scassato rotolando. L’altro, che è lombardo, deve andare giù in città (Chaullay ?) per prendere materiali con il carro. Stamane ci danno come guida Valentìn, che ci porterà a fare il giro dei siti incaici della zona. Intanto che aspettiamo che lui sia pronto chiacchieriamo al sole. La signora sta esaminando una vecchia macchinetta taglia-cuci che hanno inviato, perchè lei era sarta, ora è in pensione; mentre il marito, che era panettiere fornaio, ha iniziato vari giorni fa a insegnare a fare i tipi di impasto e le forme che si fanno da noi, ed hanno già imparato a fare bene la ciabatta, che infatti era in tavola.

Scendiamo col carro a Huancallé (3000 m.) dove Valentìn passa a notificare la nostra visita al guardiabosques e si fa dare un machete. Lino ci riprenderà qui, e noi ci incamminiamo a piedi verso le sette e mezza.

Sulla collina di Rosaspata ci sono i resti di vari edifici militari di Vitcos.Tra l’ edificio per alloggiamento della guarnigione, e il fortilizio, c’era un edificio di tipo cerimoniale (kallanka), che è ben conservato. Si vedono 15 porte trapezioidali allineate, tra cui tre grandi. Questi luoghi, occupati a suo tempo da Manco Inca furono lo scenario in cui si svolsero tre importanti battaglie con gli invasori spagnoli. Poiché è proprio qui che l’ultimo sovrano degli incas si rifugiò dopo essersi ribellato alla supremazia spagnola e aver preso la fortezza di Sacsayhuaman, ma aver poi fallito l’assedio al quartier generale dei fratelli Pizarro nel Cuzco, nel 1536. Vennero quassù gli ultimi fedeli al re in un luogo di difficile accesso, e isolato, e riuscirono a far sì che il rifugio rimanesse segreto e sconosciuto agli spagnoli. Qui tra le montagne di Vilcabamba per qualche anno si perpetuò la corte incaica. Dopo il suo assassinio da parte di un agente segreto pagato dagli spagnoli, suo figlio abbandonò il rifugio si recò al Cuzco e si consegnò. Il fratello giurò fedeltà alla corona inca ma morì poco dopo per una malattia. Quindi l’altro figlio Tùpac Amaru I° fu proclamato in Vilcabamba Inca di tutti i territori del Tawuantinsuyo. Regnò materialmente su questa grande e lunga valle, e spiritualmente su tutti i popoli di lingua quechua e aymarà, per alcuni anni. Solo dopo molte battaglie fu fatto prigioniero e messo a morte nel Cuzco dal viceré Toledo nel 1572. Dunque su questa collina, proprio da qui dove stiamo noi adesso, Manco Inca e poi Tùpac Amaru si esercitavano stando con un ginocchio a terra a tirare col laccio le bolas di pietra, arte in cui tutti gli Inca erano sempre stati di bravura eccezionale (così come con la fionda; la stessa leggenda sulle origini dei primi inca, racconta che Ayar Cachi, a Pacaritampu con un solo tiro di fionda spaccò una grande roccia). L’obiettivo qui era di riuscire a farle volare fin sull’altro costado della valle, dove in effetti sono state ritrovate alcune bolas. Nel costado sull’ingresso della valle il fortilizio di InkaTambo vegliava come sentinella. Su un altro lontano colle c’era una guarnigione, e si facevano segnali di fumo sino a qui, se avvistavano dall’altro lato della valle sopraggiungere degli spagnoli. Da un altro sperone di roccia, intanto la dea Incahuarcana guardava sorridente e si godeva serena lo spettacolo dei tiri dell’Inca...  Nel vallone qui a fianco in direzione del Machu Picchu (vecchio picco), collegato a qui con una strada lastricata, c’è un luogo antichissimo e venerando dove è accaduto uno dei fatti ancestrali della creazione del mondo, che andremo a visitare fra poco.

Un edificio è in granito rosato, uno bianco, mentre prospicenti la grande piazza gli edifici sono in pietra “pizarro” scura. Troviamo per terra cocci di vasi e coppe colorate, che riponiamo su una catasta protetta da un tettuccio. Qui gli scavi e la ricostruzione sono ancora incompiuti, perciò forse due uomini con un cane lupo ci hanno seguiti da lontano sin qui e ora ci osservano a distanza. Quando lasciamo il sito e ci avviamo sul sentierino verso l’altra parte del colle, se ne vanno.

Qui dall’altro lato ci sono molti chacra, campi coltivati, sui tipici terrazza-menti andini, andenes (da cui forse deriva il nome stesso delle Ande), che dimostrano la presenza di contadini al servizio del forte, o che erano già qui presenti prima. Anche le costruzioni dell’area del forte comunque mostrano segni evidenti di una sua presenza più antica e poi di un suo rimaneggiamento o rafforzamento con interventi di stile incaico.

Poco più su poi inizia la favolosa valle sacra antichissima, dedita al culto della terra, dell’acqua e, a quanto si dice, delle stelle del cielo notturno.

Qua e là giacciono enormi monoliti neri con incisi dei gradini. Quella più grande tra queste prime che ci si presentano nel cammino ascendente, sembra sagomata a forma di llama. Ha sul fianco tre gradini, una sporgenza lunga orizzontale liscia con un bugno sporgente poco più su, forse per la preghiera, o per un raccoglimento devozionale. Valentìn ci mostra la posizione tradizionale con le mani sulla sporgenza stando inginocchiati su in ginocchio e poggiando il capo sulle mani ovvero sulla pietra sporgente. Già avevamo visto mostrare la medesima posizione da parte di una guida molto brava e colta che accompagnava alcuni olandesi nella camera diroccata del tempio del Sole sull’Ollantaytambo e spiegava in fluente inglese. Poi tra i gradoni c’è una fonte per abluzioni veramente notevole. Poi  vediamo una nicchia in un locale grande, e un loculo con una fontana che serviva da doccia purificatrice, e un trono nero levigato di fronte ad una parete di pietra che forse porta le tracce di disegni. Erano certamente riti per il culto dell’Acqua. Si può determinare i contorni di un locale con vari bugni da preghiera, in un contesto di un ampio edificio. Poi vediamo un altro monolite con sopra un cosiddetto “orologio solare” scolpito, e a fianco un trono nero molto bello rivolto al torrente che impetuoso e gorgogliante scende dando frescura. A lato una pietra per riti di tipo sacrificale sagomata in modo da depositarvi un llama di cui porre il capo tra i due corni del pietrone e rescindergli la testa. Salendo continua questo vasto complesso, con altri seggi, vasche e a lato canaletti per il deflusso delle acque. E’ la Valle di Pillaopata, che è si potrebbe dire un tempio complessivo di riti stagionali in cui la congiunzione delle acque, dei monoliti neri, e dei raggi solari o delle stelle, forma un insieme sacrale di antichissima concezione. Ed ecco l’immenso monolite, si dice di otto metri, pesante varie tonnellate, che da il nome al complesso sacro: ñustahispana.

La Vergine Ithmaccoya è l’essere primordiale e c’è un punto dove ha orinato primieramente (così come in altro luogo vi è il punto in cui ha defecato). Ma questi non vanno considerati come nella nostra mentalità come degli escrementi, dei rifiuti, cose orrende da espellere. Ma sono parti di sè rilasciate all’esterno ad integrarsi col Mondo. Presenze di sè, e in questo caso divine di essenza, o potenza divina, che vanno a fecondare il Mondo. Come gli escrementi degli animali danno calore, e servono a fecondare la terra, come sulla costa il guano, oppure in India gli escrementi delle vacche sacre che essiccati servono a far fuoco e calore... Il luogo mitico è Yurac Rumi, che in quechua significa la pietra bianca. Qui a Pillaopata si rinnovava periodicamente il rito. Sopra al monolite c’è il punto più alto che è quello “donde la virgen orina”, dove una vergine veniva posta a gambe larghe dinnanzi ai sacerdoti a compiere nuovamente l’atto di orinare quale sacra rappresentazione del fatto primigenio della fecondazione del Mondo. Forse durante i riti ancestrali stagionali per propiziare la fecondità della terra e abbondanti raccolti. Forse all’epoca degli incas questo luogo di antichissima sacralità fu incluso nella ritualistica loro specifica. In alcuni centri vi era un Acllahuasi, ovvero un palazzo delle acllas o delle vergini nascoste. A proposito di uno di questi, vicino all’attuale Lima, il cronista Garcilaso de la Vega nel 1609 scriveva: “Este templo fue solemnìsimo en edificios y servicios, ..., donde hacìan muchos sacrificios de animales y de otras cosas...”. Quindi può darsi che gli Inca facessero condurre qua le acllas per assistere ai sacrifici rituali di llamas e per la cerimonia della ñusta que orina.  Questo immenso monolite nero ha una parete liscia e verticale con vani e con bugni sporgenti. Sopra ci sono incavate varie vasche e troni, sotto una parte del monolite il terreno è digradante e c’è un vano, ancora da liberare dal terriccio, sotto nell’ombra, l’Antro Oscuro sotterraneo. A fianco (e in parte sotto il bordo da cui poteva colare l’orina), ci sono dei vani che sono come quelli per le abluzioni visti prima, nove loculi perfettamente lisci e squadrati. E poi qua e là ci sono vari altri elementi sparsi per un’ampia area. In lontani secoli, in tempi antichissimi, chissà forse già nel neolitico o nella prima età del bronzo (?), ci dovette essere un terremoto con alluvione, insomma un cataclisma che fece crollare gran parte di questi edifici in pietra, e forse il tutto fu abbandonato (?), e comunque poi ripristinato tra le rovine, in un’epoca pre-incaica, data la venerabilità del luogo ancestrale. Sulla parete della pietra “piccola” proprio di fronte alla parete verticale della grande pietra nera, ci sono dei segni incisi, come delle linee che si incontrano o che divergono, che Valentìn dice rappresentavano la carta geografica dei caminos reales che convergevano verso il grande centro astrologico dell’osservatorio di Machu Picchu (poi abitato come ultimo ridotto segreto incaico), ovvero la piantina dei vari collegamenti tra diversi luoghi sacri. Chissà. comunque mi son convinto che questa è la pietra nera sacra alla Grande Dea Madre, la Vergine cosmica che ha dato la vita.

Proprio di fronte alle gambe divaricate della ñusta orinante sta una imponente pietra a forma di punta fallica (un glande). A fianco un lungo abbeveratoio per animali. A sinistra più in là (descrivo tutto un po’ minuziosamente perchè non ho trovato alcuna descrizione o interpretazione o studio su questi luoghi straordinari) c’è un ingresso a forma di corridoio stretto che immette ad un’area dove c’è un altro monolite, ora infossato in terra, con scavato un trono levigato veramente bellissimo. Questo sembrerebbe stare dentro un ampio recinto (cancha) il cui perimetro grosso modo sembrerebbe essere di circa 40 metri per 20.

Chissà quante leggende e miti antichissimi ancora circolavano all’epoca in cui si stabilì qua  Manco Inca. Cosa darei per vedere la scena di quando celebravano in questo luogo ancestrale con i bellissimi mantelli di piume d’uccello colorati che ho visto al Museo de Oro di Lima, probabilmente con varie cerimonie che si succedevano procedendo da un luogo all’altro di questa valle sacra di Pillaopata sotto la collina di Rosaspata....Mi piacerebbe sapere quale rapporto ci fosse con gli astri, e tra questi e la pietra, l’acqua, l’aria. Valentìn dice che quei ciondoli che si appendono (che da noi vengono dall’oriente asiatico) e che risuonano, sono espedienti per cercare di imbrigliare il suono dell’aria, che va per ogni dove col vento... Così come a Ollantaytambo, o negli altri altari Intihuatana, si cercava di cogliere il raggio solare. E anche qui sogno ad occhi aperti che con una bacchetta magica tutto ritorni al suo posto, cioè si risollevi dalla terra, da sotto il prato, e questi macigni, questi pietroni, volino nell’aria e ricompongano i muri, le strade, i templi, tutto il sito com’era. Se poi per sovrappiù di magia si potessero far riapparire i disegni, le pitture, i colori, le parti in legno, le statue, i decori, gli idoli....e magari addirittura la scena intera abitata ! Chissà in che ore del giorno e della notte stellata o di luna piena si celebrava? con quali canti ? Questo luogo magico mi fa ripensare alla Bretagna, a Malta, a Menorca, a Stonehenge....

Ora stiamo camminando verso il rientro, sul selciato di un camino inca, che è sollevato rispetto al terreno fangoso, con pietre levigate abbastanza larghe, e che si dice congiungesse questo luogo, da una parte con Machu Picchu. dall’altra con Choquequirao. Prosegue con una gradinata lunghis- sima per scendere lungo il pendio della collina. Qui i messi reali correvano per 8 Km e ad ogni postazione (chaski huasi)si davano il cambio, per cui in un giorno un messaggio poteva giungere alla capitale da 250 Km di distanza. La rete delle strade (Qhapaq ñan) era molto articolata, si suppone tra i 23 (e comprendendo le vie sterrate) i 40 mila kilometri, e tra queste si distinguevano quelle reali (Inka ñan), ampie circa 6 metri con muretti di sostegno della massicciata, e canaletti laterali per lo scolo dell’acqua piovana. Vi erano appunto scalinate, e ponti sospesi in fibre vegetali ancorati a spalle di pietra (ve ne furono di famosi come quello sull’Apurìmac, il ponte Queswachaca, oggi rifatto, e quello sul Pampas, che restarono in uso sino alla fine dell’Ottocento), oppure ponti di zattere, o di barche di frasche. Mentre ad intervalli di un giorno di cammino si trovava un Tambo (=caravanserraglio fortificato, in castigliano si può tradurre anche con Posada) per le soste dei militari, dei commercianti, dei portatori di merci (mitayoc) e dei lavoratori (mitma). C’erano 1500/2000 Tampu in tutta la rete.

Quaggiù all’ ”entrata” di questa area archeologica, vediamo che c’è un catello che indica: “Conjunto de Vilcabamba la Vieja- Rosaspata- Vitkos- Nustahispana”.

Che esperienza strordinariamente emozionante questo viaggio in tempi così lontani a ritroso in un antico passato! Non riuscirò a togliermi dalla mente queste suggestioni per molto tempo.

Ritorniamo alla casa e ci offrono un bel minestrone di fagioli, polpette di verdure e di riso, e polenta...! e caffé.

C’è ancora luce e mentre Beniamino fa una corsa con la loro macchina per vedere un posto dove vorrebbero costuire un altro centro in un paese della valle, e chiedono dunque la sua consulenza come architetto per fare il progetto, io faccio un giretto per il villaggio che sta subito dopo la chiesa e che non avevo ancora visto. E’ fatto di casette di adobe, “mattoni” di terra e paglia e sassolini essiccati al sole, ad un unico vano, direttamente sul terreno, con tetto di paglia. C’è una donna che sta filando la lana, porcellini che gironzolano, e giù nella valle verde a perdita d’occhio, ci sono vari cavalli. Do qualche regalino ai bambini con cui parlo, dall’unico sacchetto rimastomi, e sono subito attorniato da altri, ma non troppi e non troppo insistenti, che chiedono. Distribuisco tutto quel che ho. Poi vado un po’ in giro con due di 5/6 anni, torno in camera, ma c’è troppo umido per stare lì a leggere. Quindi esco e passeggio dall’altra direzione assieme a un ragazzino di 11 anni circa con cui chiacchiero e condivido una vecchia brioche secca come merenda (ovvero ne prendo un boccone per lui e uno per me, e poi gli chiedo “hai fame, vuoi finirla tutta tu?” dice di sì).

Torna Ben e andiamo insieme oltre il villaggio giù verso la vallata, ma ormai è quasi l’imbrunire. Giunti al fiume troviamo che ci sono le rovine del grande molino spagnolo diroccato: che emozione, dev’essere proprio quello di cui parlava Hiram Bingham !  In lontananza cavalli, recinti, capanne, la valle è larga e bella. Rientrando passiamo a vedere la chiesa (con il campanile spagnolo della vecchia chiesa domenicana diroccata) dove c’è la messa cantata in ricordo dei due fratelli di p.Lino, anche loro sacerdoti, che venuti qua sono poi morti uno dopo l’altro di malattie (anche le mucche qui l’altr’anno sono tutte morte), e in ricordo anche di padre Dino (!) che due anni fa è stato assassinato mentre andava con la sua camioneta, da non si sa chi per non si sa cosa. Bei canti, ben cantati, ma veniamo via, è troppo lunga, e inoltre è saltata la corrente elettrica, e poi fa freddo. Ci sono tantissimi giovani arrivati da vari paesini con i camion (quattro o cinque!). Alla mensa del centro stanno preparando da tempo per 350 coperti (un piatto di minestra e un pane). Stiamo fuori dalla casa a ripensare a questa magnifica giornata, perchè non c’è la luce all’interno. Entro pochissimo è buio totale, fa freddo, e c’è umidità. Mi accorgo che ho i brividi, sto proprio tremando. Entriamo in cucina dove c’è il fuoco. Poi arriva uno che poverino è salito su a piedi chissà da dove (solo la salita da Huancallé sono venti kilometri) perchè ha molto mal di denti, e chiede di p.Lino, “ma ora non può, diciamo, e ora è già buio, e la messa questa volta finirà molto tardi”. “Lo aspetterò qui”. In realtà è la giovane bella peruana con tanti capelli lunghi corvini e ricci che è infermiera e si occupa anche di questi casi, ma mi aveva detto che non sa cosa poter fare, non ha nulla, non può far nulla, sia per i costi che per l’attrezzatura. E poi se anche curasse una carie, la volta dopo forse avrebbe terminato i medicinali il disinfettante e l’impasto ecc. , quindi più che altro cava denti, che è l’unica soluzione possibile e d’altronde praticata da tutti gli odontoiatri di provincia.

In cucina dopo cena padre Lino racconta di una vecchina che era venuta fin su qua a piedi, curva ad angolo retto, con un gran carico, perchè aveva bisogno di parlare con lui, ha 84 anni. Lui era andato a trovarla tempo fa perchè non stava bene, e a casa sua lei stava con galline e conigli dentro casa figuriamoci con che risultato per l’igiene, e quindi le aveva detto che doveva per prima cosa metterli fuori; ma quel che è peggio è che teneva il suo grosso chancho legato al letto, e questo non voleva lasciarlo fuori per nessuna ragione. Ora comunque ha superato la crisi, è guarita, e sta benone: questo era venuta a dirgli.

 

20 aprile

Ci alziamo alle sei come al solito, facciamo colazione e salutiamo tutti calorosamente. Non ci chiedono nulla, nemmeno per il mangiare, nemmeno dicono se volete fare un’offerta. Ben ieri aveva comprato molte bottiglie di minerale gassata giù al paese di Huancallé, e poi aveva dato tutte quelle bustine di minestre pronte che ci eravamo portati dietro per ogni evenienza, anch’io avevo fatto lo stesso con le mie bustine e scatolette. Ma non è che sia un gran ché anche se per loro cibi italiani sono una leccornia e un bel ricordo di cui sentono un po’ la mancanza. Ieri tra l’altro erano venuti su per la messa in memoriam anche una coppia di giovani che stanno giù dal padre Umberto, e che sono venuti qui dall’Italia a far volontariato che lei era incinta e il bimbo è nato qui e ieri sera se lo sono portati dietro, ha 8 mesi. Che cosa bisogna avere dentro per fare così e vivere lo stesso tranquilli e sorridenti ? Saluto la ragazza di Bologna raccomandandole di mettere a frutto la sua laurea, e la sua tesi su don Milani, facendo l’insegnante qui, anzichè i lavori vari che fa ora. Padre Lino mi dice di chiedere agli studenti della mia facoltà se vogliono contribuire con qualche soldo a pagare lo stipendio di un maestro. Se tu hai cento studenti e ciascuno si impegna a mandare tre €uro al mese noi prendiamo un insegnante. Ho promesso che ci proverò, ma ho detto che loro mi devono far avere un progettino, una descrizione del loro centro, qualcosa da mostrare, se no non bastano le sole parole. Dice che lo farà fare ai ragazzi volontari che lo aiutano. Bene, ciao, ciao a tutti. Partiamo. Mentre partivamo arrivavano i lavoratori marmorini, i carpentieri, gli sterratori, tutti col loro bolo di coca che fa una bella pallina sotto la guancia e non si capisce cosa dicono, anche perchè hanno solo dieci denti o poco più, tutti giallo-rossi-marroni, e fischiano da tutte le parti...Man mano che scendiamo e loro salgono ci salutano rispettosi perchè siamo amici di padre Lino, e quindi siamo caballeros non solo señores. Ma padre Lino diceva che se loro non venissero lì a fare quei lavori in cambio di un piatto di minestra e una pagnotta, cosa farebbero? diventerebbero degli sbandati, forse dei banditi, e vivrebbero di brigantaggio, come ai tempi di Sendero Luminoso. Incontriamo anche tutti i bambini e i ragazzi della valle che stanno andando a scuola a piedi, facendosi percorsi anche lunghissimi con qualsiasi tempo atmosferico. E quando siamo giù nel fondo valle dove ci sono i bananeti pensiamo a loro che sono sempre lassù a 3551 metri di altitudine. Penso anche a quella componente di ideologia, religiosa in questo caso, che da loro la spinta per fare queste grandi imprese. Padre Umberto ci aveva detto “questa valle è nostra da diversi anni, tutto quel che c’è di buono qui lo abbiamo fatto noi, dai ponti pedonali, alle strade, alle scuole, al lavoro che abbiamo procurato, il governo o l’alcalde non hanno fatto quasi nulla, se non ci fossimo stati noi cosa ne sarebbe di questi posti?”. Questo da loro la forza di restare, perchè non si può andar via, perchè oramai si sono identificati totalmente con le loro opere. Penso anche alle illusioni e alle speranze di isolarsi, di stare in pace per conto proprio, al mito della valle verde escondida, all’attrattiva di fondare una comunità di volontariato, dove tutti cooperano, dove il denaro non conta se non per le opere. Miti religiosi e laici, spirituali e politici, che forse erano anche una parte delle illusioni folli del professor Abimael e di “Sendero”, chissà.

Comunque questi han messo su una grande impresa, grazie ai soldi dei gruppi di sostegno italiani, tramite i salesiani, e sono veramente un qualcosa che ti lascia una forte impressione positiva, che ha un grande fascino attrattivo.

Ora qui intanto si ritorna a vedere questi luoghi in gran parte disabitati, questa valle ancora tutta da far fiorire. Tornano in mente immagini dal romanzo di Marquez “Cien años de soledad”, che descrive così bene certi ambienti, la mentalità dei suoi personaggi presi dalla realtà, e la dimensione del tempo tutta particolare, e il mondo fantastico dell’immaginario collettivo, che ora ritrovo in certe canzoni popolari che si sentono. Facciamo gasolina in un posto che all’andata non avevo notato,forse Amaybamba, anche qui con l’imbuto, allora do una mancia di due-tre soles chiedendo che lavino attorno al serbatoio, perchè la puzza della benzina mi da fastidio, e il ragazzo lava con accuratezza con una pompa d’acqua tutta la macchina che era proprio sudicia di terra, di fango. Arriviamo su fino a Canchayoc senza fermarci perchè non abbiamo ancora trovato un comedor aperto per mangiare, la señora qui del “restaurant Ladina” che ha una lavagnetta appesa fuori con la scritta “caldo de gallina”, ci dice che non ha voglia di mettersi a preparare da mangiare, e quindi dobbiamo proseguire. Arriviamo di nuovo al passo Abra Màlaga, dove sostiamo perchè si vede un ghiacciaio in fondo, forse il Pumahuanja (5400 m.). C’è un tizio, ma non parla, non risponde. Due bambini conciati e sporchi, cui diamo dei quadretti della tavoletta di cioccolata che abbiamo. Divorano ma non parlano. Vivono in una dimensione della comunicazione pre-parola, del silenzio, si intendono con una occhiata con piccoli gesti. A parte che non sanno lo spagnolo, non sono abituati a conversare, stanno l’uno accanto all’altro in silenzio accucciati. 

Vediamo il pajaro carpintero, una specie di picchio. Usciamo dai due costoni che segnano la fine di quel mondo a parte, e vediamo il gigantesco ghiacciaio Verònica che si mostra maestoso e scintillante al sole. Il cielo è finalmente despejado, ed è uno spettacolo imponente.

A un certo punto ci sono lavori di rifacimento del fondo stradale, qui tutto frana, derrumba, di continuo. Comunque le opere pubbliche sono un mezzo importante di sviluppo, mancano o sono assai carenti le infrastrutture, senza le quali non procede nulla. Insomma in poche parole non possiamo passare, e dovremo attendere lì un’ora e mezza.

Dopo un numero infinito di curve ci ritroviamo giù sulla pista asfaltata e superiamo Urubamba, e proseguiamo lungo il rio Vilcanota fino a Pisac (3000 m.) dove giungiamo che è già tardino, e non riusciamo ad andare in piazza perchè è tutto occupato dal mercato fin dopo il tramonto.

Ma infine riusciamo a trovare una camera per noi, quadrupla ma sin baño, e una simple per Lino, all’Hostal familial Kinsaccocha (=le tre lagune). Molto spartano ma pulito e con un buon ambiente famigliare appunto, a una cuadra dalla piazza del mercato.  E Pisac ci appare subito affascinante, e decidiamo di fermarci qui fino a venerdì 23, che bello! Ceniamo in una trattoria in piazza, Wasi Mijuna, cioè in quechua Casa dei pasti, dove vicino alla cassa c’è appesa una carolina italiana dei primi del Novecento. Di notte c’è una stellata spettacolare, con la Via Lattea evidentissima con il pulviscolo di stelle, e la croce del Sud affascinante, e poi tutte le costellazioni lì a portata di mano. Il nostro vicino tedesco è “bizzarro”.

 

21 de avril

Stamane alle sei ci alziamo, in cortile la ragazza che fa le pulizie (la figlia?) si sta lavando i capelli, e il dueño Oswaldo è impegnato a mettere legna e accendere il fuoco per il boiler di acqua calda, che comunque sarà disponibile quando oramai noi saremo usciti, la chica avrà finito di lavarsi, ecc. Il vicino è uscito. Andiamo al bar dell’hostal, che è in piazza, per fare colazione. Non c’è ancora nessuna bancarella. Interessante il fornaio, che ha i vestiti tradizionali, e sopra al grande forno una statuetta con due tori decorata da nastrini. Gli chiedo se posso prendere una foto, mi dice “sì se compri del pane”, così poi prendo due embutidos, piccoli panini con formaggio fuso e verdure dentro, che aggiungiamo alla colazione che nel frattempo è finalmente pronta. Vedo che hanno anche dei succhi di frutta confezionati, siccome non ho voglia della classica spremuta di arance che danno con il breakfast agli stranieri, e di cui Ben è un grande appassionato mattutino, chiedo di darmi un succo di pesca perchè vedo che l’etichetta dice: “nectar de frutas de durazno con kiwicha y maca”, cioè estratto di frutta di pesche-noci con... Lo assaggio e mi piace lo prenderò ancora. Dunque la kiwicha (o quihuicha), è una particolare bacca energetica, la maca è una erbetta fine verdina sbiadita  che cresce solo sui quattromila metri di altitudine (loro dicono sui 40) ed ha proprietà di ricostituente cerebrale, ma anche è efficace contro i disturbi mestruali, stress, denutrizione, anemìa, e ritarda il deteriorarsi dei tessuti della pelle e altro. Fino a cinque anni fa non davano credito a queste credenze e dicerie, ora uno scienziato nordamericano l’ha studiata e nelle sue analisi e somministrazioni a cavie, ha confermato che da questi effetti benefici: ora la producono e vendono in farmacia, sia in polvere da diluire, che in compresse. Con Fujimori ha conosciuto un buon successo l’esportazione in Giappone, e ultimamente negli USA l’hanno data agli astronauti dello shuttle per prevenire la lentezza e confusione mentale che si può provare in assenza di peso.

Poi Lino ci porta col carro su sul monte sovrastante il paese, perchè là ci sono i resti della antica Pisac. Un operaio che c’è lì si mette a parlarci e allora per un po’ ci fa come da cicerone. C’è un primo fortino, Quantus Raqay, poi sull’altro versante il Tantana marca, il cimitero incaico, cioè una gran quantità di buche sul costado del colle (tombe tutte depredate da molto tempo dai huaqueros, da huaca=luogo sacro, ma anche tomba). E poi delle fonti con appoggi per le mani, per abluzioni purificatrici da fare prima di salire verso il tempio sacro dell’Intihuatana. Saliamo alla fortezza n.2, Quallaqasa, nelle stanze ci sono nicchie alle pareti, per ornacinas, dice. Poi ci sono recintos dove cucinavano cavie al forno. Agli stipiti ci sono anelli di pietra per chiudere i portoni con catene. Seguono una serie di andenes, terrazzamenti para cultivos. Ci seminavano a gradoni, a seconda dell’altitudine papas (patate), choclo (mais), quinoa o kwinoa (arbusto da granaglie), kiwicha (bacche), tarwi (che è un ciuffo rossastro peloso da cui si estrae una essenza). Dopo una scalinata sul ciglio e poi l’attraversamento di una fessura nella roccia (tunel), arriviamo dell’altra parte del costado, dove c’è il tempio con lo Intihuatana. In terra c’è anche una pietra scolpita a gradini, che in spagnolo viene denominata la croce andina, che è composta da tre gradini neri, e da un’altra metà speculare di pietra bianca che sta sottoterra. Dunque la metà emergente simboleggia l’ombra, e quella che non si può guardare, la luce. I tre gradini stanno a rappresentare: in cima il sole, che è il padre, poi la luna, la madre, e le stelle, che sono i figli. Ma questa è la tradizione del sincretismo impostosi dopo la conquista e la cristianizzazione. Originariamente simboleggiavano il puma, il serpente (amaru) e il condor, la “trinità” degli dei incaici, e l’agujero, il buco in centro, era inteso come l’ombelico del cosmo, cioè la città del Cusco, capitale di tutto il Tawuantinsuyo. Ma c’è anche un altro significato. I tre gradini ricordano il saluto che durante l’epoca incaica i nobili si facevano, e che la gente ripeteva quando si stringevano dei patti, si prendevano degli impegni, si suggellava un contratto orale, per stretta di mano come si direbbe da noi: “Mànan sua, manan quella, manan llulla” o secondo un’altra pronuncia: “Ama Sua, ama Quella, ama Llulla”, come c’era scritto su un muro a Urubamba. Motto che Lino, che è un cholo, un andino hispanizzato, e della cultura incaica non sa proprio un gran ché, sa a memoria in quechua (forse faceva parte dei detti e proverbi del folklore tramandategli da sua nonna quando era bambino). Il che significa: non rubare, non essere ozioso, non bugiardo. Certi traducono quella con parezoso, altri con flojo. Questi, dice l’operaio del sito che ci accompagna, sono i Tre Comandamenti, che si associano alla Trinità. Il puma è l’energia, il potere; il sepente la conoscenza, e l’intelligenza; il condor la pace. Questo era anche il Totem antico in cui questi animali erano raffigurati uno sopra l’altro.Visitiamo l’Intihuatana, che è, come già detto, donde van a amarrar el Sol. E’ molto ben conservato. L’operaio del sito ci dice che ci potrebbe accompagnare domani a visitare degli scavi in corso in un altro sito interessante Huchuy Qosqo (=pequeña ciudad), ma non sappiamo, non abbiamo ancora un programma preciso; dice che verrà a trovarci all’albergo così nel frattempo ci pensiamo. Intanto si avvicina un giovane che vorrebbe farci da guida a queste rovine, ma gli dico che stiamo andando via perchè abbiamo appena finito. Non demorde ma è simpatico questo pisqueño, ha 23 anni ed è mezzo brasiliano di Porto Alegre dove ha vissuto questi ultimi anni, ed ora è appena ritornato. E intanto ci dice che tutte le città dovevano essere fondate in posti e in posizioni particolari, soprattutto rispetto al sole, e dovevano avere una loro configurazione. Pisac deriva dal quechua pisàca (=perniz, pernice), e ci mostra una foto in cui si vede che dall’alto sembra che l’abitato antico abbia quella forma. Mentre camminiamo per tornare al nostro carro, ci dice che questo percorso si chiama Amaru Punqus, cioè che passa attraverso le quatrro porte del serpente. Insomma quando arriviamo ci mettiamo a scherzare, e intanto si avvicina una ragazza con dei pantaloni moderni a strisce verticali rosse per venderci una bottiglia d’acqua, e anche lui insiste perchè la compriamo. Ma Ben preferisce prendere una spremuta di arancia da una bancarella, e io dico che l’unica cosa che forse comprerei sono i pantaloni di lei. Allora per l’equivoco possibile della cosa tutti ridiamo. In definitiva facciamo due chiacchiere e combiniamo per la sera all’Hostal Kinsaccocha, per un trueque, uno scambio commerciale. Quando noi partiremo da qui, dopo il parco di Pampas Galeras, andremo poi giù a Nazca e poi lungo la costa, per cui tutti gli abiti pesanti non mi serviranno più, e invece ho bisogno di far spazio in valigia per gli acquisti che ho fatto e che per ora sono in vari sacchettini di plastica. Per cui se la mia roba li interessa io in cambio prendo dei calzoni proprio uguali a quelli di lei. D’accordo, ci vediamo. Lui si chiama Xeno (ovvero Zeno), e lei Noemi.

Questo pomeriggio andremo a vedere gli andenes circolari di Moray e le saline degli incas.

Ripassiamo da Urubamba anche per cambiare in banca. Di fronte al cartello “Prohibido la venta ambulatoria” c’è un insieme di bancarelle, gente che ha messo il suo telo per terra, e proprio lì a sinistra all’incocio c’è una guardia, a destra vicino alla banca c’è della polizia... Passano alcuni tricicli a motorino che fanno da taxi, varie donne in costumi diversi, una signorina distinta con valigetta 24ore in jeans e giacchetta, contadini con pacconi legati con la corda, vari in divisa, poveracci a piedi nudi, un po’ di tutto.

Qui tutti ti danno la ricevuta fiscale nei negozietti, ma poi il benzinaio o il droghiere ti cambiano i dollari (che la banca qui non è abilitata a cambiare), così senza scontrino, nulla.

Giriamo e andiamo su sull’altipiano, verso il lago. Altipiano dolce, rossastro - verde - giallo, con coltivazioni e piante attorno ai villaggi. La cittadina di Maras è tutta squadrata come quando fu fondata dagli spagnoli. Tutto è rimasto com’era nel Cinque-Seicento. Quasi ogni casa ha una insegna in bassorilievo sopra il portone di ingresso, certi sono stemmi di casate, certi sono cavalieri in arme, oppure immagini di arcangeli, angioletti, o di santi. Una con una coppa con il sole, molte con JHS. Si potrebbe fare una stupenda collezione di foto solo dei portoni di Maras. Ma ora è abitata solo da contadini o pastori. Ci sono per le strade vari animali. Sullo sfondo picchi neri con ghiacciai scintillanti al sole fortissimo, e nuvole che corrono rapide. Andiamo comunque sui 60 kmh, Lino è superprudentissimo, suona sempre anche da lontano alle biciclette, animali, bambini, donne cariche, pullman di linea, camion, camionetas, auto, tricicli, corriere o pullmini fermi ai paradores (=fermate). Tutto ciò su un percorso non breve considerando che di quegli ostacoli appena detti, ne incrociamo uno per volta ogni tanto. Facciamo una sosta a Chinchero, che comunque al mercoledì è deserta, il mercato è chiuso. Giriamo un pochino, facciamo varie scale, e poi andiamo a mangiare nella “migliore” trattoria, con musica a tutto spiano. Sono canti tradizionali per le feste, di Andahuaylas e di Abancay; sembrano un po’ delle musiche tipo le nenie vietnamite, ma urlate. Prendo uno spezzatino.

Al cruce c’è una casita blanca isolata che funge da paradero de buses, scendono con pacchi, pacchi. Ci sono sempre vari cochazos (= macchinacce) vecchi e scassati che fanno da autopubbliche combi e li vengono a prendere; quelli che non hanno da pagare si incamminano a piedi  verso chissà dove con tutto quel carico, oppure ne lasciano una parte, che si suppone poi verranno a riprendere. Attraversiamo l’altipiano su una sterrata tra agavi, mandrie, greggi, un serpente, e dopo una discesa ripida e stretta, all’improvviso....laggiù nel barranco le saline degli incas ! tutta salgemma. E’ uno spettacolo emozionante.

Torniamo per un pezzo indietro. Ci sono tori in montagna a 3200 m.! Arriviamo sino a Pulpituyoc senza che qualcuno di tutti quelli cui abbiamo chiesto la strada sapesse cosa siano gli andenes circulares. Non ne hanno proprio idea, oppure non capiscono la parola circulares, in effetti poi ho visto che qui li chiamano concéntricos. Ma eccoli. Sono i terrazzamenti con coltivazioni, solo che sono circolari e vanno giù per 150 metri, come degli enormi imbuti ficcati nel terreno. Probabilmente così le coltivazioni erano riparate dai venti e dal freddo. Se si pensa che ogni cento metri di altitudine le temperature variano in media tra mezzo grado o due terzi di grado,  hanno calcolato che la protezione dai venti e il calore del terreno fanno sì che al fondo dell’imbuto qui ci siano fino a 5 gradi di temperatura in più. Inoltre si è visto che negli andenes essendo ogni coltivazione a sè stante si riescono a selezionare meglio le sementi, e facendole passare da un gradino all’altro molto lentamente, si ottengono ottimi risultati di acclimatazione. Quelli dell’istituto nazionale di cultura ci hanno messo pure alcune coltivazioni, differenziate per gradoni, in modo da dare una idea di come poteva essere allora il loro aspetto. Il luogo è stupendo. Qui pure siamo fuori dal mondo nel silenzio totale, anche se siamo a soli 62 km dal Cusco (ma ci vuole un bel po’ di tempo per arrivarci, perchè il percorso è un po’ complicato, e la strada di terra in condizioni variabili).

Ritorniamo giù verso la valle. Camionate di contadini colorati che rientrano ai loro villaggi. Magri, con la scogliosi, facce solcate dal sole e dal vento, piedi tumefatti dai geloni, con pochi denti scuri, occhi con problemi, insomma un disastro. Non si riesce a capire le persone quanti anni abbiano. Le ragazzine sono più precoci e mature, le donne di mezza età sembrano anziane, gli uomini non si sa neanche dire. “Màs salud = màs peruanos !”

La casona di Yuccay è un esempio molto bello di edificio coloniale, è ben restaurata. Una camioneta scarica quintalate di zucche. In questi giorni poi tutti stendono mantas fuori casa per mettere a seccare vari tipi di semi. Sono mantas di vari colori e grandezze, anche molto belle, sparse ogni dove, tanto che a volte non è facile non andarci sopra con le gomme. Ad un piccolissimo mercatino che una qualche comunità contadina ha installato lungo la pista ci fermiamo e compero una manta tutta sul blu, e poi varie altre cose. Osserviamo anche come fanno a tessere, con i loro rocchetti e spinotti di legno, tendendo il tessuto da un piolo ficcato nel terreno. Poi invece una bambina di circa 11 anni mi implora con lo sguardo e la sua vocina di compare anche da lei, le dico che ho già comprato da quella señora, non è tua parente? no chi è qua non c’entra niente l’una con l’altra. Poverina compro una piccola cosina anche a lei, con invidia delle altre...

Al rientro andiamo subito a mangiare al nostro restaurante Kinsaccocha dove la moglie di Oswaldo ci prepara un ottimo piatto di queso y papas. Le diamo della roba da lavare (magliette, mutande, calze, pigiama), che lei passa alla ragazza. Si palesa il tizio della mattina che è venuto apposta fin qua per sapere della visita di domani, ma gli diciamo di no, perchè intendiamo andare da un’altra parte, a visitare i resti della civiltà pre-incaica degli Huari (Wari). Non batte ciglio e con signorilità dice che non ha importanza di fare senz’altro come preferiamo. Stiamo per andarcene in albergo perchè è già buio e ci è cascata addosso un gran spossatezza e sonno, quando arriva trafelato Xeno in bici, e poco dopo sopraggiunge Noemi vestita tutta in blusa e calzoni jeans, con un cartoccio con i pantaloni a strisce rosse che è andata a prendere fino a Cusco da sua zia (40 +40 km in corriera). Non si può far altro che andare in camera e fare lo “scambio” ineguale che avevo promesso. Dunque faccio loro vedere vecchie T-shirts, polo, vecchi calzoni a coste, un golf slabbrato, camice di flanellina, tutte cose strausate che mi ero portato per strapazzarle e sconciarle senza nessun riguardo. Va tutto benissimo per loro, solo lei vuole assolutamente i 15$ dollari dei calzoni moderni elasticizzati presi dalla zia. La misura oltretutto non è quella giusta, ma tant’è.  Facciamo lo “scambio”, loro sono evidentemente felicissimi. Ringraziano tanto e vanno via contenti riempiendo vari sacchetti di plastica che per fortuna loro, io avevo tenuto da parte.

 

jueves 22 de avril

Ci alziamo, troviamo che il cortile e il terrazzo dell’Hostal sono attraversati da una corda con tutta la nostra biancheria intima stesa ad asciugare. Le ragazze inglesi arrivate ieri sera sono già andate, Oswaldo sta accendendo il fuoco della caldaia, il nostro vicino tedesco, che a questo punto è l’unico altro inquilino, già impazza con le sue stranezze. Fuori in piazza stanno arrivando con i loro carretti e stanno montando le bancarelle, oggi è giovedì, giorno in cui arrivano i pullman dei tours, e il mercato è più grande, e tutti si stanno preparando a fare grandi vendite e affari. Prima che i tours intruppati arrivino e ripartano come turbini, ci converrebbe guardare se c’è qualcosa di interessante. Per cui gironzoliamo tra le bancarelle in costruzione. Infine facciamo la salita della strada che fiancheggia la chiesa e entriamo in un negozietto dietro ai banchi in allestimento. Sono attratto dal fatto che ha cose diverse dai mille golfini o tappetini colorati, ho intravisto degli acquarelli, e delle pitture a olio, o a tempera, che riproducono abbastanza bene quadri di stile naif di epoca coloniale. E’ un produttore artigiano di ceramiche e di riproduzioni di pitture, Hipolito. Simpatico, parla, ci porta nel retro dove c’è casa sua, con patio, giardino, orto, piccola coltivazione di choqlo, alberi di pere, tomates picantes, pimienta, peperoni, peperoncini... Ci spiega tante cose perchè è un appassionato di antropologia. Insiste molto che vuol vendermi a un prezzo irrisorio (5$) un vecchio watana, che è un insieme di nastrini di varia trama, varia provenienza, vari decori geometrici, vari accostamenti di colori, che serviva come catalogo di tessuti da mostrare nei mercati per combinare affari e commesse. I numerosi nastrini che formano come un grappolo, un ciuffo, sono tutti intessuti assieme, cioè non ci sono cuciture nè giunture, e questa già è una dimostrazione di capacità tecniche notevole. Ricorda un po’ i tokapu, tessuti con varie decorazioni, che avevano un loro significato, e un po’ i quipù, nastrini pendenti con nodini, che servivano da promemoria per messaggi. Poi mi mostra un altro oggetto tradizionale, una chuspa, che è una borsettina dove si metteva la coca da portarsi con sè, con uno speciale taschino, llifta, dove si metteva la calce di quinoa con kiwicha in cenere per insaporire.  Poi mi mostra un chumpi de cabeza, un nastrino per la fronte, decorato, che le donne incinte si mettevano al momento del parto per propiziare un buon esito. E un particolare sasso bianco liscio sagomato con su dei disegni e con varie punte, queste, da una a otto, rappresentano le montagne, e la pietra, apùs,  si mette in un campo da coltivare (chaqra )per propiziare buona fertilità, ma la somma delle “montagne” deve sempre essere otto, per cui si può suddividere in più pietre da sotterrare in più postazioni, purchè non otto da una “punta”. E’ importante per quei campi nei quali coltivano assieme varietà differenti ad es. di patate o di mais. Discorso simile per il taqli, una pietra a forma di choqlo, di pannocchia di mais, ma con tre hijos, “figli”, tre piccole pannocchiette attaccate dalle tre parti al “padre” (con abbozzato un volto). Poi mi dice che la cosiddetta “croce” andina non ha senso chiamarla così, perchè non è una croce, ma molto evidentemente una scala con tre gradini, e si chiama chaqàna, e i tre gradini speculari si chiamano nazpacha, quepacha, e ukupacha. Ma sul libro poi troverò altre denominazioni: kaypacha (=quepacha ?) per il mondo in cui stiamo e da cui è possibile trascendere, ukupacha per il mondo interiore, o mondo sotterraneo, o mondo interno, che conosciamo nei sogni, in cui andremo con la morte, e hanan pacha, per il mondo trascendente, il mondo cosmico fuori dal tempo, il mondo della divinità. E inoltre Hipolito parla del totem de los Tres Dioses, e poi dice che Wirakocha è anche dio della medicina e dunque dei chamanes, eccetera, e varie altre cose, preso da una furia ininterrotta di notizie che ritiene importanti da conoscere per capire la civiltà incaica e la cultura popolare quechua. Entusiasmo comunicativo, dovuto al fatto che da giovane era stato in Italia con una delegazione della camera del commercio, e da allora ha sempre nutrito una speciale simpatia per il nostro paese e per tutti gli italiani. Arriva suo figlio omonimo che studia da odontotecnico, ma è anche appassionato di musiche tradizionali andine, specie quelle melanconiche perchè gli pare che siano tanto mistiche. Fa ascoltare a Ben vari dischi rari e musiche che sarebbero una ricostruzione di quelle più antiche incaiche. Compro il vecchio watana, un quadretto che riproduce un arcangelo Michele squiopetero, con un archibugio, dipinto coloniale dei primi del Seicento, e un bell’acquarello di una vecchia curandera, o piuttosto di una bruja, cioè di una strega. Hipolito dice che è la sua nonna morta a più di novant’anni d’età, molto stimata e richiesta in paese per i suoi intrugli curativi. Infine ci racconta che il cura, il curato, o parroco della chiesa è un ladro, perchè c’è sempre stata una corona d’oro con pietre dure sul capo del Cristo crocefisso che sta sopra l’altare, e un giorno non c’era più. Quindi o è colpa sua perchè non ha chiuso la chiesa (non c’è stata effrazione, e solo lui ha le chiavi), o è stato lui, o è stato uno dei suoi figli che non si sa bene quali siano...

Usciamo. Giro ancora un po’ e anche dentro al cortile del fornaio ci sono bancarelle; proprio lì vedo un armadillo imbalsamato, poverino...

Ci mettiamo in movimento per andare al sito dei Wari . Per le indicazioni stradali ti dicono vai lì, è là, più in giù, si sale, è qui vicino, uno ti dice è a 20 minuti da qua, l’altro dopo un quarto d’ora dice è a 20 minuti da qua,

o gira più avanti. Indicazioni generiche di questo tipo.

Eccoci comunque a Piquillakta, piki in quechua sarebbe un piccolo insetto, una specie di pulga, di zecca. Comunque non si sa cosa volesse significare il nome, a tre lo abbiamo chiesto e tre risposte diverse abbiamo avuto. E’ un grande centro palaziale contornato da mura alte e lunghissime, con case e palazzi in muratura, con il pavimento in gesso. E’ una città con strade, piazze, corridoi, camminamenti lunghissimi. Le mura includono un territorio molto più vasto della parte edificata in muratura, o palaziale. Piquillakta sarebbe circa del 1300 avanti Cristo. Al museino l’unica cosa interessante, oltre a qualche attrezzo in pietra per la lavorazione del mais, è uno scheletro perfetto di Glyptodonte, un armadillo gigante dell’epoca dei dinosauri. Poco più in là lungo la strada nazionale, dove si apre una vallata che scende, la chiude una doppia “porta” immensa di grandi massi incastrati a formare un muraglione (kallankas)possente, alto 12 metri. Ci sono gradini in pietra per salire in cima, e lungo le pareti di entrata verso Piquillakta vari bugni dei “soliti” per pregare (?), ma a varie altezze, anche molto in alto lungo il muro perfettamente lisciato. Congetturiamo che fossero invece sporgenze su cui far presa per sollevare i massi.

Negli angoli la pietra appoggiata sul terreno è angolare, mentre le successive sono alternate. Sembra che queste mura di sbarramento fossero state costruite prima dei Wari e da questi utilizzate, per esser poi

perfezionate dagli incas.  Entrando dalla valle verso la città, ci sono poi due fontane per abluzioni, anch’esse con pareti in gesso. Si prosegue  lungo un muro con bugni e pavimentazione che forse giungeva alla strada lastricata della città; anche lì dopo l’uscita la strada era protetta da due muri a formare un lungo camminamento. Dunque centro palaziale, templare e militare. Con un’area intorno agricola (andenes), e in fondo un lago ricco di trote, Laguna Huacarpay. E’ stato un archeologo nordamericano, Gordon Macwan, a valorizzare questi resti e a studiarli in modo sistematico nella seconda metà degli aa ‘80; dopodichè tutto è rimasto tal quale. Anche qui comunque non c’è una guidina, un opuscolo, dépliant, fogliettino ciclostilato, nulla, solo la tizia che vende il bolleto, e il museino col glyptodonte. Proseguiamo verso Tipòn. Ci sono varie trattoriette specializzate tutte nel cuy al horno (Cuyeria), il cuy è una sorta di cavia o porcellino d’india grande come un coniglietto. L’indicazione, come per molti siti archeologici, è in calcina colorata in blu, per cui la scritta dopo qualche pioggia si lava, la calcina col tempo si sbreccia....e le persone del luogo non sanno e/o non sanno spiegare. Perchè anche qui nonostante il passare degli anni e l’aumento del turismo, e un minimo sviluppo, non sono cambiate altro che le scritte delle magliette dei giovani.  Si sale con molte curve per una strada ripida di terra che attraversa un paesino di contadini, e poi si arriva. Comunque sembra che questo sito, detto Tipòn, debba il nome alla spagnolizzazione del termine quechua Timpoq =bollire, perchè le fontane che cascano da un terrazzamento all’altro, provengono da una sorgente in cui l’acqua bolle per effetto della pressione. C’è anche un Intiwatana e una bella costruzione circolare con incastri perfetti in pietra.

Rientriamo perchè sono già le 18. Manovrare con l’auto non è semplicissimo perchè rientrano anche vacche, tori, ovejas, asini, capre, cavalli, ciascuno in mandrie o greggi compatte. Dietro arrivano le donne con i loro bimbi sulla schiena che dormono con la testa balzellante. Dalla bella chiesetta del paesino esce dall’altoparlante sul campanile una nenia melanconica a volume sommesso. La cittadina di Oropesa la vediamo un po’ da lontano, ma dev’essere una bella cittadina coloniale, tutta a cuadras, tipo un cuartél, uno stanziamento militare.

Arriviamo a cenare che è proprio buio, il bar è pieno, c’è anche Hugo, e vari altri che parlottano mescolando spagnolo e quechua. Hugo nel pomeriggio mi aveva incontrato per strada, lui stava cercando sua figlia minore, e mi aveva intrattenuto sulle difficoltà economiche delle aree andine. Hanno messo su delle cassette con musiche anni ‘50 e ‘60 tipo Feeling, Michelle, messicane, disneyane, ohbladee-ohbladah...(mi fa venire in mente wacchi-wari-wari- wa). La gente stasera tira in lungo a chiacchierare, sono già le 8,20 ! e di solito alle sette è tutto chiuso e deserto, noi siamo sempre gli unici, e gli ultimi, ma oggi si vede che hanno preso soldi, e li spendono in un po’ di cerveza facendo due chiacchiere al bar. Intanto io ho deciso che non berrò più il succo di pesche con kiwicha. Usciamo. Ci saluta molto calorosamente Hugo, dicendo che ci ricorderà alla PachaMama. Grazie. Solo ora che è tutto sgombro ci accorgiamo che in mezzo alla piazza c’è il monumento all’ultimo cacicco indio (cacique) di Pisac, Tambohuacso, che aderì all’epoca alla famosa “Proclamazione di Libertà” di Tùpac Amaru II° di stirpe imperiale, autoproclamatosi Inca del Perù, resa pubblica nel novembre 1780 e che infiammò il Paese con una insurrezione fortissima poi stroncata coi mezzi più drastici in un bagno di sangue (l’Inca fu trascinato per un piede da un cavallo per le vie di Cuzco, e poi squartato in piazza da quattro cavalli da tiro). Dopo quella delle colonie inglesi del nord, di pochi anni precedente, questa è la seconda dichiarazione dei diritti umani nella storia delle Americhe (e comunque la prima nei cosiddetti paesi latino-americani del centro e del sud America). Anche il cacicco quechua locale fu impiccato al campanile della chiesa, e il monumento attuale è stato eretto per iniziativa del comitato per il Bicentenario della Ribellione Emancipadora. Magra consolazione postuma, ma che sta a significare che a partire dal 1975 è iniziato un processo irreversibile di risveglio e di riconquista della dignità e di riappropiazione della propria storia e della propria identità culturale da parte dei popoli andini.

- - - - - - - - (intermezzo 2)- - - - - - - -

Elegia al poderoso Inca Atahualpa

(l’ultimo sovrano, fatto prigioniero e ucciso con l’inganno, dai conquistadores nel 1533)

 

“Che arcobaleno è mai questo arcobaleno nero

che si innalza?

Per i nemici del Cuzco un’orribile saetta

minacciosa.

Per ogni dove una grandine sinistra

picchia.

Il mio cuore ne aveva presentimento

ad ogni istante,

persino nei miei sogni, assalendomi

nel letargo,

la mosca azzurra annunciatrice di morte;

dolore infinito.

Il Sole si fa giallo, si fa notte,

misteriosamente;

si spegne Atahualpa, il suo cadavere

e il suo nome;

la morte dell’Inca riduce

il tempo a un batter di ciglia.

(...)

Si è raggelato ormai il gran cuore

di Atahualpa,

dal pianto degli uomini dei Quattro punti cardinali

sommerso.

Le nubi dei cieli si son fermate

oscurandosi;

la Madre Luna, affranta, col viso malato,

rimpicciolisce.

E tutto e tutti si nascondono, spariscono,

soffrendo.

(...)

Geme, soffre, si muove, vola come impazzita

l’anima tua, colomba amata;

delirante, delirante piange, soffre

il tuo amaro cuore.

Col martirio della separazione infinita

il cuore si spezza.

Il limpido, rifulgente aureo trono,

la tua culla;

i vasi d’oro, tutto,

si sono tra loro spartiti.

Sotto estraneo dominio, accumulando tormenti,

e distrutti,

perplessi, sperduti, negata la memoria,

soli;

morta la stessa ombra protettiva,

piangiamo, e non sappiamo a chi o dove rivolgerci,

stiamo delirando.

Sopporterà il tuo cuore,

oh Inca,

questa nostra errabonda vita

dispersa,

da pericoli incalcolabili accerchiata,

in mano di altri,

calpestata?

Apri

i tuoi occhi che come avventurose saette ferivano;

le tue magnanime mani

protendile;

e dandoci forza con questa visione

dicci addio.”

 

Canto anonimo tramandato oralmente. Testo qui ripreso dalla traduzione in spagnolo di J.M. Arguedas, Canto Kuechua, Lima, 1938, che lo ripropose all’attenzione del pubblico moderno.

- - - - - - - - -(fine intermezzo )

Stiamo per andarcene, che compare sulla piazza il bombo, che è il banditore di notizie, previo tamburo e suono col conchiglione spondylus ! Gira per le stradine urlando che domani sera alle 19 inizierà la processione della Vergine del Carmine, e lo dice sia in spagnolo che in quechua, e nel secondo comunicato, che non capiamo ovviamente, è interessante il fatto che la chiama Mamanchi. La grande croce in pietra a lato della chiesa, ora ha i soliti paramenti a drappeggio che avevamo visto in altre occasioni, è come rivestita con un abito talare. Di solito hanno fiorellini, nastrini, oppure una lunga “sciarpa” girata attorno in modo che sembra proprio un vestito, e la croce pare una figura umana a braccia larghe.

Nella piazza, come ho già accennato, ci sono due grandi alberoni Pisonay secolari, stupendi e venerabili nella loro vetustà; uno è cavo, e sembra un po’ l’albero delle streghe...

Belle queste serate a Pisac, come lo erano quelle a Ollantaytambo, con l’ambiente paesano, le osterie, quelli un po’ alticci per le bevute o “fatti” da troppa coca, gli ultimi che ormai nel buio smontano le loro bancarelle con i legni dalle tre parti per fare delle pareti con appesi tappeti o abiti, gli Abarrotes aperti, i bar con la trasmissione della partita, quelli che rosolano pannocchie, quello con il suo triciclo-baracchino che vende bibite con maca, le stupefacenti stellate con la Via Lattea e la Croce del Sud, o, prima, con la falce di Luna con la stella accanto, il buio, il silenzio totale, gli animali... Il selciato di sassetti tondi sporgenti della piazza e delle strade, è scomodissimo, in mezzo ci sono gli scoli per l’acqua (dove un bimbo mette inavvertitamente dentro storto il piede), che si incrociano con una piattofor-ma centrale a rombo. Ma ora yà basta, è sufficiente: A dormire!

 

viernes 23

Al risveglio un po’ prima delle sei, c’è il tedesco della stanza accanto, che ci aspetta silenzioso al varco e gioca a fotografarci all’uscita dalla porta della camera per andare al bagno, tutti allucinati, conciati, e se la ride da matti. Ritrae anche Lino da vicinissimo, me da dietro, Ben con la schiuma da barba, e si diverte un mondo e ride. E’ fatto cotto. Mi dice in inglese con voce sbiascicata e strana pronuncia (e lo capisco !?)che ha compiuto ieri 45 anni. Proprio ieri avevo un po’ sentito una discussione con Oswaldo, credo che fosse già da un pezzo che non pagava per la stanza. Come regalo di buon compleanno gli do la scatola di tonno che mi era rimasta, e la forma di formaggio che avevo preso al mercato. Si mette a mangiare subito.

Mi torna in mente della chiacchierata fatta ieri con una ragazza, tipo gli hippies di una volta, che aveva steso col suo compagno un telo per terra e aveva esposto i braccialettini e le collanine fatte da loro, che i gruppi di turisti, che pur scendevano proprio lì dai pullman, non hanno assolutamente degnato di considerazione. E’ una bella e simpatica argentina di Buenos Aires di 23 anni (come mia figlia!), che è via da casa da un anno e mezzo, perchè non ne poteva più della grande città, e così si fa tutto il Sud- America da sud a nord. Non commento nulla, non sono in grado di esprimere un parere al riguardo, solo mi viene in mente per ulteriore associazione la figlia di una amica parigina, Janine (brillantemente laureata, se ne andò a vivere in un villaggio della provincia di Lione per rifiutare così la megalopoli, e stare con il suo ragazzo che faceva là l’elettricista). Dunque sua figlia, Virginie, bravissima al Liceo, se ne è andata di casa per fare la clochard, la barbona, assieme al suo ragazzo, e ha vissuto per due anni vivendo in strada con vari cani, e dormendo sotto i ponti. Ora è tornata a casa, ma non riesce più a adattarsi alla vita in una casa “borghese” e dunque abita in una roulotte che hanno messo in giardino, e “fa la scultrice”. Il tutto ovviamente costituisce la disperazione di sua madre Janine.

Ma torniamo a Pisac. Ho dimenticato di dire che proprio mentre stavo mangiando un lomo saltado di maiale (=lombata) troppo abbondante, seduto ad un tavolino all’aperto in piazza e chiacchieravo con l’argentina per terra lì vicino, vedo un auto che lentamente cerca di farsi largo verso la piazza gremita, da cui sporge dal finestrino uno che urla “Carlo!”. E’ Xeno (anche lui ha 23 anni) in una vecchia macchina con amici musicisti/cantanti che stanno andando a suonare in un festeggiamento non so dove, e ha voluto passare dalla piazza per salutarmi. Aveva indosso la mia maglietta con le maniche lunghe un po’ pesantina, che evidentemente gli è piaciuta tanto (è diversa da quelle che si vedono qua) da sfoggiarla in questa occasione. Gli sono andato incontro e, visto che l’auto ci metterà veramente un bel po’ a riuscire a fendere la folla del mercato e dei turisti intruppati, l’ho invitato a sedersi al mio posto e finire il mio piatto. L’ha divorato e poi ringraziando e salutando è risalito nell’auto che era già andata oltre verso l’uscita dalla piazza-mercato, e se ne è andato senza che facessi in tempo a dirgli che partivamo stamattina. Così non ho il suo indirizzo.

Paghiamo per la lavanderia otto soles (=2€), e salutiamo. Cordiali saluti da Oswaldo e dalla moglie, e dalle due ragazze. Uscendo da Pisac (ciao Pisac sono stato bene da te e con i tuoi abitanti, hasta la proxima vez!) vedo il macellaio con i grossi pezzi di carne appoggiati per terra sulla porta. Imbocchiamo la strada asfaltata verso Cusco, che sin’ora non avevamo ancora fatto.

Eccomi di nuovo a osservare un paese e un popolo dal finestrino. Le donne-canguro con i loro figli nel marsupio dorsale, sembrano a volte un po’ dei doppi: ti guardano con due teste, quattro occhi....

Coltivano proprio ovunque, anche su ripide coste scoscese, si vede che quella famiglia o quella comunità campesina il suo campicello ce l’ha proprio laggiù, isolato, tutto in pendenza (a volte coltivano sulle cime dei colli). Gli spagnoli con l’introduzione del latifondo nel periodo coloniale hanno mandato in rovina il sistema degli andenes, abbandonati in gran parte, questi terrazzamenti che rigavano praticamente tutte le Ande, sono andati in malora. E’ successo che col tempo i sassi sono rotolati, i muretti sgretolati, le erbacce si sono diffuse eccetera, e così hanno distrutto il lavoro accumulato di secoli e secoli, e questa civiltà materiale è andata perduta (oltretutto ci fu anche una concomitante drastica diminuzione della popolazione).

Oggi visiteremo alcuni posti famosi, dato che il viaggio è breve e la pista asfaltata è buona, speriamo di arrivare in tempo prima dei tours dei pullman. Vediamo Tambo Machay (3700 m.) che era una località di ristoro per la nobiltà incaica, con fontane d’acqua calda e fredda, chiamata anche Quinua Puquio (=la sorgente di quinua). Poi la vicina Fortezza Rossiccia =Puka Pukara, sorta di dazio o dogana per l’ingresso di merci e persone alla città del Cuzco. Quindi diamo un colpo d’occhio a Saqsày wamàn dall’alto, si vede al di là la valle del Cuzco, e la Cordigliera. Ma qui ci verremo dopo, adesso già che è ancora buon’ora andiamo subito alla misteriosa Q’enqo (=fessure), antichissima, tutta scavata nelle viscere della roccia, che va dunque visitata con calma, senza rumori o vocii, e siamo fortunati, non c’è nessuno, solo dopo arriverà un piccolo gruppettino di donne americane assai rispettose e discrete, e con loro come guida quello stesso uomo bravissimo che avevo ascoltato a Ollantaytambo. Gli faccio i complimenti, mi da il suo biglietto da visita (Jorge Luìs Delgado)e si intrattiene un po’ con me, e mi dice che questo luogo mistico è consacrato alla PachaMama, la Grande Madre Terra. Lei è il corpo fisico, lei dunque ha memoria di tutto, noi siamo tutti suoi figli e viviamo tra altri figli animali, vegetali, minerali. Nel nostro piccolo individuale anche il nostro corpo conserva memoria di tutta la nostra vita, la nostra storia, la nostra vicenda, senza errori; la mente ne può compiere, perchè cerca risposte alle sue ansie, alle paure, alle incertezze, e si crea un proprio mondo con i suoi figli. Ma il corpo no, è sempre sincero e veritiero nella sua memoria. E se è adeguatamente addestrato il rapporto diretto con la Grande Madre, allora con l’aiuto della luce e dell’aria, possiamo raggiungere la pura consapevolezza dell’insieme di cui siamo parte. Questa la spiritualità di chi ha costruito questo luogo, ed è un luogo pieno di energia, che è dentro queste grandi pietre, queste rocce, questa montagna. Ora si scusa ma deve andare, la sua è una agenzia di Puno, “Kontiki” el dios viajero, ecological - cultural tours. Sotto i monoliti da tonnellate, dentro alla roccia, là c’è il percorso iniziatico e si passa a lato della fossa dei serpenti al lume delle torce. Ma è lassù all’aperto, nell’area sacra ad anfiteatro, dove c’è pure l “orologio solare”, tutt’attorno al grande monolite verticale di 9 metri (detto il rospo), che si vedrà come esso conservava in sè la conoscenza del tutto; la luce del solstizio al suo sorgere farà proiettare sull’immensa parete che fa da fondale, le sue ombre mutevoli che raccontano, come lo sciamano, o il sacerdote, esporrà, le storie mitologiche del cosmo, delle stelle, del sole, della luna, della terra, ... Tutti seduti attorno vedranno la sacra rappresentazione delle ombre quando dalla caverna oscura saremo usciti alla luce e alla visione del suo doppio, l’ombra. Luogo favoloso, ancestrale questa mistica Q’enqo. Nel boschetto attorno ci sono llamas, e cavalli che corrono. Terra-pietra, acqua che scorre giù per i canaletti a zig-zag, luce-sole, aria e vento con le loro voci che bisogna saper ascoltare.

Poi andiamo alla classica visita di Saqsày wamàn (o Sacsayhuaman =”testa inghirlandata”, o ondulata, della città di Cusco), dove ci sono mura ciclopiche di massi inamovibili, incastrati perfettamente, di 45 tonnellate e più. Di quelli alti e grandi al suolo che fanno da bastioni per le parti sporgenti, alcuni pesano fino a 360 t. Era una grandissima fortezza. Qui il 24 di giugno si celebra l’ Inti Raymi, la grande Festa del Sole, nella spianata davanti alle mura. Ma quel giorno è anche stato proclamato  El Dìa del Indio. Si tengono grandi ricostruzioni di massa in costumi antichi. Ci sono tre fila di mura, e su in cima al colle c’è sul terreno un grande cerchio con cerchi concentrici e raggi in muratura, che rappresenta il cosmo coi suoi quattro cantoni, quattro direzioni, o ròtte (rumbos), che è il basamento di una distrutta torre rotonda. Dall’altra parte della spianata c’è una costruzione con una scalinata ripida in mezzo, e dietro c’è un grande anfiteatro ovale con gradinate. (una ragazza francese con le stampelle, cocciuta e forte, affronta da sola, e si fa in salita, tutta la scalinata. Le dico che si è conquistata la medaglia olimpica in quella specialità...).

Dietro, non sono facilissimi da indentificare, ma si aprono dei tunnel nella roccia, come quello di Pisac e quello di Q’enqo, ma lunghi e a labirinto, con vari “lavacri”, troni, e croci andine, o chaqàna. Qui dunque c’era il Labirinto del Mondo (di cui quello da noi famoso è quello dei minoici, con prova iniziatica per il giovane eroe che deve affrontare l’uomo- mostro taurocefalo, Signore dell’oscurità,  senza conoscere la via di fuga).

Stiamo per andarcene, e c’è una che vuole 1 sol per farsi fotografare... le diciamo che purtroppo non avevamo soldi con noi, ma continuava a chiedere, Ben le fa vedere che proprio di soldi non ne aveva, ma lei continuava a chiedere, anch’io allora ho addirittura rovesciato le tasche, ma lei continuava a chiedere, Ben ha trovato in fondo a un piccolo taschino 20 centesimi di sol, lei li ha presi ma ha comunque continuato a chiedere un sol per farsi fotografare. Mi ricorda quella alle rovine di Pisac antica, le ho anche detto a un certo punto che proprio “tiene cabeza dura Usted!”, ma lei continuava a chiedere, allora Xeno e Noemi glielo hanno detto in quechua, ma lei ha continuato a chiedere “amiiigo, dame un sol !”.

Scendiamo al Cusco. Ammiriamo da fuori il Qorikancha che è incastonato nella chiesa-convento dei domenicani, e poi andiamo alla pietra dai dodici angoli che è nel basamento di un palazzo. Qui un montanaro mi vende un collare e una collana fatti con la corda, discuto il prezzo che è proprio un po’ troppo altino (20 soles), ma con tono mite mi dice: a parte quello che compri, ho proprio bisogno di questi soldi, dammeli per favore. Va bene, tieni, buena suerte. Comperiamo poi  in una bella e moderna pasticceria tre appetitose brioches e tre bei pani (2 soles =50 €urocents). In centro incappiamo in una manifestazione di medici e infermieri che protestano perchè la vaccinazione antivaiolosa costa troppo cara per un povero, chiedono che sia gratuita. Quindi andiamo a pranzare in perfieria in un buco schifosetto, menu con sopa e lomo (microscopico)con puré di patate, un €uro in tre! ma Beniamino non mangia proprio niente, per fortuna abbiamo i panini e le brioches e ancora qualche quadretto di cioccolato che si mangia in auto. Ci sono lungo la strada Chicharronerias, il chicharròn è un piatto con pezzettini di maiale, o di pollo, in un sughetto, con riso e patate lesse. Comunque in un paesino appena fuori città, ci fermiamo a comprare in un negozietto un casco di undici bananitas chiquitas, 1 Sol ! Via verso Abancay, sono 200 km asfaltati; là ci fermeremo a dormire e poi domattina ci aspetta un magnifico lungo viaggio di nuovo su per la cordigliera sugli altipiani per andare al nostro prossimo obiettivo: vedere il grande Parco Naturale di Pampas Galeras.

Ripassiamo da Hurawasi, o Curahuasi (huasi= casa), capitale mondiale dell’anìs , e del finocchio e della liquerizia e della linasa, quest’ultima fa bene ai riñones e al higado (=fegato). Vendono anche un miele all’anisette che è buonissimo. Ricetta per la linasa: far bollire un litro d’acqua e poi versarci due cucchiaini, al gusto, e fare una tisana, filtrare e servire col miele, si può bere caldo o freddo. In certe zone con bei fiumi o torrenti ricchi di truchas (=trote), o altro pesce, ci sono le Cebicherias cioè posti dove servono il pesce fresco crudo, “cotto” solo nel limone e sale (en cebiche). Di nuovo ogni tanto si vedono certi animali selvatici; all’andata, proprio sulle alture tra Ayacucho e Andahuaylas avevamo incontrato una bella volpe grossa (el zorro) con la codona fulva.

Ad Abancay scegliamo un buon albergo. L’ Hotel de Turistas, vecchiotto, lo stanno ridipingendo, ma ha un ambiente primi anni sessanta. Nonostante ciò, l’acqua calda non viene, poi viene bollente, la finestra non si chiude, eccetera; però le chicas sciocchine de la reception fanno tutta la scena, e poi tra loro pensano solo a ridere. Ad es ti dicono al citofono: salgo subito io stessa ad aprirle la manopola dell’acqua calda; l’aspettiamo, ma non si è mai vista. Il gestore è molto ossequioso e sfodera due paroline in italiano. Ci offrono due Pisco Sour, ma siamo a stomaco vuoto e stanchi, così quando nel giardino dove ci siamo seduti e abbiamo chiesto un mate de coca e il cameriere ci dice prima di andare “permisito”, mi fa scoppiare dal ridere.

Ci intratteniamo al bar con il barman (non sappiamo che fare d’altro) che ci mostra vini e alcoholici di qui: Caña Miel (grappa di canna da zucchero con miele di canna cioè melassa), Hidromiel, Crema de Menta, Cañazo, Anìs. Poi ci parla della tradiciòn Apurimeña (della zona del rio Apurìmac), e ci fa ascoltare delle canzoni. Brava la cantante Nancy Manchego di Abancay (ballate tradizionali). Di Roxana Gutierrez di Andahwaylas, che ha una bellissima voce, mi piace una canzone in quechua Chullalla Sarachamanta, dedicata a quelli che si stanno innamorando, e che mangiano già dalla stessa (chullalla =una sola) pannocchia (=sarachamanta); quando poi non saranno più così innamorati, mangeranno da pannocchie proprie, o con chi le condivideranno ? Un’altra canzone di cui ho chiesto spiegazioni è Chaska Lucero: dedicata a una luminosa stella (Venere?)che sorge alle quattro, e lui dice: quando vieni io vado, cioè aspetto che sorgi per partire, poichè non avendo l’orologio ci si regola sulle stelle per sapere quando mettersi in viaggio, sapendo il tempo del percorso. Un cantante uomo è Luìs Ayvar Alfaro, della Sierra, mi è piaciuta Yanañawi : canzone dedicata a las mujeres que sacan la vuelta, alle donne che stanno anche con un altro. Dice lui: sì percepisco che il cuore è con me, ma anche che il pensiero va all’altro... Poi c’è una canzone dedicata a las lunarejas, a quelle ragazze che si mettono per vezzo un piccolo neo finto (detto Luna nera). Poi mi piace il CD di canti folkloristici, di quelli che si cantano durante le fiestas, che avevo già sentito a Chinchero. Sono copie, ne prendo cinque, me li vende a un €uro e venti l’uno. Poi lui ne comprerà un’altra copia; li ordina a Lima e entro un paio di settimane gli arrivano. Usciamo, nella botica “San Carlo” compro 20 pastillas de maca andina per dieci soles (chissà cosa penserò dopo un ciclo di questo stimolatore cerebrale...!). Giriamo un po’ per la città, ma che squallore. A cena finalmente mangio pasta fresca (= avogado appena còlto) con uova sode, maionese, papas lesse, piselli e carotine. Poi pollo all’arancia con pezzetti di frutta tropicale.

 

sàbado 24 de abril

Al mattino presto si parte. Paghiamo per la doppia con bagno, colazione e cena, e rimessa dell’auto, 50€. Paghiamo poi anche per Lino, che è andato nel vicino Hotel Imperial a due stelle (35 soles), e a cena al restaurant “Diomar” (5 soles), totale dieci €uro. Intanto che si va, Lino ci dice come si fa il chicharròn con il chancho, ma ora già non lo ricordo più... Bisogna stare attenti alla diversiòn  (=bivio) vicino al ponte. Zona inestable. Peligro. Desminuia su velocidad. E’ tutto così, il fondo stradale cede, si inclina... Chontay, Lucuchanga, tutto giù, in fondo valle. Accopampa, agavi, cactus vari, eucalipti di tipi differenti, Itucunga, Puerto Banano, Yacca, canneti, palme. Bisogna prestare costante attenzione alla strada e non correre perchè essendo sempre vuota, libera, c’è gente che sta lì in mezzo, biciclette, camionetas ferme, gente più o meno sul bordo che cammina e cammina e cammina, e poi al solito, animali, animali, animali. Huirahuacho, Casinchihua, Anta bamba. Non c’è proprio assolutamente nessun veicolo per un lunghissimo tratto. Fiori, bianchi, gialli, tipo orchidee, farfallette, uccellini che si infilano nei loro buchini nel terriccio lungo il bordo, cactus, cactus. Tante volte passiamo la sbarra del pedaggio aperta perchè l’autopista asfaltata si paga salendo ma non scendendo... Chacoche, Chalhuani, Pichirna. “gracias Señor Presidente para el asfaltado de esta carretera !” Tutti hanno sul tetto delle case qualcosina, o i due piccoli tori neri, o girandole, o nastrini, o altro.

Ora invece siamo tutti fermi per chissà quanto: “se ha derrumbado el costado y hay maquinas trabajando” . La strada, l’unica per attraversare la cordigliera e andare poi verso la costa, è bloccata da uno smottamento di una grandissima quantità di terreno. Dopo tre quarti d’ora dal nostro arrivo, fanno passare quelli dall’altra direzione, e così si determinano delle vibrazioni che fan cadere altri massi. Per fortuna gli ultimi sono sfilati via indenni per un pelo. Si ricomincia dunque. Qui tutto frana in ogni momento. E così si formano code anche di 5 / 6 mezzi, che stan ferme un’ora, due ore. Intanto Lino ne approfitta per cambiare il filtro, che era sporchissimo di terra, polvere, accumulatasi durante il viaggio. Eccoci ora a Chalhuanca (= Señor de Huanca), c’è un tizio a cavallo proprio in mezzo alla strada. Facciamo 100 soles di gasolina e prendiamo poi giù per la 32 lungo il rio Apurìmac.

Intanto ascoltiamo i miei CD. Ima? =quien?, chi?, curqui =paloma, colomba, yaqui =pena, waqan =llorar, piangere, sunqo=corazòn, cuore, chaina =asì es, così è, chullalla =uno solo.“Me conformo a tu amor porqué fué la primera en este pecado tàn lindo; me conformo amor por averte querido, no me arrepento de este pecado. Que seas felìz donde vayas !”.

Giunti al Puente de Condorcarca si incomincia a salire, e salire, e salire. Ecco che il CD è finito e noi siamo già a 4000 metri, ed è di nuovo cambiato il mondo. Ogni tanto ci sono pietre piatte una sopra l’altra, sono un segnale per l’acqua.

Già siamo nella zona di interesse naturalistico di Pampas Galeras. Ci sono molti alpàquas sulla puna (=flora della steppa, della pampa d’altura). Eccoci al passo Abra Iscahuaca. Muretti di recinto, due capanne nel llano infinito, a quattromila metri, a contatto col cielo, vivono qui solo loro, nell’aria purissima, nel silenzio... su in alto, con il vento fresco sempre sul volto e il sole fortissimo. “Menaje con cuidado: cruce de animales”. Avevamo incontrato due carros, due fuoristrada, di viaggiatori europei, tra Pampamarca e Huayrhuma, che avevano perso di vista gli altri due dei loro amici che erano più indietro e forse hanno girato a sinistra ad un bivio. Siccome non hanno incontrato sin’ora nessuno, ci fermano e chiedono a Lino, che li rassicura che l’altra strada che quelli hanno preso è solo più lunga e più vecchia, quindi piena di buche, ma poi si ricongiungerà con questa più avanti. Siamo a Quillcaccasa (ccasa =roca) a 4200 m. Gente di una semplicità estrema. Vivono di latte, formaggi (e carne ?), non ci sono nemmeno le patate o le verdure. Eccoci a Huaraccoyocc, 4300m. Si vedono a perdita d’occhio migliaia di alpaca e di llama. Ci taglia la strada una vizcaccha, che è una grossa marmotta-scoiattolone abbastanza rara. Ora se ne sta immobile, Ben non riesce a distinguerla, io la individuo e le faccio una foto. Ma alla curva dopo, ce ne sono parecchie. Ci sono pure i guanàcos (o huanacos). Ora incontriamo anche un gruppetto di quattro/cinque vicuñas (=vigogne), bestiole delicate e in pericolo di estinzione per colpa di bracconieri che le uccidevano e vendevano il pregiato pelo a prezzi altissimi. Ora tutte le vigogne appartengono allo Stato che le protegge. I gruppi sono composti solo di femmine e di piccoli, e temporaneamente di un solo maschio. Quando un figlio maschio cresce, viene cacciato, o comunque se ne va in cerca di una femmina.

Qui i panorami vastissimi sono di una bellezza e di un fascino mozzafiato (ma letteralmente, essendo sui 4300 m.). Si vede in fondo in fondo all’altipiano la nostra strada come una serpentina bianca. Stupendo il laghetto al desvìo per Pampachiri. “Maneje con cuidado”. Altro gruppetto di 4/5 vicuñas tra sassi, licheni, muschio. “No deje obstaculos sobre pista”, e in effetti ogni tanto c’è qualcosa lì in mezzo alla strada, e lo si vede solo all’ultimo momento all’improvviso. “Proteje nuestra carretera”. Lino ferma una camioneta che sta passando nell’altra direzione per dir loro di quei tizi che si sono divisi dagli amici prendendo la carretera mala. Al villaggino di Negro Mayo c’è un Puesto de Salùd. “No contamine el medio ambiente”. Montagne di gesso bianco... Ora per un certo lungo tratto c’è una rete lungo la strada perchè gli animali non vengano giù o non si perdano. Le vigogne sono selvagge e hanno paura di tutto e fanno scatti improvvisi correndo per un lungo tratto. (vigogne e guanacos sono selvatici, mentre lama e alpaca sono addomisticati/bili).

Ora per amplissimi tratti, per una grande estensione di kmq. è tutto spopolato, senza un essere umano. Ci sono dei laghetti limpidissimi che si fronteggiano uno a destra e l’altro a sinistra della strada. Ci sono sulla riva dei Pariguana, un uccello grande, e dei wayata, dei paperotti particolari. La pariguana è considerata simbolo del Paese perchè è bianca, ma quando si alza in volo mostra la parte interna delle grandi ali, che è rossa, e la bandiera peruana è appunto rossa, bianca, e rossa.

Ma come si potrebbe descrivere con le sole parole o anche con l’aiuto di una foto, che non è che un rettangolo, un panorama infinito come questo? Come dire la sensazione del sentirsi dentro nel paesaggio della Terra primordiale? In questa landa, così, nella sua bellezza, semplice quanto sublime, allo stato puro. Con le mandrie di alpacas, con le vicuñas, che vagano nel loro mondo, e gli uccelli, e le nuvole che corrono e si rincorrono continuamente, liberamente, e a sfondo del teatro immenso, la cordigliera con i ghiacciai immacolati scintillanti, e sparsi qua e là laghi azzurrissimi.

Ecco anche qui un altro stagno con dietro le montagne, mi ricorda i panorami iniziali di “Duemila -Odissea nello spazio”, qui a 4300 metri, con le canzoni in quechua che risuonano con quella lingua che pare antica, arcaica (in origine era l’antica lingua sacra dei nobili inca, Runa Simi ).

Ma ora iniziamo la digradante discesa. Ricominciano a vedersi capre, pecore, cavalli. La canzone del CD intanto grida: “Andahuaylino te quiero. No me deshechas el corazòn!” anche in quechua. Lino dice che i tumuli di pietre piatte una sopra l’altra non sono altro che punti di riferimento, nella nebbia, nell’oscurità, e anche sono rassicuranti perchè sembrano a volte delle figurine umane quando c’è poca visibilità...Mah. ecco di nuovo i fiori, e gli alberi, “Proteje nuestra flora !” , e le vacche e i tori. E’ tutt’un’altra bellezza rispetto a quella spoglia, essenziale, nuda, dell’ altipiano. Al Puente Yanahuecce, c’era di fianco un antico ponte di pietre. Ma ora ci dirigiamo verso el pueblado màs grande della zona, che è Puqio (=sorgente, fonte), per andare a mangiare. Su un camion una scritta che inneggia alla Virgen de las Nieves, dice che lei è la PachaMama. Alla fermata delle corriere vediamo che dal portabagagli nello sportello che i pullman hanno sotto, tirano fuori degli alpacas sdraiati che ci stavano giusti-giusti, facendoli scivolare sul pavimento di metallo tirandoli per il folto pelo. Qui nel comedor dove ci siamo fermati, che ci sembra il più accettabile, c’è alla parete la lista dei prezzi del  Rico Pollo “Sarita”: 1 pollo arrosto- 21 soles, 1/2 pollo -11.50, 1/4 di pollo -6 soles, 1/8 di pollo - 2.99 soles, più le papas.

Fino a dieci/dodici anni fa qui c’era “Sendero Luminoso” che requisiva tutti i giovani che incontrava. Allora alle 5 e mezza/ 6 di sera tutti si barricavano in casa. Ma entravano lo stesso nelle case con le armi spianate. Li portavano via, lontano, e quelli non sapevano tornare, o non potevano, e poi col tempo si abituavano al brigantaggio, cioè a dover vivere di requisizioni, e a farsi mantenere dai vari villaggi. Comunque allora quasi tutte le famiglie appena potevano mandavano di giorno i figli su una corriera per una destinazione qualsiasi giù sulla costa. E col tramonto tutto il paese era assolutamente deserto, buio e silenzioso, quando scendevano dai monti quelli delle bande senderiste. Si raccontano molte storie su quegli anni della guerra sucia (sporca guerra), non solo sui senderisti che scendevano in paese, ma anche di quando venivano su i militari dell’esercito appoggiati da elicotteri. Ma chi me lo dice non ha nessuna voglia di ricordarle, e i giovani di oggi sembrano più interessati alle nuove T-shirt sintetiche che ci sono al mercatino con i nomi dei calciatori.

Nel “cortile” di terra polverosa là di fronte c’è una baracchina di lamiera con scritto “se alquila baño” (letteralmente: si affitta bagno, che si potrebbe rendere con: gabinetto a pagamento). Come su tutte le strade andine i camion, come già detto, in salita hanno i motori che fumano (letteralmen-te), e in discesa invece i freni che fumano (letteralmente).  La sera quando arrivano qui i camionisti, pagando, posteggiano nel cortile i loro grandi trucks, e sistemano motore o freni, cambiano i pezzi, aggiungono olio, liquido di raffreddamento, mangiano le tortillas che offrono gli ambulanti, e finalmente quando chiudono il “portone” del recinto, ormai distrutti, dormono nei loro camion, ma devono pagare ancora per andare al cesso.

Riprendiamo. Ci sono tante mucche e vitelli; un giorno mi era toccato scendere per smuovere dal centro della strada una che se ne stava lì seduta. A Lucanas (nella cartina stradale in quei territori in cui non c’è praticamente nulla segnano anche dei villaggettini piccoli-piccoli) c’è invece un poveraccio che sta proprio in mezzo alla strada, è fatto cotto e prende un po’ di energia dal Sole.

Anche questo altipiano è vastissimo. Laggiù in fondo c’è una miniera, Minas Canarias. Ecco ora un’altra riserva naturale di vigogne. Questa è comunale. Ci sono vecchie scritte sui muri dell’edificio degli uffici che invitavano al paro vicuñero (=allo sciopero dei lavoratori della riserva per vigogne). Abbiamo visto morto in mezzo alla strada un sorrino, una specie di formichiere.

Lasciamo l’area dei pascoli, oramai la puna cede il posto a un cañon deserto arido. Sul ciglio della strada ogni tanto ci sono croci per ricordare automezzi caduti nel cañon, perchè ci sono tante curve strette e la discesa è ripida, e dunque rapida. E poi vanno svelti perchè tanto non c’è mai nessuno, oppure perchè man mano cedono i freni, oppure per risparmiare gasolina mettono in folle, oppure scoppiano le gomme perchè vecchie e crepate e per lo sbalzo di temperatura, oppure cadono perchè non c’è mai un guardrail (d’altronde rarissimo in generale anche sulle statali importanti di lunga percorrenza).

Insomma abbiamo cambiato mondo, ora siamo in un deserto di terra secca e sassi, qualche rovo, qualche raro cactus. Deserto vastissimo: Ogni tantissimo c’è un micro villaggino di quattro casupole di lamiera, dove si fermano i trucks, come Huallhua, posto fantasma. Qui ci sono i cercatori abusivi d’oro e d’argento.Vanno alla ricerca di qualche mitica mina inca, di cui si favoleggia in qualche leggenda. Oppure in certi posti dove fanno buche di sondaggio e magari trovano qualche sparuta spolverata luccicante. Si vedono chiaramente vari sentierini, e anche aperture nella roccia. Sbriciolano concrezioni e poi si portano a casa questo terriccio e lo setacciano e lo passano su una pietra circolare con un legnetto messo di sotto in modo che oscilli e passano il tutto con acqua. E magari qualche rara volta ci scappa pure un grammo d’oro vero. Poi c’è il fortunato che trova una piccola pepita (dovrebbe portarla a casa mia dal mio cagnetto Pepito).

Dopo molta polvere, molta strada, molti sassi, arriviamo infine alla baraccopoli che è il capoluogo di questo Far West, la famosa Nazca, un buco di posto immerso nella polvere e strapieno di gente per via delle miniere, di quel che dicevo prima, e del turismo che viene a vedere (come noi) le famose “linee” di Nazca. Qui non c’è nulla da fare, nulla da vedere, nulla da fotografare, nulla che dia motivo per fare due passi, un giretto. I giovani sono ai bar a vedere la TV, poi c’è quello che deambula per vendere carta igienica, l’altro dei palloncini, e insomma ognuno spera disperatamente di ricavare la magra cena di stasera. C’è un angolo della Plaza Mayor con dei televisori pubblici che si possono guardare senza il pericolo di dover pagare un bicchier d’acqua al bar. In giro per le strade circolano ancora le vecchie Volkswagen-maggiolino brasiliane vecchie. Perchè dopo che fu dismessa la linea di montaggio, la portarono in Brasile, ma ora hanno chiuso anche quella. Caos totale quanto al traffico stradale. Ci sistemiamo in piazza all’Hotel Internacional Las Lineas. Ci facciamo mettere un ventilatore a piantana alta in camera. Ceniamo al restaurante Josy, dove madre e figlia sembra siano ex-battone rozzissime che essendo diventate troppo grasse e avendo fatto su i soldi, si sono ritirate cambiando mestiere. Mangiamo puré (!), riso, e un bocconcino di carne. Giriamo per il caos comprando degli altri CD musicali, copie naturalmente, pagando 10 soles per quattro cd. Poi in un negozio di erborista “La chiclayana”, prendo della maca en polvo solubile, e un pacchetto della cosiddetta “uña de gata”(=unghia di gatta) che sarebbero dei pezzetti di corteccia di un albero della selva amazzonica, che vanta delle portentose virtù terapeutiche.

Non si riesce mica a dormire per il gran casino che fanno tutti fino alle 4. Alle 6 poi passa quello della basura comunale (pattumaio) che a ogni portone suona un campanaccio perchè gli portino i sacchi da gettare.

 

domingo 25

All’hotel internacional non aprono il bar ristorante perchè è domenica mattina... Ci dicono di andare nel bar di fronte dall’altra parte della piazza.

Siamo seduti qui a un tavolino all’aperto, alle sette del mattino in attesa che nel prossimo futuro ci portino le due colazioni che abbiamo chiesto. Siamo attorniati da ragazzini. Chiacchiero con loro, uno mi parla della sua cagnetta che ha fatto 5 cuccioli, allora sua madre ce l’ha su con loro, dice che son vedaderos diablos, che fino a 4 possono anche essere bravi ma quando sono di più son demonios. L’altro più piccolo fa il lustrascarpe (9 anni?) come tanti altri qui. Vogliono che mi faccia fare il servizio, ma io non gradisco, allora gli regalo un mozzicone di matita, ed è molto contento perchè mi dice che a lui piace molto disegnare. Gli faccio fare la punta col mio temperamatite, e questa è una cosa stupenda per lui e per gli altri che lo osservano. Si tiene anche le “bucce” per poi farle vedere a qualcuno. Intanto arriva il mio thé (una tazza f’acqua calda e una bustina, e allora rivolto la bustina e gli dico di farmi vedere cosa sa disegnare su questa parte bianca. E’ molto impegnato, appoggiato alla balaustra, e fa dei piccoli disegni. Intanto arriva la colazione cioè un uovo fritto, pane e marmellata. Un altro lustrascarpe più piccolo (7 anni?) mi dice che ha fame, allora gli do da finire il bianco del mio uovo, e al disegnatore che guarda con invidia, gli do un pezzo di pane con la marmellata. Sono eccitati, ma un richiamo da lontano li fa scappar via, non devono trascurare il loro lavoro.

Arriva anche Lino, che prende pane e formaggio. Carichiamo il carro, paghiamo 50 soles (camera doppia con bagno e ventilatore), e Lino che era all’Hostal internacional Lorenma con cochera para el carro, 25 soles, e ha mangiato alla polleria La Cabaña - pollos gigantes a la brasa (beato lui) e bevuto una gaseosa da mezzo litro, 6,50 soles. Andiamo all’areoporto delle avionetas, dove gli uomini delle varie compagnie concorrenti ci assaltano letteralmente. Prendiamo “Aero Taxi”, il pilota si chiama Amerìgo, come Vespucci. Voliamo in tre (c’è un ragazzo irlandese). Interessantissimo, ho avuto un poco de trastornos y de mareo (=disturbi e un po’ nauseato) per tutte le continue giravolte che fa per farti vedere i disegni e le linee. Trenta minuti, 30$ dollari a testa.

Torniamo al carro (un ragazzini mi dice che ha bisogno di una penna per la scuola che è appena incominciata. ne ho due gliene do una), ripassiamo dal nostro albergo in città perchè ho dimenticato l’unica cannottiera che avevo, se no ho solo magliette da sotto a mezze maniche, ma ora fa troppo caldo. Naturalmente è già scomparsa, e si attribuisce la colpa alle donne delle pulizie che sono già andate via. Uscendo incontro di nuovo il ragazzino di stamane, vorrei dargli qualcosa ma Lino dice che dobbiamo partire subito se no rischiamo di arrivare tardi. Nella fretta gli do dal finestrino la confezione col fazzolettino rinfrescante che han dato sul volo Iberia, ma lui non sa cosa sia e che farsene, intanto Lino riparte. Andiamo sulla Panamericana e ci fermiamo a visitare il museo intitolato a Maria Reiche.

Questa sarebbe poi la sua casa che si costruì vicino alle “sue” linee. Qui ci sono due hermanitas de 6 y 5 añitos, y ellas yà lo saben todo, y me cuentan de la Señora che girava per Nazca in bicicletta negli anni cinquanta, e andava da sola verso il deserto, e tutti la chiamavano la loca, la pazza. Un giorno che il presidente del Perù era in questa cittadina di minatori, l’ha voluta incontrare e l’ha ascoltata, allora le ha preso una camera con bagno proprio nel nostro albergo (che allora era un posto pulcioso), che lo stato le avrebbe pagato fintanto che avesse voluto restarci. E ci restò finchè un contadino non le mise a disposizione una casetta abbandonata senza acqua nè luce, ma che era proprio sull’area delle linee. Forse si era impietosito a vedere che questa donna se ne stava sotto il sole tutto il giorno chinata a ripulire e spazzare con una scopa queste assurde righe per terra, con gran fatica poichè soffriva di artrite acuta e aveva perso il dito medio della destra. Poi sua sorella dalla Germania le ha spedito per nave un regalo: un pullmino Volkswagen, e poi dopo qualche anno che lei scriveva a varie riviste e istituzioni di queste tracce nel deserto -che aveva osservato a lungo e che oramai conosceva tutte assai bene-, e della loro importanza archeologica, si convinse a venire qua anche lei, ed è rimasta per sempre, tanto che è morta poco dopo di lei nel ‘99. Maria teneva un alpaca con sè, che è quella che è ancora qui e sta con la sua piccola nel cortile. La casa museo è mantenuta da una Fondazione e da qualche finanziamento che Dresda, la sua città natale, ha deciso di inviare per ricordare questa sua cittadina ora famosa. Si innamorò delle linee quando incontrò Paul Kosok, che le aveva scoperte. Lui venne a Cusco nel ‘39 per un congresso di americanisti, e disse che venuto per esaminare aspetti della antica cultura nazca, nota per le sue ceramiche, le sue tombe, e soprattutto per i suoi straordinari tessuti, aveva rilevato la enigmatica presenza di queste tracce. Lei lo seppe perchè già viveva in Perù, e si trovava all’epoca a Cusco dove lavorava facendo da governante ai bambini del consolato tedesco. 

Chissà cosa avrà pensato Maria quando la nuova PanAm è passata col suo percorso d’asfalto attraverso un “rettangolo” nazca....che se ne stava lì indisturbato da forse tremila anni? Facciamo sosta alla torretta di metallo dall’altra parte della strada, è un mirador  voluto da Maria. Perchè se ci si sale in cima, da lì si possono  vedere due bei disegni tracciati tra i sassi (l’albero della vita, e le due mani) che se no da terra neanche si distingue che esistano, e che sono proprio lì a fianco della strada. Su c’è una dell’Istituto nazionale di cultura, e ora ci sono due turiste giapponesi, e l’impiegata sa qualche parolina per dare una spiegazione anche a loro. Quando lo stato si rese conto dell’importanza archeologica di questo deserto, le linee vennero ridenominate geoglifos, e dichiarate patrimonio culturale della Nazione (e poi dell’Umanità), e decretò inaccessibile al pubblico la zona, su cui non si sarebbe più potuto camminare; per cui Maria fece costruire questa struttura metallica perchè le persone potessero venire ad osservare almeno due figure importanti, che secondo la sua interpretazione sono parte del calendario astronomico dell’ antica civiltà che fiorì proprio in questo pianoro arido, a seicento metri sul livello dell’oceano pacifico, tra il 1000 avanti Cristo e il 600 circa dopo C. Ormai le figure sono note in tutto il mondo, ed è la fortuna di Nazca, specialmente ora che le miniere che c’erano non sono più redditizie, perchè attirano visitatori da tutto il mondo. Non c’è giro turistico del Perù che non contempli un passaggio per Nazca. E così questa cittaduzza che fino a pochi decenni fa era l’ultimo avamposto alle soglie del nulla, luogo di incontro di  avventurieri masnadieri da far West, ora pullula di alberghi, pullman dei tours turistici, e all’areoporto un sacco di agenzie con una o due avionetas fanno i soldi solo perchè fanno vedere le linee dall’alto...E in effetti è spettacolo affascinante vedere l’omino che saluta, la scimmia, il ragno, il pesce, il colibrì, il condor, tutti disegni perfetti e molto suggestivi ma talmente grandi che si possono apprezzare solo guardandoli dall’alto, e qui non c’è nessun altro modo di vederli dall’alto se non l’aereo.

Viaggiamo spediti per la panamericana, obiettivo il villaggio di Ocucaje poco prima di Ica. Traversiamo il Rio Grande a Palpa e in mezzo a questo deserto si stende una valle verde. Palme, fiori, frutta, e ai lati e in fondo il deserto di pietre roventi... Molti hanno il loro sitio de trabajo, el almacén, la tienda, in capanne di paglia intrecciata. Torniamo ad attraversare il deserto. A volte ci sono “cubabitacoli” sparsi nella polvere: quello sarebbe un pueblado...

Ancora viaggiamo nel nulla, sassi, sabbia, montagne prive di vita arse dal sole, e un nastro di asfalto diritto di fronte, che Lino lanciatissimo percorre a 90 all’ora. Intanto ci ascoltiamo la musica dei cd comprati a Nazca a 70 €urocents l’uno. Davanti la landa piatta e beige fino all’orizzonte, ovvero fin dove la vista si perde nella foschia calda, sempre uguale. Ci addormentiamo nel lunghissimo rettilineo al sole.....e Lino passa oltre Ocucaje. Ci svegliamo per un sobbalzo, si vedono cactus che sembra abbiano due braccia, come dei crocefissi, e un cartello dà Ica a qualche kilometro. A Beniamino dispiace molto. Alla periferia di Ica chiediamo informazioni a uno della polizia, perchè Lino dice che l’indicazione Ocucaje lui non l’ha mai vista. Torniamo indietro. Eucaliplti, palme, datteri. La scritta “el 12 de mayo huelga general de los profesores” (sciopero degli insegnanti). Rallentiamo, si è formato uno straterello sottile di sabbia sull’asfalto. Qui c’è la stradina laterale che va a Ocucaje, ed eccoci dopo un tratto di polvere nella polvere. E’ un non-posto, con cubabitacoli di poveracci sparpagliati qua e là nella sabbia, apparentemente senza strade, negozi, nulla, solo polvere. E in mezzo a questo ambiente allucinatorio, c’è un’oasi di verde che è un Hotel-residence della Rubi Tours - Sun and Wine Resort, immerso in un boschetto, che era appartenuto ad una finca, una fattoria recintata grandissima, con azienda vinicola. Ci aprono un portone, entriamo e posteggiamo, e poi ci addentriamo a piedi nel fresco, tra casette, villette sparse nel prato e tra alberoni, con uccellini tropicali, e a mo’ di statue decorative tra i vialetti ci sono scheletri fossili di balene e di cetacei antichissimi. Infine si giunge alla grande piscina con famigliole, bimbi che si tuffano, e un bel ristorante all’aperto sotto le frasche. Dopo esserci riposati e rinfrancati al lato della piscina, mangiando benissimo tra gli uccellini dal petto rosso, con primo, secondo, contorno, bevande, birra, torta, caffé, spendendo 35€ per tre, andiamo verso l’uscita. Qui scambiamo due parole con un impiegato che sta mettendo su una collezione di fossili con cui poi vuole aprire un museo dentro all’Hotel. Ci dice che questa zona è in effetti il giacimento di fossili marini più grande del mondo, e che per i cetacei solo in Italia se ne trovano di migliore qualità. Ci mostra un delfino, una balenottera, e una testa di balena, di 25 milioni di anni fa circa. Bellissimi pezzi che lui va a tirare fuori dalla sabbia, perchè dice che nel Miocene il livello dell’oceano arrivava sino alla costa delle montagne che ora sono sull’orizzonte. Poi usciamo e subito ci ritroviamo nel non-luogo con casupole spapagliate a distanza, per cercare una casupola in mezzo alla sabbia polverosa, dove sta uno da cui Ben aveva comperato dei pezzi interessanti due anni fa. Chiediamo, ma la signora è reticente e vaga, poi dopo si viene a sapere che è sua sorella. Questo tipo tira fuori col contagocce vari oggetti, mandando il figlio nell’altra casa a prenderne uno per uno. Alla fine ci vende delle belle repliche di statuine della cultura nazca. La contrattazione è lenta, e nel cubabitacolo c’è un soffoco terribile, ogni tanto esco a rivedere il sole; la sorella è all’ombra della casetta accanto con le sue amiche. Una inizialmente scappa e si nasconde. Mi chiede se abbiamo da darle da bere, perchè loro tre si divertono a trovarsi a chiacchierare e intanto a bere in compagnia. Il tizio ci fa vedere varie cose, ora si è un po’ più sciolto. Varie frecce, denti di tiburòn (=pescecane grande). E’ un furbastro, chiaramente uno scavatore clandestino, un huaquero, però ha un gran bisogno di soldi.

Rifacciamo ora per la terza volta la strada per Ica, ormai piena di sabbia che proviene da una duna enorme che incombe su un lato della carretera. A Ica la casa-museo con la collezione del dottor Cabrera, ora morto, è chiusa. Ce ne andiamo verso Pisco. L’ultimo nostro obiettivo: visitare la riserva nazionale di Paracas e l’arcipelago delle isole Ballestas che sono un parco naturale marino di grande interesse.

C’è un albero, l’algarrobo, che produce un succo, l’algarrobina, ricco di vitamine; dunque si fa un frullato con cerveza negra, huevo, miel de abeja, un guto de leche, azùcar, y algarrobina (birra scura, uovo, miele d’api, una goccia di latte, zucchero, e appunto algarrobina), molto stimolante.

Lungo il bordo destro è penoso vedere queste baraccopoli, perchè non sono nemmeno casupole, baracche, anzi in molti casi si dovrebbe dire addirittura capannopoli poichè son fatte di frasche e paglia intrecciate. A sinistra solo sabbia. L’autopista è tutta diritta verso il sole a ponente. Sono di certo migliaia i kmq di deserto. E’ un altro Mondo. Qui nella parte desertica ci sono gli uomini del territorio di sassi, e quelli del mondo di sabbia e polvere, che è ovunque nell’aria, vola in cielo, entra nelle case, come nell’auto, ma anche nel naso e negli occhi.

Annoto ancora quel che vedo dal finestrino. Playa Vivero, cioè spiazzo per vivaio; Fundo Señorita Ana, oppure Clarita; Vivenda Agricula. Pueblados improbabili ogni tanto affiorano. Ci sono recinzioni assurde di un pezzo di niente, che viene separato dal resto da cui non si distingue.

Schizzano nell’altra direzione pullman di lunga percorrenza, o internazionali, a gruppi di 3, 4, partiti forse alla stessa ora da Lima, ma che inseguono destini, e/o destinazioni, differenti. La PanAm in realtà (a parte nelle vicinanze della capitale) è come una nostra statale, ma con due corsie proprio giuste giuste, e due rispettive “spalle” d’emergenza, in terra, quasi equivalenti. Le capanne di paglia intrecciata sembrano quelle “casette” che si fanno con le carte da gioco. Si appoggiano quattro rettangoli come pareti, e si copre di sopra. Col vento poi un po’ si piegano da un lato...

Ora però cominciano a comparire gruppi di palme radunati come a ciuffi e sparpagliati. Ma, ecco il mare, cioè l’Oceano Pacifico !

Eccoci già sistemati in un alberghetto grazioso, pulito, moderno, come se ne trovano da noi. Siamo nel golfo del promontorio di Paracas, al porticciolo di El Chaco. Facciamo una passeggiata sul nuovo Paseo Marìtimo, aria salsa, ossigeno, spiaggia, il golfo quasi circolare, con una isoletta sull’orizzonte. Torniamo verso l’albergo e incontriamo sulla sua porta di casa una signora che ha un pinguino baby in braccio ! dice che è il loro animaletto domestico, e intanto gli carezza la testa mentre lui guarda. Siamo esterefatti. Poi poco dopo ri -usciamo per andare sul molo ad ammirare uno stupefacente tramonto, con colori incredibili, con i grossi gabbiani che volano. E’ bellissimo non è vero? ci chiede la gentile e graziosa giovane signora che serve ai tavoli di uno dei bar-ristorantini lungo la passeggiata. Chiacchieriamo con lei, si chiama Isabel, è molto discreta e dolce. Intanto sgranocchiamo las canchitas, da cancho, cioè i grani di mais che tutti magiano mentre stanno ai tavoli bevendo cerveza o pisco. Ci parla dei vari cibi, bevande o prodotti naturali qui molto usati. Il cosiddetto sangre de grado, che è un calmante, la sàbila, que es un unguento que limpia las pulmones, oppure di una hoja que se pela y se corta para tomar, ecc.

Mangiamo un pesce con riso, poi facciamo nuovamente due passi sino in fondo al lungomare, e lì ci attaccano discorso due ragazze carine, gentili, ben vestite, educate, simpatiche. Scherziamo un po’ e chiaccheriamo dell’Italia di cui son molto curiose di sapere. Poi facciamo delle foto e combiniamo di incontrarci domani sera e cenare assieme, perchè ora loro debbono tornare a Pisco la città vicina dove abitano. Torniamo all’albergo e mentre io vado un attimo in camera e Ben si ferma al bar dell’albergo ad aspettarmi, viene abbordato e travolto da due scatenate, una un po’ rozza e grezza, l’altra eccitatissima perchè ha bevuto un po’. Ritorno che ha ordinato due cocktail Cuba Libre per loro, e stiamo lì a scherzare e ridere, ma forse il tutto avviene troppo ad alta voce, e hanno chiamato anche due loro amici che erano da quelle parti, per cui il gestore dell’albergo dice che è l’orario di chiusura del bar. Ci trasferiamo in uno dei bar-ristorantini del lungomare. Quella grassa si assenta perchè riceve una chiamata al telefonino, i due ragazzi sono in Marina, e assediano Ben di domande perchè vogliono imparare delle frasi d’amore in italiano da dire alle loro fidanzate. L’altra mi si appiccica a parlare e ridere. E’ una ragazzina magrissima, riccia riccia e mulatta (ma più nera che altro) che si chiama Yennifer (da pronunciare Gennifer) e che ha bevuto un po’ troppo ora che ha ingollato velocemente il Cuba Libre prima di andare via dall’altro bar. Comunque dice che è il suo compleanno e vuole festeggiare, poi quando le passerà un po’ l’agitazione mi dirà che poco fa è morto il suo ragazzo che faceva il camionista. Ha fame, le offro un lomo saltado, che divora, ma ne lascia un terzo per gli altri, che lo finiscono. Parlano un po’ di quali siano i difetti degli stranieri che hanno conosciuto, i cileni, che trattano dall’alto in basso i peruviani, gli argentini che raccontano un sacco di balle, e non so quali altri sudamericani che non danno confidenza, eccetera. Ridiamo ancora un po’ poi ci salutiamo. L’amica grezza, che ha finito di parlare al cellulare, dice che dobbiamo assolutamente dar loro 10 soles per il taxi per ritornare a casa a Pisco. Non ne abbiamo proprio nessuna intenzione. Ci salutiamo.

 

Lunes 26 de abril

Al mattino alle sette e mezza come concordato ieri, siamo pronti per partire, avendo già fatto colazione, e ci avviamo con un marinaio verso il molo, embarcadero flotante (non muelle), e alle otto siamo partiti in una lancia per 18 persone, tutti con chaleco salvavida, in direzione delle isole Ballestas (35 soles a testa). Già appena un po’ fuori ci sono diversi delfini che van dentro e fuori dall’acqua, e tanti uccelli in volo. Dopo poco lungo la costa, sostiamo per ammirare un enorme graffito che c’è sul pendio del promontorio, il cosiddetto “candelabro” (per altri un cactus), ma che probabilmente è il simbolo dell’albero della vita della civiltà Paracas che fiorì in questa area tra il 600 a.C. e il 175 a.C., e fu scoperta negli aa.Venti. Per cui le civiltà della costa in questa parte del Paese sono quelle di Nazca, Ica e Paracas. Dunque questo disegno inciso, è alto 150 metri e forse era una segnalazione per i naviganti in modo che potessero trovare lungo la costa il punto dove erano i paracas, oppure/o anche, al contrario, un avviso agli stranieri (si dice che vi fossero contatti con le Tuamotu, o addirittura con i maori) per segnalar loro: questa è la nostra terra, incontrerete resistenza se volete invadere questo territorio. Fattostà che questo enorme graffito è lì da un bel po’ di secoli e non si è insabbiato e coperto; la guida sulla barca dice che nemmeno ora nessuno fa manutenzione.

Dopodichè arriviamo alle isole Ballestas, che costituiscono la riserva naturale marina. Qui ci sono una immensa quantità di uccelli, foche, leoni marini, trichechi, ci passano periodicamente delle orche marine, e vari tipi di gabbiani, e pellicani, ecc. Inoltre si possono vedere i pochi esemplari del cosiddetto pinguino di Humboldt, perchè da lui identificato, che è in pericolo di estinzione, piccolo, sui 60 cm. di altezza, è quello che avevamo visto in braccio alla signora. Poi ci sono migliaia di cormorani, di sulas (?), delle specie di gabbianelle nere con la punta del becco rossa, e poi delle specie come di avvoltoi che mangiano gli uccelli morti. D’altronde anche le orche passano per mangiarsi le tartarughe, o i trichechi morti. Lo spettacolo è straordinario, gli uccelli sono così tanti da creare vere e proprie macchie compatte composte da una miriade di individui. C’è anche tanto plancton in acqua per cui passano di qui balene e balenotteri durante le loro trasmigazioni. C’è pure una strana stella marina con tanti peduncoli a raggio finissimi. I leoni marini occupano totalmente una spiaggia di un’isoletta, e lo spettacolo (e l’accompagnamento sonoro) di quel vero e proprio carnaio, è affascinante; quasi altrettanti sono i “leoni” e le foche in mare lì davanti, sbattacchiati su e giù dalle onde che fanno risacca, che vorrebbero ma non possono venire a riva. In una grande grotta a forma di garganta (=ugola) ci sono in una spiaggia in fondo al buio, e non si vedono, grossi leoni maschi che gridano, e si crea un rimbombo con un effetto sonoro incredibile.

Ma c’è un altro motivo per cui le isole sono interessanti. Gli uccelli vengono qui a nidificare, e lasciano una gran quantità di guano. E’ un po’ penoso vedere il lavoro della raccolta del guano, di cui questo piccolo arcipelago è un grande fornitore (nel 2003, meno del solito, ne son state raccolte “solo” 12.000 tonnellate annue!). Contiene nitrati, e tutti quei minerali che stimolano lo sviluppo dei vegetali, quindi (se opportunamente diluito, se no brucia tutto), è un formidabile fertilizzante.

Eccitatissimi tutti facciamo uno sproposito di foto a raffica. Dopo due ore siamo di ritorno, e sul giornale leggiamo che proprio ieri mattina si era fatto de repente mare mosso, e sono caduti in mare una trentina di turisti che erano su queste lancie ! All’inizio del nostro viaggio ci fu un simile incidente all’arrivo all’areoporto di Lima, per cui a causa di un forte vento improvviso a raffiche e di vuoti d’aria, circa una cinquantina di passeggeri di un aereo che stava atterrando risultarono sheckerati nell’abitacolo dell’aereo e rimasero un po’ feriti.

Andiamo con l’auto in città, a Pisco, per spedire qualche cartolina dall’ufficio postale non facile da trovare, gironzoliamo qua e là per le vie pedonali molto affollate e calde, cerco inutilmente di cambiare degli €uro chiedendo praticamente in ogni banca, e infine, come mi suggerisce il cassiere del Banco de la Naciòn, me li cambia una signora che sta davanti all’entrata aspettando proprio queste richieste.

Poi torniamo e andiamo nella Reserva Natural che comprende tutta la penisola e la costa a sud, tutta l’area di interesse archeologico, e naturalistico. Sono sentieri di terra malmessi, e pian piano li percorriamo guardando il magnifico spettacolo del cosiddetto deserto ambrato. Qui gli antichi paracas seppellivano in buche (huecos)i loro morti che si sono come raggrinziti e incartapecoriti, e si sono conservati sin’ora piuttosto bene. Le donne hanno mantenuto perfettamente i loro capelli lunghi due metri (si dice che dopo la morte siano anche cresciuti un po’), e gli abiti ottimamente conservati hanno permesso di conoscere questa straordinaria capacità tecnica dei paracas nell’arte tessile. Tra il 1925 e il ‘27 vennero alla luce centinaia di tessuti stupendi per i colori e per i complicatissimi decori, difficilissimi da realizzare, con disegni minuti di differenti sagome e colori. Sono tra i più raffinati tessuti pre-incaici: ce ne sono qui al museino, a Ica, e poi a Lima.

Procedendo per una pista tutta buche per cinque lunghi kilometri, giungiamo dall’altra parte dell’istmo, a Lagunillas.

Il doppio golfetto ben riparato dal vento, con le barche dei pescatori, tre-quattro casette con le trattorie di pesce, sulla bella spiaggetta. E’ incantevole. Anche qui ci avevano visto arrivare sin da lontano, e ci sono venuti incontro seguendoci poi di fianco all’auto, di corsa, per reclamizzare il loro ristorantino, poveretti, per forza andremo in uno e gli altri avranno corso tanto per niente... Andiamo, se mi ricordo bene, da Tìa Pily. Mangiamo un enorme lenguado a la plancha in due (sogliola alla griglia). Poi Ben si ferma sotto il pergolato a guardare il panorama e disegna. Io vado in cima alla collinetta, piena di gaviotas, e di quelli con la punta del becco rossa, che scappano via via che avanzo. Dai due miradores sulle due punte, si gode di una vista amplissima stupenda. Anche Ben viene su e stiamo con l’aria fresca in faccia, anzi dopo poco è un vento che soffia forte a raffiche, guardiamo i grossi uccelli che si divertono a star quasi fermi nell’aria per lunghi istanti, e intanto loro guardano noi, prima di cabrare come in certi cartoni in cui gli uccelli diventano aerei da caccia, e scomparire velocissimi a ali quasi ferme. Dev’essere un gioco bellissimo da fare! Sugli scogli di fronte ci sono varie aves e alcuni pinguinini di humboldt. Poi scendiamo per andare a vedere i pescatori che scaricano grossi granchi, di cui uno furbo o fortunato, se la svigna di lato e...ricade in acqua. Si sta proprio magnificamente bene qui, oltretutto come al solito non c’è quasi nessuno. Qui ci si gode la vista, tutto è spettacolo. Questo è un vero e proprio puerto escondido alla Salvadores.

Ritorniamo a sobbalzi nel deserto sfumato di color ocra, e vediamo nella piccola insenatura con una salina, alcuni fennicotteri rosa (o sono quei pariguana “della bandiera”?). Poi grandi gallinazos, come si dice qua, (falchi?) ad ali spiegate volare alti in cerca di cibo.

Ed eccoci di nuovo nel paesino del Chaco al restaurante sulla Marina, a chiacchierare con Isabel. Ci racconta che lei tiene un quaderno con gli appunti di quel che gli hanno detto certi clienti stranieri sui loro paesi o città. Così poi quando c’è qualcuno dello stesso paese, lo rilegge e fa vedere che lei sa delle cose, e poi lo aggiorna con aggiunte. Le piace sentire cose di altri paesi. Suo figlio che ha 15 anni è fanatico di Internet e le chiede sempre soldi per andare a un internet-point. Poi ha una collezione di cartoline da tutto il mondo, ci chede di mandargliene una da Venezia. Ceniamo con filetto di pesce chita a la plancha, molto buono, e yucca fritta, che sembra un po’ una patatina fritta a bastoncino tipo french fries, ma invece è un po’ più dolce e gialla e soprattutto è fibrosa. Buona.

Intanto nel buio arrivano pullman di gente che viene qui per pregare e cantare in un hangar con su un telone di plastica azzurra, costruito qui di fianco sulla spiaggia con un grande crocefisso semisdraiato, di quelli con la scaletta. Sì ne avevo già notati, hanno tra il braccio sinistro e la testa una scaletta messa di traverso a fare un triangolo. E poi il volto di Cristo è protetto sotto una teca di plastica o vetro. Isabel ci dice che solo alla domenica la messa si svolge in chiesa. Mi avvicino, li guardo mentre il curato fa la predica, e poi mentre cantano.

Torno al tavolo, Ben offre a Isabel una sigaretta, le chiedo, ma non l’ho mai vista fumare, dice che ha accettato solo “porqué no puedo despreciarla”. Beviamo un Pisco Sour, il pisco è una acquavite molto alcoholica con cui si fa questo coctail, e Beniamino dice che questo è migliore degli altri che aveva assaggiato. Isabel dice che intanto qui a Pisco il pisco è della migliore qualità, e poi lo sanno fare meglio, il frullato è fatto bene col bianco d’uovo che diventa denso, così la pajilla (la cannuccia) può stare ben ferma in piedi. Dunque il pisco si prepara mettendo un bicchiere nel freezer, poi riempiendolo sino all’orlo. Quella è la quantità che va nel frullatore; poi ci si mettono due chiare d’uovo, un cucchiaino di jarabe de cola (uno sciroppo molto denso che fa da agglutinante), due limes spremuti (è quel limoncino verde acidulo), si frulla, e infine si aggiunge una spolveratina di tabasco (che è a base di piccoli peperoncini rossi molto piccanti).

Torniamo al nostro albergo, Hostal Chorita, che è una conchiglia.

 

27 de avrìl

Facciamo una sosta nella cittadina di Chicha in una grande cantina di una azienda produttrice di vini, che ha sede in un vasto edificio coloniale. Poi andiamo a vedere le bancarelle che vendono dolcetti e il “vino” di fichi (de higos). Ora stiamo attraversando di nuovo il deserto, ma questo è un deserto di dune di sabbia, che pure ha i suoi pueblados di frasche, c’è la bruma dell’oceano assieme alla evaporazione della sabbia umida. Due grandi uccelli con ampia apertura alare pattugliano il territorio. Sfrecciano TIR con rimorchio e trucks.

Leggo i cartelli: uno parla di Fundo Agropecuario, un’altro dice “Avicola Sur”, riferendosi alla proprietà e all’utilizzo dei terreni. Al lado de la carretera ci sono ampi spazi pieni di basura abbandonata all’aperto. Un altro cartello riferito ad un’ampia zona di nulla recintata, dice: “Propriedad de la Comunidad Campesina de Chilca” (???).

Poi inizia la stretta fascia costiera coltivata a cotone, e a mais. Paesini e cittadine di uno squallore e una miseria disperata. In questa zona si vedono i pochi neri peruani, discendenti dei pochi africani che furono trapiantati qua dagli spagnoli appunto per le coltivazioni di cotone.

Da qui a Lima la panamericana è come una autostrada delle nostre per circa 150 kilometri. Solo verso quasi la fine usciamo dalla area desertica. Il nostro ultimissimo sito archeologico che vogliamo visitare è quasi alle porte della capitale, in un paese che si chiama Lurìn, dove ci fermiamo a mangiare in un bel ristorante. Qui c’è un cartello appeso al muro, che dice:

“Señor Jesucristo

Béndice con tu poder èste negocio

lleno de justicia y sabidurìa a su

propretario, que todo lo que aquì se venda

sea para la honra de Diòs y beneficio de la familia.

Deposito en tus benditas manos

el èxito y posibilidad de èste negocio

porqué asì (....................ecc.).

Señor béndice èste negocio y protege

de la envidia, egoismo y las malas

influencias y permitenos verlo

lleno de prosperidad y abundancia.”

Il posto è moderno, con un bel giardino, e decidiamo di non stare a farci più scrupoli, oramai il viaggio è al termine e stiamo tutti bene di salute. Dunque mangiamo un bel piattone di camarones fritos. La pastella fritta ricopre tutto, i gamberi sono interi, ciè con il guscio; ci dicono che sono croccanti e buoni da mangiare così tutti interi. Contorno di yucca fritta. E poi per bere ordiniamo finalmente la chicha morada, si prende la pannocchia abbrustolita (morada) e la si lascia in acqua che disperda il suo succo, poi si aggiunge lime y azùcar; non è alcolica perchè non è fermentata, la si beve ghiacciata quando fa caldo, se toma como refresco. Invece la chicha de joray (=una radice) è alcoholica, es de maìs blanco, se hace hervir, se reposa dos-tres dias para qué fermenta, es algo parecido como cerveza, muy fuerte.

La zarza criolla, che è una specie di insalata russa; la caneja, cioè mais tostato con sale; assaggiamo el camote frito: es como papa màs grande, amarilla y dulce, è come una grande patata gialla dolce fritta, si mette ad es. in un sandwich con fette di chancho; mote, è la stessa cosa ma bollita y sale màs baratito que la papa, si mangia assieme al ceviche. Lino non mangia nulla di tutto ciò, assaggia solo un po’ di camote frito avanzato “porqué no puedo despreciarla” (la seconda volta che sentiamo questa frase di convenienza in poco tempo).

Poi usciamo, c’è un cartello: “Estamos trabajando para erradicar la fiebre aftosa del Paìs”,  e ci avviamo verso le rovine archeologiche.

Si tratta di un sito Wari del 650, poi assorbito dalla cultura costiera Ishmay, sino al 1450 quando fu annesso dagli Incas. Si chiama Pachacàmac, dal grande tempio maggiore a piramide in onore del Creatore supremo, questo il significato del termine. C’è un bel museino. E’ una vasta città fatta con mattoni di fango. Salire in cima alla piramide è affascinante, si domina un vasto territorio di pianura costiera diritta, stupenda vista sull’oceano dai sedili sacerdotali che ci sono in cima. In un palazzo ancora ci sono resti delle pareti rosse con disegni giallini di animali (o di simboli di divinità). Ancora Hernando Pizarro fu ospite in un palazzo di fianco a questo, Tauri Chumpi, sede del curaca, il governatore, e già nel 1596 un cronista spagnolo ne parla al passato, come di una città completamente abbandonata in rovina, distrutta, sui cui templi egli fa solo supposizioni...! Bella e suggestiva la vastità del grande Acllahuasi, Palacio de las Mamacunas (o mujeres escogidas), o Palazzo delle Sorelle del Sole, che forse è conservato molto meglio di tutto il resto perchè è tardo, è stato costruito dagli Incas, e con uso di pietre, ma è stato un po’ troppo restaurato e in varie parti ricostruito. Al bar del museo, c’è un cane stranissimo, grigio a pelo corto, magro, che è di una razza proprio autoctona peruana.

Oramai siamo entrati nella sterminata periferia di Lima, con casupole frammiste a baracche. Attraversiamo i vari borghi che la compongono, passando per zone moderne, e ritorniamo a Miraflores nello stesso hotel. Paghiamo Lino, e ci salutiamo cordialmente con grandi abbracci.

Ci scambiamo posto letto in camera perchè non sembri tutto uguale a prima, quasi non fosse passato tutto questo ricco e intensissimo intervallo di tempo di due settimane....

Passeggiamo sul lungo mare, e andiamo a Larco Mar al centro commerciale di fronte al Marriott’s, dove compriamo gli ultimi souvenirs al bellissimo negozio di artigianato dove c’è una favolosa svendita. Poi ceniamo. Il pranzo a Lurìn però è stato pesantissimo e micidiale per la digestione, quindi stiamo molto leggeri e poi in camera utilizziamo finalmente le medicine che ci eravamo portati, prendendoci un digestivo in pillole.

Ripensiamo alle belle giornate passate e cerchiamo una soluzione per far stare tutte le cose che abbiamo comperato, dentro alle valige.

 

mercoledì 28

Ci sentiamo con Angel e con Héctor. Andiamo al Museo di Antropologia, che è semplicemente favoloso e molto ben fatto, peccato che come al solito non ci sia una guida del museo, un catalogo, un opuscolo, addirittura manca una cartolina di quello che è il pezzo più famoso, che costituisce l’attrazione, e che è giustamente posto proprio nell’entrata, in vista di chi sta pensando se vale o no la pena di comprare il biglietto, cioè la “Stele Raimondi”, scoperta a Chavìn dall’archeologo italiano. Come pure manca una cartolina o un dépliant della sala del sito archeologico principale dei Chimù, con il suo Totem, e che qui è posta all’interno di una serie di gigantografie a parete dell’intorno con effetto suggestivo. Comunque il Museo è veramente ricco e stimolante, e vederlo dopo un giro per il Paese è la cosa migliore. Dietro all’edificio c’è una parte con uffici di istituti di ricerca, certo ciò fu concepito e voluto così nel 1945 dal grande archeologo e antropologo peruano JulioTello. Mi rendo conto di quanto sono ignorante di storia del sudamerica e delle sue straordinarie civiltà, e penso al nulla totale che ne sanno gli studenti universitari che abbiamo alla Facoltà di Lettere, e mi fa molto dispiacere.

Qui si vede bene come i Re Sole, Inca o Inka, che dal Cuzco unificarono le Quattro Parti del Mondo, Tawantinsuyo, sotto il loro imperio, sono solo l’ultima e più breve espressione storica delle civiltà sudamericane. Soggiogarono i Chimù per impossessarsi dei loro segreti di oreficeria, e di varie arti, sovrapposero i loro templi e palazzi a quelli precedenti Wari o Mochica, o altri. E così fecero del Cuzco l’ombelico del mondo, quando la chaqàna, la “croce” andina aveva già da secoli al centro un foro, simbolo del centro cosmico, del centro magnetico della terra, dell’ombelico, del punto di equilibrio, o punto centrale. Già si erano sviluppate tecnologie, di cui si appropriarono, sapendole unificare alle proprie e tra loro, come quella di indirizzare con canali le acque sotterranee, o di terrazzare le coltivazioni, o quella di costruire sovrapponendo pesanti massi perfettamente incastrati a secco tra loro e poi lisciati. Ma anche assumendo i simboli delle altre culture soggette. Ben illustrate in queste sale le stratificazioni sociali, le conoscenze scientifiche e tecniche, le attività economiche e la loro organizzazione, i vari sistemi di pensiero e di credenze.

Che bellezza strana e affascinante ha la Stele Raimondi! Che è quasi del tutto occupata dall’illustrazione enfatizzata del copricapo di un piccolo omino-sentinella; si fatica ad adattare l’occhio e abituarsi a quella rappresenta-zione. Aiuta molto a focalizzare ciò che è raffigurato con questo stile inusitato, il bel disegno che un archeologo tedesco fece per mostrare come sarebbe il personaggio se fosse visto di lato anzichè frontalmente, e questo spiazzamento di prospettiva è sufficiente per imparare a guardare e decifrare l’incisione sulla stele.

Impressionanti le mummie Paracas con i loro capelli di due metri, e soprattutto i tessuti, che presuppongono, oltre ad un raffinato gusto estetico, una alta capacità tecnica per riuscire a raggiungere quei risultati pur con un telaio e strumenti molto semplici.

Queste antiche, come quelle delle popolazioni attuali delle montagne, sono culture legate alla Natura. Nella loro logica, una cosa che non conosci e non capisci, la puoi intendere se la compari a quell’altra che già ti è nota e che già hai decifrato o interpretato. La similitudine che può emergere da un approccio comparatista, instaura un legame, che connette le cose tra loro, che fa entrare nella rete conoscitiva ed esplicativa anche il nuovo. Permette di cominciare a partire da un nucleo, a classificare e tipizzare. L’oracolo traeva gli auspici da vari segni, poichè il concetto di base è che tutto è interconnesso.

Mentre noi razionalisti tendiamo a dire, no questo non c’entra, le varie cose, gli eventi, sono connessi solo con la rete di ciò che ha a che vedere l’un con l’altro, e soprattutto con ciò che è legato da un passaggio di causa / effetto. Siamo noi che stabiliamo a priori cosa sia connesso e connettibile, mentre loro non sapendo, modestamente non giudicano, non discernono, non scindono, e danno tutto per interconnesso.  Quindi dai granelli di polvere nell’aria, dai residui di sabbia nell’acqua, dalle viscere degli uccelli del cielo, dalle voci del vento, dalla disposizione dei resti del fuoco, possono sentirsi legittimati  a dedurre delle concomitanze, e delle spiegazioni quindi, dell’andamento del mondo vivo in quel preciso frangente.

Bisognerà visitare le altre parti di questo grande Paese. Grande è l’interesse antropologico, folklorico, storico, oltre che naturalistico di questo grande Perù.

Fuori per fortuna c’è un negozio di una signora anziana con la sua gentile figlia un po’ “ritardata”, che vende più a buon prezzo le stesse poche cose del negozio del museo, e tante, troppe, altre belle cose. E ci sono finalmente anche dei libri, degli opuscoli su vari siti archeologici !

Ci incontriamo con Héctor in quel ristorante buffet vicino all’ovalo stradale, dove eravamo già stati, “Aromas Peruanos” . Las chicas mi (ci) riconoscono, e sono cordiali. Mangiamo bene, ma mi sarei dovuto tenere più leggerino, perchè purtroppo sono ancora un po’ disturbato di stomaco.

Poi passeggiamo per la zona dei grattacieli delle grandi società multinazio-nali e delle banche mondiali, e del Potere Finanziario Globale.

L’autostrada urbana qui ha 12 corsie, e sottopassi veloci, con un flusso di traffico continuo e intenso.

Fa caldo, il sole è caliente appena il cielo si va despejando, e poi fa de repente freddino per l’umidità che si sente appena il cielo diviene nublado, per effetto del vento fresco che viene dall’oceano. Cambiamenti continui. Ci fermiamo in un bar a chiacchierare. Angel e Héctor parlano di una concessione per lo sfruttamento di un’area ricca di sabbia aurifera che Héctor ha individuato in uno dei suoi viaggi di lavoro all’interno. Ha preso la concessione per sei mesi, ma ora necessiterebbero capitali, se noi volessimo potremmo metterci tremila €uro a testa, e sarebbe sufficente per affittare i macchinari e pagare la manodopera per il tempo che grossomodo dovrebbe bastare per estrarre un chilo d’oro, dopodiché sarebbe sempre tutto di guadagnato. E’ veramente sorprendente per noi pensare come qui abbiano recursos naturales, lavoro a buon mercato, ma non abbiano fundos (capitali a disposizione), equipos, attrezzature adeguate, tecnologie aggiornate... (e però nemmeno intralci giuridici...). Mentre da noi è l’inverso; per questo ci risulta difficile crederci. Chi ha spirito imprenditoriale e d’azzardo, come sembra l’abbiano molti nordamericani, viene qui e si porta via tutto, mentre il ceto dirigente di qui si gode i frutti monetari delle percentuali, con cui può vivere strabenissimo, visto il basso costo della vita se calcolato in dollari.

Alla sera con Angel andiamo a un ristorante argentino, dove mangiamo un cuadrìl, cioè un gran pezzo di manzo da mezzo kilo ! a testa, tenerissimo, magrissimo, alto, saporito. Straordinario. Più “liscio” e nutriente di così...

Poi andiamo nella bella piazza Haiti, in un bel bar all’aperto, per il solito mate de coca. C’è arietta fresca, passeggio di graziose signorine, una bella piazza molto ampia, ben illuminata,con tanto verde. C’è pure un mercatino dove trovo da prendere gli ultimissimi acquisti. Giriamo in una zona piena di bar, ambiente simpatico, giovanile, musica.

 

29 aprile

Non mi sento bene. Passo tutto il giorno in camera. Ben e Angel escono. Sto male. Mi è di grande aiuto e conforto e assistenza Soledad, la giovane direttrice dei servizi alberghieri, è lei che me cuida con solicitud y cariño.

 

venerdì 30 aprile 2004

Partiamo, attraversiamo di nuovo tutta Lima. Bei quartieri con casette di una volta a un solo piano, bei giardinetti. C’è un bel paséo in mezzo ai grandi vialoni alberati, con panchine e fiori. Molte delle ville più grandi e belle sono ora ambasciate. E’ il borgo, la Municipalidad, detta Magdalena. Ad ogni cambio di municipalità cambia anche l’atmosfera complessiva. Sempre autostrade urbane con 8 o 10 corsie, giardini, verde in mezzo. Zone commerciali, parchi, zone popolari, zone moderne, zone caos-sporcizia-puzza. eccoci all’areoporto. Arriveremo a Bologna domani 1° maggio alle ore 23.

Fine (per ora).

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appunti generali

la Repubblica del Perù si estende su un milione e trecentomila kmq (l’Italia 300.000), e conta 26 milioni di abitanti registrando un forte incremento, dell’1,7% annuo (Italia 0,2), dato un tasso di natalità del 28 x1000 (Italia 9) e una media di 3,2 figli per donna. E’ tuttavia all’82° posto nel mondo per gli indicatori sociali, avendo un dieci per cento di analfabeti (ma è del 18% tra le donne), 1,8 posti letto in ospedale ogni mille abitanti (Italia 5), e un apporto medio di 2500 calorie al giorno per abitante (Italia 3680), la mortalità infantile registra un tasso tra il 1° e il 5° a. di vita di 39-40 (Italia 4,3 - 6), e quella materna per parto di 270 x1000 (Italia 7), ma è il doppio nelle campagne; la disoccupazione è sull’ 8%, ed il suo prodotto nazionale lordo pro capite non raggiunge i duemila dollari (Italia 20400).

 

FLORA (ricchissima e variatissima)

Sulla Costa spesso la vegetazione è scarsa, o limitata a una stretta fascia di terreno, ed è costituita da macchie e cespugli. Predomina nel sud per migliaia di kilometri quadrati un territorio arido se non desertico con -lungo la zona rivierasca- il cosiddetto clima desertoceanico caratterizzato da brume e nebbie, data la corrente fredda di Humboldt nelle acque costiere, che depositano sulla superfice terrestre la garùa, la rugiada mattutina.

Lungo i fiumi invece è più ricca e ci si addentra seguendo i fondovalle verso la montagna. Moltissimi fiori di vari tipi, dimensioni, colori. Vi sono libri che riportano fotografie dei più diversi fiori presenti per pagine e pagine.

Anche qui però sono molte le aree sassose o spoglie con alcune piante e fiori, erbe a ciuffi e cespugli aromatici. Inoltre acacie a boschetti, eucaliptus qua e là. Nelle parti aride vari tipi di cactus di diverse forme e dimensioni. Invece nelle zone più basse e calde delle vallate, ci sono palme da banane, canneti, e vegetazione intricata e fitta.

Sulla Sierra grandi presenze di piante grasse, piante tuberose. Nella cordigliera occidentale (Blanca) verso i 3000 metri vi è una vegetazione di tipo alpino, oppure più in alto una rada vegetazione (la jalca) tipo steppa con cespugli duri. Alberi di sambuco.

Sui vastissimi altopiani, la puna, con una graminacea detta paja. Nella cordigliera centrale e in quella orientale (Negra) ci sono piante che forniscono le fibre per la paglia da intrecciare, cosiddetta “panama”, la coca con le sue ampie foglie, la chinchona  che fornisce utili cortecce. Eucalipti, palissandro, cedri. Nei più elevati altopiani, sterminati, ci sono solo muschi e licheni.

 

FAUNA (ricchissima e variatissima)

Volatili - Sulla Costa si vedono cormorani, pellicani, gabbiani, polli, uccellini colorati e pappagallini nelle macchie verdi. Sulla costa meridionale e sulle isole, vi sono anche leoni marini, trichechi, piccoli pinguini, procellarie, fennicotteri.

Lungo le vallate in cui scorrono i fiumi, aumenta  la presenza di polli, tacchini, papere, oche, uccelli colorati e pappagallini, libellule e farfalle, nonchè mosquitos e zancudos (varietà di zanzare); si aggiunge nelle parti più alte e fresche il falco, il gallinazo, e vari pajaros grandi. Sulla Sierra si trovano anche grandi fennicotteri, aquilotti e aquile, e in alto il condor.

Animali di terra - Lungo la fascia costiera ci sono asini, buoi e vacche, maiali (quelli pelosi neri o marroni detti chanchos), pecore, nei boschi ci sono cavalli. Sulla cordigliera ci sono anche tori, agnelli, capre e caproni, marmotte, sugli altopiani della sierra si trovano il llama, l’alpaca, e in alto il guanaco, la vicuña. Presso i nevados la vizcaccha, il chinchilla. In certe zone più selvagge e spopolate c’è il puma, nella selva il giaguaro, tapiri, armadilli, formichieri. Un po’ ovunque si possono trovare vipere, bisce, serpenti, e ragni di varie razze e dimensioni.

 

AGRICOLTURA

Circa l’uno e mezzo per cento del territorio peruviano è adibito a coltura, un terzo di esso si trova lungo la costa. Qui si trovano coltivazioni di cotone, canna da zucchero, riso, e altro. Lungo le vallate vi sono piantagioni di banane o di palme da dattero, ananas, palme da olio come la aguaje, e caffé, nelle zone caldo-umide; oppure agrumi, coca, o vigneti nelle valli più temperate. Inoltre piante da frutta, come i fichi, le albicocche, le pesche, papaie e manghi e altro, e fagioli, manioca e yucca. Sulla sierra patate, maìs, coltivazioni di anice, liquerizia, grano, orzo, quinoa, ma anche cacao.  Nelle zone montagnose più elevate e sugli altopiani si coltivano erbe medicinali o curative, come la kiwicha, la maca, e la chinchona (da cui si estrae il chinino). Tra la produzione di legname vi è il cedro, il mogano e il cetico nei territori forestali a clima equatoriale di tipo pluviale.

 

RECURSOS NATURALES, cioè le risorse minararie

Sono moltissime e ancora da valorizzare. Si va dall’oro all’argento, al ferro, piombo, rame, zinco, al petrolio, al metano, ai fosfati. E’ ancora in corso la identificazione di giacimenti, e non è facile poi comunque la loro valorizzazione e il loro sfruttamento e conseguente lavorazione, distrubu-zione e infine commercializzazione. E’ dunque ancora in atto una corsa selvaggia ad appropriarsi di tali immense ricchezze naturali di questo sterminato e variato paese che è ancora privo delle necessarie infrastrutture per le cominicazioni, per il rifornimento di energia elettrica, nonchè privo di tecnologie, professionalità specifiche, attrezzature, e infine finanziamenti. Si sta intanto completando la sua conoscenza con carte tratte da foto satellitari, e con la prospezione di vaste aree. Inoltre la scarsa diffusione e densità della popolazione rende il lavoro di valorizzazione ancora più difficoltoso.

Lungo la costa e sulle isole è abbondantissima la presenza di guano prezioso per l’agricoltura e l’industria chimica. Grandi le prospettive per l’industria peschiera e ittica nelle acque dell’oceano pacifico. Immensa la potenzialità della selva amazzonica per i suoi fiori, cortecce e legname, nonchè per lo sconosciuto sottosuolo.

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Carlo Pancera

carlo.pancera@unife.it

 

 

 

 

 

 

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