Mozambico
La Luna Orizzontale
Diario di un viaggio in Mozambico dal 4 al 22 maggio 2010
di Renata Ponzè
Essere nel Sud del mondo
abituarsi ad una nuova posizione delle stelle,
ad una Luna che riposa orizzontale
nel buio
Partiamo dall’Italia per il Mozambico all’alba del 3 maggio 2010, accarezzati da una luce primaverile che ci fa venire il buon umore e ci illumina gli occhi di euforia. Partiamo pieni di aspettative, quasi con un’immagine idealizzata del Paese che andiamo a visitare. Mi aspetto una delusione, perché quando si parte così carichi di immagini e racconti e miti… il confronto con la realtà è spesso deludente. Questo non é successo: per tutta la nostra permanenza in terra mozambicana curiosità, stupore e gioia non ci hanno mai abbandonato,neanche nei momenti di difficoltà o di stanchezza.
Il nostro itinerario prevede una tappa al Kruger, in Sud Africa, per poi risalire in macchina lungo la costa mozambicana da Maputo fino a Quilimane e da lì raggiungere un villaggio in Zambesia, dove saremo ospitati dalla famiglia di Gil, il nostro amico mozambicano (che fa anche l’accompagnatore turistico) e che sarà con noi per tutta la durata del nostro soggiorno in Africa.
Le principali tappe del nostro viaggio sono: Maputo, Kruger Park, Bilene, Vilankulos, Beira, Quelimane, Zambesia, Ilha de Mozambique e ritorno.
Maputo
Arriviamo a Maputo alle sei del mattino del 4 maggio. L’aeroporto è piccolo con le rifiniture in legno, l’atmosfera molto familiare. Gil viene a prenderci in macchina e, una volta sbrigate le formalità del rilascio del visto e del cambio valuta, ci addentriamo nelle strade della capitale.
La città alle sette del mattino è già un’euforia di luminosità e colore: il cielo è terso, l’aria è pulita, le strade (subito sterrate appena ci allontaniamo dal centro) sono popolate da donne e bambini che indossano abiti sgargianti. Tutto è in fermento: i bimbi e i ragazzi vanno a scuola in grandi gruppi, accompagnati da un vociare festoso. Siamo in macchina, diretti verso la casa che Gil ha trovato per noi a Maputo, e guardando questa realtà dal finestrino mi viene un senso di benessere e contentezza. Per la prima volta sperimento la gioia di essere in Africa.
Maputo è intensa e dalle tinte vivide; l’abbiamo visitata velocemente nelle sue parti centrali, andando al mercato della frutta, al mercato del pesce e a quello dell’artigianato. Bellissimo il lungo mare, caratterizzato de mille bancarelle che appendono capulane (teli tipici delle donne mozambicane) e vestiti sgargianti proprio davanti alla spiaggia, con un meraviglioso effetto cromatico. Gli occhi non si stancano mai di assorbire e assaporare tante gradazioni di colore e il vento leggero della costa non fa che amplificare questa meravigliosa sensazione di libertà che abbiamo cominciato a sentire sulla pelle fin dal momento del nostro atterraggio in Mozambico.
Inoltre, grazie a Gil, abbiamo potuto assistere e partecipare ad una lezione di Afrodanza, con tanti percussionisti ballerini: ci siamo molto divertititi, anche se non siamo riusciti a tenere bene il ritmo e a seguire i difficili passi proposti! Per molte cose, in tutto il viaggio, è stata determinante la compagnia di Gil. Lui ci ha permesso di entrare facilmente in contatto con la gente e di fare le cose con loro, nella loro quotidianità. Non abbiamo vissuto delle esperienze pensate o preconfezionate per il turista.
Kruger Park
Dopo due giorni trascorsi a Maputo partiamo alla volta del Sud Africa, per visitare il Kruger Park.
Gil ha affittato un comodo fuoristrada ad un prezzo vantaggioso, che si è dimostrato abbastanza affidabile per tutta la durata della permanenza in Sud Africa (il che non è così scontato …).
Siamo entrati al Kruger Park attraverso Malelane Gate (l’entrata di Crocodile Bridge era chiusa a causa dello straripamento del fiume) per poi proseguire al Main Camp di Lower Sabie, dove abbiamo prenotato telefonicamente un bungalow da 4 persone. All’interno del parco la velocità massima consentita è di 50 all’ora e spesso devi andare ancora più piano perché per la strada è facile imbattersi negli animali. Da Malelane a Lower Sabie abbiamo impiegato oltre tre ore e mezza.
Per la permanenza al Kruger ci siamo organizzati in autonomia tenendo come punto di riferimento il sito ufficiale: http://www.sanparks.org/parks/kruger/ e chiamando direttamente da Maputo per riservare il bungalow.
Il parco è molto ben organizzato e abbiamo usufruito di tutti i servizi di ristorazione e organizzazione dei safari.
In realtà abbiamo visto e fotografato la maggior parte degli animali andando da soli in giro per il parco, ovviamente sempre dentro il fuoristrada. Nei nostri percorsi abbiamo incontrato elefanti (imponenti e permalosi), iene (non così brutte come pensavo e veramente sorridenti, specialmente i cuccioli), giraffe (tante, curiose e con uno sguardo penetrante), impala (eleganti e affusolati), facoceri (buffi da morire, soprattutto quando corrono), ippopotami (che dire…), zebre (incantevoli e perfette nella loro estatica geometria) e uccelli dei più diversi, dalla civetta agli avvoltoi. Ma l’incontro più divertente è stato quello con le scimmie: poter ammirare l’infinita tenerezza con cui si spulciano a vicenda o la scherzosa vitalità con cui giocano e s’inseguono… è stato emozionante davvero.
Nei tre giorni che siamo rimasti al Kruger abbiamo fatto un safari notturno e uno all’alba. Grazie ai ranger, che si comunicano in tempo reale gli avvistamenti dei felini, abbiamo potuto ammirare un leopardo, che, con passo molle ed elegante, si è concesso alle nostre macchine fotografiche per più di dieci minuti.
Il Kruger regala un’energia pazzesca: è rigenerante anche solo rimanere seduti su una delle panchine che si affacciano sul fiume Cocodrile e ammirare, con il cannocchiale, la vita degli ippopotami e dei coccodrilli, sentire i rumori della natura e assaporare tutte le gradazioni degli imponenti tramonti o del buio stellato.
È stata una gita molto intensa ma, per certi versi, tutta l’organizzazione perfetta e un po’ occidentale del parco ci stava allontanando dalle atmosfere africane.
Così ci siamo rimessi in macchina per Maputo e, il giorno dopo, siamo ripartiti per Bilene.
Bilene
Bilene è una località di mare a circa 150 chilometri da Maputo. Per raggiungerla abbiamo preso il chapas, che è un pullmino da circa 30 posti, dove si viaggia abbastanza stretti e stipati, vista la densità di persone e cose che si può raggiungere al suo interno. Ma, forse a causa di questa distanza ravvicinata, è molto più facile fare amicizia e parlare con la gente, che in Mozambico è veramente socievole e sempre sorridente. Prima della partenza, alla stazione dei pullman e dei chapas, ci volevano vendere di tutto, dall’acqua ai vestiti alle schede telefoniche. Ma i venditori non sono insistenti e tutta la confusione e il rumore che c’è prima delle partenze è tipica di questi posti, ed è una cosa che poi ti manca.
Bilene è un posto incantevole, con una spiaggia bianca e setosa, una laguna di acqua trasparente delimitata da una lingua di spiaggia bianca oltre la quale si stende, maestoso, l’Oceano Indiano. La spiaggia è pressoché deserta, così trascorriamo la giornata accompagnati dal lento ritmo delle onde, dai granchi che corrono trasversali nella battigia e dalle tartarughe che fanno capriole tra le onde. L’immensa spiaggia è tutta a nostra disposizione, possiamo fare ciò che ci pare, correre a perdifiato o sperimentare l’eco in tutte le sue tonalità o, semplicemente, rilassarci al sole nel silenzio calmo di un Paese che non ha mai fretta.
La sera chiediamo a delle signore di cucinarci il pesce che abbiamo comprato al mercato. Gil ha contrattato le condizioni sia dell’acquisto del pesce che del servizio “al tavolo”. Le ricette di queste donne si rivelano irresistibili. Mangiamo degli ottimi gamberoni con salsa di aglio e limone, e calamari e pesce arrosto; il tutto accompagnato da una fresca Laurentina Preta, una gustosa birra locale di cui ancora sentiamo la mancanza. Alla fine della cena le nostre cuoche ci abbracciano piene di gratitudine per aver mangiato da loro. In realtà siamo noi molto più contenti di loro, sia per l’ottima cucina che per il loro autentico affetto….
A Bilene abbiamo dormito al residence Palmeira, che ha delle casitas (con bagno) abbastanza pulite e curate che danno proprio sulla spiaggia. (http://complexopalmeiras.blogspot.com/).
Prima di andare a dormire ci siamo soffermati ancora un pò sulla spiaggia ad ammirare la volta stellata e a nutrirci di un buio sconfinato e solenne.
Vilankulo
Proseguiamo il nostro viaggio per Vilankulo, una località turistica sempre sulla costa dalla quale si può arrivare all’arcipelago delle Isole Bazaruto, famose per la barriera corallina e per i colori fantastici del mare.
Purtroppo, a causa del nostro fitto programma di viaggio per raggiungere quanto prima il villaggio in Zambesia, non possiamo permetterci di fare la gita alle Isole dell’arcipelago di Bazaruto. Ci siamo ripromessi, dunque, di tornarci a breve.
Pernottiamo da Josef e Tina (http://www.mozambiqueaccommodation.co.za/complexo-turistico-josef-e-tina.html), in un bel bungalow da quattro posti molto carino (anche se non proprio pulitissimo) e vicino alla spiaggia. Anche qui mangiamo dell’ottimo pesce cucinato per noi e abbiamo il piacere di cenare con un amico di Gil, Stephen, che volentieri ci racconta della sua vita a Vilankulo, delle difficoltà dovute alla mancanza di lavoro e della sua famiglia.
Al nostro risveglio ci facciamo un bagno prima che la marea si abbassi, scortati dai fedeli cani di Josef che ci seguono e ci proteggono per tutta la nostra permanenza in spiaggia. Quando la marea si ritira possiamo apprezzare un vivido effetto di trasparenze blu, celesti e bianche.
Nel paesino di Vilankulo vi è un vivace mercato e diversi negozi dove si può acquistare un ottimo pane e i famosi Pastais de Nata (dolci a base di crema, originari del Portogallo e riprodotti fedelmente anche qui in Mozambico). Prima di partire alla volta di Beira, infatti, facciamo scorta di cose buone e acquistiamo gonne e pantaloni tipici.
Beira e Rio Savane
A sera inoltrata arriviamo finalmente a Beira. La città ci appare subito alquanto povera e trascurata: le antiche costruzioni coloniali sono fatiscenti, e, pur mantenendo intatto il fascino e l’eleganza, danno l’impressione che la città sia come una donna ormai sfatta.
Troviamo da dormire all’Hotel Infante, che è sporco e in una posizione di traffico intenso non favorevole al riposo.
Il giorno dopo visitiamo la città, soprattutto il mercato e la spiaggia dei pescatori. Abbiamo la fortuna di arrivare in spiaggia al rientro dei pescherecci e di vivere l’atmosfera dell’allestimento della vendita del pesce. Lo spettacolo è bellissimo, vi è molta euforia e, come al solito, la gentilezza e la socievolezza dei mozambicani ci rende la visita ancora più gradevole. Volentieri fanno delle foto con noi, ci danno dei consigli su dove alloggiare, ci chiedono del nostro paese. Noi rispondiamo in un portoghese tremendo, ma tutto sommato riusciamo a capirci. Mangiamo a pranzo al Cafè Riviera, in Praca de Municipio, un cafè dove fanno ottimi Pastais de Nata e dove si può trovare del cibo di buona qualità e molta gentilezza.
La seconda notte a Beira la passiamo a Rio Savane, a 32 chilometri dalla città in un posto solitario e incantato raggiungibile solo via mare. Percorriamo i chilometri che separano Rio Savane da Beira in una strada sterrata che costeggia un paesaggio paludoso dove crescono tante mangrovie. Come al solito i colori sono incantevoli e incrociamo tante persone, soprattutto bambini e ragazzi, che viaggiano a piedi o in bicicletta e immancabilmente rimangono incuriositi al passaggio del nostro pullmino. Ci salutano sempre e vorrebbero fare delle foto o comunque stabilire un contatto. Arriviamo al resort, che in realtà è come un campeggio, che è già quasi buio. La nostra stanza è una “casita” in cemento con delle zanzariere al posto delle finestre. Non ci sono i letti. Solo dopo un po’ ci portano dei materassi. Sistemiamo la nostra piccola tana nel miglior modo possibile, con le zanzariere e le lenzuola. Io sono un po’ preoccupata per questa sistemazione a dir poco spartana. In realtà passare la notte li è stata un’esperienza meravigliosa: alle dieci di sera tutte le luci del campo sono spente e si rimane così, al buio, in balia dei rumori della notte mozambicana, del fragore delle onde dell’oceano e del verso degli uccelli notturni e di altri animali sui quali preferiamo non farci troppe domande… Rio Savane ci regala una delle esperienze più forti fino a quel momento: dopo cena ci avviamo per una passeggiata verso l’Oceano e, a mano a mano che le piccole luci del campeggio si allontanano, sembra di entrare in un mondo assolutamente selvaggio, dove si è soli e completamente immersi in una natura potentissima e misteriosa. Già durante tutto il viaggio abbiamo avuto spesso la sensazione di essere in un continente “orizzontale”, per le lunghe distese in cui l’occhio si perde e per la forma delle nuvole, disposte come un soffice soffitto, ma queste impressioni sbiadiscono davanti all’immagine del cielo stellato sopra l’oceano che ci si para davanti. Arriviamo all’Oceano in silenzio, quasi spaventati anche solo di respirare e sentiamo in noi stessi l’eco, meravigliosa e tremenda allo stesso tempo, della potenza naturale che ci circonda.
L’indomani ci sveglia il sole sul viso e ancora il soffio del vento. Ci sentiamo come Robinson Crosue, sperduti sull’Isola. Non c’è neanche bisogno di parlare, perché il silenzio e la vibrazione della natura sono abbastanza eloquenti.
Trascorriamo la mattina in spiaggia; la marea è bassa e per arrivare alla battigia ci vogliono quasi 5 minuti di cammino. La spiaggia è immensa e, come al solito, ci siamo solo noi, il mare, i granchi e delle fenomenali conchiglie. L’acqua è abbastanza calda e invitante, anche se la corrente è forte. Rimaniamo sospesi come in un sogno, e ci sentiamo come dei bambini stupiti e con tanta voglia di giocare. Ci spiace solo di avere a disposizione le poche ore della mattina, visto che nel pomeriggio dobbiamo riprendere il lungo viaggio per Quelimane.
L’indirizzo di questo posto magico dove ho passato una delle più belle giornate della mia vita è il seguente:
http://www.africastay.com/rio-savane.html
Quelimane e il Villaggio
Il nostro viaggio prosegue per Quelimane dove trascorriamo la notte prima di andare al villaggio e facciamo gli approvvigionamenti per le giornate che trascorreremo lì. Ci preoccupiamo anche di portare dei doni. Gil ci indica le cose di cui più potrebbero aver bisogno: coperte, pentole, bicchieri. Compriamo anche dell’acqua in bottiglia e un po’ di alimentari (uova, pane, biscotti e spaghetti).
La nostra macchina è ormai super carica: siamo in sette più tutti i nostri bagagli, i regali per le persone del villaggio e tutta la spesa. Sembriamo una carovana! Così lasciamo Quelimane e la civiltà e ci addentriamo nelle strade bianche della foresta tropicale, caratterizzata da enormi palmeti e zone umide. Tutto è molto verde. Passiamo per piccoli centri dove la nostra presenza viene notata con enorme curiosità Se poi ci fermiamo veniamo immediatamente circondati da persone che vogliono venderci le loro specialità: Pili Pili (peperoncino locale fortissimo) o le stuoie di canna (che acquistiamo per pochi centesimi di euro e che saranno il nostro giaciglio per le prossime notti). Più andiamo avanti e più ci prende un’euforia mista a nervosismo. Non sappiamo cosa ci aspetta, andiamo ospiti di persone che non conosciamo e delle quali non abbiamo una chiara idea di come vivano. Abbiamo solo i racconti di Gil e le foto che abbiamo visto prima di partire. Gil non torna al villaggio da tre anni, sua figlia, che abbiamo preso con noi a Beira, non ha mai avuto la possibilità di andare al villaggio e ora potrà finalmente conoscere sua nonna, i suoi zii e i suoi cugini. Saranno degli incontri emozionanti, anche perché qui in Mozambico c’è un gran senso della famiglia, che è veramente molto allargata.
Le strade si fanno sempre più strette e fangose. Per arrivare al villaggio alcuni di noi devono scendere dall’auto e andare a piedi. Siamo stati intercettati dagli abitanti con un certo anticipo e chi di noi va a piedi è guidato da un fratello di Gil che probabilmente ci ha avvistato dalle cime di un albero di cocco!
Entro nel villaggio scalza, la terra è morbida e accogliente, vi sono alberi di banano e di cocco e un sacco di capanne costruite in terra cotta, ognuna con il suo basso terrazzino delimitato dalle canne e il tetto fatto con le frasche. Il villaggio è ordinato e accogliente e veramente grande. L’arrivo del pullmino guidato da Gil è una vera e propria festa: è seguito da decine di persone, soprattutto bambini, che urlano di gioia, ridono e applaudono. Questa accoglienza allegra e chiassosa ci incanta e quasi ci commuove. Seguono le presentazioni e, anche se non riusciamo a comunicare quasi per niente (molti al villaggio non parlano il portoghese, che comunque noi parliamo malissimo), è sufficiente il linguaggio degli occhi e gli abbracci per capire che ci considerano amici e che siamo veramente ben voluti.
I bambini sono letteralmente incantati dalla nostra presenza. Sono almeno 40 e non fanno nient’altro se non guardarci. Molti ci sorridono e la loro espressione ci riempie di gioia e anche un po’ d’imbarazzo, perché crediamo d dovergli dare qualcosa, di doverli intrattenere. E invece loro non vogliono nient’altro che guardarci e poter interagire in qualche modo con noi. Riccardo tira fuori la macchina fotografica e questa diventa uno strumento di comunicazione e condivisione di emozioni: ci fotografiamo con loro e poi mostriamo la foto nella macchina ed è subito gioco. L’unico dono che abbiamo portato per loro è un pallone, ma loro non capiscono bene come vada usato, il più forte del gruppo se ne appropria e non fa giocare nessuno. Dunque la palla non rappresenta nessuna possibilità di giocare e la nostra idea di fare una partitella a calcio…svanisce velocemente. Passiamo il pomeriggio a fare foto. Andiamo a visitare le donne che preparano il cibo; una parte del villaggio è adibita a cucina comune: qui si usa il mortaio, si lavora il riso, si accende il fuoco. Le donne lavorano con i bimbi legati alla schiena, dentro la capulana. L’atmosfera che si respira è di grande serenità. Anche qui facciamo delle foto, alcune donne mi danno in braccio i loro bimbi e non c’è ansia di comunicare o il problema di come impiegare il tempo: tutto scorre fluido, le cose essenziali riusciamo a comunicarcele e si sta bene.
In serata cominciano i balli: attorno a un albero si suonano le percussioni e degli altri strumenti che hanno dei semi dentro e che vengono suonati con un ritmo costante. E soprattutto si canta e si balla. I passi sono semplici, si gira intorno all’albero, il canto è un ritornello intervallato da un assolo di percussioni. Tutto il villaggio è riunito per festeggiarci. Impariamo subito i passi essenziali per poter seguire il gruppo e ci lasciamo andare ad un ritmo che ci trasporta una dimensione quasi ipnotizzante. Ogni tanto dobbiamo uscire dal cerchio per recuperare l’equilibrio; ma poi veniamo di nuovi gentilmente e gioiosamente coinvolti da qualcuno di loro, sia uomini che donne. Il loro atteggiamento è molto rispettoso e delicato, come un gentile invito all’allegria e alla vita, ma senza imposizioni. Apprezziamo questa loro leggerezza e semplicità nel farsi conoscere. La loro realtà quotidiana ci viene mostrata e offerta con molta dignità e senza imbarazzo per la povertà che si può riconoscere negli abiti lisi dei bambini o nella mancanza di energia elettrica, di acqua corrente o dei servizi igienici.
Tutte comodità delle quali non abbiamo sentito la mancanza, almeno per i tre giorni che ci siamo trattenuti al villaggio. Il vero problema per loro è di ordine sanitario. Il primo armadio farmaceutico è a decine di chilometri di distanza, chilometri che in linea di massima vanno percorsi a piedi se si ha necessità di qualche farmaco. Non vi son medici nelle vicinanze, dunque contrarre la malaria o delle infezioni intestinali può essere fatale sia per i bambini che per gli adulti.
Le danze vengono purtroppo interrotte dalla pioggia, che a certo punto diventa scrosciante.
Così dobbiamo ritirarci nella capanna che ci è stata messa a disposizione dalla mamma di Gil, dove sistemiamo le nostre sei stuoie e le zanzariere. Insieme a noi, nella stessa stanza, dorme anche la gallina con i suoi pulcini.
Le giornate al villaggio scorrono serene, nonostante alcune persone della comunità non stiano bene: un cugino di Gil ha la febbre alta e si teme che abbia la malaria; una neonata ha dei problemi respiratori che destano preoccupazione e una brutta infiammazione alla bocca.
Per lavarci andiamo al fiume, dove facciamo il bagno con i bambini, che non ci perdono mai di vista; finalmente un pomeriggio riusciamo a insegnargli due giochi: bandierina e mosca cieca.
Passiamo delle ore veramente gioiose in loro compagnia, riuscendo a fare qualcosa insieme a loro nonostante le barriere linguistiche: c’è stato un momento, mentre stavamo giocando a mosca cieca, che mi accorgo di parlare loro in italiano e di essere sufficientemente capita! Evidentemente l’intonazione data alle parole e la semplicità dei messaggi (una volta chiare le regole del gioco non è difficile capirsi) sono stati tali che ci siamo dimenticati del fatto che parliamo lingue diverse. Ci siamo intesi sull’onda delle emozioni e della gioia. È stato bellissimo giocare con loro, sentire le loro risate e la loro esaltazione nel riuscire a prendere la bandierina o nel vincere a mosca cieca. Un’esperienza veramente arricchente. Anche i giochi sono finiti a causa della pioggia. Allora ci siamo riparati con alcuni bimbi sotto la tettoia della capanna. Loro sono stati con noi, tranquilli, a sentire i nostri discorsi pur senza capirli e tutti abbiamo goduto della semplice e reciproca compagnia. Ormai si era aperto un canale di comunicazione e scambio di emozioni ed era come se ci conoscessimo da molto tempo: ciò che abbiamo vissuto insieme in quei giorni ci ha fatto diventare un po’ come fratelli o, per lo meno, come esseri umani che si sentono molto vicini .
Lasciamo il villaggio alle sei del mattino, quando il villaggio è ancora nel sonno. Viene a salutarci solo la mamma di Gil, molto dispiaciuta per la brevità della nostra permanenza al villaggio. In effetti la pioggia e l’umidità hanno reso le cose un po’ complicate, visto che non abbiamo quasi più vestiti asciutti.
Partiamo con la pioggia, un gruppo di noi a piedi e Gil alla guida del pullmino. A qualche chilometro dal villaggio la ruota della macchina s’ incastra tra la sponda di un fiume e il ponte di legno che lo attraversa, correndo il rischio di ribaltarsi. Ci sentiamo perduti: ci vorrebbe un carro attrezzi per trainare la macchina, ma ovviamente non c’è niente di tutto questo. Nelle vicinanze c’è solo un trattore, ma nessuno di noi sa di chi sia ne come poterlo utilizzare. Piove e fa anche un po’ freddo. Vicino al fiume una donna sta facendo il bucato.
Passano due uomini in bicicletta, proviamo a chiedere loro notizie del trattore, l’unica soluzione secondo noi percorribile per liberare la macchina. Ma neanche loro hanno idea su come utilizzarlo. Il tempo scorre lento e ci stiamo scoraggiando veramente tanto. Poi dal nulla arriva un gruppo di uomini, avvertiti da chissà chi. Vi è una rete invisibile di comunicazione attraverso cui le notizie arrivano velocemente al villaggio, anche se i fatti avvengono a diversi chilometri di distanza. Ci dev’essere un sistema di passa parola da capanna a capanna, un sistema che funziona magnificamente visto che questo gruppo di uomini arriva compatto e determinato a risolvere la situazione. E, contro ogni aspettativa, i cinque uomini riescono a sollevare di peso il pullmino e rimetterlo sulla carreggiata. Siamo noi, a questo punto, che esultiamo con urla e applausi, assolutamente sconcertati dalla facilità con cui la forza degli uomini, in perfetta unione, ha sollevato un’auto di diverse centinaia di chili.
Il trattore, individuato da noi come l’unica speranza, è rimasto a sonnecchiare lì dov’era. Volevamo baciarli tutti, visto che hanno risolto così brillantemente e inaspettatamente il nostro dramma.
Così il viaggio è ricominciato e, lentamente, siamo tornati alla “civiltà”.
Nel corso della giornata il nostro gruppo si è diviso: alcuni di noi si sono diretti a Ilha de Mozambique; abbiamo lasciato la figlia di Gil di nuovo a Beira e, in quattro, abbiamo fatto a ritroso la strada per Maputo, rivisitando Beira e Vilankulo.
Abbiamo attraversato molti chilometri e le strade del Mozambico non sono semplici, perché vi sono lunghi tratti rovinati in cui l’asfalto ha ceduto creando delle buche molto profonde. In altre zone abbiamo trovato la strada allagata e piena di fango. Nonostante questo posso dire che viaggiare in macchina lungo il Mozambico ha un fascino molto particolare perché permette di fermarsi nei i centri abitati (caratterizzati da diverse coltivazioni che vanno dall’ananas al cocco e agli anacardi) e di venire in contatto con la realtà e la gente del posto, che è sempre pronta a fare amicizia . Non per niente Vasco de Gama li chiamò il popolo della gente boa. La cosa che ci stupisce continuamente, e continuamente ci commuove e rende felici, è vedere bambini e ragazzini di tutte le età che percorrono quotidianamente decine di chilometri solo per andare a scuola, stanchi ma fieri nelle loro divise, con i libri portati sottobraccio: sono il simbolo più chiaro della via che questo grande Paese ha scelto per rinascere e riemergere dalle difficoltà che ha attraversato, la via dell’istruzione e della consapevolezza.
Riporto il diario di Francesca, una compagna di viaggio, su Ilha de Mozambique, località che io non ho visitato.
Ilha de Mozambique
Arriviamo a Nampula, l’aeroporto più vicino ad Ilha de Moçambique, con un volo interno della LAM partito da Quelimane, la città più vicina al villaggio. Il volo è l’unico della settimana (il sito LAM non è ancora “maturo” per una gestione online delle prenotazioni, i voli vanno riservati direttamente sul posto, negli aeroporti o nelle agenzie) e ci sentiamo molto fortunati che sia esattamente nel giorno in cui meglio si adatta al nostro itinerario. Il tragitto Nampula-Ilha può essere fatto in chapas o in auto, soluzione che scegliamo per ragioni di tempo: un consiglio che può essere utile in casi di noleggio di mezzi privati è quello di concordare sempre in modo chiaro il compenso prima di salire, per evitare spiacevoli (e faticose!) discussioni una volta a bordo. Il tragitto è bello, diverso dai panorami già visti fino ad ora sia per la vegetazione che per la presenza degli inselberg, grandi massi di granito vulcanico dalle forme strane disseminati qua e là sul territorio. Uguale è invece la quasi costante presenza umana, di venditori, viaggiatori, pendolari per ragioni di studio o di lavoro. Si arriva all’Ilha tramite un lungo ponte con gambi sottili simili a pali di legno (o proprio pali di legno) che fanno pensare a un ragno lunghissimo o a un millepiedi con un imponente “stacco di coscia”. L’atmosfera che si respira è subito magica: il primo giro per le strade sterrate e sabbiose lo facciamo per raggiungere il posto dove pernotteremo ci fa capire in un attimo quanto sia unico e particolare questo posto. Lasciati i bagagli, usciamo subito per una passeggiata alla luce del tramonto e le vie dell’isola, tanto stretta da consentire in alcuni punti di vedere il mare da entrambe le parti, mantengono la promessa d’incanto appena accennata all’arrivo. Le persone che camminano accanto a noi sono di varia provenienza (africani, arabi, indiani,…), perché da secoli l’isola è stata crocevia di viaggi e commerci ed è diventata il luogo dove convivono in pace persone molto diverse tra loro. Anche qui ci sono tanti bambini di tutte le età, meno timidi e più “scafati” di quelli del villaggio: sono loro stessi che ci chiedono subito di essere fotografati e spesso atteggiano mosse o acrobazie nell’intento di rendersi belli e interessanti ai nostri occhi, senza rendersi conto di quanto lo siano già comunque, anche restando fermi, solo con un sorriso o uno sguardo che nasce da occhi così belli e profondi da lasciare un segno indelebile nei nostri cuori. Qualche volta chiedono soldi, qualche volta pane (pao!!) ma la maggior parte delle volte chiedono le “cannette”, cioè le penne per scrivere. La prima sera mangiamo (e benissimo) da Roberto (Cafè del Flor), uno degli italiani che hanno scelto l’Ilha come casa e che ci racconta un po’ come sia arrivato lì, delle difficoltà che ha avuto ma degli ottimi motivi che l’hanno portato a non andarsene più. Dopo facciamo due passi per le vie della città, talvolta un po’ buie ma sempre frequentate, e ci fermiamo in una sorta di mercato notturno per comprare un po’ di cibo per il giorno seguente. Dormiamo da Gabriele (Patio dos Quintalinhos-Casa de Gabriele, www.patiodosquintalinhos.com ), un altro degli italiani che ha scelto l’isola come sua nuova patria e qui ha ristrutturato e progettato un bellissimo B&B: all’ingresso una canoa è appesa a mo’ di amaca in un atrio verdissimo che introduce ad un cortile interno dove si affacciano le stanze della casa. Salendo qualche gradino si arriva ad una terrazza bellissima da cui si può ammirare tutta l’isola, così come dal piano superiore del ristorante di Roberto, anche questo ristrutturato da Gabriele. Grazie all’aiuto del ragazzo che lavora da Gabriele, ci organizziamo le gite per i prossimi giorni: il primo è dedicato all’Ilha de Sena e a Goa, il secondo a Ilha dos Sete Paus e ad una località di una penisola vicina che si chiama Carushka. Ci portano tre ragazzini delle isole vicine, esperti marinai alla guida di una piccola imbarcazione di legno a vela latina: i lidi che vediamo sono meravigliosi, talvolta rocciosi e talvolta ricoperti di una sabbia bianca e finissima, ma sempre disabitati e bellissimi come tanti piccoli paradisi terrestri.
Una delle sere sull’isola ceniamo al ristorante O Paladar, piccola trattoria tipica che merita sicuramente una visita, sia per l’ottimo cibo tipico offerto sia per la proprietaria Dona Maria ed il suo aiutante, che ci accolgono con un misto tra la gentilezza perfetta e la “burberità” di una mamma. L’ultimo giorno lo passiamo visitando tutta l’isola, prima da soli ed in seguito con Samuel, uno dei tanti ragazzi che si offrono come guida ai turisti e che ci porta alla scoperta della Cidade de Pedra (Stone Town) e della Cidade de Makuti (Makuti Town), le due parti principali in cui è divisa l’isola: nella seconda vive la maggior parte della popolazione locale, in case ricoperte di palma, makuti in lingua locale. Dopo il giro, tramontato il sole, salutiamo l’isola un po’ malinconici per dover andare via ma felici di aver avuto la possibilità di visitare un posto meraviglioso come Ilha de Moçambique.
Dopo alcuni giorni di viaggio il nostro gruppo si è ricomposto a Maputo, da cui siamo ripartiti per l’Italia dopo una giornata dedicata allo shopping di statue in legno e batik.
Informazioni logistiche
Moneta: Metical; abbiamo cambiato a un tasso vantaggioso in aeroporto (44 meticais per 1 euro); nei principali centri ci sono bancomat ed è stato sempre possibile prelevare contante.
Vaccinazioni: abbiamo scelto di non fare la profilassi antimalarica e di difenderci dalle zanzare con l’Autan Plus; non abbiamo avuto problemi, anche se è comunque inevitabile essere punti. Per nostra sicurezza abbiamo fatto il vaccino per il tifo, per il tetano e per l’epatite A e B. Abbiamo sempre bevuto acqua in bottiglia e non abbiamo avuto nessun problema intestinale né di altro genere.
Per la scelta delle Accomodation abbiamo sempre fatto riferimento a Gil per Maputo, al sito del Kruger per il Sud Africa e alla Lonely planet per le atre destinazioni.
L’itinerario che abbiamo scelto è stato determinato della decisione di andare a visitare il villaggio di Gil, occasione unica e senz’altro un’esperienza bellissima.
Gil è disponibile per accompagnare piccoli gruppi in tutto il territorio mozambicano (anche fino al villaggio in Zambesia) e in Sud Africa. E’ contattabile all’indirizzo email gildjembe@yahoo.com.br o al numero +258 822227650. Il mio indirizzo email è r.ponze@tiscali.it, scrivetemi se vi serve qualche altra informazione o suggerimento sul Mozambico.
Un video del nostro viaggio è disponibile al seguente indirizzo:
http://www.youtube.com/watch?v=-6t624ElXio
Altri video:
bandierina: http://www.youtube.com/watch?v=kpalpYROHT8
mundu reina: http://www.youtube.com/watch?v=COSpVHtxXjE
Renata