Diario de viaje en Mexico, dal 27 luglio all’ 8 settembre 2005
Ecco il viaggio è veramente
solo ai primissimi inizi e già comincio a chiedermi
-di nuovo- ma che cos’è? che indirizzo e che senso prenderà? Ma
anche: cosa significa per me in generale e in questo particolare caso (torno in
Messico dopo molti anni) e momento della mia vita…? Quando in aereo vedo una
signora con un bell’abito tradizionale di tipo yucateco, ecco che sensazioni e
pensieri che erano dentro di me, ma di cui non avevo precisa percezione,
riemergono ora che li rivedo e li riconosco. E’ il contatto reale, concreto,
totale, con un mio simile essere umano, portatore di alterità e di differenza,
che mi sollecita. Lei è una donna moderna, che viaggia, che va in aereo, che
legge un libro, ma che è solo l’ultima generazione di un mondo distinto dal
mio, lontano, e che proviene da lontano, con cui ora mi trovo a confronto e con
cui mi raffronto.
Ecco il viaggio è veramente
iniziato!
Alla fine del lungo volo
finalmente un po’ stressati tiriamo un sospiro: siamo arrivati, che bello!
Eravamo venuti tanti anni fa da giovani, e ora rieccoci qui con i ragazzi i
nostri figli. Con il taxi arriviamo all’albergo in centro: come al solito io
prenoto sempre, appena confermato il biglietto aereo, per le prime due notti, in
modo da non avere incertezze e problemi appena si arriva stanchi. Quindi avevo
scambiato delle mail con un certo albergo nel centro storico, e mi ero portato
con me per sicurezza la stampata relativa alla prenotazione. Fatto sta che
entriamo con le valige e andiamo al banco della ricezione e chiediamo le nostre
due camere, la risposta è che non c’è una camera libera in albergo, e non
risulta alcuna nostra prenotazione. Mostro il foglio con la stampata della mail,
ma non sanno che dirci, chiedo di parlare con chi ha sempre risposto agli scambi
di mail e ha “firmato” la conferma, ma dicono che quella persona in questi
giorni non c’è. Dopo varie discussioni ci dicono che non c’è problema, di
portare pazienza e di aspettare fuori che appena avranno tempo cercheranno se ci
può essere un’altra soluzione per noi in un altro albergo. Siamo stanchi, la
sorpresa è spiacevole, fuori c’è un sole molto forte, ma restiamo in attesa
(anche se non c’è dove sedersi). Dopo un ora ritorno alla ricezione, e in
seguito ad altre discussioni ottengo che se ne occupino, infine ci dicono di
andare all’ Hotel Principal, che là hanno due camere libere, e che avrebbero
pagato loro il taxi. Arriviamo all’altro albergo, dove le camere che ci
propongono, che danno sul cortile interno, non hanno finestre, se non una grata
sopra alla porta. Diciamo che non le vogliamo e che non sono equivalenti a
quelle che avevamo prenotato. Ci danno allora una grande camera con quattro
letti, un bagnetto in camera separato da vetri smerigliati (dunque nessuna
privacy), e che ha la finestra, che però da sulla calle Bolìvar da cui viene
un rumore assordante continuo per il traffico stradale. Bisognerà stare con la
finestra chiusa e tenere sempre acceso il fastidioso ventilatore… Accettiamo
comunque questa soluzione.
Ecco che con questo esordio il
viaggio è veramente iniziato! … siamo proprio in Messico.
L’unico vantaggio è che
siamo a sole tre cuadras dalla piazza
centrale (zòcalo= lo zoccolo). E
inoltre nella vicina avenida cinco de mayo
ci sono delle pasticcerie favolose, e un posto straordinario dove fare la prima
colazione.
Jueves 28 de Julio, México -
D.F.
Siamo a 2240 m. di altitudine
slm, nella piazza principale di Città del Messico, cosa mai ci potrebbe essere
di nuovo qui? Quando eravamo venuti allo Zòcalo
28 anni fa, nemmeno si sapeva che qui sotto alle case c’erano i resti del
Tempio Maggiore di Tenochtitlàn ! in
mezzo alla capitale dell’impero azteco e nel bel mezzo del lago Texcoco. . . .
Eccolo qui, finalmente di
nuovo allo scoperto, e anche con i suoi magnifici reperti nel bel museo a lui
dedicato qui a fianco. E così c’è subito, appena arrivati, l’incontro con
le tre culture, anche qui nella piazza centrale, quindi: la cattedrale, il
traffico automobilistico e la gente di oggigiorno al mercatino, i reperti
aztechi. Non c’è più bisogno per gustare questa sensazione di andare fino
alla famosa (ma lontana, a Tlatelolco) Plaza
de las Tres Culturas di sesantottina memoria.
La cattedrale dopo cinque
secoli è un po’ sprofondata; sotto, il terreno paludoso non tiene abbastanza
per poter sopportare il peso del barocco coloniale con tutti quei suoi stucchi,
con le sue colonnone colossali, con tutti gli ori esibiti che brillano. Non è
già questo, già di per sé, un elemento carico di simbolismo? Tutto ciò in
effetti lentamente sta sprofondando… Ma la gente corre là dentro … si
affretta verso un ufficio dove segnano su un registro le prenotazioni per far
dire delle messe in suffragio.
Poco più in là c’è un
altare con una statua a colori di Jesucristo,
dove si attaccano dei lucchetti, e dopo la preghiera con la propria richiesta,
si buttano in un contenitore apposito le chiavi. E’ contro la maldicenza, le
malelingue, perché si chiuda loro la bocca. Poi un po’ più avanti, c’è il
“Gesù del cocco”, e poi quell’altro legato invece ad una colonna. Intanto
che ci addentriamo, il prete con un bel coro di voci popolari, canta bene degli
inni sacri.
Nel Museo con i reperti delle
rovine del Templo Mayor azteco c’è
la straordinaria pietra circolare da 8 tonnellate che fu scoperta durante gli
scavi per una linea della metropolitana, e tra le moltissime altre cose
strabilianti c’è una stupenda maschera verde di smeraldi del volto del dio Tlàloc,
tutt’attorno e sotto alla bacheca, cola dell’acqua: è il grande dio della
pioggia, il suo è un potere immenso, di vita e di morte.
Con vertine espositive ben
fatte si mostrano gli animali e le piante a cui si riferiscono i disegni
stilizzati di stile modernissimo, molto espressivo, che rendono bene la potenza
divina cui alludono questi simboli.
Il coccodrillo è fonte di
vita anch’esso, ed è simbolo di della Terra vivente: tutta la vita che c’è,
è sopra alla superficie, e questa è simbolizzata dalla sua pelle dura e
squamata. Perciò otre alla testa stilizzata ci sono tante scaglie in pietra o
in coccio, che quindi non sono sassetti casualmente gettati lì, …ma scaglie
di vita.
Fuori dal museo un po’ più
in là c’è un mercatino baratito
molto molto animato da gridi, rumori, vocìo. Per attirare l’attenzione un
venditore di biglietti della lotteria sa imitare benissimo il
“chiacchiericcio” dei pappagallini.
Il frastuono permanente del
traffico fa come da rombo di sottofondo, a volte in crescendo minaccioso, a
volte in calando, a seconda dei semafori.
Diamo una occhiata dentro al
Palacio Nacional.
La sera scrosciano secchiate
pesanti di Tlàloc che si diverte a sconvolgere la vita della metropoli moderna
per un’oretta. Torniamo io e Miki in hotel totalmente tragicamente fradici, ma
proprio zuppi.
Viernes 29 de Julio
Andiamo alla Alameda (l’ex spazio dell’antico mercato centrale azteco), dove
oltre al famoso bel parco, visitiamo il Museo delle Belle Arti, che ospita un
grandioso mural di Diego Rivera, del 1947 in cui è ricapitolata la storia
stessa delle civiltà e delle culture del Messico, e vari altri murales di
famosi artisti. Poi andiamo al Centro
Cultural “José Martì” dove c’è anche un taller
de ajedrez , un “laboratorio” all’aperto in cui alcuni esperti
insegnano a perfezionarsi nel gioco degli scacchi e nei suoi misteri. Un tìo,
un tale vorrebbe iniziare il nipotino per introdurlo in un mondo, in un modo di
vivere, ma il ragazzetto appare frustrato e sconcertato. Non si tratta solo di
trucchi e segreti del mestiere, ma anche di postura, di sguardi, di
partecipazione emotiva o al contrario di capacità di distacco da esternare con
immediatezza oppure in modo ben calcolato.
Sul muro di fianco vedo che
c’è una lapide del 2001 affissa dalle lesbiche, che ricorda una storica
manifestazione di omosessuali di un secolo prima. Mentre poco più in là
un’altra segnala che proprio lì di fronte a quella chiesa, la Iglesia
de San Diego, per più di due secoli si accesero i roghi della “Santa”
Inquisizione.
Ora arriviamo invece nel bel
quartiere di Coyoacàn tutto fatto di
casette, ville e villette, ognuna con un suo stile, molto verde, giardini,
piccoli parchi, fiori... Ed eccoci che entriamo nella Casa Azùl di Frida Kahlo. Coinvolgente, travolgente, bella e
tragica, forte come la sua personalità straordinariamente egocentrata. Ci sono
suoi quadri, autoritratti psicologici, foto, opere del marito Diego de Rivera,
opere di amici e altri artisti come Orozco, Klee, Duchamp. Tra i suoi dipinti
che più mi colpiscono ci sono “il fiore della vita”, “la cerbiatta
ferita”, e “l’abbraccio di Amore e dell’Universo”. Un bel giardino con
curiose statue, oggetti precolombiani, e del folklore popolare. Tutta la
disposizione della casa, degli ambienti, i colori, le varie stanze è molto
originale. Vale assolutamente venire sino a Coyoacàn anche solo per visitare
quest casa-museo.
Di lì a un paio di cuadras (=isolati) c’è il rifugio di Leòn Trotsky, diversamente
disperante. Una villetta anch’essa trasformata in museo, interessante e
intrigante. Qui il grande ebreo russo, leader rivoluzionario esiliato da Stalin,
che si stabilì a Coyoacàn nel 1937, venne assassinato a colpi di piccozza nel
1940. La villetta era stata fortificata ma l’interno ci restituisce uno
sguardo sulla abitazione di un intellettuale di quegli anni, tutto pare ancora
vivo, solo fermo a quel fatidico giorno di agosto.
E proprio ora ecco che nella plazuela
(=piazzetta) due mariachi (=tipici
gruppi musicali originari dell’ovest ) cantano un tradizionale ma squallido
canto machista (=maschilista)
sull’amore folle e disperato tra un “galletto” e una “coqueta”
(=civetta o civettuola).
Poi telefoniamo ad una signora
di cui avevamo il recapito, per vederci e chiacchierare, lei subito promette di
accompagnarci con la sua auto a vedere la città perché è così grande che
sarebbe per noi troppo stancante girarla. Quindi ci da un appuntamento e ci dice
di aspettarla ad un certo angolo della piazza dello zòcalo. Aspettiamo,
aspettiamo, ma non arriva, forse è un po’ in ritardo a causa del gran
traffico… aspettiamo ancora, ma non la si vede. E’ oramai più di un’ora
(!) che siamo qui fermi in piedi all’angolo a scrutare con attenzione tutte le
auto che passano. Le ritelefoniamo ma non risponde. Stiamo pensando di tornare
in albergo, quand’ eccola che arriva… le chiediamo se c’era tanto
traffico, e lei ci dice con tutta tranquillità e sincerità naif che era così
conciata quando abbiamo telefonato, che prima di uscire si è lavata e cambiata
e pettinata e truccata per essere almeno decente, intanto, dice, voi eravate qui
a visitare il nostro zòcalo, non è vero? Le rispondiamo che veramente, come le
avevo scritto, lo avevamo già visitato in un precedente viaggio, e comunque ora
con i ragazzi lo avevamo visitato ieri. Allora, se voi avete già visto il
centro storico, ci dice, vi mostro io delle zone che sicuramente non conoscete.
Tutta la sera siamo travolti dall’irruenza e dalle energie inesauribili di
quella potenza della natura messicana di nome Lourdes che ci ha trascinato con
la sua auto su per las Lomas de
Chapultepec (=le alture del grillo), dove c’era la fortezza dell’ultimo
re azteco Moctezuma, per farci vedere i quartieri alti delle ville dei
miliardari (e parlando come avesse una mitragliatrice in bocca, ci dice fatti e
misfatti di tutte le famiglie maggiorenti della città), e poi le zone dei
grattacieli e dei grandi buildings di vetro-cemento delle multinazionali
(raccontandoci anche qui una miriade di cose al proposito), e su e giù per le
immense avenidas che, quasi come autostrade, attraversano per kilometri la
grande megalopoli. Io intanto vengo colto dalla stanchezza, forse dovuta al
cambio di fuso orario, e al sole, all’aria, all’altitudine magari, e insomma
dopo vari giri, con un po’ di mal d’auto, crollo addormentato. Ma lei
continua imperterrita ad attraversare in largo e in lungo la grande megalopoli,
anche se ogni venti minuti circa le diciamo che siamo stanchi e che preferiremmo
fermarci in un bel posto a chiacchierare con calma. Ad un certo punto la
imploriamo di riportarci in albergo, dicendole che ci risentiremo nei prossimi
giorni (??!).
sabado 30 de julio
Comunque eccoci anche oggi a
riattraversare in taxi este monstruo de
ciudad (appellativo con cui usano chiamare la megalopoli) con i suoi grandi
viali come la immensa Avenida Insurgentes, e vere e proprie autostrade urbane, e
il nuevo viaducto, e la Périferica
… Però poi quando si esce dalle vie di grande scorrimento, de
repente si entra in una realtà a parte, perché certi quartieri sono un
po’ come dei paesini a sé stanti dentro la metropoli; è un po’ come nella
riserva naturale del romanzo “Brave New World” (1932) di Aldous Huxley, che
comprendeva dentro anche i villaggetti degli esseri umani allo stato naturale.
Questo paesino coloniale in cui siamo ora, è San
Angel, tanto carino, che è proprio messicano “autentico” di quelli di
“una volta”, insomma risponde agli stereotipi (positivi).
Per prima cosa entriamo nella Iglesia
de San Jacinto, che mi da la sensazione come di venire sbalzati nel futuro
di un passato controriformista… (anche questo è un altro mio viaggio
mentale). Ci sono le croci con la scala e con i vari simboli, e con il volto del
Cristo, proprio come li vedevo nei villaggi del Perù. E poi tutte le scritte
sulle colonne, che ti sgridano o ti imboniscono… pur che tu provi un
sentimento di colpa.
E fuori invece c’è un
formicolio pazzesco di gente pigiata che tenta di procedere tra le bancarelle
del mercadito ferial, bancarelle anche
loro tutte appiccicate l’una all’altra e con un pasillo
stretto stretto. Belle cose! e di qualità. E poi in sovrappiù ci sono tutti
gli ambulanti che arrivano dalle campagne carichi delle loro carabattole e
cosine varie. E le cafeterias, i bar, strapieni, i suonatori con chitarre o con
strumenti i più vari, e l’ambiente, e le casette, il giardino, tutto qui è
il Mexico che uno ha in mente, dai film o dai manifesti turistici. E’ proprio
conforme alle aspettative che pur sappiamo essere oramai assurde e fuori tempo,
ma che in fondo coltiviamo lo stesso, e vorremmo vedere confermate, e la cosa
sorprendente è che qui lo sono… Che bello! …e che relax –nonostante
tutto- rispetto al traffico motorizzato urbano del monstruo tentacolare.
Infine andiamo alla casa-museo di Diego Rivera, il suo museo Anahuacalli
costruito in pietra lavica. Oltre a disegni e opere sue, ospita la sua
straordinaria collezione di oggetti precolombiani. Al ritorno vediamo la famosa
statua dorata della dea Nike (el angel de
la independecia) in cima alla colonna nella glorieta
(=rotonda spartitraffico) centrale nell’immenso
Paseo de la Reforma.
Terminiamo con una visita al
museo di arte moderna nel parco di Chapultepec vicino a cui eravamo già passati
ieri con Lourdes senza poterci fermare.
Domingo 31 de Julio
Facciamo un giro nella zona
che sta dall’altra parte dello zòcalo,
dove ci sono mercatini popolari poveri. Una ha un galletto impagliato con sotto
delle ossa sbruciacchiate, e promette divinazioni. Altri vendono le loro povere
e poche cose … Poi vediamo l’imponente edificio della Inquisizione spagnola,
e poi quello del Collegio gesuitico, oggi sede della Escuela Nacional
Preparatoria (che fa parte della UNAM la Univ. Naz. Autonoma), che è il
Magistero per la formazione degli insegnanti. Entriamo, ed ecco, sì, qui c’è
il famoso affresco dell’Auditorio, dove si sono visti per la prima volta Diego
de Rivera e Frida Kahlo. Miki fotografa le sedie… dietro a cui lei si era
nascosta per non farsi notare da lui… (come è egregiamente mostrato in una
scena del film che avevamo appena visto da poco). Inoltre ci sono i murales di
Orozco, e di Siqueiros, e Leal.
Poi prendiamo il metro e
facciamo undici fermate (!) per andare a incontrarci con le Ofelie (madre e
figlia con lo stesso nome, ma la figlia si distingue come Ofeliz, cioè Ofelia
feliz), e per poi andare con loro in un locale popolare del weekend per mangiare
il pozole. Dal nàhuatl (la lingua degli aztechi parlata ancora oggi da una
minoranza) che significa “spumoso”, mais spumoso, che può essere bianco o
rosso, o che è conosciuto anche nella versione di maìz cacahuatzintle, cioè mais “come cacao”. E’ una
pannocchia di mais con grani grossi. Bisogna bollirlo con aguacate
(=avocado), cipolla, e chile. Ma c’è
la ricetta dello Stato di Guerrero, e quella dello Stato di Sonora, e molte
altre…di Jalisco, del Michoacàn… che differiscono un poco tra loro. Lo si
può fare più verde usando i semini verdi di zucca barucca. E’ lungo da
preparare.
Lo gustiamo in questo locale,
una fonda (dall’arabo funduq), che
è una trattoria economica molto popolare, aperto solo nel fin de semana, e viene sin qui molta gente apposta. Di domenica
vengono alle 11 per il “brunch”. Dunque il pozole
è un po’ un simbolo della cucina mexicana, e come dicevo può essere
piuttosto blanco oppure verde,
cucinato in una cazuela grande o chica.
Si usa para acompañar chalupas, chicharròn,
pata, aguacate, sardina en aceite y tomate, … Como
carnitas ci sono pentoloni di barbacoa
de pollo, e poi di arroz, mole,
frijoles, …
Poi prendiamo calabaza en tacho (ci vogliono: piloncillos,
melado, tacho, azucar y azucar refinada), oppure si utilizzano: una
miel de melado, una naranja, dos guayabas, una raja de canela: hervir un rato…
Prendiamo bebidas, e come postres: flan
napolitano, y gelatina.
C’è scritto sulla parete: “Lo
que come, lo que canta, y lo que lee, eso es un pueblo”. E perciò qui si
mangia, si canta, e si chiacchiera. Abbiamo mangiato bene e abbondante. I prezzi
sono abbordabilissimi e la qualità ottima, e il modo in cui i cibi sono
preparati è proprio quello che la gente del posto esige.
Dopo un po’ il rimbombare
delle voci ci stordisce un poco. Usciamo, e chiacchierando ci facciamo dire bene
il significato e l’uso di certe parole e espressioni che qui si sentono molto
di frequente: rumbo, me rumbo…hacia…,
andare verso, mi precipito verso; taquilla
è lo sportello; bolleto e mai tiket; tope
è il bump stradale; la caseta è il
casello nella autopista con cobro,
nell’autostrada a pedaggio; tramo è
un pedazo; los sobornados, sono i corrotti, ovvero, ci spiegano, quelli che si
sentono in obbligo di dare una mordida
(qualcosa per tenere a freno) a un policia
quien abusa; la mochila è un
borsello grande, uno zainetto; eccetera, così ci aiutano a chiarirci le idee su
certi discorsi che avevamo ascoltato, e ad acclimatarci linguisticamente per
captare meglio l’alma mexicana.
Poi con Ofelia (Ofeliz) e la
sua amica Beatrix (con la figlioletta Victoria) andiamo con la sua auto alla
ciudad universitaria, modernissima, dei primi anni ’50, che è la più grande
dell’America Latina, in particolare certi edifici della UNAM, con i famosi
murales a mosaico di Juan O’Gorman, che decorano l’esterno della Biblioteca
Centrale, e quelli di Siqueiros al Rettorato; e infine, sempre con la sua auto,
ci porta sin davanti al Centro Nacional
del Cine, che è molto interessante. Ci lasciamo, e noi restiamo lì al bar
e prendiamo le informazioni che ghila desiderava avere sulla storia del cinema
messicano.
Infine alla sera andiamo a Cinco
de Mayo al café La Blanca, con
ambiente popolare. E poi a piazza Garibaldi dove ascoltiamo alcuni gruppi di
Mariachi, e poi con non poche difficoltà troviamo un taxi per rientrare in
albergo.
Lunes 1° de Agosto
Attraversiamo col taxi di
Ricardo (quello stesso giovane autista che ci portò a San Angel) los barrios pobres del Estado de México, che è il territorio
subito fuori dal Distrito Federal (e infatti molti per riferirsi strettamente
alla città di Mexico, dicono DF). Qui vediamo che ci sono molte farmacie “similares”
cioè con medicamentos copiati per non pagare il diritto di brevetto alle
multinazionali farmaceutiche.
Ricardo ci racconta dei
problemi dei taxisti e delle discussioni tra di loro. Certi sono “regolari”,
gli L o S,
cioè de sitio, altri invece sono i
cosiddetti “operativos”, però
non-autorizzati dalle autorità (e cioè sono senza le assicurazioni, ma per il
resto sono a posto e affidabili). Poi ci sono i “clandestini” ovvero i taxi
“liberi” (a volte poco affidabili).
Ieri avevamo visto un “sit-in
permanente” di protesta contro ai soprusi di deputati potenti.
In questi quartieri deprivati
c’è molta conflittualità, Aids (Sida), e violenza. Non hanno l’acqua
corrente né la luce, né altri servizi perché sono abitazioni in gran parte
abusive, non-autorizzate. Però poi succede che il governo federale accorda loro
il terreno in proprietà come forma di condono, e allora se delle imprese
edilizie vogliono costruire proprio lì e quindi preliminarmente sbaraccare
tutto e fare abbattere le casupole, loro possono vendere il terreno (il che in
certi casi è per loro un gran affare, perché si possono così permettere di
pagare una abitazione “vera”).
Man mano che si va verso
l’esterno aumentano il caos, le industrie inquinanti, la sporcizia, e crescono
cittadine come la povera Ecatepec che attraversiamo.
PA-PA’! squilli di trombe!
Siamo giunti a Teotihuacàn, il luogo
dove sono nati gli dei (questo il significato del nome). L’impatto è forte
nonostante l’avessimo già visitata la volta precedente e me la ricordassi
abbastanza bene.
E’ certo che se non si
condivide una interpretazione della propria storia, e se questa non si fonda su
alcuni simboli e sulla condivisione di alcuni “snodi” storici fondamentali
come patrimonio culturale generale, non c’è nazione, non c’è identità
nazionale. Qui a quanto pare è stata soprattutto la revoluciòn
popolare che fu campesina e india
di Emiliano Zapata e di Pancho Villa, contro Porfirio Dìaz, e la sua vittoria e
consolidamento nelle istituzioni politiche e statali, a dare a tutti il
sentimento di appartenenza a una comune “messicanità” in cui riconoscere le
proprie radici e la necessaria convergenza e fusione di tali radici. Altrimenti
il meticciato non sarebbe stato così diffuso, e non ci sarebbe stata una
nazione, ma solo tanti popoli diversi con proprie storie e riferimenti (il
pensiero mi va al classico libro di Octavio Paz sulla identità messicana come
esito del meticciato culturale).
Ma ora lasciatemi soffermarmi
a guardare stupito i voladores che si
esibiscono nello spiazzo di terra battuta del grande parcheggio prima della
entrata. Gli uomini-uccello salgono in cima a un palo di 30 metri da cui si
gettano legati con una corda e fanno tredici giri concentrici simulando il volo.
E’ un rito azteco (ma non solo) che è ancora praticato.
La volta scorsa, 28 anni fa,
non c’era una vera e propria entrata obbligata, c’era un botteghino isolato
nel prato, dove andavi a pagare il biglietto. Dunque passiamo per l’entrata,
cioè all’edificio di ingresso della porta n.1, dove veniamo però a sapere
che non posseggono sillas de medas
(cioè sedie a rotelle per handicappati o per anziani) per i visitatori, pur
essendo un Parco archeologico Nazionale dichiarato patrimonio dell’umanità
… e questa è una cosa da cui si misura il grado di civiltà o meglio il grado
di civilizzazione raggiunto da una società che voglia definirsi “civile” (è
pur vero che in generale, come ci dicono, gli handicappati motòri hanno già la
propria carrozzina, ma non serve solo a questa categoria di persone… (!), e
comunque qui stra-abbondano i turisti giunti in aereo da tutte le parti del
mondo… tra cui molti sono pensionati, e alcuni anche minusvalidos, ma senza sedia a rotelle…).
Ma ora eccoci là, come
trasportati in un istante, con una invisibile macchina del tempo, indietro di 15
secoli, nella più grande città non solo delle Americhe precolombiane, ma anche
tra le maggiori del mondo di allora. Che immensità!
La cosiddetta calzada de los muertos è un grand Boulevard, una big Avenue, o una Gran
Avenida, o Gran Vìa, lunga due kilometri tra le due grandi piramidi, si
estende per altri tre e mezzo verso la cittadella, di straordinarie proporzioni.
E ora che ce l’ho di fronte non faccio fatica a farmi un altro viaggio visivo
e mentale e ad immaginarmela con tutti i numerosi templi che la fiancheggiano,
tutti colorati, e magari con in mezzo una processione sacra con i variopinti
costumi, con i fiori, le piume d’uccello, i colori sgargianti.
Con Michele giriamo un po’
sul retro lungo un sentierino di campagna, e allora sì che sembra di essere qui
un secolo e mezzo fa, quando i primi archeologi e studiosi moderni camminarono
strabiliati per questa spianata… E’ incredibile pure che Cortès ci sia
passato vicino ma l’avesse ignorata, e che gli spagnoli durante il loro
dominio coloniale non se ne fossero interessati (tranne Bernardìn de Sahagun).
La fantasia di nuovo mi rapisce.
Io e lui saliamo in cima alla
piramide della Luna e poi a quella del Sole. Questa è la terza del mondo, dopo
la piramide di Cheope e quella di Cholula (nelle sue dimensioni originarie). È
stata costruita quasi due millenni fa con tre milioni di tonnellate di pietre.
Sono contento di avere scalato
assieme a Michele entrambe le due grandiose piramidi, sono soddisfatto di questa
cosa che abbiamo fatto assieme eccitati dall’entusiasmo, come si trattasse di
una sorta di tappa, come se questo fosse un evento carico di significati, e che
marca un evento, che forse, chissà, non si ripeterà (oppure che
inconsapevolmente poi vorremo ripetere altre volte)…
Ma è nel palazzo del Quetzal-papàlotl
o quetzal-mariposa (=uccello-farfalla) che si entra veramente in un ambiente
antico, e soprattutto questa sensazione si acuisce giù nel tempio che c’è
sotto, è qui che tocchi con gli occhi il sacro di età arcaica. Tutto in
pietra, con saloni e corridoi e affreschi colorati (che poi rivedremo al museo
di antropologia di C.d.M.), illuminato da fioche torce. Solo la presenza di
alcuni turisti del nostro mondo globalizzato rompe un po’ l’incanto. Altri
affreschi si trovano nel palazzo dei giaguari, e nel tempio delle
conchiglie-piumate.
E poi certe parti sotterranee
l’altra volta non erano ancora state messe allo scoperto (o non erano
accessibili e aperte al pubblico?). Nel palazzo di Tepantitlàn c’è il famoso
affresco del “paradiso di Tlàloc”, che si vede anche al museo
antropologico, veramente impressionante.
Pranziamo al comedor nella gruta
(una grandissima e fresca grotta) mangiando cose molto messicane: strisce di
petti di pollo al mezcal, una sopa un po’ strana, e una carne con il mole de chocolate. E poi andiamo al vicino museo a vedere il grande
plastico con cui si ricostruisce come doveva essere la città al suo apogeo.
Suggestivo. Era al centro di una grande rete di scambi culturali, astrologici, e
commerciali con i regni di El Tajìn capitale totonaca, Cholula, Montalbàn, e
con i maya.
E’ incredibile anche pensare
che nel 650 circa fu semidistrutta da una rivolta contro lo strapotere della
casta sacerdotale.
(un balzo all’indietro =Por
Atràs --à
sabado 30 de Julio)
Prima
di andare a San Angel eravamo stati nel bell’edificio liberty con gli
affreschi. E’ uno stupendo edificio fine aa.Venti / primi aa.Trenta,
completamente aperto all’interno con grandiosi murales tutt’attorno per i
tre piani. Di grande impatto quello di Diego Rivera, precursore (o in
sincronia) del film Metropolis;
veramente artistico Guzmàn; interessante Alfaro Siqueiros (che incontrai
quando ero ragazzo e che mi lasciò un suo autografo) il quale proprio si fa
notare, si impone, è letteralmente strabordante !
(por
atràs --à
domingo 31)
dopo
la colazione nella Casa de los Azulejos,
eravamo entrati prima nella chiesa francescana, dove mi danno due opuscoli
della sociedad EVC (El Verdadero Catolicismo), e poi nel Palazzo di Iturbide
(un eroe dell’indipendenza), dove c’è una esposizione di Juan o’Gorman,
con alcune belle tele surreali. E’ straordinario.
Martes dos de Agosto
Siamo al Museo de Antropologia y Arqueologìa, che ricordavo benissimo perché
mi aveva molto colpito e impressionato, ma di cui stranamente non ricordavo la
possente colonna centrale che pur è veramente molto suggestiva. E’ molto
interessante e veramente ben fatta tutta la parte antropologica e folklorica.
Bella anche la esposizione temporanea su “donna e dea”. E’ davvero un
museo straordinario, uno dei grandi musei del mondo, che valorizza
magnificamente le civiltà antiche, e le culture contemporanee indigene. Si
percepiscono bene anche le continuità sul lungo periodo, le permanenze
culturali e la loro forza vischiosa. In effetti è in realtà l’insieme di due
grandi musei. Come si sa al piano terra ci sono le antichità, e al piano
rialzato i reperti etnografici di quei popoli o territori corrispondenti, basta
prendere le scale o l’ascensore ad ogni sezione. Quindi puoi o fare una visita
orizzontale (percorrendo tutto il piano terra, cioè i tempi antichi, e quindi
tutto il piano rialzato sui tempi recenti), oppure una visita verticale, ovvero
a zig-zag, andando via via su e giù comparando per ogni territorio o cultura
sia la cultura antica che poi quella attuale. Insomma questo è uno dei grandi
musei del mondo, punto obbligato di visita per gli straordinari pezzi esposti
che incantano e tengono catturati gli occhi di qualunque visitatore, e che
sarebbe impossibile qui ricordare a parole.
Infine si esce come si può
uscire da una immersione in un mondo fantastico.
Leggo un manifesto della
“Academia de la Lengua y Cultura Nàhuatl”, che indice il suo XI concorso
nazionale di poesia “Nezahualcoyotl”
e nel cartellone riporta questa poesia, che trascrivo nella versione castillana:
“Solamente él, /por quien se vive. /Vana sabidurìa tenìa yo, /(…)
Realidades preciosas haces llover, /de ti proviene la felicidad, /dador de la
vida! /Olorosas flores, flores preciosas, /con ansia yo los deseaba, /vana
sabidurìa tenìa yo (…)” (da.
MS. Romances de la Nueva España, M.20r). Il riferimento è a Xochipilli, “el príncipe de las flores, es el dios azteca de las
flores, el maíz, el amor, los
juegos”… La promulgazione dei vincitori del certamen
si terrà a Santa Ana Tlacotenco un villaggio originario del territorio del D.F.
a lato del monte Tlàloc a 2550 m.slm., durante la festa del paese il 26 di
luglio. L’idioma aborigeno nàhuatl parlato dagli indios del centro del
Messico fa parte della famiglia linguistica
yuto-azteca, che è considerata come la più diffusa lingua aborigena del paese
secondo la classificazione di W. R. Miller.
Miercoles 3
Ricardo si offre di
accompagnarci lui a Puebla allo stesso prezzo del pullman, e così intanto
chiacchieriamo. Passiamo a lato dell’ Iztaccìhuatl, e in 120 km giungiamo a
Puebla che sta proprio a poca distanza dal monte La Malinche (4461 m.slm).
(Ripenso alla straordinaria storia della povera Malinche… su cui avevo letto
un bel libro).
Avevo prenotato all’Hotel
Cabrera in calle 10 Oriente, per sei giorni, è proprio modesto ma accettabile.
Che bella città! Veramente
gradevole. Pranziamo con pollo col pipiàn
verde (semi di zucca), empanadas, e tallerines.
Faccio un giro con Michele
alla ricerca di un trasformatore per ricaricare la batteria del cellulare, e così
vediamo strade e negozi molto popolari e non turistici.
Alla sera io e Annalisa
andiamo in un quartiere con bei bar dove suonano dal vivo. Quanto mi piacciono e
mi coinvolgono certe belle canzoni popolari messicane…!
Giovedì 4
Andiamo col bus a Cholula (5
pesos) per vedere la famosa piramide ricoperta da una collina di terra.
Sull’orizzonte si vedono maestosi i due grandi vulcani, il Popocatépetl (5465
m.slm) e l’ Iztaccìhuatl (5230m) che è però spento e inattivo da secoli.
(ora ciao, smetto di scrivere
queste note che sono solo insulse annotazioni di percorsi e di cose fatte,
queste sono soltanto dei pro-memoria personali, e nulla più… yà basta! Mi sono proprio scocciato con me stesso che non sono
neanche più capace di scrivere un diario di viaggio… che rabbia…: niente
rendiconto di giovedì).
Jueves 4 de Agosto
Io e Annalisa cerchiamo il camion
per andare a vedere il paesino di Colpàn, prendiamo andata e ritorno, e
all’andata per prudenza prendiamo quello che fa tutte le fermate, ma ci
perdiamo proprio quella nostra dove avremmo trovato la coincidenza per Colpan, e
la fermata dopo ci lascia parecchio distanti…
e allora ci mettiamo tranquilli in una trattorietta che una coppia di due
anziani hanno aperto in casa loro, in cortile, un cortile qualunque, e intanto
loro ci chiedono di dove siamo e allora ci parlano degli italiani di Chipilo, un
paesino vicino. Sono lì da quattro o cinque generazioni, hanno aperto una
fattoria che produce latte, formaggi, burro, yogurth, ecc., e dicono che ancora
parlino un po’ in veneto tra di loro. Medito su queste persone che sono qui da
cinque generazioni e che sono considerati (e forse anche si considerano) ancora
degli italiani…
Torniamo e mangiamo a Cholula
proprio sullo zòcalo, che ha un
portico veramente lunghissimo e bello (forma una galleria di 170 m.), tanto che
è il più lungo dell’ Hispanoamerica. Poi andiamo per vedere il museo nel
palazzo del “caballero de l’aguila”
(titolo prehispanico), ma è chiuso, e allora andiamo per visitare la capilla
real con sette navate in stile moresco arabeggiante, con tante cupole (49),
ma pure questa è chiusa… comunque la intravediamo, mentre entriamo nel
convento di San Gabriel che nel 1549 sostituì il tempio a Quetzalcòatl (il
sacro e mitico serpente piumato o uccello-serpe).
Quindi andiamo a vedere il mercadito
che c’è alla base della piramide sepolta, e da lì iniziamo la salita.
La storia narra che
all’epoca anti-diluviana dimoravano su questa terra i giganti, poi con il
diluvio morirono quasi tutti. Si salvarono solo sette fratelli che avevano
trovato rifugio nella grotta della montagna di Tlaloc. Il sopravvissuto Xelhua
volle erigere una grande piramide in omaggio a Quetzalcòatl, e per questa
costruzione giunsero operai ed esperti da tutte le parti e si fondò la città
di Cholollàn. Si iniziò la costruzione con grandi mattoni di adobe
fabbricati appositamente a Tlal Manalco, e trasportati passandoli di mano in
mano per una lunga fila di uomini robusti. Ma il padre di tutti gli dei,
Tonacatecutli, temendo che questa costruzione raggiungesse le nuvole, gettò
fuoco celeste, terra e un gran masso a forma di rospo addosso a tutti e così
tutti si dispersero e non si proseguì più con l’edificazione. I pochi
rimasti sono appunto gli antenati dei cholulani attuali. La grande montagna
artificiale comunque resta a testimonianza dei grandi poteri di Xelhua. (parafrasi
dal testo del codice vaticano della collezione di Lord Kingsborough, che trovo
riportato in una pubblicazione).
Una specie di storia tipo
torre di Babele. Si allude ai saperi posseduti dai primi gruppi di toltechi che
giunsero in questa regione del Anàhuac (cioè la valle dei mexìca), essendo
stati scacciati da Tula, e che disponevano di capacità ingenieristiche e
costruttive e saperi architettonici, che parvero grandiose (degne di giganti) e
quasi divine agli occhi dei contadini locali. Per un certo periodo dunque
Cholollàn, pronunciata dagli spagnoli Cholula, dovette essere un centro
cerimoniale importante. La piramide ora ricoperta di terra, ha una base di 400
metri ed è stata interrotta ad una altezza di 62 metri, per cui è da
considerarsi una delle più imponenti del mondo. In cima alla collina dedicata a
Quetzalcòatl, fu costruito dagli spagnoli un santuario alla Virgen de los
Remedios. La cittadina, essendo un così importante luogo sacro indigeno, fu
letteralmente sommersa da 365 chiese costruite già nella seconda metà del
cinquecento.
Viernes 5 de agosto
Siamo ancora con i nostri
gentilissimi ospitanti di “Servas”,
Gustavo, Gustavo giovane (detto Gusy), Cecilia, e Cecilia giovane (chiamata
Cecil, o Cecy), insomma una famiglia con due nomi in quattro. Nella bellissima e
potente camioneta (cioè il van)
Crysler di Cecilia ci fanno ascoltare un CD di Lila Downs, “una sangre”, è veramente ammaliante. E chiacchierando ci facciamo
spiegare il significato e l’uso di certe parole e espressioni: si dice llave
per dire grifo, rubinetto, rentar un coche
per alquiler, affittare un’auto, anteojos
per le lenti e per dire gafas para el sol,
diurex per dire uno scotch…
eccetera.
Ritorniamo ancora allo zòcalo
di Cholula, e andiamo al bel ristorante a tema “cinematografico”, dove ora
viene proiettata “La enamorada”,
un film messicano del 1947, intanto che prendiamo encacahuetadas
de pollo.
Il tipo della macelleria,
quello con la moglie svizzera di Lugano, diceva che meritava andare a Colpàn se
vogliamo vedere un autentico paesino di quella regione. Riusciamo a raggiungerlo
con la loro camioneta 4x4, ma è un
posto in cui in un certo senso, non c’è assolutamente nulla, è un pueblito pobre, un povero paesino su in montagna. Ci sono nelle
stradine delle “macellerie” allucinanti di carne di maiale. E invece la
chiesa è affascinante: ci sono (come altrove in Messico e in CentroAmerica)
tanti fiori per terra dinnanzi all’entrata e sul pavimento dentro la chiesa, e
ora all’interno c’è una funzione, c’è dentro anche un cane, una donna di
campagna canta bene durante un oratorio che fa parte della officiazione.
Restiamo là ad ascoltare.
Da qui si vedono benissimo i
due grandi vulcani, i due patròni dell’area, il Popo e lo Iztacci. Allora uno
è popolarmente chiamato anche Gregorio (il Popo), con le sue nuvolette sulla
cima, e l’altra montagna è detta la Doña
quien duerme bien despejada, la Signora che dorme, con il cielo ben sgombro.
Una volta capitò che lei fosse un po’ in pena, preoccupata, perché lui non
si faceva più sentire da un pezzo, e allora credendolo morto lei si è spenta,
… a quel punto lui ha fatto fuoco, rombi e fumo per la disperazione. Una
storia “romantica” parecchio più antica di quella di Romeo e Giulietta.
Poi andiamo a vedere la
Universidad autonoma de las Americas (UALA), e poi ci addentriamo in un enorme
centro commerciale.
Stamane faceva molto caldo e
nell’ hotel avevano aperto i vetri del tetto. Anche nel piccolo ristorantino
nel cortile accanto ci sono dei vetri apribili, come pure in moltissimi altri
posti. Spesso sotto ci sono come delle strisce di tela per fare un po’ di
ombra (proprio come nelle calli del casco antiguo, cioè del centro storico, di
Siviglia).
Davvero comoda la camioneta di
Cecilia. El zapatero (il calzolaio) del negozio di arreglo de calzados (riparazione scarpe) mi ha praticamente ricucito
/rifatto entrambe le scarpe (a una si era scollata solo una piccola parte delle
suola) per 15 pesos (=1€ e 20) !
Ogni pomeriggio e ogni sera
scroscia una gran pioggiona, che poi passa e va.
Sabato 6
Andiamo a fare la prima
colazione sino da Vip’s, e purtroppo mi fanno attendere per due uova poché tantissimo tempo per nulla… avevano semplicemente perso il
fogliettino d’ordine… Caray!
(è una diffusa interiezione al posto di un volgare carajo).
Siamo poi andati al quartiere
“Sapo” (=rospo) pieno di café
chantant, e botteghe e laboratori artigiani, e bancarelle popolari, e
ristorantini, eccetera.
I nostri amici ci raccontano
la storia del niño perdido (che forse
si chiamava Miguelito ?). E anche il racconto parallelo della llorona (=piagnona) che sempre si lamentava: ohi, ohi hé perdido a mis niños… che ora purtroppo ho già
dimenticato ma che in qualche modo aveva un collegamento con la storia del
famoso callejon del beso (vicoletto
del bacio) che veniva raccontata già in nàhuatl (la lingua degli aztechi) in
cui si spiega que tienen que darse un beso,
es solo un par de metros de ancho (in cui debbono darsi un bacio essendo
largo solo un paio di metri). E questa è anche un’altra storia che allude a
Popo e Iztacci. Ma ne riparleremo quando andremo a vedere proprio quella stretta
calle.
Cecil ci racconta anche che fa
la volontaria e gira nelle banche a raccogliere denaro per comperare medicine
per malati di cancro poveri.
Quindi andiamo al grande
centro commerciale Angelopolis (dal nome completo della città che è Puebla de
los angeles, per via di una leggenda locale).
Andiamo infine a visitare il
museo regionale dell’ INAH (Instituto Nacional de Antropologìa e Historia)
dove compriamo delle cartoline con le riproduzioni di foto d’epoca
rivoluzionaria, di Zapata, di Villa, del generale Macìas, e di altri
personaggi. C’è anche una esposizione relativa alle feste che si fanno nel
“dia de muertos”: in alcune case si prepara un altare dei morti in
onore del defunto della casa, con molta cura e affetto si collocano fiori, cibo,
incensi, acqua aromatizzata, candele, giocattolini per i bambini, la sua bevanda
preferita e la sua foto, e quindi dopo aver pregato si fanno ballare nei
festeggiamenti alcuni scheletrini scherzosi. Certi piccolini sono di marzapane e
poi si mangiano, certi si tengono. E’ una usanza molto diffusa e popolare, con
varianti locali, ma presente in tutto il Messico (ovvero, come dicono, in tutta
la Repubblica), un tratto, un rasgo,
caratteristico tipico della cultura messicana, di cui si è scritto e discusso
in moltissimi studi etnografici al proposito.
Domenica 7
Andiamo a zonzo per i dintorni
dello zòcalo con Gustavo, Gusy, Cecil e i due fratellini tedeschini Eva e Simon
di Norimberga (ospiti in casa loro). Assistiamo a delle belle danze indigene sul
sagrato della chiesa domenicana. C’è anche un gruppo di Palenque, la
cittadina del sud con i famosi reperti maya, (che ci ricorda il viaggio
dell’altra volta in cui andammo anche nel Sud). Ci spiegano che palenque è un sostantivo che sta a significare palizzata, recinto,
luogo fortificato, ma anche lo spiazzo dove si svolgono le battaglie tra galli.
E siccome in un luogo così trovarono sottoterra dei resti archeologici
stupendi, per questo la località nello stato messicano del Chiapas si chiama
così. Ma nella lingua maya sembra che volesse dire “la cassaforte della
terra”. Entriamo in chiesa anche se in quel momento c’è la messa, perché
andiamo a vedere un retablo
superbarocco d’oro carichissimo e tutto brillante (sbirluccicante direi),
grande come l’insieme delle pareti di fondo. Strabiliante.
Desayuniamo assieme ma senza
Michi che se ne sta per conto suo, e poi andrà a camminare in quartieri poveri,
e ci racconterà che la cameriera di un bar gli ha detto che i ragazzi della sua
età qui hanno tutti due o tre ragazze (forse Michele le avrà detto che lui è
già impegnato), e lo stesso vale per le femmine, e poi sceglieranno.
Torniamo verso lo zòcalo dove
ci sono ancora dei balletti di indios, ma subito ci chiama col cellulare Gusy
dicendoci di andare alla Casa de la Cultura dove si stanno esibendo stupendi
balletti folklorici, danze in costume, ecc. di compagnie veramente molto brave.
E in effetti vediamo che è un evento organizzato dall’assessorato alla
cultura, e lo spettacolo è gratuito e di alto livello. E’ un gran piacere
vederli danzare, ci sono anche molte bellissime ragazze, che stanno benissimo in
costume tradizionale, tutte truccate, e non pochi giovani del pubblico si
mettono a ballare un po’ in disparte, o almeno accennano a passi di danza
perché restano coinvolti dalla musica. Restiamo lì per un bel po’ di tempo
perché merita ed è letteralmente affascinante…
Dopo la fine di queste
esibizioni, c’è un complesso cubano ospite, con un bravo cantante, la gente
invade il patio e si mettono tutti a ballare. Tutto intorno, sotto ai portici ci
sono dei banchetti di campesinas
(contadine) indie dei paesi qui attorno, con cose varie di medicina indigena
tradizionale, brujerìa (per fare
stregonerie, fatture), verdure, erbe, e prodotti artigianali eccetera. Compero
una camicia larga di tela bianca che è proprio come quelle che si vedevano sui peones
nei vecchi film sulla revoluciòn, una camicia di telone grosso e grezzo, molto
“romantica”.
Andiamo a pranzo. Riprendo,
per curiosità di chi legge, dal ricco menu de “La
casita poblana” (che in realtà è un locale muy grande). Guaxolote,
che è carne di tacchino con guacamole de
aguacate molido, crema e frijoles
(fagioloni). Chipotle che è un
particolare tipo di chile. Taco de pollo, è un rollo di frittella con carne di pollo. Tostadas,
sono dei toasts, o meglio delle fette di pane tostato con varie guarnizioni. Chalupas sono delle tortillas con varie guarnizioni. Mole
de epazote, che è una hierba. Chile
en nogada, un piatto che si può trovare solo a Puebla e solo in agosto, è
una salsa fatta con noci pelate, con frutta un po’ piccante (melograne,
banane, fichi, mela, pesca, uvette), canditi, e cannella. Agua
de Jamaica, cioè una bibita aromatizzata con flor
de Jamaica. Gusano de Magüey, che
è un verme di cactus che si mette nel rhum. Escamoles,
uova di formiche. Arroz mexicano, cioè
riso rosso per il condimento di carote e pomodori, servito con plàtanos
machos fritos (banane “maschie” fritte). Sopa
de tortilla, fatta con strisce di frittata in un caldillo
de tomate con queso, brodino di pomodoro con formaggio. Gaznates, che sono clara de
huevos batidos con jugo de limòn bianco d’uovo sbattuto con sugo di
limone zuccherato, fatta a meringata e servita in un cono. Duraznos en almìbar, ovvero pesche sciroppate.
Da questi stralci dal menù
potete farvi una idea della estrema ricchezza della cucina di Puebla. Provate
ora a scegliere quale ordinazione fareste. Tutti questi piatti tipici sono non
solo frutto di una culinaria raffinata, ma sono anche davvero buoni, seppure i
sapori siano molto particolari e forse non a tutti possano piacere di primo
acchito. Ma d’altronbde la cultura culinaria, è parte fondamentale della
cultura materiale popolare e davvero il passaggio dal crudo al cotto ha
significato un grande salto qualitativo, soprattutto grazie alle donne, ai loro
saperi e alla loro fantasia colorata.
Poi andiamo a casa loro, dove
Gusy doppia tre CD per noi con bellissime canzoni messicane, che ci
riascolteremo a casa per un lungo periodo nostalgico.
Mentre Gustavo (senior) ci
parla della sua azienda che cadde in rovina quando vi fu la grande svalutazione
del peso del 40%, dato che essa era basata sulla esportazione/ importazione
all’estero. Tutta una vita distrutta senza vie d’uscita… Poi ha ripreso,
grazie a dei fidecommessi, e alla pazienza e alla comprensione dei debitori
esteri. E così ha messo in piedi una rete di aziendine indipendenti e un bel
gruppo di collaboratori. Ci ha poi parlato di come si fa a dirigere e a
stimolare i dipendenti e i soci, e come trarre il meglio da loro. Passa quindi all’esempio di Gusy jr, che riusciva proprio
bene nel basketball ed aveva molte doti naturali che potevano venire instradate
e sviluppate, e certamente da lui si sarebbe potuto tirare fuori un ottimo
giocatore perché era veramente molto portato, le cose gli venivano facilmente
bene … Quindi lui è stato d’accordo che Gusy piantasse lì gli studi.
Bisogna che uno faccia volentieri quel che fa, che ne tragga soddisfazione, che
ci si appassioni, che ci si identifichi. E così è pure (anzi soprattutto) nel
lavoro, guai se lo fai per riuscire e basta, o solo per il salario, o perché
non hai altro, o per farti apprezzare dagli altri, eccetera… Si dovrebbe
invece cercare di avere una attività in cui identificarsi nel senso che si
desidera profondamente fare e dare il meglio perché non si è proprio capaci di
non farlo. Ma qui bisognerebbe entrare nel campo della psicologia del lavoro,
che lui non ha approfondito. Però ci è sembrato che fosse bravo ad esprimere i
concetti con grande passione, competenza, e anche con precisione. A lui pare di
aver trovato la sua vera strada nel guidare un gruppo e nel prendersi le sue
responsabilità per le decisioni assunte. Inoltre dice che ha capito che un
tempo sbagliava a dedicarsi tutto solo al lavoro e tornare a casa fingendo di
non avere altri pensieri, quando invece la sua testa era altrove anche quando
era in famiglia. Ora dice che cerca di tenere i due ambiti il più possibile
alla pari quanto al tempo che vi dedica, e anche ai pensieri che vi dedica.
Infine ci abbracciamo tutti
con tanti saluti e baci e promesse di rivederci in futuro, e usciamo dalla bella
villa dei Rojas.
Lunes 8
Abbiamo preso il pullman “ORO”-Directo
che fa la autopista del Siglo XXI inaugurata l’anno scorso, con cui si arriva
a Cuernavaca in due ore e mezza. Dal finestrino si capisce bene che questo è
proprio un altipiano. E’ bello e molto verde, con pochissimi abitanti. Per
giungere a Cuernavaca che si trova a “soli” 1542 m.slm. si va ad un passo e
insomma si fanno molti su e giù e con molte curve, per cui sento un po’ di
mal d’auto. Poi col taxi arriviamo al bell’ Hotel “Bajo
el Volcàn”. Mangiamo al ristorante “Casa
Hidalgo” piatti “internazionali”, cioè linguine al burro per me, e
per Miki le linguine con gamberetti e salsa parmesan.
E’ tantissimissimo! Beviamo agua de
naranja, due jarras (=brocche)
perché qui fa caldo. Avevamo subito fatto il bagno in piscina appena arrivati
perché c’erano 31° gradi ed eravamo tutti sudati. La piscina interna a una
villa qui la chiamano alberca.
Saliamo sul terrazzo
da cui si vede un vasto panorama trovandoci qui sul punto più alto della
collina. Lo scrittore nordamericano
M. Lowry, durante il suo soggiorno a Cuernavaca
mise un tavolino, una sedia e una macchina da scrivere sul terrazzo del
suo albergo da cui si vedeva l’imponente vulcano Popocatepetl sullo sfondo,
e scrisse un romanzo che intitolò “Under the volcano” poco prima dello
scoppio della seconda guerra mondiale (edito poi nel 1947). Il libro ebbe un
successo enorme e ne furono fatte innumerevoli edizioni in molti paesi, fu
tradotto anche in italiano e pubblicato dall’editore Feltrinelli (fu allora
il primo successo della nuova casa editrice). Oggi l’albergo, ridenominato
appunto Bajo el volcàn è visitato
da molti nordamercani, ma è anche soggiorno di turisti generalmente ignari di
ciò, che vengono semplicemente per ammirare il panorama.
Poi facciamo un giretto sullo
zòcalo, che è veramente uno zoccolo un po’ sopraelevato cui si accede con
una scalinata (ma qui invece la piazza centrale si chiama ufficialmente Plaza de
Armas). E’ pienissimo di gente nonostante sia lunedì. E poi ci sono i bei
giardini “Morelos”. Tutti convergono qui a descansar
(=riposare), e a sdraiarsi (acostarse),
perché è verdissimo, con grandi e begli alberoni secolari. Dunque ci sono
mille botteghini e tienditas,
“negozietti” al suelo, per terra, di campagnoli dei paesini di provincia che
vengono carichi delle loro robe da vendere, che mettono giù, con sotto il
lenzuolo stesso con cui le hanno trasportate. Portano il massimo possibile a due
sole braccia; certi portano con sé pure i bambini, per poter trasportare un
po’ più mercanzia.
Attacco discorso con
tre-quattro bambini, specialmente con Alicia che è affascinata dai giochetti
con le dita che le faccio vedere.
Siccome di nuovo abbiamo
pranzato tardi (ma oggi addirittura alle 6 !), poi non ceniamo. Gironzoliamo per
un quartiere artigiano dove parliamo con una vecchia india molto dignitosa che
parla con grande calma serafica.
La città in generale è
piacevole (nonostante la recente industrializzazione) e si capisce perché fu la
sede dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo e di sua moglie Carlotta, quando
giunsero da Monfalcone a prendere possesso del Messico.
Martes 9 de Agosto
Domani ripartiremo. Spesso mi
capita che al momento di organizzare uno spostamento, tutto mi pare faticoso,
mentre poi so benissimo che sarà interessante e positivo e tutto si svolgerà
abbastanza semplicemente a patto di fare le cose pian piano con tranquillità.
Oggi a colazione abbiamo un
po’ le solite difficoltà a farci capire… Michele vorrebbe delle uova
strapazzate con prosciutto e formaggio, ma qui le uova strapazzate sono previste
solo o con prosciutto o con formaggio… con entrambi ci sarebbe effettivamente
un piatto di uova con prosciutto e formaggio, ma non strapazzate… oppure ci
sarebbe la possibilità di farle, ma non nel paquete
del menù con i vari tipi di desayuno
(=prima colazione), ma in quello
dell’ almuerzo (=pranzo)… Quindi
Michele dice che gli sta bene con la tariffa
indicata al di fuori dei desayunos, ma gli dicono che non si sa come si
potrebbe fare poi con il conto perché noi abbiamo il desayuno già incluso nel
prezzo della camera, ma solo stando dentro a 150 pesos per due persone…
abbiamo un bel dire che noi pagheremmo volentieri i pesos di sovraprezzo
pur di averlo, ma non c’è niente da fare… eccetera. E per fortuna che ce la
caviamo abbastanza benino con la lingua. Alla fine di tutta questa lunga e
faticosa storia di contrattazioni mattutine, si concorda che Michi è
“fuori” di due pesos (=16 centesimi di €uro), e che li dovrà pagare
extra, ma solo efectivos, cioè cash,
in contanti, cioè al di fuori del pagamento del totale finale; però ci
spiegano che il servizio del
cameriere in questo caso non sarebbe incluso, quindi ci sarebbe anche la propina
(=la mancia) da aggiungere… tanto più che Michele avrebbe più facilmente
potuto prendere huevos anziché revueltos, invece estrellados.
(i primi sono strapazzati poco cotti, mentre gli altri sono strapazzati molto
ben cotti). E poi ci sono pure i piatti “divorciados”,
e quelli “simultàneos” (con
riferimento alle tipologie di menù), per cui non tutti i piatti dei vari menù
sono intercambiabili tra loro.
Insomma questo tipo di
“problemi” è molto frequente, con le varie combinazioni tra i menù, i paquetes, e la comida corrida
(il menù corrente, del giorno). Lo stesso avviene per le camere: a un solo
letto ma grande, a due letti ma piccoli, oppure suite, o suite junior (cioè con
tre posti), o a quattro letti ma grandi (come era a C. de Mexico). Per cui
essendo noi una famiglia di quattro persone, dobbiamo calcolare bene quando
facciamo per telefono le prenotazioni perché la somma di due camere può essere
più o meno uguale a una per quattro, oppure anche ad un prezzo molto maggiore;
e questo indipendentemente dal fatto che si abbiano due bagni avendo preso due
camere, anziché uno solo con la camera quadrupla…
Anche i biglietti dei pullman
differiscono sensibilmente a seconda della Compagnia, della classe, se sono
diretti, o diretti ma con un paio di fermate intermedie, oppure ordinari, cioè
con molte fermate locali. Questo genera molteplici combinazioni possibili…
quindi quando prenoti, oppure quando arrivi allo sportello, devi avere le idee
già molto ben chiare.
Bisogna fare tutto in
anticipo, perché per ogni cosa bisogna sempre aspettare, e avere una fiducia
incrollabile che non si sono dimenticati di te (cosa che può succedere, ad es,
come già dicevo, tre giorni fa a colazione alla fine risultò che avevano
perduta la mia ordinazione), ma che semplicemente devi solo aspettare ancora.
Per es. immaginatevi al telefono chiedendo queste informazioni… Poi verrai
servito, ma magari con una sequenza di servizi che non è quella che a noi può
parere logica o che vorremmo (ad es. può capitare che si arrivi accaldati e si
vorrebbe avere subito da bere e dopo il mangiare, mentre può darsi che avvenga
l’inverso, oppure che tu abbia il mangiare ma che dovrai aspettare ancora
molto per avere le posate, eccetera).
Facciamo delle foto nel bel
giardino tropicale dell’albergo, e poi nella sala da pranzo che ci piace
essendo tutta aperta su tre lati. Lo stesso fanno anche degli altri clienti
messicani. Ricordo che anni addietro ci facevano sorridere certi turisti
americani con la camicia a fiori, oppure giapponesi, in Italia, che facevano
foto a una distesa di colline con i prati, o a statue o ai monumenti di cui
certo non mancavano le cartoline, o a degli alberi o dei fiori, oppure al
ristorante, o alla camera d’albergo, o in aereo o in pullman….! Chissà cosa
avevano in testa? Forse che il soggetto di una foto dovesse essere un po’
quello di un quadro, con un ritratto da vicino, o un bel paesaggio, … e dunque
tra noi ridevamo di loro, che facevano allora proprio quello che stiamo facendo
anche noi oggi…
La piccola Alicia cui regalo
una saponetta dell’albergo, dopo un po’ ritorna, forse mandata da sua mamma,
a chiedermi se si può succhiare, o comunque mettere in bocca, oppure no? Le
spiego che non è una caramella ma serve solamente per pulirsi meglio le mani o
il viso o il corpo, lavandole sotto l’acqua, e che invece farebbe venire molto
mal di pancia mangiarlo, e che comunque non è buono. Capisce subito benissimo,
e corre a raccontarlo.
Cuernavaca, oltre ad essere la
capitale dello Stato di Morelos, è una città piena di fiori, e sembra essere tutta una città di ville e di seconde case,
perché è nota come “città dell’eterna primavera” per il suo clima.
Certi sono ricchissimi, con ville veramente stupende con giardini interni che in
effetti sono piuttosto dei parchi. Praticamente questa è la città con più
piscine pro-capite di tutto l’Altopiano messicano.
Per dire “di tutto il
Paese”, ovvero “di tutto il Messico”, loro per non fare confusione dicono
“di tutta la Repùblica”; perché México è anche uno Stato della
confederazione; e la immensa “vallata” del Messico (o Anàhuac), è una
regione dell’altopiano; tanto che anche per menzionare Ciudad de México, la
chiamano o DF (=de efe) oppure la capital federal.
Cuernavaca divenne famosa in
tutto il mondo come un paradiso in terra proprio grazie a Lowry, e quindi qui
vennero negli anni Cinquanta e Sessanta molti nordamericani in pensione a
stabilirsi definitivamente, costruendosi belle ville con piscina, poi imitate da
tutti i ricchi messicani; e tutt’ora qui vengono molti turisti gringos che non sono visti con gran simpatia dagli abitanti.
Qui un po’ tutti in una
qualche misura sembrano condividere ideali riformisti o vagamente rivoluzionari,
ma si tratta solo di una ideologia diffusa (che è poi quella originaria del
partito che è stato al potere per 71 anni che è il partito rivoluzionario
istituzionale, PRI, strana definizione paradossale) e non è un vero e proprio
convincimento con contenuti precisi e chiari. Comunque qui venne a stabilirsi il
grande filosofo e sociologo Ivan Illich che diede vita nel 1961 ad un famoso
centro studi internazionale, il CIDOC, che esiste tutt’ora e che pubblica
ancora libri e una rivista, divulgando la sua originale e creativa visione del
mondo e dei suoi problemi. Per cui negli anni Sessanta/Ottanta vennero qui molti
che erano attratti dal clima di discussioni e dibattiti e ricerche che il centro
studi promuoveva, e poi molti qui restarono, trovando un clima -appunto non solo
meteorologico- accogliente ma anche una apertura da parte della mentalità
politica di molti messicani, che allora non si trovava facilmente nei paesi
dell’ occidente industrializzato.
Cuernavaca è molto viva
culturalmente, ci sono vari istituti di studi che ci sembrano innovativi o
comunque interessanti (come ad es. abbiamo visto “Nueva Acropolis” -
Filosofia y Humanismo).
Con Ghila andiamo in una
trattoria dove lei prende una pizza hawayana, e io il mio amato caldo Tlalpeño, che è un brodo caldo rosso, con riso, pezzetti di
pollo, cipolle dolci, aglio, prezzemolo, e una fetta di avogado, cui si aggiunge
prima di mangiarlo una spruzzatina di lime al gusto. Per chiamare il cameriere di solito usano dirgli joven;
per una penna per scrivere si dice pluma;
e para no molestarlos. (espressione che usano molto di frequente), è
una premessa di cortesia, =per non disturbarvi…
Poi giriamo attorno al Palazzo
di Cortés. Ci sono ancora ben visibili grandi pezzi dell’edificio precedente
azteco, con uno scudo piumato, un’aquila, un sauro, … ma non si sa nulla
sull’edificio antico, né di chi fosse, né cosa fosse, né quando sia stato
trasformato.
Al mercadito Ghila si compra
un bel vestito con disegno tipico di Oaxaca.
La città ha anche una storia
prehispanica, quando si chiamava Quauhnahuac, che gli spagnoli interpretarono
come Cuernavaca (=corno di vacca), ma resta ben poco, mentre a soli 38 km. fiorì
tra il 700 e il 900 d.C. (cioè tra la fine di Teotihuacan e l’imporsi di Tula)
la maggiore località precolombiana dell’attuale Stato di Morelos, e cioè
Xochicalco.
Viene a trovarci in albergo un
amico di “Servas”, Sergio, assieme
a suo figlio Sergio, e ci racconta un po’ di cose sui posti dove prevediamo di
andare, e sulla pratica di regatear,
cioè di contrattare. Ci parla dell’arte locale della terracotta (barro),
e ci parla anche della piccola frutta (nanche)
qui molto utilizzata nella gastronomia; e poi ci racconta del subcomandante
Marcos, e ci accenna ai problemi delle autonomie locali, e a quelli legati allo
sviluppo delle infrastrutture, e ci parla della condizione della donna, dei
matrimoni tradizionali, e della grande arretratezza (materiale e culturale) dei
poveri indios.
E’ tutto molto interessante,
e anche lui è calmo e tranquillo, pur essendo molto appassionato degli
argomenti su cui ci ha intrattenuto. Una persona veramente gradevole. Ci
salutiamo con il rincrescimento di non poterci fermare per frequentarci di più.
Miercoles 10
Con un camion della Compagnia “Flecha
Blanca” di 2° classe, ordinario, saliamo oltre i tremila metri di
altitudine tra foreste, laghetti, pascoli con cavalli, mucche, pecore. Posti
bellissimi, un panorama piuttosto differente da quello precedente. Ma ci sono
continui sbalzi di altitudine, e molte curve, per cui anche questa volta sento
un po’ di mal d’auto.
Eccoci ora a Toluca, a 2640
m.slm. Non c’è posto nel bell’ albergo in un edificio coloniale dove avrei
voluto andare, e ci sistemiamo in un albergo moderno (il San Francisco) dove
mangiamo dei pessimi espagueti
“Alfredo”, e cotoletta empanizada
alla milaneza, e Miki degli espagueti
con aglio, olio e peperonzino (che non
c’è), non piccanti, non saporiti, e molli stracotti. Anche in Messico dunque
in certi ristoranti si può mangiar male…
Giriamo sotto i portici,
Portales, dietro allo zòcalo, che dicono sarebbero i portici più grandi del
Messico, con una lunghezza di 560 m. e con 120 arcate, che ospitano
numerosissimi negozi. Ghila si compera dei vestitini da sera. Girovaghiamo a
zonzo senza una meta. Ceniamo in una trattoria popolare, e i ragazzi si passano
il tempo giocando con le loro carte “Magic”. Qui è di nuovo Estado de México.
Sembra che il termine Mexica anticamente significasse “ombelico della Luna”.
Jueves 11 de Agosto
Con i nuovi amici di “Servas”
(la famiglia Guillermo, cioè Memo, Karla, e Ivan Franco Piñon), andiamo fuori
città, a Metepec a vedere un bel mercatino di oggetti, e di artigianato.Questi
mercatini popolari li chiamano tianguis.
Ci colpisce una bambolina di carta che viene dall’artigianato di Puebla
ed è una cinesina. Ci dicono che “la
china poblana era una esclava de Veracruz, china, y un poblano rico la comprò;
como se arreglava mucho con trajes tìpicos de Puebla y era guapa, la casò y se
quedò con ella; de aquì la muñequita de papel”. Cioè che “era una
schiava cinese di Veracruz, e un ricco di Puebla la comprò, e siccome stava
molto bene con abiti tipici di Puebla e (si vedeva che) era bella, lui la sposò
e rimase con lei; da qui proviene la bambolina di carta”.
Al mercatino, come già
avevamo visto altrove, ci sono raffigurazioni e statuette in ceramica con don
Goyo y doña Rosita, cioè con Gregorio “el Popo”, e la sua morosita,
nelle vesti di un prode guerriero senza paura, e di una bella principessa di lui
perdutamente innamorata, e da lui inseparabile. Quando lui coraggiosamente parte
per una guerra lontana, lei resta molto in ansia, e geme e sbuffa nell’attesa.
Ma quando poi le dicono che non è ritornato dall’ultima battaglia, e che
nemmeno si trovano sue tracce, lei disperata non sa reggere al colpo, e muore di
crepacuore. Ma lui si era solo allontanato per inseguire i nemici in fuga, e
quando poi infine torna vincitore, lei ha già esalato il suo ultimo respiro, è
già spirata… Da allora il Popo veglia a fianco della sua eterna innamorata
che gli dei impietositosi hanno mantenuto miracolosamente in vita, ma solo in un
lunghissimo e profondo sonno da cui ancor oggi non si è risvegliata. Così lui
ogni tanto sbuffa e geme e a volte si adira ed esplode di rabbia, o rumoreggia
per chiamare e risvegliare la sua bella addormentata. Ecco la variante locale
della fiaba che già avevamo ascoltato.
Poi sempre insieme con loro,
andiamo in centro a visitare “el
Cosmovitral”, che è qualcosa di meraviglioso, sia per la concezione così
ardita (e per averlo commissionato), sia per la realizzazione tecnica, sia per
l’effetto che fa e per i valori che vuole comunicare, sia per il risultato
estetico complessivo. Si tratta di una costruzione di ferro e vetro, che è
ritenuta il più grande complesso di vetrate che ci sia al mondo, opera del
maestro Leopoldo Flores, degli anni dello stile che noi chiamiamo Liberty.
Comprende un bellissimo jardin botanico
con piante di varie parti del mondo.
Mi piacciono moltissimo lo
stile, i colori, l’ideazione dell’insieme. E’ grandioso e impressionante,
e infine è bella la collocazione lì del giardino botanico, che è pure molto
ben disposto. Purtroppo non hanno cartoline, o un libro di riproduzioni delle
varie vetrate, o un poster, nada de nada (!).
Vederlo può valere già da solo un viaggio qui a Toluca.
Mangiamo da “Vip’s”,
chiacchieriamo, giriamo e guardiamo negozi.
(por
atràs): Stamane avevamo fatto la prima colazione noi due alla “Hostaria
de la Rambla”, proprio sotto i Portales.
Atmosfera anni ‘50/’60, con lui che serve ai tavoli, lei che sta alla cassa
e risponde al telefono, e poi le inservienti così premurose. Ambiente
casalingo, da bottega di famiglia, visite, chiamate ai fornitori, giro di gente
conosciuta e di fiducia, chiacchierate amene miste al combinare affari…
Sembrava di essere tornati appunto alla seconda metà degli anni Cinquanta…
Viernes 12
Quest’oggi noi saremmo anche
rimasti in città per andare a vedere il mercato del venerdì, ma Ivan e Karla
dicono che è solo roba per povera gente, di bassa qualità, e che non vale la
pena. Chissà… Certo oramai i mercati popolari sono molto cambiati rispetto a
28 anni fa, quando nel nostro viaggio giovanile, appena arrivati in Messico da
soli due giorni, corremmo a prendere un camion
della “Flecha Roja” apposta per
venire qua al mercato del venerdì, e ne restammo molto colpiti. Si dice che
questo grande mercato popolare sia il più grande del Paese (della Repùblica),
e vengono letteralmente da ogni parte.
Certamente, come abbiamo già
potuto constatare, ci sono i risvolti spiacevoli del fatto che il Paese è “in
via di rapido sviluppo”, per cui, come accadde anche da noi negli aa.
Sessanta, stanno scomparendo il folklore locale, le tradizioni i costumi, e
questi vengono rimpiazzati dalle T-shirts, da abiti di scadente qualità, in
fibre sintetiche, si diffondono i sandali di plastica o di gomma, ci sono
persino sombreri in plastica… e va riducendosi una economia di campagna con i
suoi prodotti locali naturali, eccetera ecc. Proliferano misere casette in
cemento, per cui le periferie delle città sono ormai tutte una sequela di
“cubabitacoli” con cavi di ferro che spuntano dal soffitto per un
improbabile progetto futuro di aggiungere un primo piano rialzato, ovvero sono
casette al grezzo, ma abitate, non intonacate né dipinte, con i solai che
diventano luoghi ove scaricano residui d’ogni genere, in attesa di un colpo di
fortuna che permetta di finire la casa. L’insieme è davvero squallido e
misero, manca l’igiene e mancano i servizi, il fango è ovunque…
l’immondizia pure.
Insomma andremo invece a fare
una bella gita fuori città. Bianca non viene, ma c’è la giovane Guillermo
che guida, e ci sono Memo, Karla, Ivan. Loro quando fanno una gita vanno
all’ingiù, perché partono da 2650 metri e scendono verso altre località,
mentre noi per fare una gita tante volte andiamo all’insù, in collina o in
montagna… Dunque con il loro pulmino attraverseremo una bella campagna, e
infine visiteremo uno straordinario sito archeologico poco noto. In quest’area
campagnola e agreste, che chiamano campiña,
ci sono molte pecore (borregos),
montoni (carneros), ma anche animali
per noi inusuali, come l’armadillo. La flora è molto varia e mista. Prima con
pini, poi scendendo con piante di mamey,
e palme. Le palme da banane, producono sia il platano
tabasco, che è una banana “maschio” di forma normale, oppure il platano
manzano che è una banana grassoccia.
Ora ci stiamo avvicinando al
sito antico, che si chiama Malinalco,
forse da malinalli che è un’erba,
oppure probabilmente da Malinalxòchitl
che è la sacerdotessa. Questa zona, tutt’attorno a San Miguel del manantial era un territorio vassallo della Triplice
Alianza che all’inizio del Cinquecento costituiva parte del
Imperio Azteca. Qui anche le case più povere dei montanari erano, e sono
ancora, fatte di pietra, chiamate tetlepanque.
Parcheggiamo in un paesino, dove c’è una grande vasca-lavatoio. Poco prima di
giungere ai resti archeologici principali, che si raggiungono con una lunga
camminata a piedi in salita, c’è un cuauhuacalli
dove si compivano i sacrifici dei guerrieri nemici, evento che faceva parte
delle cerimonie di iniziazione dei cavalieri, e qui avveniva l’ordinazione dei
caballeros Aguila e dei caballeros
Tigre, che erano i più prestigiosi titoli della gerarchia militare antica.
Infatti c’è una scultura di una testa di serpente con le fauci spalancate,
gli occhi sbarrati e la lingua fuori, che segnala il sito. I resti della città
sono veramente splendidi, e da là si gode di un bellissimo panorama. I
bassorilievi sui lati degli edifici, e soprattutto dei templi sembrano mostrare
che qui convergessero per motivi cerimoniali rappresentanti di vari popoli
diversi sia provenienti da nord che dal centro America, forse per scambi di
conoscenze, e in effetti lo stile artistico è di volta in volta piuttosto
differente.
Scendiamo e torniamo al
piccolo paesino dove ci fermiamo in una trattoria a pranzare. Ci danno un bel
tavolone grande dato che siamo in otto. Come entrata ci sono i tlacoyos (si tratta di una specie di panzerotto con salsa), oppure
ci sono le quesadillas con vari tipi
di formaggi. Ma soprattutto le trote del fiume qui accanto, che vengono cucinate
o come truchas empapeladas (al
cartoccio) o al horno (al forno),
oppure frita al mojo de ajo (fritta
con una crema di aglio), oppure a la
plancha (sulla graticola). Per finire c’è il platano macho, che lo asan,
lo arrostiscono su un fornelletto anche nei carretti ambulanti, e lo danno con
leche condensada o marmelada.
Assaggiamo anche della melassa dalla caña
de azùcar schiacciata tra due rulli.
In un negozietto di generi
alimentari vari (miscelanea) compro
anche delle marmellatine di guayabas,
e di mamey (di cui avevamo da poco
visto l’albero). Ho assaggiato del mamey anche la nieve,
cioè la granita/gelato. Alla fine ci sono i liquori digestivi, che sono
alcolici e contengono un rametto o un vermetto per insaporire maggiormente: el
maguey es para el pulque, mentre el agàve
verde para el mezcal, e azùl para
tequila.
E’ proprio vero quel che
dice uno slogan pubblicitario della segreteria per il turismo: “come y conosce” cioè mangia e conosci. In generale l’essere
umano conosce nella misura in cui esperisce, sin da neonato e per tutto il corso
dell’esistenza, l’uomo deve provare per meglio capire. L’ingestione del
cibo è una modalità immediata di esperire, tramite l’odorato, il palato, la
masticazione, l’ingestione e la digestione. Conoscendo di cosa ci si ciba si
conosce una parte essenziale di una cultura. Nella sua dimensione culturale
l’alimento ci aiuta a capire il territorio, la gente, gli usi e le tradizioni.
E’ un elemento importantissimo della cultura materiale perché aiuta a
rinforzare i sentimenti identitari, e viceversa a conoscere e capire meglio le
identità altrui. Da qui possiamo risalire alla natura del terreno, ai riti che
riguardano la semina, la raccolta e poi la preparazione degli alimenti, e alla
storia che ha portato a esperimentare e decidere certe modalità di preparazione
e di lavorazione, nonché alla scelta di certi ingredienti. E’ in gran misura
una sapienza femminile quella del cucinare. Quindi attraverso la culinaria
conosciamo la geografia, la storia, le abitudini, i gusti, gli usi e costumi, la
creatività tipica di una popolazione. Inoltre l’atto del mangiare assieme, fa
sì che i commensali si riconoscano reciprocamente come esseri umani, e si
condivida una esperienza che non riguarda solo il senso del gusto, ma che
coinvolge anche l’odorato, e a volte il tatto, e dice molte cose anche a
proposito della estetica, del gusto per i colori, le forme, gli accostamenti.
E’ un atto che nella condivisione ci permette di confrontarci, di ricordarci
le nostre origini, di fare comparazioni, e dunque ci ricollega alla memoria
individuale e collettiva. In definitiva non solo la preparazione dei cibi, ma
anche il loro consumo avviene nella cornice di un rituale sociale, che coesiona,
o che comunque intesse relazioni. Per questo mi sono spesso soffermato sulla
ricchezza e originalità delle cucine messicane.
Ripartiamo per tornare in città,
passiamo a lato del panteon municipal
(il cimitero monumentale) molto ricco di addobbi e adornato con fiori. Ci
fermiamo un attimo ad ammirare Tenango dove c’è la zona archeologica di
Teotenango che è pure molto bella, con templi e la piazza per la pelota. Sempre
su alture.
Infine tutta la grande
famiglia Guerrero (e Franco) al completo ci vuole assistere per il nostro
viaggio di stasera e accompagnare al Terminal
de camiones. Varie peripezie per prenotare il bus, poi perché una volta
arrivati in stazione dicono che era pieno, ma anche per posteggiare vicino al
terminal e poi per prendere il camion giusto dell’ora giusta del tipo
corrispondente ai nostri biglietti. E’ una grande stazione con moltissima
gente e confusione.
Calorosi saluti e abbracci a
tutta la famiglia, un adiòs a “Toluca
La Bella en el corazòn de México”.
Partiamo alle 19.30 con un bus
della compagnia Herradura de plata.
Viaggio notturno con lampi, fulmini e tuoni.
Sabado 13
Arriviamo al mattino a Morelia,
capitale del Michoacàn, el alma de México.
Ci sistemiamo nel bell’hotel in centro, in un palazzo di epoca coloniale. Pepe
arriva mentre stiamo facendo colazione, e alla recepcion gli dicono che ancora
non siamo arrivati. Quando gli telefono, lui è appena rientrato a casa. Dice
che verrà qui di nuovo più tardi. La camera non ha gli scuri, viene solo un
filo d’acqua appena appena dal rubinetto, il sistema doccia è stravecchio, la
tazza del water perde, la prima colazione non è inclusa. Si spende 65 €uro a
notte in quattro. Ma il vecchio
edificio coloniale è proprio bello, e l’albergo è vicinissimo al centro…
Ci risistemano nell’edificio accanto con un bel patio fiorito. Restiamo.
Quando ci sediamo per il desayuno e chiediamo che le uova anziché sode siano
solo appena appena bollite, la signora si scoccia (anche se in realtà si
tratterebbe di un risparmio di tempo in cucina….).
La inserviente anziana dai
lunghissimi capelli forti e robusti a treccia, annaffia i fiori nel cortile
aperto del patio (stanotte ha piovuto moltissimo), e quando le si avvicina un
falegname e le chiede di darle una chiave per un lavoro che sta facendo in
albergo, lei gli dice di aspettare un
tantito perché ora è impegnata e non può interrompere per andare a
prendergli la chiave… (la chiave suddetta sta appesa a un muro ad un paio di
metri da lei). Quando ha finito di dare acqua va alla ricezione e si mette a
fare delle cose, intanto il carpintero è ancora là seduto che aspetta…
Scendo e mi metto ad aspettare
Pepe, i due patii sono davvero stupendi, però dopo un po’ l’attesa di Pepe
si fa lunga, e noi vorremmo andare a vedere la città, la famosa ciudad de la cantera rosa. Ecco
che arriva Pepe con suo figlio Pepe, e si mette a raccontarci la storia della
sua famiglia, e poi la storia di questa città che ancora noi non abbiamo visto.
Torna a casa a prendere sua moglie.
Andiamo intanto nel
vicinissimo zòcalo, tutto è lento e tranquillo, la città ha un aspetto
particolare e caratteristico, ed è gradevole. Siamo però un po’ stanchi
perché in pullman non abbiamo dormito bene. Pepe arriva con Oliva, e ci
racconta di nuovo che a lui ieri sera avevano detto in albergo che noi non
eravamo arrivati, e così pure gli hanno ripetuto stamattina…
Oliva è sorridente e vivace,
e ci chiede se vorremmo andare con loro ad una festa famigliare per una prima
comunione. Pensiamo che potrebbe essere una occasione per vedere un aspetto di
vita e di usanze locali. Andiamo con la loro macchina in un posto un po’
lontano, fuori città. La festa si svolge in un prato isolato in cui hanno
allestito un tendone con dentro i tavoli e tutto l’occorrente. Ci sono varie
decine di persone, Oliva ci dice che solo lei ha 26 nipoti/e. Veniamo travolti
dalla confusione e dal persistente rimbombo del vocìo sotto il tendone, cui si
aggiunge la musica dal vivo. Ci fanno sedere e si inizia a mangiare: las corundas, el pozole (blanco,
rojo y verde), tostaditas,
eccetera eccetera sino ad un pastel.
Tutto con piatti, posate e bicchierini di plastica che si piegano per il peso. I
giovani cantano, e alcuni suonano, e le donne ballano, poi sarà la volta degli
uomini. Poi inizia la cerimonia per la festa della 1a comunione di una nipotina:
discorso della madrina, scambio di regali, e infine lettura di una dichiarazione
di fede cattolica. La madrina legge dicendo tra l’altro: “…e che a Gesù
io lo amo…” mentre qualcuno mi fa notare che nel foglio c’era scritto “
e che Gesù ama me” … (ma qui ora non sarebbe il caso di soffermarsi su
sottigliezze erudite da esegesi, o su interpretazioni freudiane dei significati
dei lapsus, o su una ermeneutica antropologica della cultura locale, ecc).
Ghila prima di uscire era
andata apposta in camera a cambiarsi e si era messa il vestito elegante comprato
a Toluca, e ora vediamo che forse è un abito proprio per invitate a feste di Quinzeañeras
o per occasioni simili.
Michele prova a ballare, e
pure Annalisa dopo molte insistenze. La festa si protrae sino a sera e noi siamo
prigionieri dato che non abbiamo una nostra auto e non sapremmo nemmeno dove ci
troviamo. Io girovago nei dintorni, curiosando qua e là. Quando fa scuro ci
sono i fuochi d’artificio, e poi dei balletti in costume con ballerine molto
belle.
E in poche parole la festa non
finisce mai, e noi non conosciamo nessuno e siamo un po’ assordati e stanchi.
Domingo 14 de Agosto
Oliva ci spiega che la festa
delle quindicenni (Quinzeañeras) qui
è considerata un vero e proprio evento. Non ho capito se anche Pepe junior la
fece, ma per la loro figlia Diana vollero che si svolgesse addirittura in
cattedrale, e quando arrivarono dei lontani parenti dagli Stati Uniti, che non
sapevano che avrebbero dovuto mettersi eleganti per l’occasione, si
litigarono. C’erano 300 invitati, fecero una quantità assurda di foto che ci
mostrano, e anche un lunghissimo video che pure ci mostrano. Ma ci parla anche
della Boda de los Cincuenta, cioè
delle “nozze d’oro” noi diremmo, che loro organizzarono per certi suoi
colleghi, in cui c’erano 600 invitati!!...
Vediamo che in macchina ci
sono due copie della rivista “Rebeldìa”,
che sostiene le battaglie degli indigeni e dei campesinos poveri soprattutto nel
sud, ed è molto vicina alle posizioni politiche dei guerriglieri Zapatisti, e
diciamo che vorremmo visitare località abitate da popoli indios originari,
allora Oli (è lei che è abbonata) ci racconta di quando fece la volontaria per
i servizi sociali e sanitari, e andò nella zona della Costa Chica (Sierra
Guerrero) dove vivono molti indigeni e molti neri. I neri discendono da schiavi
fuggiaschi che si nascondevano in quel territorio fuori mano, e dunque anche se
sono sempre stati emarginati hanno conservato molto forte un senso, un orgoglio,
della loro libertà, dell’essere appartati. I nativi aborigeni, sono proprio
gli ultimi della scala sociale, quelli che sono sempre rimasti ai livelli più
bassi in tutti i campi. Questi indigeni rifiutano ogni contatto e non vogliono
essere “disturbati” dai “bianchi” per nessun motivo, per cui al suo
gruppo di volontari resero l’attività molto difficile perché si rifiutavano
decisamente di lasciare vaccinare i loro figli (in questa zona è molto diffusa
la small-pox, cioè la varicella ).
Ci fa ascoltare delle canzoni
popolari tradizionali di cui è molto appassionata e di cui ha una notevole
collezione di cd. Maria de Lourdes, che è norteña,
detta “La princesa”, Lola Bertràn
“la Grande”, che è considerata “la
reyna de la canciòn ranchera”, Jorge Negrete “el
Rey” de Sinaloa, el Charro, Amparo Ochoa, che cantano storie su una base
musicale tra quelle fisse tradizionali, con loro varianti. Queste storie parlano
di esempi paradigmatici come “la
historia del chiquito que lo matò un toro por la noche” (aveva
disobbedito a los papàs che gli
avevano proibito di avvicinarsi all’animale), o storie di melensi drammi
amorosi, e spesso sono di matrice india.
Di contro alla “falsa
coscienza di sé” di molti meticci, e di molti che vivono in povertà, Pepe ci
dice che invece i suoi (come quei due anziani col cappello, o suo suocero, o la
cognata sindacalista) sono sempre stati molto consapevoli della loro posizione
sociale, con dignità.
Andiamo a Zirahuén un
piccolissimo centro con povere case e alcuni abarrotes
(piccolo emporio, o negozio di generi vari), e una neverìa (gelateria). Ci dirigiamo verso la riva del lago, dove
vicino al molo ci sono un bar, un ristorante, e vari venditori con bancarelle, o
ambulanti, con prodotti tipici dell’artigianato locale, o piccole cucine
all’aperto con focolari a legna, dove sulla piastra fanno tortillas
schiacciate con una piccola pressa a mano, oppure propongono vari tipi di
pescado o carne. Al ristorante Zirah proprio attaccato all’imbarcadero fanno
una buona comida michoacana.
Con la lancha (piroga a motore) attraversiamo il lago contornato di pini e
color blu profondo, fino a Copàndaro sull’altra sponda. Il lago è rispettato
e anche un po’ temuto dalla popolazione locale in seguito ad un evento
tragico, su cui si racconta una leggenda india che vede due giovani innamorati
che cercano di sfuggire a genitori contrari alla loro unione, e che termina
tragicamente con il loro annegamento e la loro trasformazione in sirena e
tritone. Per cui la leggenda consiglia di non voler gettarsi in acqua per
nuotare, perché dopo di allora tutti quelli che lo hanno fatto sono annegati o
si sono mutati in pesci, questo anche perché si mormora che i due siano
divenuti custodi di un misterioso tesoro sommerso.
E ora eccoci finalmente a Pàtzcuaro,
antica capitale di un regno rimasto indipendente rispetto all’impero Azteca.
La piazza principale è dedicata a Vasco de Quiroga di cui c’è una statua, e
di cui si racconta che per convertire al cattolicesimo il popolo dei purépechas,
costruì una grande luna in cartone con il volto della Madonna, e la appese in
chiesa, dicendo al popolo convenuto che la loro Luna era poi quella stessa, solo
con un nome spagnolo… per cui ancora oggi i devotissimi campesinos indigeni
vedono nel volto della ragazza vergine e immacolata lo splendore della luce
lunare che rischiara la notte. Fu per tutta la vita un amico degli indigeni e un
loro strenuo difensore.
Un’altra statua che c’è
in una piazza accanto, è dedicata a Làzaro Càrdenas, grande liberale
riformatore, ha lasciato la sua Quinta (cioè la sua proprietà terriera) alla
città affinché vi facessero un Centro di Educazione e di Servizi di
Alfabetizzazione.
Vediamo una danza de los viejitos (dei vecchietti) in cui ci sono anche dei
ragazzi e pure un bambino (che è il vecchietto più giovane che ci sia al
mondo!). La ragazza suona la viruela
(come i musici di ieri sera), uno strumento cinque-secentesco che è una specie
di chitarra con una cassa armonica più grande ma con una corda in meno.
Questa cittadina india ci
piace moltissimo e vorremmo tornarci per starci con calma.
Andiamo in un paesino che c’è
più in là lungo la costa del lago di Patzcuaro, che è sempre della stessa etnìa,
e si chiama Tzintzùntzan. Qui incontriamo il giovane Humberto di 12 anni, che
ci spiega tutto della storia locale; con lui visitiamo anche le rovine
dell’antico palazzo reale. Anche a Patzcuaro avevamo visitato un palazzotto,
ma era spagnoleggiante, che fu residenza dell’ultimo re purépecha, che era
considerato dagli spagnoli un loro alleato, sotto il loro protettorato.
Vasco de Quiroga lo amano
ancora molto, e con Cardenas è uno dei soli due che abbia avuto da loro il
titolo onorifico di Tata. Alla fine
del lago c’è un paese che porta il suo nome. Ora qui vediamo che ci sono
decine e decine di camiones, ne contiamo più di cinquanta, da cui scendono
fiumi di gente che viene qui per la Virgen
(cioè per la festa della domenica di ferragosto). Qui las
carnitas de cerdo sono famose e saborosas
y muy cocidas, pertanto chissà quanti poveri maialini vengono uccisi oggi
per dare a tutti las carnitas…
Quindi per questo ci sono molte volontarie che devono animarse (darsi da fare), e sono soprattutto della organisaciòn
de las mujeres cenopistas (il CENOP è un organismo di attività sociali del
partito rivoluzionario istituzionale al potere). Scambiamo due parole con una
cui esterniamo questa nostra inquietudine a proposito di quante urla di
porcellini sgozzati costano le risate e la alegrìa
di questi festanti per la Virgen. Ci dice che effettivamente tutto è sempre così
tanto complicato: se non lo fosse vorremmo vivere tante volte, ma proprio poiché
la vita è così, ci basta viverne una.
Non lontano da Pàtzcuaro,
dopo Uruapàn, prendendo la autopista verso sud, all’uscita per Cuatro caminos,
c’è Nueva Italia.
Torniamo a casa loro, dove
c’è la figlia Diana al computer, e vediamo i quadri di Pepito (ha lo stesso
nome del nostro cagnetto…), e il puzzle da 20 mila pezzi di Gabriel, che
occupa una intera stanza, lo studio di Pepe.
Mary, la sorella di Oli, con
dei begli aretes (orecchini) di stile
indigeno, ha una chiquilla, una bimba
piccolina, avuta per proprio conto, è un tipo “Kahlo” e non si vuole
sposare, e ci dice che soltanto un Marcos (il comandante guerrigliero dell’EPZLN
zapatista), o un Jorge “el Negrito”
(un guerrillero degli anni ’50) potrebbero ridare prospettiva alle popolazioni
indigene. Scriveva nel 1950 Octavio Paz in El
labirinto de la soledad: “Noi tutti uomini nasciamo diseredati
e il nostro vero stato è quello di orfani, ma questo è vero in modo
particolare per gli indios e i poveri del Messico”.
Torniamo in albergo, poi
andiamo in piazza e leggiamo su un muro una targa messa dall’Ayuntamiento (il municipio) di Morelia che dice: “en
la calle y en los muros, el pueblo hace y escribe la historia de su ciudad”.
La sera alla trattoria “Onyx”,
Michele se atreve, si azzarda, e vuole
provare lo scorpione fritto … ! (che impressione ci fa vederlo mentre lo pone
sulla lingua e poi lo fa scomparire nella sua bocca …!), mentre Ghila prende
come finale lychees flambé …
Qui in piazza ci sono tipi
particolari, a parte dei turisti inglesi, che ci paiono ben poco “tipici”,
c’è un po’ di tutto… forse tutto il mondo fra qualche decennio sarà così?
Resterà così poco delle caratteristiche specifiche di ogni paese? E quelle
facce indie o meticcie col sombrero faranno la fine degli uomini aborigeni delle
riserve naturali del “Mondo Nuovo” di Huxley? O interverranno altre
specificità a fare la differenza? Quanto i cambiamenti come quelli attualmente
in atto nella globalizzazione capitalista annullano le identità collettive?, e
quanto invece le identità precedenti persisteranno nel tempo avvenire?
Lunes 15 de Agosto
Ieri Oli ci parlava della sua
attività di volontariato nel servizio sanitario al Sud, dandoci un quadro di
situazioni “estreme” eppur ancora diffuse in certi ambienti soprattutto
indigeni. Già altri (Sergio, i Guerrero) ci avevano tracciato un quadro di
società e culture con riferimenti etici inaccettabili per una società moderna:
le donne sposate per contratto, costrette a fare un certo numero di figli,
obbligate a restare fuori dagli ambiti decisionali, l’incomprensione e rifiuto
rispetto a valori non autoritari e di valorizzazione di ciascun individuo,
eccetera.
Ma come si può ridurre una
cultura solo ai costumi? e gli usi? e le gerarchie? Come si può sopravvivere in
una cultura solo mantenendo i suoi abiti e poco più? La lingua materna ridotta
a lingua locale e secondaria, che sviluppi può mai apportare?
Sono questioni complesse su
cui riflettere.
Andiamo a fare due passi a
vedere la sede storica dell’Università di Morelia, che è l’antico Collegio
gesuitico, e che forse è la più antica dell’America Latina (o è quella di
Lima?).
Una targa sul muro rivolta
agli studenti delle classi “de iniciaciòn”
porta scritto:
“Frente
a nuestra propia consciencia, en la soledad de nuestros actos, debemos
fortalecer los voladores de nuestra cultura: cuidado, respeto para ti y para las
instalaciones”. Unviversidad Michoacana de San Nicolas de Hidalgo.
I Purépechas chiamavano
Tarascos gli spagnoli che avevano preso donne purépechas come mogli o
concubine. Il termine tarascos nella
loro lingua significa “cognati”. E gli spagnoli, vedendo che questa
denominazione era accettata quando chiamavano così i nativi, presero a chiamare
così il popolo dei Purépechas dato che non capivano la loro lingua. Quindi
sino a tempi recentissimi in spagnolo ci si riferiva a questa popolazione
denominandola i Tarascos, e per il territorio dicevano: il regno tarasco (!)
L’ultimo re, o capo (il
titolo era Calzonzin), che si chiamava
Huitziméngari, ad un certo punto decisero di ucciderlo, perché gli indigeni
riconoscessero solo nel re di Spagna la suprema autorità, ma non riuscirono mai
a sottomettere del tutto questo popolo.
Sino ad un passato recente si
pensava che gli Amerindi provenissero dall’Asia al tempo in cui lo stretto di
Bering era attraversabile. Ma poi fu ritrovato l’uomo di Tepecpàn che era
sicuramente aborigeno, e che risale ad una datazione precedente, e poi ne fu
ritrovato un altro a Tuxpàn. Ora si dice che le culture erano abbastanza simili
e quindi forse i gruppi che via via a scaglioni nel corso dei secoli arrivarono
da Bering, presero facilmente da questi aborigeni molte delle loro usanze e
conoscenze, e si mescolarono con loro.
Ghila si compera un sombrero tejano
(ovvero texano), e con i suoi stivaletti vaqueros
(cioè da cow-boy) sta proprio bene.
Abbiamo poi visto
l’acquedotto, e il santuario di Guadalupe che sta al termine della lunga calzada
de San Miguel, che i penitenti percorrono tutta in ginocchio giungendo
sanguinanti al tempio dove li attende un Cristo proprio come loro nelle loro
stesse condizioni. Il tempio è splendente e carichissimo. A lato c’è la
cappella con il Santo con dipinta l’immagine della Virgen de Guadalupe sulla
sua tonaca. Diceva Octavio Paz a proposito della particolare venerazione della
Vergine di Guadalupe da parte dei poveri campesinos e dei poveri indios: “Questo fenomeno di ritorno
alle viscere materne, ben conosciuto dagli psicologi, è senza dubbio una delle
cause che determinarono la rapida popolarità del culto alla Vergine. Orbene, le
divinità indie erano dee di fecondità, legate ai ritmi cosmici, ai processi di
vegetazione e ai riti agrari. La Vergine cattolica è pure una Madre (Guadalupe-Tonantzin
la chiamano ancora oggi alcuni pellegrini indi), ma il suo attributo principale
non è quello di vegliare sulla fertilità della terra, ma di essere il rifugio
dei derelitti.
La situazione è cambiata:
non si tratta più di assicurare le messi, ma di trovare un grembo. La Vergine
è la consolazione dei poveri, lo scudo dei deboli, il riparo degli oppressi.
Insomma, è la Madre degli orfani”.
Stamane dopo l’università
avevamo girato per il mercado de dulces y
artesanìa. Grande e con alcune cose interessanti per i dolci particolari, e
per i liquori; comperiamo una bottiglia di Aloe
bitter – Licor de Aloe vera con hierbas, hecho con ingredientes naturales
(cioè dalla polpa della foglia del cactus dell’agave).
Certi hanno dei sombreroni e
dei calzoni e degli stivaloni di pelle di coccodrillo, e dei cinturoni stupendi,
coloratissimi, lavoratissimi e con fibie enormi.
Martes 16
Annalisa ed io stanotte siamo
stati male, lei malissimo. Mentre facciamo colazione tra le 12 e mezza e le 13,
passa una grossa manifestazione con bandiere rosse. Studenti, lavoratori, e
gente di campagna, di paesini contadini, con le loro gonne tipiche, le lunghe
trecce, gli ombrelli parasole, i monili semplici. Vengono da una zona india.
Saluto e faccio brevi semplici conversazioni, informandomi sulle loro vite. Mi
impressiona molto questa gente e questa loro manifestazione, e mi fa riflettere.
Intanto io prendo delle
medicine, e poi rientriamo in albergo e crolliamo addormentati per la
stanchezza. Dopo Michi va a comperare un litro di Elektrolit, e pian piano mi
riprendo.
La problematica delle
popolazioni indigene è un gran intreccio, o groviglio, di questioni diverse e
disparate, che rende assai complessa la gestione del rapporto tra diritti e
doveri anche solo nell’approccio intellettuale. Pensiamo a quei neri e a
quegli indigeni che non volevano vaccinarsi né che venissero vaccinati i loro
figli, nonostante si trattasse di una vaccinazione obbligatoria per legge, e si
trattasse di popolazioni falcidiate da quel certo morbo. Faccio delle mie
personali associazioni di idee, e mi pare che così similmente ci si era
ritrovati nel corso della storia europea ad es. a chiederci: di chi è, e per
chi è, il non-adulto? il bambino? (per es. in casi di orfani, o di bimbi in
affidamento, o di immigrati clandestini, … di contrari alle trasfusioni, di
figli di drogati, o di senza fissa dimora, di rom, ecc…) di chi è? di sé
stesso, della famiglia, dei genitori, o dei tutori, dello Stato, che in certi
casi è così paterno e paternalistico che a tutto e tutti provvede … ? chi ne
risponde? chi se ne assume le responsabilità
? eccetera. Proviamo a trasporre quegli interrogativi su altre tipologie
di individui, come ad es. sulle popolazioni vinte e assoggettate, sui nemici
sconfitti, sugli “estranei” (magari chi in patria non condivide i sentimenti
di appartenenza alla identità nazionale dominante…, cioè non ne condivide la
lingua ufficiale, la religione dominante, i valori correnti, i costumi, i
comportamenti, la mentalità diffusa, ecc.). Già sul piano strettamente
politico, nella nostra storia moderna ci si era posta la domanda: come obbligare
(e chi potrebbe essere legittimato a farlo?) il popolo sovrano ad esercitare i
suoi diritti, se non vuole? Con incentivi? Quali? Con pene e sanzioni? Fino a
che punto?
Si pensi ad es. al controllo
di ispettori internazionali sulle operazioni di voto in Iran, si pensi solo alla
loro lunghissima durata, casualità, incontrollabilità… (vi ricordate di quel
film sulla giovane volontaria nelle campagne?). Proprio in Mexico 25 anni fa
vedemmo che gli analfabeti, i marginali, i culturalmente deprivati, o gli
alloglotti potevano praticare la dichiarazione di voto orale di fronte a
testimoni fidedegni (=funzionari elettorali)… riusciamo a figurarci tutta una
serie di eventualità conseguenti a questa disposizione? che pure era stato
emanata per venire incontro ai diritti di chi magari nemmeno ha idea di cosa
siano le elezioni e che senso abbia il parteciparvi…? (anche in altri paesi
accadde questo, ad es. in Ecuador solo da pochissimi anni gli indigeni, che
nelle ampie regioni andine sono la maggioranza assoluta dell’elettorato, si
resero conto del potere che avrebbero nelle loro mani…).
Se ad es. c’è l’obbligo
all’istruzione elementare, ma senza sanzioni in caso di deroga, sappiamo che
di fatto qualsiasi legge non ha effetto. Pensiamo alle discussioni nel periodo
della rivoluzione francese sulla democraticità o meno del concetto di obbligo
imposto per legge (almeno per dare effetto alla realizzazione di certi diritti
civili di base) …
Nel caso di obbligo scolastico
evaso, vanno dunque puniti i genitori per la loro eccessiva ignoranza? Ma gli
individui appartengono alla famiglia (o al clan, alla tribù, ecc.) o allo
Stato? Chi comunque se ne prende cura, ad es. della loro alfabetizzazione e
istruzione? E nel tempo extrascolastico chi li accudisce? Qual’ è la
responsabilità dei funzionari scolastici se la gran parte degli aventi diritto
all’istruzione, o comunque i soggetti ad obbligo scolastico, non frequentano
le scuole gratuite e pubbliche? C’è una loro responsabilità in questo? Ma
l’educazione è anche qualcosa di più ampio della istruzione strumentale, e
dunque di qui possono venire molti pericoli potenziali di abuso da parte delle
istituzioni (si pensi nella storia anche recente agli aborigeni australiani, o
ai pellerossa canadesi, ecc.) anche solamente riguardo alla imposizione di certi
modelli culturali.
Dunque come si configura il
concetto di un diritto obbligatorio? Ovvero di un diritto-dovere? Certamente gli
esperti di storia del diritto e di diritto pubblico o diritto costituzionale
saprebbero illuminarci in proposito. Ma credo che in paesi con tradizioni
giuridiche, culture, e sviluppi storici differenti risponderebbero in modo
differente essendoci state discussioni differenti che hanno portato a
conclusioni differenti… (si pensi a Cina, subcontinente indiano, Africa,
America Latina, in rapporto per es. con paesi a noi più vicini, come i paesi
arabi, la Turchia, i paesi dell’Europa orientale, eccetera).
Per esempio nella politica
sanitaria e di igiene pubblica, come si può configurare il rispetto di
tradizioni, usi, costumi, concezioni del mondo e della vita, credo religiosi,
ecc. differenti dalle nostre ? come si intreccia questo problema ad es. con il
rispetto del principio della libertà religiosa? O della autorità paterna e
genitoriale?
Facciamo il caso di quel che
Oli ci aveva raccontato degli strati più poveri e culturalmente deprivati della
regione della Costa Chica. Là ad esempio i neri non si vogliono assoggettare
alle regole del mercato del lavoro, mentre gli indigeni sì, sono molto più
disponibili e forse anche per questa loro disponibilità che va ad intrecciarsi
con una realtà di sfruttamento selvaggio da parte dei bianchi, le cui regole
mafiose li mettono in condizioni tali da essere agli ultimi posti nella scala
sociale del Messico, con problematiche molto gravi. Né d’altronde essi sanno
come cercare di integrarsi in modo corretto e si vanno a ficcare spontaneamente
in situazioni poi irrisolvibili di ricatto, per semplice insipienza e mancanza
di esperienza e di comunicazione delle informazioni. Inoltre, come già dicevo,
vedono lo Stato come un loro nemico, e non si fidano dei funzionari pubblici,
nemmeno di tipo sanitario, come nel caso che riportavo sopra del loro rifiuto
che questi estranei appartenenti ad un apparato governativo ad es. inoculino
qualcosa nel sangue dei loro bambini. (Nelle Ande peruviane invece le
vaccinazioni di base non sono obbligatorie, ricordo una manifestazione a Cuzco
di medici, infermieri e personale sanitario contro la legge che regolamenta il
settore vaccinazioni).
Poi c’è la questione della
lingua. In Messico certi gruppi linguistici sono relativamente “ben messi” e
si vedono oramai ampiamente riconosciuti nei loro diritti di espressione (ad es.
per la lingua nàhuatl, o la purépecha, e altre). Ma altri no. In che lingua
alfabetizzare i bimbi messicani di altri idiomi per farne dei cittadini pari
agli altri, nella tutela dei loro diritti, e nella educazione alla
consapevolezza di questi, nonché nella cognizione delle modalità e delle vie
per esercitare quei loro diritti ?
Anche lo Stato imponendo degli
obblighi ai propri cittadini, fa presenti i propri diritti (ad esempio di
esigere la leva militare), ma dovrebbero essere anche fissati con chiarezza i
suoi doveri a provvedere al bene(essere) sociale (ad es. il dovere dello Stato a
mettere a disposizione di tutti i cittadini -o degli abitanti?- tutti i mezzi
per poter acquisire l’istruzione obbligatoria).
Poi c’è la questione
squisitamente etica della obbligazione morale dei genitori verso i figli, che
però, teniamolo ben presente, può essere vissuta in modi diversi e anche
intesa in modi diversi, e variabili relativamente alla posizione nella scala
socio-culturale (ad esempio nella borghesia commerciale, o delle
professioni,piuttosto che tra gli intellettuali, oppure tra il recente ceto
impiegatizio, o tra i salariati inurbati, o i braccianti agricoli, o tra le
fasce senza reddito fisso, … ecc).
Ma, tornando ora al diario, la
sera vengono a salutarci gli amici, perché domattina presto partiremo.
Miercoles 17
Pago l’albergo e vado a fare
colazione da “Sanborn’s”. Dopo 24 ore intere di digiuno, mangio qualcosa.
Siamo esseri dal delicatissimo equilibrio elettrochimico, se solo si altera un
poco vi sono subito conseguenze fisiche (e mentali) rilevanti …
Col taxi torniamo a Pàtzcuaro,
sono 53 km. La cittadina è a 2660 m.slm. e qui fa più freschino. Andiamo in un
albergo a tre stelle del centro, la Mesòn
del Gallo de Oro, in un bell’edificio, con patii, e mobili in legno
massiccio intarsiati; c’è molta umidità e quindi chiediamo di avere le due
stanze al piano rialzato. Il dépliant dice che l’albergo “cuenta con una excelente ubicaciòn, es el lugar ideal para que Usted
goce con tranquìlidad de los sìtios de interés y esparcimiento de nuestra
bella ciudad, le permitirà disfrutar de todos los atractivos de la ciudad y
pueblos ribereños ricos en historia.”.
Gironzoliamo nell’area tra le due piazze, cioè plaza Quiroga (o Plaza
Mayor o Principal) e plaza San Augustìn (o Plaza Bocanegra), e ci gustiamo
beati l’atmosfera umana di questa bella regione india. Mangiamo alle 4 allo
stesso ristorante dell’altro giorno, “El Patio” in plaza Quiroga, il cui
menù dice: “Le ofrecemos alimentos
sanos y bien sazonados, en nuestro restaurante Usted se deleitarà con los
platillos de nuestra cocina regional como son las tradicionales corundas,
chocolate de metate, café de Uruapàn, pan de nata, pozole, enchiladas placeras
y una gran variedad de ricos platillos”. Qui ora c’è, al posto dei
viejitos, uno che canta e suona la chitarra, e ci chiede che canzoni vorremmo
(siamo in quattro e chiediamo i superclassici “cielito
lindo”, “cuccurrucucù paloma blanca”, “qui saz qui saz qui saz”,
e “malagueña solerosa”).
Veniamo a sapere che fino a
ieri in un paese vicino c’era la fiera dei costruttori di chitarre.
Osserviamo le varie e numerose
farmacie, c’è la farmàcia de descuento,
de similares, de patente, de ahorro, ecc.
Qui il classico poncho si
chiama gavaña, o galvàn; le sciarpe, rebotes;
lo scialle, chal; i golf, sueteres;
le giacche, chalecos; i berretti, gorras;
poi ci sono chalinas, ruanas, sarape, quesquemen … Il negozietto di abarrotes,
cioè di tutto un po’, si chiama tienda
de toditos; la drogheria, venta de
controlados; in una ci sono tanti sciampoo preparati artigianalmente, c’è
lo champù cacahuananche, quello de
hiel de toro, quello antisettico de
tepezcohuite, e quelli per ogni tipo di capelli, col chile,
o coll’aguacate, o con ajo-chile-y romero, …
Diluvia. Il fiume di acqua
piovana che scorre rapido ha già quasi raggiunto l’altezza, sempre notevole,
del marciapiedi; il tombino di questa strada è scoppiato per la pressione
dell’acqua, ed ora è una fontana; la scalinata si è trasformata in una serie
di impetuose cascatelle rapide. Restiamo riparati sotto un portico e aspettiamo,
assistendo all’incredibile ma anche divertente spettacolo della pioggia
allestito dal dio Tlàloc.
Andiamo a piedi alla Central
de camiones per prenotare il prossimo trasferimento, facendo stradine
periferiche in salita, in discesa, tutte sconnesse, di sassi, di terra battuta
con avvallamenti e pozze. Altro ambiente rispetto al casco
historico, pattume sparso, sporcizia, cani randagi. Ci sono varie officine
di meccanici, che fanno riparazioni di camion, pneumatici, insomma ci sono
odori, rumori, nulla di propriamente turistico, e raggiungiamo il terminal.
La sera andiamo a cena a plaza
Vasco de Quiroga in una deliziosa trattoria di cocina
contemporànea, el restaurante El Primer Piso, dove io prendo
pollo ripieno di banane, mandorle e cocco, il tutto in salsa di mango;
Annalisa prende filete de pescado en salsa
tinta (di seppia); Ghila spaghetti con carne de res, semini
di sesamo, salsa di soya e ajocalì.
Prima di iniziare ci danno degli hot snacks, =antojitos calientitos.
Sul menù è riportata questa
citazione di Cervantes: “el problema de
cocinar bien es un problema no sempre facil de resolver. Unos tienen comida y no
tienen apetito, otros tienen hambre y no tienen comida, yo tengo ambas cosas,
Loado sea el Señor! Vallamos mi fiel escudero a donde el buen pan y el buen
vino”. E più oltre: “el destino
de una naciòn a menudo depende de la digestiòn del primer ministro”.
Riporto per curiosità alcuni
nomi di paesi dell’area attorno a Pàtzcuaro: Cucuchucho, Tzintzuntzan,
Ucazanaztacua, Eromguaricuaro, Tzurumutaro, Calzuntzin (che era la sede del re
purépecha).
Jueves 18
Vado per conto mio (siccome
Pepe non mi porta né all’università né qui, come invece noi ci aspettavamo)
a vedere il locale Centro de educaciòn
basica para adultos, sul cui ingresso c’è scritto: “de
lo que hagamos hoy depende el mañana” (da quel che facciamo oggi dipende
il domani). Entro e mi sembra di entrare in una antica casa romanacon l’impluvium
e intorno il porticato, in mezzo un giardino con una fontanella (anziché una
vasca). Mi sembra un istituto molto interessante, si aggirano qui vari contadini
indios che sembrano un po’ sperduti.
Pàtzcuaro è un centro
importante proprio in quanto convergono qui traffici, mercanzie, persone,
scambi. La geografia urbana originaria venne stravolta e coperta, non si
riconoscono più le piazze e le viuzze precedenti, e si formano altri percorsi,
altri spiazzi, altre visioni e scorci del contesto e della campagna circostante.
Dalla collinetta si vede giù sino al lago.
Proprio di fronte alla nostra Mesòn,
c’è un bed&breakfast, tradotto con Hotelito.
L’originaria Patatzécuaro era “el lugar de cimientos del cues
(templo)”, cioè il sito dove era stato posto il basamento del grande tempio,
già mercato e hospedaje para los
transeuntes, cioè caravanserraglio per i viandanti. Abbandonato sotto il
fuoco del terribile e idiota de Guzmàn, venne ripopolata da Tata Vasco Quiroga
con tremila indigeni e 28 famiglie spagnole che vi si installarono. Ora conta
sessantamila abitanti.
Chiacchieriamo e ci
intratteniamo a lungo con l’espansivo Juanito di 11 o 12 anni, che ci chiedeva
dei soldini. Vuole venderci dei sacchetti di croccantini che però hanno un
aspetto che a noi non piace, e allora ci chiede qualche moneta per poter fare
colazione, che gli diamo, e poi alle 12 dovrà essere a scuola (perché lui
frequenta quel turno). Allora intanto si fa dei giri e cerca di raccogliere dei
soldi, ma può girare soltanto nel porticato sud della piazza, se no altri più
grandi di lui glieli portano via. I suoi sono a Tijuana, suo zio è a Morelia, e
lui è qui a casa da solo, sta con vari cani e gatti e galline, ma ha voglia di
compagnia e di chiacchierare.
Al Museo
de Artes Populares ci sono al suolo delle ossa di zampa di mucca, che sono
molto adatte per pulirsi le suole delle scarpe quando c’è fango. Ammiro un
Cristo fatto di pasta della canna di mais, e dei vasi di rame battuto. Sono
tutti reperti prehispanici. Quello che gli spagnoli interpretarono come
“diavolo” è rappresentato in terracotte raffiguranti cani bifronti, gatti
fantastici, mucche distorte. Sono pezzi che provengono da Zamora. Scopro che
c’è dentro al Museo nel “cortile” del retro, la base di una piramide
lunga 400 m. i cui resti sono frammisti a povere casupole di legno abitate. C’è
pure una casa tradizionale tarasca di legno visitabile come museo. Sulla pietra
di ingresso c’è un caracol, una
chiocciola-labirinto. Una parte di questa antica casa era stata trasformata in
un carcere: ci sono ancora dei segni, graffiti, intarsi dell’epoca della
conquista, con dei puntini per scandire il passare delle settimane. Sembra che
si trattasse di seminaristi del collegio gesuitico ritenuti “inosservanti”.
Con el
popote del trigo y el tule (canne lacustri) gli indigeni facevano dei
giocattoli, e figurine dei mestieri, poi i successivi e più recenti reclusi
costruivano dei piccoli trenini con i vagoni, o degli areoplanini …
I custodi-ciceroni del museo
si alternano per ogni sala, (forse così si creano più posti di lavoro ?)
Andiamo a Ihuatzio dove ci
sono i resti di una fortezza antica e poi a Tzintzuntzan, che è anche questo un
piccolo paesino. Vediamo tra i prodotti artigianali delle pesanti maschere di
terracotta (de burro), o delle
maschere di legno un po’ più leggere. I purépechas si unificarono a metà
del XV secolo sotto Tzitzipandàcuri, Signore di Tzintzuntzan, quale Caltzontzin
unico di un regno un po’ più grande dell’attuale Stato di Michoacàn.
Sconfissero gli eserciti aztechi e si assicurarono l’indipendenza. Morto il re
proprio all’arrivo dei conquistadores a causa dei virus da loro introdotti,
regnò qui suo figlio Tangaxoan che avendo valutato la situazione, era disposto
a perdere tutto pur di tentare di salvare il salvabile, e quindi si recò ad
incontrare Cortès e si convertì al cattolicesimo presso i francescani. Ma
nonostante ciò più tardi Nuño de Guzmàn lo fece morire a furia di torture
per farsi dire dove era il tesoro dei Taraschi. Fu allora che tra gli indios
circolò la voce che fosse in fondo al lago nel punto in cui le acque sono più
profonde e dove pare che si aggiri un pesce gigante molto feroce. Ma dalle
prospezioni recenti pare che non ci sia alcun “tesoro” sommerso. Dopo
Tangaxoan fu poi re vassallo del protettorato tarasco Huitziméngari, nel
palazzotto a Pàtzcuaro, poi anch’egli ucciso.
Prendiamo una lancha e attraversiamo il lago che ora a causa del tempo si è tutto
increspato. All’isola di Janitzio ci sono centinaia di negozietti e comedores
e cantinas, tutti ben decorati e dai mille colori sgargianti, con
tantissimi fiori, e tutte le donne (e anche alcune bambine) in costume
tradizionale. Qui si pesca e quindi si mangia pesce, in particolare il pescado
blanco, ma non è molto buono, sa un po’ di terra…
Durante il pranzo
(all’aperto) alcuni bambini ci assillano insistentemente mentre stiamo
mangiando per venderci dei vasetti di terracotta contenenti tamarindo. Uno di 8
anni, che finisce il suo palito
(=ghiacciolo) guardandoci, si avvicina ancor di più e chiede delle tortillas,
gliene diamo un paio e lui ci mette dentro i nostri avanzi. Poi arriva il suo
fratellino di 11 anni e lui gli da la tortilla vuota, e quello si offende molto.
Intanto arrivano altri che vendono il tamarindo, e ci dicono che avremmo dovuto
comperare da loro anziché dare a questi due che sono solo dei poveracci
scansafatiche che non fanno niente.
Io e Miki saliamo gli infiniti
gradini che portano su in cima sino alla patetica statuona del “povero”
Morales, immortalato come un gigante con il pugno alzato. Quasi non ci sono
turisti, e quei pochi sono nazionali. Gironzoliamo sbirciando di qua e di là.
Il retro dei comedores e delle tiendas è penoso. C’è molta povertà, e il
pattume è ovunque. Mi pare che il barcone della basura
(immondizia) ne porti via troppo poca. Ci sono in giro per le stradine molti
cani randagi, e gatti, e uccelli e galli, … Al ritorno veniamo a sapere che il
piccolo Marcelino ha voluto la pelle del pesce lasciata nel piatto da Michele.
Mentre rientriamo, anche oggi
si scatena il diluvio universale.
Ceniamo all’interno
dell’albergo. Il menù è così suddiviso:
para despertar, del huerto, para acompañar, del rancho, para el antojo, de la
granja. Desayunos: mañanero, del campo, michoacano, sonorense, para la cruda.
Comidas y Cenas: botanicas, de la hortaliza, del rancho, de la granja, para
terminar dulcemente de tomar. Taxas y Iva incluidas, propina no incluida.
Viernes 19
Mi & Ghi si sentono male.
Grazie a Juan della recepcion che telefona al suo amico Carlos, impiegato della
Central camionera faccio subito un salto là con un taxi e mi cambiano la
validità dei biglietti per domani mattina. Forse che sia stato il pescado blanco di Janitzio?
Girovago a zonzo per il
mercato che c’è a sinistra della plaza mayor, e poi in quello più povero
dalla plazuela più in là dove c’è la Secretarìa de Educaciòn. Qui i
venditori non hanno nemmeno un carretto, o una bancarella montabile. Tutto è
per terra, c’è melma, basura, mosche… Ieri avevamo visto un bancale, una
mesòn de dulces, davanti al sagrato, completamente contornata da un nugolo di
api e vespe.
Entro in chiesa per potermi
appoggiare e mettermi a scrivere. I soliti scenari: iperrealisti Cristi lacerati
e sanguinanti; madonnine di Guadalupe sorridenti ed eteree; varie statue
idolatrate di santi anche loro molto realistici e colorati, a grandezza
naturale, che ti guardano; fedeli che restano abbagliati, come smarriti e
incantati sin dall’entrata alla vista dell’ icona della vergine di Guadalupe
dietro all’altare carico d’oro e argento; altri che teccano il legno dei
piedi del Cristo e poi alzano lo sguardo pieni di aspettative e fiduciosi che
lui li ascolti e comprenda, quasi cercando con gli occhi e con l’espressione
del viso di convincerlo che loro sono meritevoli.
Entrano, chiedono, mostrano
sottomissione, implorano, e poi se ne escono al mercato.
Una bambina-sorella al mio
lato accudisce un bimbo piccolissimo che piange e poi si calma un po’. Ora la
bambina sbatacchia il piccolo che urla per acquietarlo. Ne avrà la forza? Non
cadrà? Nessuno si gira nemmeno per una occhiata.
Tutti entrano e si segnano con
estrema cura e soggezione di fronte alla potenza della V.de G. che di tanto in
tanto un miracolo ancora lo fa. Guay! si el cielo no me escucha …
Vicino c’è un Monte dei
pegni. E un altro ufficietto di prestamo
inmediato, con gente accalcata a la
ventanilla, poi se ne vanno al mercato.
“Las
almas de los muertos te acompañan sempre”.
Nella Biblioteca publica,
dedicata a Bocanegra (che è una eroina della revoluciòn, del movimento di
emancipazione femminile) c’è un grandioso mural di Juan O’Gorman, che
sintetizza tutta la storia del Michoacan, con tanti personaggi, colori, episodi;
è tutto da interpretare, necessita che qualcuno lo illustri, tutti questi
murales messicani sono supporti per un passaggio di comunicazione orale, sono
supporti visivi, didascalici, all’oralità, il loro valore sta nel far passare
un immaginario adeguato per imprimere nella mente degli spettatori dei concetti
in forma di immagini. Questo figlio di un immigrato irlandese, a cui la terra
nella quale era nato e la gente nel cui seno era cresciuto ha lasciato un
imprinting così forte e indelebile, da far sì che la sua innata creatività
abbia potuto svilupparsi in modo così profondamente tipico dell’animo
messicano, e in particolare di quella mentalità diffusa di tipo repubblicano e
riformista che sta a fondamento non solo delle istituzioni di questo paese, ma
della identità contemporanea che ha unificato tutti questi luoghi, queste genti
in un crogiolo unitario, che O’Gorman (come gli altri artisti di murales,
Siqueiros, Rivera, Orozco, Guzmàn, e gli altri già citati) ha saputo
trasfondere in colori, e forme del suo estro artistico, che hanno incontrato il
gusto e l’immaginario del popolo di quegli anni, esprimendolo, e dandogli uno
sbocco figurativo, ma anche arricchendolo in modo personale.
Rincontro Juanito, con un
sacco delle sue cosine, che mi dice che stamane non riesce a vendere, non è la
solita lagna, è una confidenza che mi fa visto che mi sono soffermato da lui.
Al ristorante, quello che era seduto al tavolo di lato al nostro, passando mi
dice buona sera e buon appetito signore. Episodi simili già sono successi in
varie altre occasioni. Si fa presto a venire notati e identificati, e diventare
un “personaggio” del luogo (la macchietta del turista). Rivedo anche il viejito
più giovane del mondo, è un bambino di 5 anni con una maschera, che recita nel
tradizionale spettacolino la parte del piccolo vecchino, è il suo lavoro, ci
guadagna dei soldini e si diverte anche un po’.
Giriamo incantati nel centro
artigianale La casa de los once patios (la
casa dagli 11 patii) di grande fascino storico-architettonico, e ci sono anche
dei bei prodotti esposti. Acquistiamo qualcosa in Portal Hidalgo.
E’ proprio vera la pubblicità
locale della Regione: Viaja a lo
extraordinario. E resterà valida sin quando il turismo non avrà ecceduto
un limite quantitativo sopportabile e farà scattare il passaggio ad un altro
livello qualitativo, meno autentico e più artefatto; cioè se viene meno la
possibilità di ammirare le bellezze locali (architettoniche-artistiche,
storiche, paesaggistiche, di costume, …) nel contempo assaporando
l’atmosfera della vita quotidiana reale con i suoi colori, la sua musica, e
con le sue miserie e malinconie, essendovi calato dentro, allora forse non ci
sarà più possibilità di comprensione dell’animo profondo di questa terra e
di questa gente, e sarà l’inizio dell’avvento della omologazione
globalizzatrice. I nuovi tempi sono vicini, temo.
Sabado 20
La prima colazione, il
desayuno, il pétit déjeaunné, ci contraddistinguono come italiani,
provenzali, catalani, ecc. Questo costume di una prima colazione leggera e
dolce, siamo in pochissimi al mondo a preferirla; forse ora si sta diffondendo
un pochino attraverso gli alberghi di tipo internazionale (?).
Ci viene a prendere quel
taxista di ieri con una super camioneta “donde
cabe todo, todito” (dove, cioè nel bagagliaio “ si riesce a farci stare
tutto, un po’ di tutto”). Ha sul sedile un foglietto dei “Testigos de
Jehovà” perché dice che è curioso e interessato a tutto. Da qualche anno ci
sono varie organizzazioni religiose (soprattutto provenienti dal nordAmerica)
che stanno facendo un’opera di propaganda capillare e si stanno diffondendo
sulla base di un certo malcontento o di una insoddisfazione per i
tradizionalismi della chiesa cattolica, o per il ritualismo spesso di routine e
svuotato di contenuti, magari sentiti come non più vitali. Ma lui dice anche
che ora si è incuriosito dei musulmani (c’è stata una certa immigrazione da
paesi mediorientali nel corso del novecento) perché dice che se gli Usa
ritengono che siano i loro peggiori nemici, allora gli sembrano sicuramente
interessanti. (d’altronde per
comprendere questi suoi sentimenti ripenso a quando Oliva diceva che gli Usa
hanno voluto che si parlasse per lungo tempo molto male della Germania
sconfitta, in modo che si sminuisse, o non si parlasse affatto dei crimini
commessi dalla politica degli Usa nel mondo …).
Prediamo il camion che va
verso ovest, verso lo Stato di Jalisco; si attraversano verdi vallate con
cavalli, mucche, pecore ecc. ma anche disabitate, però tutte ben coltivate.
Tempo di vedere due film (“Vento di passione”, The Legend of Fall, con
A.Hopkins e B.Pitt; e “I spy” con E.Murphy), ed ecco che siamo arrivati alla
nueva central camionera a Guadalajara ! (a 1550m.) L’albergo che abbiamo
prenotato (il Plaza del Sol) sta in periferia, a Zapopan, depositiamo in camera
le borse, e quindi prendiamo l’autobus e andiamo subito in centro in una
mezz’oretta. Ci dirigiamo direttamente tra Colòn e Galeana alla “Terraza
Oasis”, al secondo piano, dove ancora c’è musica! La grande sala è
scatenata, ci sono solo musiche popolari ballabili, c’è un casino
inenarrabile, tutto rimbomba, troviamo modo di sederci, e le altre persone del
tavolo ci squadrano ben bene, c’è di tutto, ragazze in cerca di un uomo,
coppie che non pensano a null’altro che farsi penetrare dalla musica e
ballare, pensionati, ex ballerini, sposini appassionati… Michele viene subito
travolto perché lo invita la scatenata Angela, che poi sapremo essere una
assistente sociale sui 40. Ma poi anche altre lo vogliono per fare un giro,
perché si appassiona e balla con foga. Angela è un bel po’ sbronza, ci si
appiccica, e anche quando sarà tutto finito, non ci molla, e non riusciamo per
un po’ a liberarci di lei. Poi passeggiamo, il centro è zeppo di gente, ci
sono vari locali (in plaza Tapatìa c’è “Las sombrillas del Cabañas”
all’aperto), altre Terrazas, qualche ubriaco che vagola.
Andiamo alla plazuela de los
mariachis (che hanno qui la loro “centrale”), ma è un po’ una delusione,
torniamo in taxi correndo in velocità per le grandi avenidas, sottopassi, e
autostrade urbane, per attraversare questa seconda metropoli di più di 5
milioni di abitanti.
Domingo 21
Desayuno, e poi con 4 pesos
facciamo un lungo percorso con il camion 275 “fino” a Tlaquepaque, la
principale cittadina dell’ex regno di Tonalà, di bell’aspetto coloniale,
ora centro artigianale di mobili e oggetti di arredamento di alto livello
qualitativo. Carino il patio e los
portales de Pariàn. Mangiamo al restaurante El Patio dove ci sono canti di
due brevissimi cantori (lui e lei), e canti e spettacolino di mariachis
femenil, nove ragazze con trombe, violini, eccetera, bravissime. La fontana
è fiorita, ci sono uccelli, pappagalli, ambiente. Sulla costa del vicino lago
Chapala c’è un lungo tratto di case e ville chiamato “Riviera” dove vive
la più grande colonia stabile statunitense al di fuori degli Usa.
Qui ci sono anche tipi
intellettuali meticci, altri sono i miliardari delle Lomas de Chapultepec (C.d.M.-DF),
varie persone di altri Stati (Leòn, Monterrey, ecc.), e appunto gringos che
trincano “Margarita’s” e che sembrano pensionati in festante ritiro. Il
cagnetto con il collare con brillanti è spaventatissimo dalle tre
ragazze-mariachi con le trombe. Ottimo pasto =filete
de Texcoco, pescadito, tarta de fresas, café, jugo de naranja… spettacolo
ed esibizioni, ecc. totale 24 €uro in quattro.
Ci sono in giro degli huitcholes
(minoranza india di questo Stato, sono circa 60 mila e vivono sulla Sierra Madre
occ., loro chiamano sé stessi Wixarikas, o Wixaritari, ma furono denominati così
dagli aztechi, parlano una lingua del gruppo cora-chol) che vendono i loro
prodotti; sono con i loro bei costumi bianchi con decorazioni coloratissime, e
il tipico fazzoletto annodato sul collo. Per dire arrivederci loro dicono nepalteri.
Sono i grandi esperti di peyotl, il
cactus “divino” dall’estratto allucinogeno utilizzato dai loro sciamani,
sulle cui credenze Antonin Artaud scrisse nel 1937 un classico libro, la loro
spiritualità è legata alle forze e alle energie della natura.
Invece chido è un modismo per dire guapo, lo dicono le signore del
magnifico negozio di arredamento con fontana di azulejos, che ci regalano un pelòn
rico di tamarindo e chili, dolce-piccantino. Si spreme e al “pelatone”
spuntano i “capelli” …
Scopriamo che in questi giorni
c’è proprio la esposizione-mercato delle comunità indigene, quindi perciò
ci sono Nàhuatl, Wixaritari (huicholes), Mazahuas, Mixtecos, Otomìes, e Purépechas
(tarascos).
Visitiamo il museo della
ceramica. Andiamo in giro
tantissimo passando da un sontuoso negozio di arredamento per ville di lusso,
pieno di cose belle di gran buon gusto, alle bancarelle del mercatino popolare,
cariche di robetta scadente, ai prodotti dei folklori indigeni. Ci sono pure
molte tiendas di superalcolici come la famosa tequila
fatta dall’agave, che prende il nome dall’omonimo villaggio poco distante,
qui in vendita assieme ad altri liquori in vari negozi, come appunto il peyote,
o liquori con il gusano, ecc.
Torniamo con gli occhi pieni
di bellissimi patii e le orecchie e la mente piene di musica, canti (bella la
voce di lei, ma forse ancor più quella di lui) e esibizioni come nel caso delle
mariachi femenil.
Al ritorno, saliamo sul primo
camion, nessun problema basterà cambiare più avanti, ma intanto partiamo, se
non ché il cambio ad Aranzaza è incasinatissimo e ci stanca molto.
Lunes 22 Agosto
Prima colazione con succhi di
frutta, la scelta è tra: naranja,
zanahoria, piña, mango-guayaba-platano, toronja(=pompelmo rosa)-piña, perejil-naranja-guanàbana, naranja-fresa-maracuyà. Qui si
prendono di quei super pasti allucinanti. Ci sono una quantità di piatti di
carni, spezzatino, arrosto, guarnizioni, eccetera, da gran pranzo principale.
Ora che si termina e si esce
come minimo sono le 11. La scuola (almeno per certi turni) inizia alle12. Quindi
poi vanno a mangiare alle 4 / 4 e mezza.
Dopo un po’ di gironzoli
troviamo una lavanderia, che ci fa tutto, e anche stira, di più, anche consegna
a domicilio in quattro ore! Totale per tutti e quattro: 6 €uro …
Andiamo verso le 4 e mezza
anche noi a pranzare appena al di là della nostra immensa Avenida alla
trattoria “Karne Garibaldi”. Menù fisso, servizio degno di un “Guinness
dei primati”, camerieri quasi tutti studenti universitari. Usciamo strapieni
…
Facciamo un pensierino se
andare all’immenso mercato di Tonalà, ma siamo un po’ stanchi di folla.
Più tardi per cena Ghi e Miki
vogliono farsi da loro stessi un pasto casalingo, e vanno al supermercado, dove
poi li raggiungiamo. E’ interessante vedere i banchi. Le confezioni di
cannella o di spezie, sono letteralmente enormi, ma lo sono pure quelle dello
zucchero, sale, nescafé, eccetera, perché hanno tutti grandi famiglie molto
numerose. Alla sera dunque Ghi e Miki si fanno in camera (sulla piastra
dell’angolo-cottura) degli spaghetti Barilla con aglio-olio e pomodoro in
polpa. E infine ci sorbiamo una tipica telenovela latinoamericana in tv.
Martes 23
Andiamo a fare il desayuno noi
due, prendo bolillos tostados, ma sono straunti, e AL un cernito. Nei negozi e
nei bar ci sono torte pazzesche, qui ce n’è una finta per reclame per 300
invitati, e poi ci sono vestitini per feste varie, occasioni conviviali,
ricorrenze. Sono disponibili a spendere grandi cifre per cose come queste…
Alle 10 i primi negozi
cominciano appena appena ad aprire, saranno tutti realmente funzionanti non
prima delle dieci e mezza / undici. Perciò le famiglie fanno colazione ora con
tutta calma.
Andiamo in centro e rivediamo
con la luce del giorno le parti pedonali che avevamo viste la prima sera al
buio. Fa molto caldo.
Regaliamo caramelle a dei
bambini, e una saponetta a una che canta e suona (almeno sono cosine che si
tengono loro…).
In cattedrale c’è una teca
con santa Innocenza, dove ci sarebbero le sue mani e il suo sangue …. I fedeli
ci mettono dentro dei bigliettini con le loro richieste alla santa. Un altro
invece è poco più in là, che accarezza con speranza e quasi mostrandosi
pentito, e chiedendo come le sue scuse, rivolto ad una statuetta colorata di san
Nicola …
Giriamo incuriositi per il
povero mercadito degli huitcholes. Dietro di loro ci sono sul muro scritti dei
versi del poeta Yañez.
Alla agenzia Sonrisa
comperiamo i biglietti del bus per Guanajuato, da una signora con la gonna di
tela a rovescio, lentissimissima. Se gli studenti-camerieri di ieri hanno il
Guinness per il servizio più
rapido, questa lo meriterebbe davvero per il servizio più lento in assoluto.
Ricorda i compaesani intontiti nel cartone animato di “speedy” Gonzales.
All’Istituto Culturale Cabañas
(curioso personaggio!), già ospizio, vediamo murales di Orozco, simili a quelli
appena visti poco fa nel Palacio del Gobierno dello Stato di Jalisco. Come già
commentavo più sopra, è la “religione civile” della rivoluzione del secolo
scorso che fornisce le basi per il sentimento di identità messicana. Il modello
in negativo, per contrasto, sono gli stati uniti dei gringos, e con questo la
cornice si completa. Per quanto riguarda il passato si demonizzano tutti i
dominatori spagnoli, e invece –nonostante i gravissimi errori compiuti a volte
solo per ignoranza e incompetenza- a volte si menzionano gli evangelizzatori
“buoni”. Questo in generale, o come base minima comune, poi in particolare
gli autori dei murales civili, sono parte di un laicismo di matrice
anticlericale novecentesca; Orozco ma soprattutto Siqueiros e de Rivera,
disprezzano tutti i sacerdoti che hanno approfittato della colonizzazione dei
conquistadores per crearsi un loro ambito di potere forte nei confronti dei
vinti. A questa opera di comunicazione figurativa della ideologia dominante, si
aggiungano tutti i racconti popolari cantati.
Mangiamo al
ristorante-bar-sala da ballo “El Méxicano”;
le immancabili tortillas avvolte calde
in un tovagliolo, e le salsine piccanti, decorano la tavola. Annalisa prende camarones
e io una arrachera (carne di manzo, ammorbidita in aceto e tagliata a
pezzetti o strisce, cotta alla brace, più tenera del burro…), e dei
bicchieroni di succhi di frutta con le popotes
(cannuccie).
“Que
bonito es lo bonito ! làstima que sea pecado …”; “el amor es lo ideal, el matrimonio lo real”; “Toma rompope, evita el exceso” ( si tratta di rum con latte).
In piazza della Minerva, c’è
sotto la sua statua la scritta: “Justicia,
Sabidurìa, y Fortaleza son los mejores custodes de esta leal Ciudad” (Camoa).
Riattraversiamo la metropoli
con il 285. Negli autobus si constata la estrema composizione della popolazione
in tutti i possibili intrecci e combinazioni tra i componenti.
Anche nella plaza del Sol non mancano i banchi di deposito, per un mese chiedono
8%. Al Mercado de la Libertad di
fianco a Plaza Tapatìa ci sono anche
Monti di Pietà e di prestamo inmediato.
Miercoles 24 de Agosto
Andiamo alla enorme central
camionera e partiamo per Guanajuato (a 2010m.slm) dove giungiamo dopo una sosta
a Leòn, in sole quattro ore e mezza. Il taxi non può fermarsi davanti al
nostro albergo perché è in zona pedonale, e quindi ci facciamo un pezzetto di
strada a piedi con le valige sotto il caldo. Con il taxi abbiamo avuto occasione
di vedere come hanno sistemato la viabilità saltando il centro storico, in
questa cittadina che è tutta sui versanti scoscesi della montagna: ci sono vari
tunnel sotterranei, con bivi, curve, salite, discese, sotto alla città stessa.
L’albergo è di stile
coloniale, molto bello, 850 pesos la camera. Si chiama Hosteria
del fraile (ospizio del frate), in un edificio del seicento in pieno centro
storico (Sopeña 3). Dei tempi antichi non resta praticamente più nulla se non
il ricordo nei libri di storia.
Ma poi la città dopo la
conquista da parte degli spagnoli fiorì come una delle più splendide città
coloniali, ed oggi il centro storico ne è riprova, essendo uno dei meglio
conservati. Dunque usciamo subito e ci inoltriamo tra vie pedonali, piazzette e
vicoli. Vediamo il famoso callejòn del
beso, e poi ci soffermiamo in una plazuela
graziosa con begli alberoni grandi e frondosi (ed ombrosi) a mangiare una crèpe
(!).
Alla sera ceniamo in un bel
ristorante, “Casa Vasquez” con uno
che suona su un organino (elettronico) delle belle canzoni tradizionali un po’
jezzate. Di sera ci sono moltissimi locali aperti, bar, cafeterias, ecc.
frequentate da giovani, dato che questa è una rinomata cittadella
universitaria. Torniamo un po’ stanchi all’albergo. Anche di fronte alla
nostra finestra verso le 10 pm apre un locale con musica a tutto volume fino
alle due e mezza / tre del mattino.
Jueves 25
Gironzoliamo dunque per le
stradine, le salite, le piazzette, e sono molti i posti carini. Questa specie di
gioiello arroccato con i suoi “carrugi”, già abitata un tempo da minatori,
ora ha saputo riconvertirsi al turismo valorizzandosi per il passato coloniale,
ma anche rivolgendosi soprattutto ai giovani. Sono stati capaci di rendere
attraenti luoghi che furono poveri e popolari, rendendoli località attraenti e
ben connotate sotto il profilo estetico. E… non è cosa da poco … Ci sono
dunque oltre ai begli edifici, e patii, tanti negozietti carini da guardare. Il
sole picchia duramente, non lo si può proprio ignorare.
Il tempio della Compagnia (cioè
dei gesuiti) ha sopra al portale un sole, che troneggia sopra le tre persone
della Trinità che conversano tra loro, sopra alla stessa Madre Vergine, sopra
Sant’Ignazio di Loyola. A somiglianza di Puebla nella chiesa con la testa del
falso bugiardo, vedo dentro una rappresentazione del padre che conversa col
figlio sotto lo sguardo di benedizione suprema.
Anche a Guanajuato si sentono
i richiami degli ambulanti, “i gridi della città”. Qui c’è l’arrotino
che ha un suo zufolo indio chichimeca con un suono molto particolare tipo il
flauto andino. Quelli della azienda del gas hanno il loro richiamo in tono basso
e con il loro particolare ritmo della cantilena che enunciano. Certi bar e certi
negozi hanno un’aria, una atmosfera che si respira entrando dentro, da anni
cinquanta o primi sessanta.
Guanajuato nella lingua degli
Otomies significa “villaggio delle rane”, e quindi c’è questa somiglianza
con la nostra piccola Vigarano (Fe) … !
Al rientro in albergo alla
sera troviamo che c’è una festa indiana (hindu) di matrimonio tra due giovani
che avevamo visto nelle camere vicine. Ci sono pure genitori, parenti e amici
… Siccome sono proprio nella camera di fronte alla nostra porta, andiamo a
regalare un foulard “made in Italy”, e ci fanno la foto ma noi siamo già in
pigiama … Poi dalle 5 alle 6 e mezza ci sarà casino.
Viernes 26
Breve viaggio in cui si vedono
i “soliti” stupendi paesaggi sterminati, senza una casa o quasi, con mucche,
cavalli, pecore, ecc., qualche gran sombrero incollato in testa. Barrancos,
mesitas, rios, … e arriviamo all’altra cittadina squisitamente coloniale:
San Miguel de Allende (1850m.slm). La cittadina è proprio carina; l’albergo
“de la Soledad”, è stupendo, anche se è nel nostro viaggio l’albergo più
caro (990 pesos la camera, cioè quasi 80€uro per una matrimoniale King size
enorme). Siamo a due passi dal giardino municipale. Pranziamo nel ristorante
Posada Carmina in un patio del settecento, contornato non solo di archi in
pietra, ma di alberi di arance, e pieno di fiori, con la fontanella, i
passerotti, e c’è musica dal vivo all’aperto, moooolto gradevole. Il menù
della comida corrida è buono ci danno
tantissimo, per 7 € e mezzo, ma ci abbiocca un po’ (complici il sonno e il
caldo).
Sembra che qui ci siano vari
pensionati dagli Usa che si sono installati a vivere qui. Evitano l’inverno,
la pensione che si fanno spedire qui vale molto di più come potere
d’acquisto, stando qui trovano altra gente come loro con cui chiacchierare …
e magari certi poi aprono un loro negozio … mica male …
Giriamo per i quartieri più
popolari e meno turistici. Al mercato stanno chiudendo, torneremo domani perché
sembra interessante. La sera in albergo c’è un “evento”, forse anche qui
una boda, e quindi c’è un tale Xavier che suona benissimo la chitarra
classica e canzoni spagnole tradizionali (mi pare di averlo già visto, o
sentito … chissà …).
Andiamo a mangiare alla Terraza
del bar Mamamia. Si aspetta 40 minuti per venire serviti di due spaghetti e
una pizza (già non più calda…) di scadente qualità. Ma nonostante ciò lo
spettacolo è impagabile. Prima ci sono due affiatatissimi con chitarra, un mex
e un gringo, straordinari! Che alto livello tecnico, che padronanza dello
strumento …! Poi un complesso molto bravo; uno dei chitarristi cambia ben
quattro strumenti, da una microscopica chitarrina-banjo che forse è un chihuahua
(?), a una chitarra, a un’altra di un altro tipo, ad una chitarrona, a seconda
degli effetti sonori del timbro necessari; però per ciascuno c’è una tecnica
specifica. Un altro passa da un’arpa piccola, ai cucchiai, alle maracas; e un
altro canta e/o suona il tamburo, il flauto indio doppio, e il flauto diritto
classico. Insomma anche loro bravi: comperiamo il loro disco cd.
Fuori prima c’era in piazza
una fiesta paesana, poi un complesso del tipo banda tradizionale, e poi forse
dei mariachi. Tutti poi dopo un po’ si avviano per delle callejoneadas (cioè delle processioni lungo le calli, i callejònes)
seguiti da numeroso codazzo di gente. Ora che usciamo è tutto già finito, ma
ci sono qua e là dei gruppi di persone che cantano in coro o che stanno attorno
a uno con chitarra.
Io e Miki facciamo un giretto,
vediamo parecchi locali aperti e molto frequentati. Al rientro in albergo
troviamo che c’è una che canta per quelli del ricevimento, ed è brava con
voce bassa intona canzoni popolari.
Ce ne andiamo a letto, ma non
riesco a dormire per il caldo, nonostante il ventilatore sul soffitto, ma
soprattutto per i gatti (due novità notevoli …). C’è anche un locale
vicino con un bravissimo pianista jazz che era un piacere ascoltare ma che pure
lui mi teneva sveglio. Spegni il ventilatore, togli la coperta di cotone,
rimetti la coperta, chiudi la finestra per l’aria oramai freschina, riapri poi
la finestra per il soffoco, chiudi le tende per la luce, ma allora ritogli la
coperta, …, ecc. (per non dire del cuscino!!). E i sogni di conseguenza. Ci
sono i due gatti maschi avvinghiati stretti e arpionati con le unghie, che
vorrebbero entrambi andarsene, ma non consentono all’avversario di avere la
meglio, e quindi non mollano la presa, ecc…
Sabado 27
Las
Catrinas (le “caterine”) sono le “scheletrine”
eleganti, le statuine, o meglio le marionettine che rappresentano delle morte,
degli scheletri, vestite elegantemente. A metà settembre alla fiesta liberano i
tori in strada, e allora chissà se ci scappa una qualche Caterina …
Ritorno assieme a Miki al
mercato, perché non ho fatto altre mille foto? Perché già certe cose mi hanno
colpito e mi sono molto piaciute, mentre ora le do più per scontate, o
perlomeno comunque come “già viste”. Quindi c’è come un processo di
“iniziazione” alle immagini: le prime hanno il loro valore in quanto proprio
sono le prime, sono primizie, sono fresca testimonianza di quel vissuto oltre
che di quel contenuto di immagine. D’altronde cosa sono mai le foto di un
viaggio se non stimoli, suggestioni, che permettono rimembranze, che suscitano
il ricordo di quel preciso momento, o di quel viaggio. Ecco anche perché certe
foto di guide, libri, riviste, che vedi, vengono ad assumere poi un altro
significato, un’altra densità di contenuto, un altro impatto, quando le
rivedi, anzi le riguardi, dopo esserci stato tu in quel posto. Mentre, viste
prima della partenza, non sai che attributi darle, come contestualizzarle, e la
foto è “neutra”, mostra solo delle figure (magari affascinanti). A meno che
non sia di per sé un capolavoro, una stupenda foto ben fatta da un bravo
fotografo, una specie di opera d’arte fotografica, ma allora la guardi e ne
resti colpito, per il suo valore estetico.
Giriamo per varie piazze del
centro, e ammiriamo dei bellissimi palazzi di epoca coloniale, trasformati in un
insieme più o meno composito di negozi … Ce ne sono di molto belli, tipo
quelli a Tlatepaque.
Ma quell’ “in più” che
contraddistingue un viaggio in questo magnifico Paese, è certamente
l’onnipresenza della musica, c’è sempre una presenza, un sottofondo
musicale al tuo gironzolare e guardarti intorno. Il transitare, l’attraversare
una località è anche una occasione sonora. Si portano con sé nella memoria
anche i ricordi di canti, di strumenti, di melodie, altre che di immagini, di
sapori, e di una lingua con la sua fluidità e il suo ritmo. Musica e immagini
vanno associate.
Ora c’è nel patio, sotto
uno di quei begli alberoni di arancio, una che canta suonando la sua chitarra:
ma che piacere impagabile averla qui a propria disposizione … e tra l’altro
che bel quadretto che compongono lei e il contorno, visto dal terrazzo della
balconata interna !...
Rientriamo in camera e qui si
odono altri suoni, di tromba, di una orchestrina, che ci entrano da fuori a
cullarci.
Domingo 28
Ripenso a quel diario di
viaggio della donna inglese che nell’ottocento venne a vedere le dolomiti con
una sua amica, in cui quella signora (Amelie Edwards, Vette inviolate, Londra, 1873, tr.it. Belluno, 1985)
raccontava non solo delle montagne, dei paesaggi, delle vicende che le accaddero
e delle difficoltà di alloggio e di ristorazione, ma dava pure il suo sguardo
sulla gente, i suoi giudizi sommari e sbrigativi sulle cose che accadevano, la
sua interpretazione particolare del perché e del per come di quanto la colpiva
e stupiva, descrivendo così la sua mentalità e il suo immaginario in gran
parte costruito sulla base di pregiudizi e preconcetti di cui lei stessa non era
neppure consapevole. Mi chiedo dunque cosa sto scrivendo e quale sia il senso di
questi appunti. Se poi li paragono al testo di Cacucci (La
polvere del Messico, Feltrinelli,1996, 2005)
che ho appena letto, o anche al libro di Kapuscinski (In
viaggio con Erodoto, 2004, tr. it. Feltrinelli, 2005), che sto finendo di leggere
…. Forse dovrei smettere di scrivere ahora
mismo. …
Circa a mezzodì partiamo. Una
camioneta con tutti i nostri bagagli ci porta alla central camionera di Querétaro.
Lì arriviamo proprio quando parte il bus diretto per la nostra meta:
Tequisquiapan, detta Tequis, a 2100m.slm. Dove ci sistemiamo a “La
Rinconada”.
Il paesino è animato di gente
che fa la gita della domenica e da tante bancarelle o negozi per terra della
gente di campagna dei dintorni. Carino, e con belle cose. Si capisce che è
destinato a turisti interni, non si vede alcun straniero (tranne noi stessi).
Mangiamo al “Maridelfi” da
strariempirci una comida corrida veramente rica.
C’è uno con una piuma sul
cappello che canta e batte i piedi a tip tap e suona la fisarmonica. E’
esaltatissimo, è come una specie di cantastorie, ed è un tipo da vecchio
varietà, canta cose buffe e con doppi sensi. Ma la fa veramente molto lunga, e
poi quando ha finito non chiede nulla a chi è ai tavoli vicini (come noi) a
quelli verso cui si rivolgeva, che pure sono a pochissimi passi.
Più in là un gruppetto canta
e suona serenate a due ragazze; forse sono stati mandati lì da qualcuno … le
ragazze erano un poco imbarazzate.
Ci sono vari vecchietti e
vecchiette indie con i capelli tutti bianchi, la pelle proprio marrone, molto
rugosa. Mi pare che non parlino correttamente in spagnolo.
Facciamo la spesa e torniamo
al nostro complejo, dove Ghila e Miki
sono ad aspettarci attorno alla piscinetta. Appena portiamo la spesa Miki cucina
gli spaghetti aglio-olio-peperoncino-pomodoro.
Alla sera comincio a leggere
la raccolta di racconti di Juan Rulfo, El
llano en llamas, del 1953, e la sua novela Pedro Pàramo, del ’55: straordinari! Leggo ad alta voce il primo
racconto, e a Ghila piace tanto che leggo poi ad alta voce anche le prime pagine
del romanzo. Ma ancor più: sono stanco, vado a letto … e non riesco a
smettere di leggere fin oltre mezzanotte. Annalisa mi dice: basta, poniti un
limite. E così smetto di andare avanti, ma poi mi viene una specie di
nostalgia, o sentimento di mancanza, … e allora mi metto a rileggere (a mente,
in silenzio) le stesse pagine che avevo già letto, però come se le leggessi a
qualcuno ad alta voce, e così facendo sia da lettore che da pubblico auditore
simultaneamente, tiro ancora più tardi, ma mi godo questo tipo di lettura.
Anche non sono poche le parole o le espressioni che non conosco (e a volte sono
pure parole-chiave …) tuttavia il ritmo musicale è talmente suadente, la
cadenza, il suono stesso, la fascinazione di questa bella lingua, mi
prendono, mi pervadono e mi soddisfano. E poi certo c’è lo stile, e il
contenuto, ma soprattutto quella atmosfera da sogno, un po’ magica, quell’
inframezzare la realtà, sentimenti, parole, pensieri, ricordi, natura,
paesaggi, personaggi, pur dentro un discorso semplice di frasi brevi con poca
complessità sintattica, e con ripetizioni … E’ molto ben còlta e resa la
mentalità campagnola di gente semplice ma non per questo meno ricca di umanità,
anzi. Gente che è e si sente parte integrane del tutto, del contesto,
dell’intorno.
Lunes 29
Facciamo conoscenza con
qualcuno che è qui in albergo, Gabriela e sua figlia Denis, che vive a Palanco
DF e lavora nella RCI. Giochiamo un po’ a biliardo assieme, soprattutto Miki e
Denis. Stiamo fuori in giardino a mangiare la nostra colazione, e poi in piscina
a farci un bagno nell’acqua tiepida. Proseguo con la lettura di “Pedro Pàramo”,
e ascolto il CD di Roxana. Ci facciamo degli spaghetti (Miki fa il cocinero) e
poi leggo a Annalisa i primi due capitoli del diario di viaggi di Kapuscinski,
mentre Ghila è in fase scrittoria. In questo complejo ci sono l’alberca,
la concha de ténis, il posto dove
c’è il cartello No balompié ! dove
si gioca a calcio (…), il biliardo, il ping-pong, la palestra, ma non c’è
il telefono nei bungalows-camere, non c’è un bar, non c’è un comedor (un ristorante), non c’è serivicio de desayuno (non
c’è la prima colazione), non fanno nulla alla sera, ecc…
Andiamo alla Libreria “Rulfo”
per richiedere una copia del “Gato de
Oro”, e vedo dei CD dello stesso proprietario della libreria, Armando
Zamora, che recita brani di prosa e di poesia. Ne compero senz’altro uno, il
primo, e mi fa una dedica. In camera lo ascolto, mi piace il suo modo di porre
quei testi. Lui mi aveva detto che se volevo potevo venire in libreria a
partecipare ad una riunione che fanno tutti i mercoledì sera.
In tv c’è una
trasmissione-spettacolo su casi esemplari condotto da una che fa la lezione a
tutti su come si fa a vivere come si deve, mentre mostra al pubblico i mostri da
circo. Ad es. una famiglia in cui c’è con il capofamiglia una seconda
compagna e assieme a loro i vari figli della loro unione e di quella precedente
di entrambi loro, che sono rimasti con il padre o con la madre. E la conduttrice
esterna i suoi giudizi in merito alla immoralità della situazione. Tra questi
figli, o figliastri, ce n’è uno di 14 anni che stava in casa assieme con una
fidanzata di 16, ma poi si sono lasciati, e la ragazza ora è rimasta in casa in
camera con la nonna di lui, perché dice che quella oramai è la sua famiglia.
Non solo questi di cui riferisco, ma ben pochi dei personaggi messi in mostra
durante questa trasmissione hanno un lavoro regolare, tutti hanno lasciato la
scuola presto (non è prevista nessuna sanzione per le deroghe all’obbligo
scolastico) e si arrangiano con lavoretti vari saltuari.
E la conduttrice li provoca, per fare spettacolo, ma se non reagiscono li
insulta per spronarli. Dice che quella loro non è definibile come una
“famiglia”, ma è semplicemente un “ammasso di gente” in una unica casa,
dove c’è promiscuità. Accusa i due adulti che dice hanno “rubato”
l’infanzia al ragazzino, e gli ordina di ritornare a fare l’alunno, ma lui
non vuole riprendere la scuola, preferisce fare i lavoretti che trova, e la
conduttrice si mette a urlare dicendo ai due adulti che quella non è una vita
“consona alla sua età”. Da come reagisce il pubblico si percepisce che sono
complessi i raccordi tra livello di scolarità, maturità, e educazione. Sgrida
la ragazza di 16 per il fatto che dunque lei a 15 anni era andata a letto con un
ragazzo e che avrebbe anche potuto restare incinta, o forse non sapeva certe
cose?!, le domanda urlandole in faccia … forse non aveva mai visto gli animali
da cortile?! E lei risponde che allora non si rendeva del tutto ben conto di
quello che avrebbe potuto succedere. Ma forse, la incalza la conduttrice, non
aveva mai visto i film d’amore in televisione?! Ecco cosa succede ad essere
ignoranti, a non andare a scuola, ad avere dei riferimenti immorali in casa!
dice la conduttrice rivolta al pubblico dei telespettatori (un po’ morbosi
forse, se come me sono arrivati sino alla fine della puntata). E così di
seguito, la trasmissione ha questo andazzo, di stimolo ad una mentalità da
pettegolezzo e ad una curiosità invasiva sui particolari di certi momenti
privati.
Certo sono questioni complesse
e delicate, che non riguardano solo la relazione tra livello di alfabetizzazione
o scolarizzazione, ed il saper vivere o il maturare sotto il profilo
psicologico, ma riguardano anche le condizioni sociali, economiche e di
marginalità o marginalizzazione in cui conducono la loro esistenza queste
persone che abitano in baraccopoli, e sono cresciute in contesti dove c’è un
altissimo tasso di disoccupazione e di delinquenza. Ma certo non è sgridandoli,
o accusandoli o svergognandoli e sbeffeggiandoli in pubblico, che si può
risolvere la loro condizione, che generalmente non è originata da una loro
scelta consapevole…
Comunque questo è più o meno
il livello di certe trasmissioni popolari che si possono vedere alla televisione
…
Martes 30 de Agosto
Siamo andati a fare un giro:
il paese è ben messo, pulito. Poi io e Miki abbiamo mangiato un pranzo
abbastanza buono, io ho preso un chiles en
nogada, e poi una milaneza de res.
Al pomeriggio facciamo
tentativi vari di telefonate per programmare la prossima tappa a Taxco, prima da
un apparecchio di un negozio (come dicevo in camera non c’è telefono), poi
usando la tarjeta da un apparecchio
pubblico, ma senza risultati. Allora insistiamo di poter telefonare dalla
ricezione dell’albergo, assicurando che avremmo pagato gli scatti fatti. Non
so quante ricerche abbiamo dovuto fare di numeri, perché risultava che quelli
che componevamo o erano incorretti, o numeri inesistenti (il che non è vero),
eccetera. Facendo ricerche di compagnie di pullman venne fuori che addirittura
non esiste una società Estrella de Oro,
che invece avevamo già preso nei giorni scorsi … Insomma alla fine l’esito
è che andremo con la compagnia ETN al terminal di México Norte, e poi vorrà dire che prenderemo un taxi da lì per
andare al Terminal Sur, che ora
sappiamo che è generalmente noto come Central
Tasqueña, e poi là si vedrà quale camion troveremo al momento per
Taxco…
Sto rileggendo pagine qua e là
dal “Labirinto della solitudine” di Octavio Paz.
Miercoles 31 de Agosto
Ho finito il libro-diario di
Kapuscinski. Oggi giriamo per cercare una tintora che non troviamo e allora
diamo da lavare e stirare a una signora che, come dicono, lo fa “privata-
mente”. Ma c’è voluta una buona dose di determinazione. Perché quella che
aveva fatto stampare dei suoi volantini di reclame che aveva lasciato in
ricezione, abbiamo faticato molto a trovarla in quanto appunto fuori non c’è
una insegna, un cartello, perché non è un negozio, ma lo fa a casa sua, ma
insomma non c’è nemmeno un bigliettino o quel volantino, nessun segnale non
una scritta. Comunque una volta finalmente identificata la casa sono rimasto un
bel po’ a suonare il campanello (a meno che forse non fosse il pulsante della
luce? Ma non ho visto nessuna lampadina accendersi…) e insomma siccome sentivo
dei passi, ho più volte chiamato dal cancello “Señora
! ”, tanto che degli operai che lavoravano nella casa di fianco sono
venuti a guardare. C’era pure il cane lupo, ma non ha mai fatto neanche un
minimo bau. Alla fine abbiamo desistito, e cercato se per caso, era invece più
in là, se forse il numero civico era sbagliato. Poi una signora di passaggio ci
ha detto che lei sapeva di una che lava e stira a domicilio, ma che sta in
tutt’altro portone. Abbiamo infine suonato e bussato lì, e proprio quando
stavamo per andarcene, il marito ha aperto la porta.
Poi siamo andati con un taxi a
fare una gita ad una mina de òpalo
(una miniera di opale). E’ il señor Héctor Montes che ha una o due piccole
miniere dove scava, e che nella sua casa poi lavora, pulisce, rifinisce, e
vende. Ma quando siamo arrivati sin là per una strada sterrata, lui non
c’era, ma la moglie è stata paziente e brava a spiegare tutti i procedimenti
e le fasi della lavorazione, cui partecipano tutti quelli della famiglia.
Praticamente è una fortuna e una scommessa ogni volta, perché il pezzo di
parete che spacchi e poi fai cadere giù può contenere qualcosa, oppure no, non
si può mai sapere se stai lavorando sodo magari a vuoto. E poi potresti rompere
accidentalmente i pezzi di pietre preziose incastonati nella roccia … Così
loro vivono, con il loro laboratorietto famigliare nel cortile, e con la loro
aziendina domestica. Quest’anno hanno avuto una commessa per 90 tonnellate
(bum! chissà?!) di agata da mandare in piccoli pezzettini in bustine a un
distributore Usa che serve molti negozi nordamericani. Così ora sono tutti là
dietro impegnati a mettere in bustine di plastica i sassetti, e poi a fare dei
pacchetti, e quindi a metterli in gran sacconi che spediscono via treno-merci.
Anche il taxista si è interessato a queste spiegazioni e ha cercato di
coinvolgere la signora in una promozione che pubblicizzi di più la loro ditta,
e che la reclamizzi tra i turisti, in modo che lui e i suoi colleghi facciano più
spesso viaggi là da loro con i clienti. Sì la donna era un pochino
interessata, e comunque era sempre gentile.
Più tardi Ghi vuole fare
degli acquisti per fare dei regalitos,
dato che questo non è un posto conosciuto dal turismo estero e ci sono buoni
prezzi e belle cose. In una tienda vendono i vestiti confezionati nel loro
stesso taller (laboratorio) di sarte.
Poi arriva la figlia di questa signora (che sarà sui 42 anni al massimo) di 22
anni con il suo bambino di 2 anni. Abbiamo visto tantissimi casi così di
giovanissimi con figli.
Grande mangiata alle 4, prendo
filete a la tasqueña.
Alle cinque e un quarto vado
al taller literario alla Libreria
Rulfo. Ci sono già alcuni partecipanti e mentre siamo seduti sulle sedie di
vimini fuori dal negozio chiacchieriamo un poco, e uno mi fa vedere che si danno
degli argomenti da trattare e ciascuno si prepara prima, e mi mostra il suo
quaderno tutto fitto di appunti. Poi andiamo su al piano rialzato dove c’è la
saletta delle riunioni. C’è una anziana signora che sta a capotavola di un
gruppo di una dozzina di persone. Parla di un autore messicano vissuto a Parigi,
e poi legge un suo racconto breve. Silenzio assoluto. Ci sono i rumori del
traffico che entrano dalla finestra e rimbombano nella saletta, si sentono dei
cori dalla vicina chiesa, e in effetti forse non si è còlto tutto quel che la
anziana sigora diceva con la sua fievole voce. Intanto quando sento che sono
arrivati in libreria anche Annalisa, Ghila e Michele, mi alzo e scendo per
discrezione. Io e Michele torniamo su, mentre Ghi vuole fare i suoi giri.
Poi più tardi torna, per
farci vedere che ha comperato ad una cifra irrisoria e ridicola dei fagiolini
salterini, che sono dei bruchi dei fagioli, che stanno dentro a ogni fagiolo, da
agosto a fine marzo mangiandosi l’interno, e poi ne escono già farfalline.
Ecco ora siamo pieni di fagioli, opali, e regalini vari.
In varie case c’è
all’esterno del portone la scritta “sono cattolico e non voglio propaganda
contraria alla mia religione”.
Anche certi garages hanno
fuori dalla loro saracinesca delle targhe con scritto per esempio: “Respete mi entrada y yo respetaré su coche” (rispetti la mia
entrata e io rispetterò la sua auto) per evitare che di notte parcheggino
davanti alla saracinesca, e poi al mattino loro non riescano a far entrare le
auto da riparare… oppure “Se ponchan
llantas gratis” (si forano ruote gratis). Come avevamo visto già in altre
città.
Al mercato alimentare ieri
eravamo scappati di corsa dall’area delle bancarelle di carne perché la puzza
era insopportabile, ma proprio intollerabile.
Verso le 21 in tv c’è sul Canal
G (=Guate Visiòn) Marta Susana, quella presentatrice e conduttrice con
i capelli corti bianchi vista martedì sera, e dunque questa è la televisione
del Guatemala, non è messicana. Stasera sgrida un tale perché non è capace di
dare affetto alla figlia femmina e le preferisce il figlio minore solo perché
è maschio. La moglie dice che quando partorì la femminuccia temeva che lui si
arrabbiasse, e invece lui la sollevò dalla culla, la prese in braccio, le diede
un bacio, e poi la ripose (è proprio come facevano gli antichi padri romani per
dichiarare la accettazione come proprio di un neonato). Ma dice che dopo di
allora non la considerò più, per lui era affare di sua madre. Lui replica che
un figlio può essere di aiuto a una famiglia quando sarà grande, mentre una
figlia no, si sposa e va a vivere in un’altra famiglia. La conduttrice gli
dice che invece suo padre era contento di avere avuto anche una figlia perché
le femmine poi sanno come essere di consolazione al papà, dando più affetto
dei maschi, che sono più impacciati, e che la considerò sempre bene pensando
che poi un giorno lei lo avrebbe accudito e curato in caso di bisogno…
Poi vengo a sapere che questa
è una trasmissione molto seguita non solo in Guatemala e in tutto il Messico ma
anche in altri paesi hispanici.
Jueves, el dia primero de
Septiembre
Oggi per quasi tutto il giorno
non abbiamo fatto proprio niente (che meriti di essere segnalato in queste
note). Al tardo pomeriggio, dopo la siesta
delle “cinco de la tarde”, due
passi in paese. Sulla vetrina di un ristorante c’è un letrero (cartello) con scritto: “evìtenos la pena de negar el uso del wc” (evitateci la pena di
rifiutarvi l’uso del gabinetto). E in un prato: “No pise el pasto” (che non vuol dire non fate la pipì su quel che
mangiate, ma non calpestate il prato, ovvero la pastura del pascolo).
In piazza già sono iniziati i
preparativi per la grande fiesta della
notte tra il 15 e il 16. Stanno allestendo tanti baracchini di comidas
che offrono carnitas, cioè cabeza, ojos,
maciza, lengua, mollejas, cesos, (testa, occhi, parti basse, lingua, ventre)
e midollo e altre parti (per noi di “scarto”) baratitas, cioè “economiche”,
tipo trippa, intestini, o che so … e essendo esposte sulla bancarella (che
ovviamente è sprovvista di frigo…) il “profumino” è intenso con questo
caldo … Qui gli indigenas locali che vengono dalle campagne sono gli Otomies,
anche loro molto poveri.
Davanti alla chiesa ci sono
quelli della banda musicale paesana, uno però è un bimbo, e un altro un
ragazzino, ma a parte ciò suonano trombe, trombone, grancassa, flauto dritto,
flauto indio, eccetera in un modo che neanche Fellini, ne aveva trovata una così
di banda municipale… ci allontaniamo dalle loro esercitazioni di prova. Due
suorine stanno mettendo su un banchetto con librini e immaginette di stagno o di
stoffa o di pelle, del Niño de la Salud,
che è un gesubambino che c’è in non so in quale chiesa da qualche parte in
Messico che si è recentemente rivelato possedere formidabili poteri per
alleviare le sofferenze delle malattie o infermità ma in misura proporzionale
alla fede che si ha …
Alla sera alle 21 c’è di
nuovo il programma televisivo “Cuentame
tu historia” di cui vi ho già parlato. Marta Susana stasera ascolta un
ragazzino, forse un “monello” di strada, un chico de la calle, che dice che
la madre lo picchia, per questo sta fuori casa, e che è lei che non lo manda a
scuola. La madre invece dice che il ragazzino è tremendo e che quanto alla
scuola non vuole assolutamente andarci. Allora lei chiede al pubblico e ai
telespettatori qual è a loro parere la verità: è un monello imbroglione, o
uno che non se ne importa di nulla, un vero ribelle, oppure una vittima, ed è
la madre che lo rende tale perché lo picchia nella speranza di raddrizzarlo,
oppure la madre è una donna violenta che beve e che non lo ama affatto ? Marta
Susana vorrebbe rivolgersi alle autorità e toglierlo alla custodia materna, a
meno che lei prometta di educarlo senza sberle e colpi, e lo mandi a scuola come
si deve, e gli dia affetto. La madre dice che lui si fa la pipì nei pantaloni,
e dunque lei dovrà pur castigarlo per dargli un freno, se no … La conduttrice
la sgrida e dice che a una madre ubriacona e violenta, che già lei stessa ha
avuto a sua volta una madre simile, va ordinato che ai suoi figli deve dare
amore, quell’amore che non ha ricevuto, e intanto che deve smettere subito e
totalmente di bere. La tizia replica che lei ha smesso già da un mese, e anche
l’abuela (la nonna) che è da un mese che fa la brava cristiana, e che la
chiesa l’aiuta, e che ormai è cambiata, non è più quella di prima.
La presentatrice dice che non
basta la chiesa, o la fede –se poi davvero c’è- o la buona volontà,
bisogna piuttosto rivolgersi a un medico, a uno psicologo, a un esperto, a una
istituzione dei servizi sociali, ma questa gente dice che loro non ne sanno
nulla, o non ne vogliono sapere. La “verità” che lei chiede ai suoi ospiti
è molto più complessa, non è in bianco e nero. Chi può giudicare cosa è
vero e cosa falso, cosa sembra verisimile a ciascuno, cosa è in realtà falso
di ciò che dicono (e si dicono), chi è il colpevole qui? La colpa alla fine di
chi è? Chi ha ricevuto un torto? Forse la colpa sarà un po’ di tutti e un
po’ tutti hanno ricevuto dei torti … quanto incide la costrizione delle
condizioni materiali, quanto quella delle condizioni, e relazioni, psicologiche,
caratteriali … E coloro che dovrebbero provvedere (cioè psicologi, assistenti
sociali, istituzioni civili e religiose, …) sono attrezzati per farlo? Sono
presenti? Sono davvero in condizioni di poter aiutare? Sono preparati
professionalmente? Sanno fare e come farlo? Ma alla fine la minaccia di Marta
Susana è ancora sempre quella: ti togliamo la patria potestà, diamo i minori
ad un istituto. Allora pur di evitare questo forse il ragazzino andrà nella
tanto odiata scuola … i genitori si attiveranno … que
se anìmen! Oppure ne approfitteranno per togliersi un peso, un problema,
una quotidiana seccatura, discolpando(si) e dicendo(si): sono poveretto …
siamo dei poveretti. Di nuovo resto colpito da questo stupido e incredibile
programma.
Ho voluto dare questo squarcio
a titolo di documento sulla mentalità, la cultura, e il tipo di problematiche e
di discussioni che sono tanto diffuse in questo Paese, ed evidenziate in modo
scandalistico con grande rilievo sui giornali, le riviste, i rotocalchi, la
radio e la televisione, lasciando poi a voi riflettere su quanto riportato.
In questo periodo, come già
dicevo, ci si sta preparando per la prossima grande fiesta, il grande rito
nazional-popolare del grito, e già ora con i preparativi sono tutti presi da
questa ricorrenza e si sentono tutti molto messicani e provano l’orgoglio di
esserlo. Blasfemo chi dice diversamente, sacrilego sarebbe l’esprimere dei
dubbi, almeno nel contesto di questa importantissima e diffusissima religione
civica che sta a fondamento dello stesso sentimento spirituale-laico
dell’identità collettiva: la “messicanità”. Ogni dichiarazione di
diversità, di distinzione, di non adesione, anche se storica, culturale,
determinata da fattori materiali, , economici, sociali, di marginalità/emarginazione,
è assolutamente ineffabile, inesprimibile, se non a costo di provocare per
reazione un moto di disprezzo che mantiene nella marginalità anzi ti caccia
nell’area del rifiuto.
Tra i doveri civili, esibiti e
reiterati in occasione di queste grandi kermesses cicliche, c’è quello di
gridare ben forte e pubblicamente, il proprio orgoglio patrio. Secondo questa
visione al di là di qualsiasi differenza siamo tutti messicani, al di là di
tutti gli abissi che ci potrebbero distinguere, di questi esasperati estremi che
sono una caratteristica della società e del Paese, veniamo tutti accolti sotto
la grande bandiera e possimo trovare il nostro rifugio in essa. Che cosa ci
potrebbe mai essere di più tollerante di un atteggiamento come questo? come si
potrebbe dunque rifiutare questo? !Que
viva Mexico! Anzi: !Que Viva México
hasta siempre! Grideranno tutti in coro in tutta la Repùblica la notte del
15.
Ci sono alcune leggi di base
che sono “strette”, cioè di stretta osservanza, senza eccezioni, senza ma e
senza se, su cui ci deve essere transigenza zero. Senza che debbano intervenire
“tolleranze” o accomodamenti, o concessioni. Su certe cose non si deve e non
si può lasciar correre. Tra queste, che si chiamano “Leyes
secas”, c’è per esempio quella per cui non si possono nemmeno vendere
vino e birra e alcolici nei giorni di festività nazionali o di elezioni. Per
cui nei giorni precedenti e soprattutto la sera prima c’è tutto un gran
affaccendarsi a fare scorte per i grandi festeggiamenti … ! (come possiamo
constatare noi stessi già ora) e in queste grandi occasioni, come si dice anche
da noi: chi non beve in compagnia, o è un ladro o una spia. E così sono sempre
giorni di baldoria e eccitazione, ma anche di incidenti, di violenze, e a volte
di tragedie, che il giorno dopo vengono riportate a titoli cubitali in prima
pagina, e che sono indicate come le famose eccezioni che servono solo a ribadire
e confermare la regola, ripromettendosi che per la prossima occasione sia ancor
più ferrea e intransigente. Quindi si accompagnano sempre grido festoso,
allegria, e infine disperazione. Qualcuno anche verrà in qualche modo
sacrificato, non solo tanti agnelli saranno sgozzati, e cibo e vino tracannati,
ma qualcuno ci lascerà la borsa … o la vita.
Viernes 2 de septiembre
A volte non ci si capisce, non
ci si intende o non si riesce a farsi intendere. Se ad es. vuoi delle saladitas,
ma dici galletas saladas, non ti capiscono. Oppure chiedo se ha due
francobolli per queste cartoline, e lei tira fuori i bolli, e in quel momento le
dico, beh me ne dia cinque per favore. Mi dice: no, ne basta uno per ciascuna
cartolina. Dico lo so, ma ne vorrei cinque; e mi risponde: non vorrà dirmi che
ne vuole tre in più? Si. Oppure ad es. io dico mi porti del riso, ma per favore
in bianco. Mi risponde: lo vuole con il Ketchup (che pronunzia Kàzòp)
anziché col pomodoro? No. Dico vorrei delle uova strapazzate col formaggio. Mi
risponde: non si può, non si può strapazzare il formaggio, perché c’è o il
queso o il quesillo (il
formaggio o il formaggino), l’uno si scioglie e l’altro viene a pezzettini.
Dico alla cameriera
dell’albergo: entri pure nella stanza a fare le pulizie anche se io resto qui
in camera. Mi risponde: ah se non posso entrare certamente dovrò ritornare più
tardi!
Il risultato del
fraintendimento si dice: con patas arriba,
cioè restare a gambe all’aria.
Uno dei tanti esempi della
lingua parlata in Messico è il cartello: “Los
camastros son para uso de alberca” (=le sdraio sono per uso della
piscina). Mi fa venire in mente che a fine luglio avevo visto un articolo di
giornale o di una rivista, in cui si commentava la recente uscita della versione
elettronica della 22° edizione del DRAE il Dizionario della Real Accademia
Spagnola della lingua, e l’autore di quell’articolo si lamentava per il
fatto che si sancisse così un canone che veniva fissato nella lontana Spagna,
mentre nel mondo di lingua spagnola la Spagna è oramai solo un piccolo paese di
40 milioni di persone (di cui una parte poi sono di espressione catalana, basca,
galiziana o altro), mentre invece il Messico è il più grande paese di lingua
spagnola. Ma alla fine non dava proposte di soluzioni alternative, e lodava
comunque il DRAE perché menziona tutti i termini e tutti i significati
attribuiti loro nelle varie zone del mondo; e lo apprezzava per il suo
insostituibile ruolo conservatore che permette alle 20 nazioni di lingua
spagnola e ai 400 milioni di hispanohablantes
di restare uniti nella comunità linguistica.
Quindi il dizionario è ancora
visto in Messico soprattutto per la sua funzione regolatrice e direttiva, per
verificare se una espressione può essere considerata corretta o errata, più
che non esser visto come un organo di ricezione e registrazione delle
modificazioni della lingua, che cioè constati i suoi mutamenti e li contempli.
Almeno così a me pare, anche perché so che era stato così anche da noi, poi
il fascismo ha inquinato il concetto con un colore politico, per cui era stato
sempre più visto come strumento autoritario (che cosa insensata …) per
imporre certe espressioni (del tipo che si dovesse dire “ristoratore” anziché
ristorante, o cose del genere, per estirpare i francesismi e gli anglicismi
…). Poi ricordo che Carlo Salinari fu il primo a uscire negli anni sessanta
con un “dizionario della lingua parlata in Italia”. Mentre nel mondo di
lingua inglese già da molto più tempo è così, il dizionario segue i
cambiamenti e gli sviluppi e si tiene aggiornato alla realtà contemporanea,
fermo restando che un inglese corretto (detto Queen’s english, o King’s e.)
costituisce il riferimento, anche se però non tutti lo parlano.
Così ad es. da noi fino a un
paio di decenni fa si riteneva giusto che almeno i mezzi di informazione
pubblica, oltre che ovviamente le istituzioni di istruzione pubblica, usassero
un linguaggio corretto nell’espressione, nella grammatica e nella sintassi per
proporre al vasto pubblico un modello di riferimento, abituando alle
formulazioni, ai vocaboli, e alle dizioni corrette. Oggigiorno oramai è anzi il
contrario, i mezzi di comunicazione avvalorano il linguaggio popolare delle
larghe masse adottando le loro espressioni quotidiane di uso comune, e il
cosiddetto “conservatorismo” linguistico è visto come un atteggiamento
aristocratico e da intellettuali, di tipo reazionario e privo di senso perché
fuori dalla realtà. Di qui poi l’uso non solo di adottare il linguaggio delle
masse nel comunicare con le masse, ma addirittura i mezzi di informazione e di
comunicazione sono i principali veicoli per introdurre e consolidare anglicismi
e neologismi, anzi ancor più, per imporre l’uso di termini inglesi o
anglo-americani. Oramai in molte categorie professionali e scientifiche, anche
in campi umanistici, come la sociologia o la psicologia, è di prammatica
attenersi all’uso delle definizioni, dei modi di espressione, e dei termini
direttamente tratti dall’uso inglese, per cui oramai non solo si sono
introdotte queste terminologie, ma non se ne può più fare a meno (computer,
hard disk, floppy, RAM, mail, check-in, test, screening, trailer, background,
feed-back, AIDS, pap test, TAC, più vari neologismi anche ridicoli, tipo
testare, velocizzare, ecc.).Similmente in Grecia; diversamente nei paesi arabi e
in quelli orientali. Ma là si
intersecano altre questioni più complesse date dalla scrittura, o dal divario
tra lingua scritta e parlata (Cina, India, p. arabi).
Ogni mese vengono presentati
circa ottanta quesiti alla Academia Méxicana
de la Lengua, sull’utilizzo corretto e sul significato esatto di certe
parole o locuzioni. E questo non solo per l’avvento delle nuove tecnologie
come internet o della dominazione degli slogan pubblicitari delle
multinazionali, che tendono a “tradurre” in modo automatico, o comunque alla
lettera.
Si sente inoltre l’esigenza
di un “Diccionario PanHispanico americano”, che registri ogni messicanismo,
o argentinismo …ecc. Già ne avevo visti degli esempi in Perù che saltavano
all’occhio anche di un non esperto come me. Ora sembra che il DRAE nella
22esima edizione sia più attento finalmente ai cosiddetti españolismos, mentre sino a tempi recenti un vocabolo per il solo e
semplice fatto di essere utilizzato in Castiglia aveva validità di carattere
generale, e ai vocaboli corrispondenti ma diversi, usati altrove si dava il
marchio di localismi. Ma se in Spagna per dire computer si usa ordenador, e in
Messico computadora, e fenomeni simili si verificano in vari ambiti, ci può
essere il “pericolo” che si verifichi una divisione della lingua, tra Europa
e America. L’autore di quell’articolo diceva che secondo lui la soluzione è
che le varie accademie si consultino regolarmente e stabilmente e si mettano
d’accordo su un termine comune. Ma a me pare irrealistico poiché sempre in
ogni paese prevale quella di uso corrente imposta di fatto da chi non sa nemmeno
che esistano accademie della lingua. Ma la RAE afferma che i neologismi vanno
trattati come tali. Qual è dunque la funzione sociale del dizionario, ammesso
che si debba attribuirgliene una come obiettivo? Nell’articolo in questione si
conclude che se non avesse una funzione conservatrice, quello stesso articolo un
giorno potrebbe non essere più leggibile per molta gente di lingua
“spagnola” (o latino-hispanica). Pertanto un dizionario, e in particolare
quello, deve comunque sempre rifarsi ai classici, ai grandi autori della
letteratura e non ad altro.
E il sogno di Simòn Bolìvar
della Grande Patria Comune … ? Idem per la communauté francophone, o per il
multiforme mondo degli “english”-speaking-peoples, o per lo hindi quale
impossibile lingua comune per gli indiani, o per l’arabo scritto, o per il
bahasa-indonesia, o per il malese ufficiale della Grande Malaysia, ecc. (non so
come sia per l’universo di espressione “cinese”). Per fortuna -si fa così,
tanto per dire- una fondamentale funzione unificante qualcuno pur la svolge: e
cioè il cinema, la tv satellitare, internet, le canzoni, youtube, gli sms,
eccetera. Se la tv non portasse in tutte le case i film americani imponendo
l’american-english degli Usa (e la visione del mondo che esso esprime), già
ora la frammentazione sarebbe non più ricomponibile per gli oramai troppi
pidgin-english, idioms, slangs locali, eccetera, mentre ora sembra in atto un
processo di diffusione di una certa koiné
un po’ “holywoodiana” scritta nelle e-mail e soprattutto nei vari chatting
sui social networks, e che è praticata sul lavoro, o per turismo da tutti
quelli che stanno all’estero o che viaggiano e si incontrano. Addirittura lo
stesso Michele qui in albergo, giocando a biliardo con la ragazza messicana ha
verificato che si intendevano meglio tra loro parlandosi in quell’ inglese che
condividevano e che è comune ai molti giovani che l’hanno imparato non solo a
scuola, ma con le canzoni e i film. E qui in Messico gli anglicismi nel
linguaggio corrente certo non mancano (e non certo solo a causa di chicanos
e pachucos). Ma nel contempo qui in Messico da secoli sono entrati nel
linguaggio comune vocaboli delle varie lingue aborigene, più o meno
hispanizzati o distorti, o con significati “impropri”, ma anche tali e
quali, in misura forse maggiore che in altri paesi del Latino-America. E anche
questa è –oltre ai vocaboli in spagnolamericano locali- l’altra grande
caratteristica del linguaggio messicano, che si avverte subito già al primo
contatto.
Vado alla riunione della “Tertulia”
(=circolo di conversazione) del venerdì sera in Libreria. Oltre ad me e ad
Armando, il padrone, ci sono Ramò, Ana Luisa, e due coppie. Atmosfera simpatica
da chiacchiere tra vecchi conoscenti, ognuno racconta delle sue letture, dei
suoi viaggi, delle sue curiosità in modo informale. Ramòn, di 74 anni, legge
appassionatamente tutto sulle più antiche religioni, le prime religioni dice
lui, dei Sumeri, degli Ammoniti, dei Fenici, eccetera, e prende pagine e pagine
di appunti in un quadernone enorme, le cui pagine sono fitte con una scrittura
precisa, chiara, fine, e ne legge delle parti e li commenta ogni volta che gli
amici hanno voglia di ascoltarlo. Me li mostra e commenta un poco. Poi Armando
racconta delle due volte che è stato in Perù sulle Ande, e del maestro
spirituale che va a trovare a Urubamba: Antòn Ponce de Leòn. La prima volta
era andato là per farci nascere la figlia, perché là ci sono energie
straordinarie. Poi è tornato con la famiglia 15 anni dopo per far conoscere
certi ambienti ai suoi figli. (Si tratta del centro “Samana Wasi”, la casa
del riposo, nella valle sacra degli Incas, vicino a Cuzco). Insomma una riunione
molto gradevole e interessante.
Annalisa. Ghi, e Mi tornano
dalla loro gita in taxi. Il taxista ha raccontato per filo e per segno come si
fa a cucinare il capretto al barbecue, che è una specialità di qui.
Cominciando a partire da come si deve costruire il forno, eccetera. Poi ha
raccontato di quando ha preso su due turisti dal residence e li ha portati a
fare un lungo giro nei dintorni, e cosa hanno fatto e cosa han comprato …E che
in un paesino in cui avevano fatto una sosta erano stati invitati a una festa
familiare di compleanno. E quando, dopo aver abbondantemente mangiato e bevuto i
due hanno chiesto quanto dovevano per il pranzo, lui ha spiegato loro che un
invito è un invito e basta, e allora loro hanno comperato una bottiglia di
tequila e l’hanno portata come loro regalo di compleanno. Ecc. ecc. …
Insomma quel che volevano dire
Ghila e Michele è che i messicani non sono proprio capaci di restare in
silenzio e di guidare e nient’altro. Come il nostro taxista dell’altro
giorno, Memo, che si era interessato alla miniera e ai vari prezzi, e ha fatto
varie domande alla signora. Dopo di ché ci ha chiesto solo venti pesos in più
per tutto il lungo tempo (due o tre ore) che è stato lì ad aspettarci. Meglio
così per loro, i giri fanno parte anche della loro giornata, della loro vita di
autisti, mentre da noi in Europa si definisce professionale un atteggiamento di
“rispettoso” distacco, per cui un autista guida e basta, tutto il resto non
lo riguarda, lui è lì in quanto svolge le sue funzioni di conducente e
nient’altro, il suo vero sé stesso è tale solo nel tempo libero dal lavoro;
e il lavoro è qualcosa che è solo questione di retribuzioni, rapporti
sindacali, gestione, organizzazione, produttività e assolutamente
nient’altro. Almeno nelle grandi città del nord come Milano o Torino, Genova,
è così, mentre per loro qui è la loro giornata di vita. Intanto che guidano
telefonano ininterrottamente, e parlano come fossero a casa loro, e dicono
“amor mio”, “tanti baci”, “sto facendo questo giro sai, ma dopo passo
da te”, ecc… Tra l’altro raccontava che in due miniere su quella strada
sono stati trovati alcuni opali di fuoco che sono rarissimi. Mi viene in mente
un romanzo poliziesco australiano ambientato ad Hong Kong. Chissà qui i
titolari delle miniere come hanno saputo gestire la faccenda, se appena saputolo
in giro certi gli sono “saltati addosso”, o se quelli sono riusciti a farsi
finalmente un bel gruzzolo di soldi e a vivere bene. Forse qui ancora le cose
vanno come dovrebbero, ma altrove imperano i narcos, i narcotrafficanti armati,
che sono raggruppati in varie mafie di banditi che spadroneggiano in tanti
settori e ambienti (cfr. i libri di P.Cacucci, o di Y.Herrera, o i film
messicani sul tema).
Sabado 3
Ieri sera a cena ho raccontato
un po’ quel che avevo letto sul monolite di Bernal (che dopo la rocca di
Gibilterra e il pan-di-zucchero di Rio è il più grande del mondo), molto
simile a quello del Wyoming da cui trasse spunto il film del ‘77 “incontri
ravvicinati del terzo tipo”. E da lì poi con Miki il discorso è andato alla
vita nell’universo, agli orfici greci, e agli inframondi degli Aztechi e in
Platone …
Stamane dunque partiamo, con
un camion della “Flecha Amarilla” preso al volo, che ci porta al Terminal
Norte a DF, ma dopo un lungo e faticoso attraversamento di Ciudad de México,
che in termini di tempo costituisce più di un terzo dell’intero viaggio…
Poi prendiamo un taxi che con le nostre valige legate sul tetto ci porta in soli
tre quarti d’ora al Terminal Sur che chiamano appunto Central Tasqueña, dove
mangiucchiamo qualcosina e prendiamo il biglietto del grupo Estrella Blanca. Si
arriva a Taxco distrutti, dopo aver attraversato un panorama stupendo, prima
salendo forse quasi a tremila metri, poi scendendo in una magnifica vallata
verde contornata da montagne con fitti boschi, molti fiori (è la valle di
Cuernavaca), e poi risalendo e ridiscendendo, finché passando tra vari anfratti
si giunge ad una incasinatissima cittadina arrampicata e abbarbicata sui pendii
delle colline.
Il Terminal è un grande caos
tra traffico congestionato, sporcizia, rumori, fumi, in un angolino troppo
troppo angusto. Il traffico è intenso perché ci sono solo stradine dove stanno
tutti quanti fermi in fila indiana da uno, scappamentando e rumoreggiando
follemente. Taxi neanche a parlarne, e poi sono solo maggiolini Volkswagen senza
il posto di fianco al guidatore (che è stato proprio divelto in tutti), per
metterci lì le valige. Annalisa e Michele vanno avanti con un taxi che sono
riusciti finalmente e miracolosamente a catturare togliendolo a qualcun altro.
Noi restiamo nel piazzale a battagliare per un secondo taxi (hanno solo due
posti passeggeri), ma la folla è grande e agguerrita. Ghila telefona al nostro
albergo per chiedere alla ricezione se possono mandarci loro un taxi o una
macchina a prenderci. Dopo un sacchissimo di tempo … arriva (!), quando oramai
i pullman (che erano arrivati quasi tutti contemporaneamente) già se ne sono
andati tutti, e quindi ora di taxi se ne trovano quanti se ne vogliono perché
non c’è più nessuno, la gente è andata tutta via. Anzi vengono loro ad
offrirsi. Ma noi oramai attendiamo la macchina che speriamo ci abbiano mandato.
Alla fine entriamo nel volkswagen, l’auto si fa una arrancata tutta in prima
sul colle di fronte a Taxco. Lassù alla recezione del “Montetaxco”,
chiediamo subito di Annalisa e Miki, ma nessuno ne sa nulla, né di loro né
della nostra prenotazione, né delle nostre telefonate di ieri e
dell’altroieri, né di quella di poco fa … Annalisa non risponde al
cellulare (o quassù non c’è campo). Siamo veramente sconcertati, il tizio
della recezione cerca molto tra i vari quaderni e foglietti di note, ma non
trova proprio i nostri nomi, chiede ai facchini, ma non hanno mai visto Annalisa
e Miki, né li ha mai visti la sua collega, allora Ghila chiede ai portieri e
poi ai vari taxisti che ci sono lì davanti e che non hanno nulla da fare, ma
non ricordano di averli visti arrivare … Che dovremmo fare? A questo punto
siamo veramente in ansia. Insisto ancora tanto, ma senza risultati. Alla fine mi
viene in mente un nome che forse mi avevano detto al telefono, e dico che mi
pare che le nostre camere siano in una dépendance chiamata “Mar-bel” è
possibile? “Ah, ma allora, se lo aveste detto subito ! sì dovete andare
all’altra recepciòn, quella della dependencia, guardi è là che dovete
andare.” … ! e mi indica una sala più in fondo dove in effetti c’è
un’altra recezione… Già, già,
benvenuti in Messico. C’erano Annalisa e Michele oramai preoccupati e non
sapevano più cosa pensare (e inoltre qui sulla collina non c’è campo per i
cellulari).
La sera al ristorante-buffet
con il terrazzo sulla piscina, che da a strapiombo sulla strada, e con davanti
Taxco illuminata proprio di fronte a noi … ci riconciliamo col posto. Fanno
pure i fuochi d’artificio e c’è una orchestrina che suona ! … cosa si
poteva desiderare di più ?
Adereze
(= dressing) è il condimento, ed è proprio questo che a volte lascia a
desiderare. In un locale di videogiochi leggiamo: “Favor de no hablar malas
palabras!” cartello che forse poteva starci bene alla recezione …
Domingo 4
Scendiamo a Taxco (a 1860
m.slm) entrando in quattro nei tre posti a sedere (io mi siedo davanti sul
pavimento) del maggiolino volkswagen, con i suoi ottimi freni e pneumatici e la
sua trazione posteriore. Il guidatore mette la prima, e va giù.
Giriamo per le parti più
orizzontali della città. C’è un traffico ossessionante e molto inquinamento.
Troppa gente, troppo argento, come dice Miki. Qui è tutto solo impostato sui
negozi (in gran parte di prodotti in argento), e non si vede quasi, e dunque non
si gode, la bellezza della cittadina. In questo contesto così angusto, e con
stradine piccole e strette, dovrebbero rendere tutto il centro storico pedonale,
o obbligare ad usare solo mezzi di trasporto ecologici …
In piazza c’è una sorta di
fiesta elettorale con giochi per bambini, canzoni, eccetera, in cui si dice in
conclusione di votare per Tizio.
Mangiamo su una bella terrazza
panoramica. Poi nel tornare veniamo intralciati da una processione, chiediamo
che cos’è e ci dicono: “un difunto”.
C’era tanta gente, ma forse quasi solo la moglie e la figlia (?) erano in
nero, e piangenti, gli altri erano in camicia o camicetta bianca, e i fiori,
delle calle, erano bianchi. Ci sono pure dei Mariachis che suonano canzoni, non
sempre solo meste.
Prendiamo un “combi” per
tornare su allo zocalo (un pullmino-taxi su cui possono salire tutti quelli che
ci stanno). Arrivati, un bambino sta per chiudere la porta che andrebbe a
schiacciare la mano a Ghila che stava ancora scendendo, per fortuna il
tempestivo intervento di Annalisa che ferma il bambino, fa sì che non succeda
nulla.
Poi giriamo ancora molto per
negozietti (alcuni hanno belle cose), e infine andiamo su una terrazza a
riposare e prendere un thé, mentre giù in piazza ancora suonano e cantano. Poi
ritorniamo pian piano a piedi io e Ghi, e in una piazzetta rivediamo quelle
orrende riproduzioni degli autoflagellanti. Che impressione! Passando col taxi
avevo pensato che fosse per commemorare le vittime dell’Inquisizioe (che
idiota!), invece è una tradizione di Semana Santa che avevamo in effetti vista
descritta nel Museo e Casa della Cultura, intitolato a Borda. Tra l’altro
questi era uno strano personaggio cui non so se meriti intestare una casa della
cultura…
C’è anche un museo
intitolato a William Spartling che avviò tra il 1929 e il ’31
l’attività di design e di produzione di gioielli d’argento a Taxco.
La città in effetti era stata per secoli la fonte della materia prima, ma non
c’era un artigianato di lavorazione locale. Spartling, un amico di Faulkner e
di Dos Passos, venne in Messico come architetto per ampliare la “Casa Mañana”
di Elizabeth Morrow a Cuernavaca (la moglie dell’ambasciatore nordamericano),
e vedendo i suoi disegni di ispirazione prehispanica per i decori della casa, la
Morrow gli suggerì l’idea di fondare la moderna gioielleria messicana
rilanciando lo stile originario. Anche De Rivera fu d’accordo. Così Sparling
oltre a promuovere le esposizioni di Rivera negli Usa, aprì un negozio e
laboratorio di design messicano contemporaneo che ebbe una enorme fortuna. Oggi
moltissime sono le copie non autorizzate dei suoi lavori, e le imitazioni o gli
oggetti ispirati al suo stile. Ma in questi casi è difficile stabilire cosa sia
copiato e cosa sia originario (anche Spartling copiò a sua volta disegni
antichi). Certo è che in quel periodo non solo Frida Kahlo e gli artisti dei
murales contribuirono a un rinascimento di una estetica specificamente
messicana.
A tavola a pranzo raccontavo
ad Annalisa di quel libro che ho comprato su Regina Teuscher, uscito per il 33°
anniversario della sua uccisione (o sacrificio …) nell’ottobre ’68 durante
la strage dei 68 studenti (o martiri) a Plaza de las Tres Culturas a Tlatelolco,
così ben ricostruita da Elena Poniatowska. Regina da certi viene mitizzata e
idolatrata, e su di lei già fioriscono delle leggende (cfr. la novella di
A.Velasco Piña, e il film Ni olvido ni
perdòn). C’è chi la chiama “la Réina
de México”, che con altri 400 (il numero dei feriti) “si offrirono in
sacrificio consapevole delle proprie vite, pur di dare il via a un risveglio
spirituale e morale dei messicani”. E’ comunque considerata un simbolo, di
innocenza, bellezza, gioventù e cultura. E molti considerano lei come la
maggiore impulsora del ritorno, della
rivalorizzazione, o rvivificazione tra i giovani di quella generazione, della
spiritualità indigena precolombina, ma anche del suo gusto estetico, e questo
25 anni prima delle famose celebrazioni del 500enario della scoperta del
continente, che segnarono un punto di svolta nella storia della rinascita
spirituale di tutta l’America india e della sua identità culturale. E’
comunque interessante e significativo che in certe occasioni che vengono sentite
intensamente e percepite come di grande significato simbolico, ritornino a
manifestarsi antichi schemi culturali, come quello dell’offrire la vita in
sacrificio, di immolarsi, di soddisfare le richieste di dèi esigenti, o di
vedere nella morte una nuova vita che sorge, del sangue che purifica e rigenera,
del valore simbolico dei numeri (68 nel ‘68), o della violenza che viene
scaricata dall’alto (gli elicotteri) come monito e segnale, eccetera.
Diversa gente camminando, o
passando in autobus si segna ogni volta che si passa in vista di una chiesa, o
un altarino, o una croce …, è una religiosità molto attaccata a formalismi,
rituali, a un concetto teurgico del rapporto col divino, di sottomissione, di
ingraziamento, di scongiuri, di richieste e di attese. Le cerimonie
dell’autoflagellazione ad esempio sono molto sentite e vissute come
catartiche.
Prendiamo un jugo de mango in
un bel “café de Chiapas”, con un
tipo simpatico che ha voglia di conversare, e che mi aveva chiesto se sono uno
scrittore perché aveva visto che prendo questi appunti sulla mia Moleskine.
Al mercato c’erano dei bei
gioielli, e non solo plata ma anche pietre dure e coralli, che erano molto a
buon prezzo, essendo oramai in settembre.
Ci sono anche bellissime
ceramiche e disegni su fogli come di papiro, tutto è supercoloratissimo, una
festa di colori sgargianti che sorprendentemente si accostano sempre benissimo
tra loro.
Lunes 5
Stiamo andando in gita con un
“taxi” privato. Passata Huajintlàn siamo nuovamente nello Stato di Morelos:
cavalli, asinelli, capre, pecore, mucche, cani … boschi, molto verde, alberi
della famiglia dei ficus, gli amates
amarillos, che sono anche molto alti, e lo huamucil
che produce una frutita blanca. Ci sono cuevas
e anche un lungo tunnel sotterraneo naturale. La gente qui all’inizio di
novembre va in gita nei boschi per raccogliere lo jumil, uno scarabeo che contiene molto iodio, e lo mangiano crudo,
ma è forte e piccante, oppure ne fanno una salsa molto saporita. Il libro che
ho preso di Miguel Ruiz sulla sabidurìa
tolteca, parla delle due forze, il Tonàl
e il Nopàl, e anche del “sogno
della vita”. Sono concetti che avevo letto già in Castaneda, anche se
trattati diversamente.
Intanto siamo arrivati a
Puente de Ixtlà, poi si sale e ci sono aguilotes,
e correcaminos. C’è pure un lago
vulcanico, Cuatetelco.
Ed eccoci infine alla nostra mèta:
Xochicalco ! Strepitoso! Qui c’è tutto, la calzada
per i carri, l’arena, il campo di pelota,
il tempio di Quetzalcoatl, e che grande area sacra … e c’è pure un
calidario dove tra i vapori bollenti si purificavano prima di entrarvi.
E c’è l’immenso panorama
fino alle montagne, al Popo, al lago. Come dicevo ci sono molte aquile che
volteggiano nei loro giri altissime con le loro ali di apertura eccezionale, e
c’è il silenzio … Vedo grosse formiche rosse che pungono non poco, con le
loro strade nell’erba e le tane, e vedo anche i correcaminos
(in inglese Road Runner, quello che in un famoso cartone fa impazzire di rabbia
il coyote…) che passano, e grandi mariposas
(=farfalle) colorate.
Il nome della città in lingua
nàhuatl significa “nel luogo della
casa dei fiori”. Questa imponente e magnifica località è rimasta pressoché
sconosciuta o ignorata, e quindi abbandonata a sé stessa fino a vent’anni fa
… Pur essendo stata menzionata da frate Bernardino di Sahagùn già nel 1529,
è stata dimenticata fino al 1909. E’ solo dopo il nostro scorso viaggio, e
cioé a partire dai lavori archeologici del 1984 che si comprese l’importanza
della città e questa venne studiata e valorizzata. In quell’anno c’è stato
il primo progetto di ricerche e il sito è stato dichiarato di interesse a
livello federale. Il primo libro di studiosi è del 1994, pubblicato a cura
dell’ INAH, l’ist. nazionale di antropologia e storia. A tutt’oggi sono a
disposizione dei visitatori soltanto una cartolina e tre cosiddette miniguide,
cioè dei micro opuscolini del 1995 ristampati dalla segreteria del turismo
dello Stato di Morelos. Tutto qui. A fronte dei grandi investimenti fatti
per la sua valorizzazione, tra cui la strada e il bel museo, immerso nel
verde. Però ancora ben pochi visitatori sanno che esista, oppure sanno dove
sia, o come si raggiunga.
Quando eravamo lì, c’era
una classettina di Liceo con due insegnanti che hanno fatto anche una cerimonia
mettendosi in cerchio attorno alla base dell’ altare nello spiazzo della plaza
principal, su cui avevano deposto moltissimi bei fiori freschi, e mi pare una
statuina-immaginetta della vergine di Guadalupe. Hanno iniziato richiamando
energia, e poi tutti, visibilmente emozionati, si sono abbracciati con slancio.
Quindi hanno portato via tutto quel che avevano, cioè le loro cose e i loro
rifiuti, e se ne sono andati.
Siamo dunque rimasti quasi
sempre soli qui, finché al momento della nostra partenza sono passati quattro
turisti con un cicerone (magari a noi qualcuno avesse spiegato qualcosa!, o
almeno ci avesse detto che si poteva trovare una guida …).
Il monumento principale è la stupenda piramide dei serpenti
piumati, che all’epoca era ovviamente policroma, e che ha conservato ben due
strutture sottostanti più antiche; bellissimi i bassorilievi dei serpenti e dei
sacerdoti e dei governatori seduti a gambe incrociate, con collane, orecchini,
cavigliere, braccialetti. C’è segnata anche una data esatta, che forse è
quella del completamento della costruzione del tempio maggiore, che sarebbe
relativa all’anno 10 “della canna”, che forse si riferisce però ad un
grande evento quando vi fu la riunione di molti sacerdoti di varie parti del
regno e di altri paesi lontani, per cui qui venne studiata la eclissi di sole
del 743. Per quell’evento si erano preparati, ed erano convenuti per la data
del 9 del mese “occhio di rettile”, studiosi e “scienziati” di varie
provenienze (la stessa civiltà locale sembra essere stata un amalgama di
influenze e anche un centro di riferimento di conoscenze). Sull’acropoli ci
sono altre piramidi ed edifici molto interessanti e ben conservati tra cui
appunto anche un osservatorio (questo era in realtà il lungo tunnel con
aperture verso il cielo), il bagno termale di vapore, o temazcal,
di cui già ho accennato, la piramide gemella, la piramide delle stelle, uno
stadio per il gioco della pelota. Lungo i bordi della grande scalinata che porta
all’acropoli ci sono decorazioni che rappresentano le viscere interiori del
serpente, importanti per il loro
valore medico.
Dunque a quanto sembra di
poter congetturare dai bassorilievi, salivano ogni anno per la ricorrenza di
quell’evento astronomico, con animali addobbati, che forse portavano offerte,
e inoltre si formavano dei cortei in cui tutti erano vestiti in modo
particolare, con caschi piumati, e poi si svolgevano gare, e il gioco della
pelota sacra, che rappresentava i movimenti del cosmo. I bassorilievi, che erano
riccamente colorati, sembra dunque che si riferissero a questo. In quella
occasione probabilmente si verificava, e all’occorrenza si “aggiustava”,
il calendario che doveva sempre essere in perfetta concordanza con gli eventi
astronomici, e si aggiungeva o sottraeva uno dei cinque giorni complementari.
Questo veniva stabilito e calcolato in base all’ingresso del raggio solare il
14/15 maggio e il 28/29 luglio. Insomma leggendo queste cose c’è di che
esaltarsi essendo lì nel sito, e viene facile fantasticare e figurarsi quel
louogo abitato e vivo, e rimanerne strabiliati. Per questa sua straordinaria
rilevanza la cittadella sacra è stata dichiarata dall’Unesco nel 1999
Patrimonio dell’Umanità. Vale il viaggio per una visita (si raggiunge
rapidamente con la Autopista del Sol) al sito, e al museo gestito dall’ INAH e
dal Conaculta (il consiglio nazionale delle culture autoctone).
Ora mi viene in mente che
sopra al Templo Mayor c’era della frutta in offerta votiva, posta qua e là su
un mucchietto di riso che qualcuno aveva portato e poi lasciato.
Come ricorda uno dei suoi
poemi, il re Nezahualcoyotl scrisse: “Volveràn
a sus lejanas tierras, llevando en las pupilas no solo la imagen del Valle
Florido y Limpio, y de nuestra hermosa ciudad, sino también, en sus espìritus,
el calor de nuestra amistad”. Nel XV sec. Nezahualcoyotl fu un grande
sovrano di questo territorio che allora era il regno chichimeca, che aveva
suggellato una alleanza con l’impero azteca grazie al suo matrimonio con una
principessa méxica. Oltre che
guerriero e abile politico (rafforzò una triple
alianza con Aztechi, e Texcoco), fu sapiente e fece la grandezza del suo
reame costruendo acquedotti, e riserve d’acqua, fondò un giardino botanico,
ma come dicevo fu anche poeta, e saggio, per cui rese la città punto di
incontro di “intellettuali” e “filosofi”; sostenne la concezione di un
dio unico. Morì a settant’anni nel 1472, dunque prima del viaggio di
Cristoforo Colombo.
Al rientro a Taxco mangiamo in
una bella terrazza con vista, e poi vediamo il mercato all’ingrosso
dell’argento e delle pietre, con alcune bancarelle che rivendono anche al
dettaglio (mayoreo e menudeo, cioè all’ingosso e al minuto). Torniamo
stanchissimi accatastati in un piccolo maggiolino VW con Miki “seduto” sul
pavimento di fianco al guidatore. Subito inizia a piovere.
Martes 6
Giriamo per comprare regalini;
c’è sempre in giro molta forza pubblica con gran pistoloni, fucili, armi
automatiche, come se stesse per scoppiare una guerra.
Fruta chiquita: nanche amarilla muy dulce, bollita; ciruela chabacanas, che è come una prugna grande dolce; el
chico, un tipo di mamey chiquito.
Prima di partire eravamo
andati al bar-cafeteria “El Quetzal”
in Benito Juarez, dove eravamo stati ieri sera, e avevamo chiacchierato con
Antonio. Ma ora c’era la sua socia, che è figlia di una tedesca di Berlino e
di un bulgaro, ed è venuta qui perché ha sposato un messicano. E’ anche
stata per un po’ in Italia, a Siena, e poi in Nuova Zelanda; per questo ha un
bel collare con pendente di ispirazione Maori, che si è fatta fare da un
disegno suo. E’ simpatica, ci mostra la foto della sua bimba Morgana di due
anni. Poi arriva Antonio che è proprio come si dice “una pasta d’uomo” e
conversiamo un po’ mentre Ghila, che è nel negozio di fianco, fa amicizia con
dei ragazzi che fanno tatuaggi. Quando gli dico che siamo stati a Xochicalco,
Antonio racconta che quello era già un primo passo verso l’intreccio tra
conoscenze spirituali di vari popoli mesoamericani, Maya, Toltechi, Aztechi, che
avrebbe potuto avere degli straordinari sviluppi, ed è per questi incontri sul
tempio maggiore che ci sono rappresentati sacerdoti differenti con vestimenti
diversi, e profili diversi, così come nel frontone i due quetzalcoatl si
incontrano, e uno ha apparenza maya. Dunque è stato un sito eccezionale che
meriterebbe una grande attenzione da parte degli studiosi. Il rammarico è che
forse la gestazione di una fase ulteriore dello sviluppo culturale indoamericano
è stata interrotta.
Ci salutiamo, Ghila pensa che
manterrà i contatti con loro.
Partiamo e ci porta il taxista
Abelardo con cui abbiamo avuto simpatia nelle scorse occasioni. Gli chiediamo se
sa dirci di più sui flagellanti, e ci dice che lui è stato uno di loro e che
conosce bene la cosa, e inizia un fiume in piena di parole, che dura per tutto
il viaggio. Si tratta della confraternita di san Nicola, la “Hermandad de San
Nicolàs: los encruzados van a hacer una manda para un familiar para pedir algo.
Dos retiros: el primer con las cadenas en la procesiòn que tarda con la cruz y
los pies amarrados. Segundo: son doze decenas de espinas, son de madera de arbol
de zarza. Mordendo con la boca el
rollo que te aiuda a cargar. Cada encruzado tiene dos ayudantes. Empieza a las
10 de la noche, hasta las 5 de la mañana, lleva la capucha de tela, un lazo
colgado al rollo.” Durante i tre anni ti seguono nella vita quotidiana. Si
prende una corda di un metro e 20 piegata a metà, e alle due parti si mettono
dei “clavitos de punta finita transparados de la cuerda de piola, y el plomo.
Esta cuerda se llama “disciplina”. La cruz es pesada de 40/50 kg., va
rezando el rosario y se va flagelando, abriendo y cortando la espalda. Las
espinas son como una uña de gato. Cuando te quitan las cosas hay que tener
mucho cuidado. El encruzado no siente nada, los lazos te cortan la circulaciòn.
La segunda procesiòn es la mas pesada. Es la noche siguiente, portanto amarrar
….” eccetera eccetera, da qui in poi non ho più preso nota perché la
storia mi disgustava parecchio.
Intanto ci ferma un blocco
militare di una pattuglia che si mette ad ispezionare tutte le nostre valige. Lo
Stato di Guerrero (nomen omen) è quello in cui al momento c’è più mafia di
narcotrafficanti che fanno la spola con la Costa Chica.
Abelardo riprende il suo
racconto: e allora ecco che ad Ixtapalapa si crocefigge uno che viene caricato e
golpeado come durante il percorso di Gesù, si chiama Abelardo Ayala, ha 27
anni, un figlio di 9 e un bebé di un mese. Dopo aver raccontato tutte quelle
cose, ora dunque inizia a dirci che non era solo un sostenitore della
confraternita, ma che lui stesso per quattro anni è stato un autoflagellante, e
che la cosa lo ha aiutato. Gli chiediamo che cosa intende, in cosa lo ha
aiutato? Allora racconta che lui è stato un alcolista pur essendosi sposato a
18 anni perché aspettavano un bambino. Quindi è stato sul punto di rovinarsi
sia sul lavoro, che in casa, ha fatto fuori due auto, e la moglie è stata sul
punto di lasciarlo per sempre e andarsene con il loro bambino. Così è andato
dalla associazione alcolisti anonimi, ma si è trovato malissimo, e poi volevano
che andasse là tutti i giorni, mentre lui aveva da lavorare. Ma soprattutto
perché li sgridavano e minacciavano e colpevolizzavano, e lui si sentiva
malissimo a venire trattato così. E poi non gli piaceva l’ambiente, la gente,
era un brutto ambiente. Ci dice che c’è moltissimo il problema
dell’alcolismo in Messico, e soprattutto ovviamente negli strati sociali
poveri e con difficoltà lavorative o famigliari. Rimproveravano loro
soprattutto il modo di pensare e di vivere, facevano insinuazioni pesanti sui
loro genitori e i loro famigliari. E così lasciò l’associazione.
Sua moglie si arrabbiò
moltissimo per questo, e i suoi genitori erano preoccupati e disperati. E’ così
che prese la decisione di fare da sé e impegnarsi con tutta la forza di volontà
però per conto suo. Andò in chiesa a pregare il Signore e a promettere. Disse
al curato (al parroco) di scrivere per lui un “documento” di impegno formale
controfirmato dal prete. Va a casa per dire di questa sua decisione che è
oramai tardi, e la moglie nemmeno lo lascia parlare, ma lui le fa sentire il
fiato e in quel momento le dice di questo impegno formale che ha preso di fronte
al parroco. La moglie è contenta e gli dice che gli da fiducia, ma gli dice
anche che gli da ancora solo questa unica possibilità. Lui è contento, ela
rassicura che dimostrerà a tutti di che cosa è capace.
Tutto il primo anno è stato
terribile. Ora ne sono passati quasi cinque da quel giorno. Per tre anni ha
fatto il tagliatore e pulitore di diamanti, poi ha lasciato perché era troppo
grande la responsabilità. Da un paio d’anni fa il taxista, una settimana di
notte e due settimane di giorno, con la Union de Permisionarios. Una volta è
stato usato da delinquenti per trasportare roba rubata; appena se ne rese conto
si è dichiarato non disponibile, ma gli hanno piantato una pistola vicino al
collo. Per puro caso è passata di lì una bambina (erano le 6 del mattino, e
certi negozi fanno quel turno) che si è messa ad urlare e a chiamare suo padre,
allora lui ha subito buttato lontano le chiavi ed è scappato dall’altra
parte. E’ andato alla polizia a denunciare la cosa, e lì lo hanno trattenuto
sotto arresto preventivo, finché le indagini non avessero chiarito il tutto.
Intanto i due delinquenti hanno avuto il tempo di dileguarsi. La padrona del
negozio più tardi ha accettato di andare a dichiarare che non intendeva che
fosse estesa anche a lui la denuncia che intanto aveva presentato contro ignoti.
Insomma alla fin fine è andato tutto a posto, e uno dei due è stato trovato e
arrestato ed è condannato a quattro anni di galera.
Ora, ripensando a quel che
diceva sulla Hermandad, sono tradizioni secolari che qui sono molto più diffuse
che da noi, penso a es. alla calzada del
acueducto a Morelia, che è una lunga strada parzialmente lastricata
sull’argine, che viene tutta percorsa in ginocchio dai penitenti che arrivano
alla mèta cioè alla chiesa con la pelle e la carne lacerata. Come d’altronde
lo erano le cerimonie e i rituali in certe ricorrenze anche nel nostro Sud,
ancora all’epoca di Ernesto De Martino e degli studi dei primi antropologi
meridionali, e studiosi del folklore, e della demologia, cioè degli usi e
costumi popolari tradizionali. Mentre al giorno d’oggi sono ridotti a fenomeni
estremi e marginali, non del tutto approvati neanche dalla chiesa. Coloro che li
compiono sono persone che si sentono profondamente in colpa (e in difetto
appunto nei confronti dalla generosità dello spirito di Gesù) e in questo modo
forse si “liberano” dai gravami e tormenti interiori. Ma forse oramai da noi
una persona che arriva a compiere certi atti in una occasione che non sia quella
dei rituali e delle cerimonie del folklore locale, sarebbe oggi avviato dai
servizi sociali e sanitari verso cure di tipo psichiatrico, mentre invece in
quei contesti, come abbiamo visto a Taxco o Morelia, viene generalmente
approvato e anzi ammirato da molti altri fedeli…
Sempre Abelardo, in quel
profluvio di parole che ci ha comunicato durante il viaggio, aveva raccontato
anche che a Taxco ci sono 234 maggiolini VW taxi, e che lui e molti colleghi
sono fanatici radio-amatori, e che oltre al divertimento e al piacere della
cosa, hanno anche organizzato una specie di società di volontari per dare aiuto
e soccorso a chi ha incidenti, o che si perde, o resta senza benzina, oppure è
vittima di aggressioni e assalti… Loro si mettono subito in contatto e i più
vicini accorrono, poi giungono gli altri, tanto che se c’è un atto di
delinquenza, li accerchiano e sono così tanti che quelli non possono fare più
nulla, e intanto arriva la polizia. Per cui ad es. diventa difficile fuggire nel
tempo fra quando è dato l’allarme e quando la polizia arriva. Hanno avuto
coraggio e dei bei successi. Poi si ritrovano nel week-end, per le fiestas, le
ferias, eccetera. Lui si è fatto così molti amici in varie città anche
lontane.
Gli chiedo come mai abbia sul
retro dell’auto una pegatina (una
decalcomania, un appiccichino) del PRI, forse per le elezioni del mese prossimo?
Mi dice che il partito rivoluzionario istituzionale è oramai una mafia politica
inserita in ogni dove nelle istituzioni pubbliche, nei centri di potere, nella
amministrazione ad ogni livello. E dunque i dirigenti del sindacato ufficiale
dei taxista, e quindi del sindacato nazionale di riferimento, sono tutti del Pri
e praticamente ti mettono in condizioni per cui non puoi rifiutarti di mettere
l’appiccichino propagandistico. Cioè in realtà loro te lo mettono, e tu devi
trovare modo di giustificarti di fronte a loro se lo togli, e intanto così ti
metti in mostra, ti dichiari pubblicamente. Allora molti non dicono nulla al
momento, ma poi proprio per questo votano diversamente, come accadde appunto
alle elezioni scorse. Lui l’altra volta l’aveva tolta e per sua fortuna
nessuno se ne era accorto, ma questa volta l’ha lasciata, ma perlomeno ne
parla male.
Infine arriviamo a Cuernavaca
passando per paesaggi meravigliosi, pieni di verde, con ampi orizzonti, e poi in
cui nelle cittadine e nei paesi si vedono fiori in gran abbondanza e di tanti
colori, nei viali, nei giardini, nei patii, sulle terrazze, sui balconi.
Ripassiamo davanti al nostro albergo che rivediamo con un po’ di nostalgia, e
poi con i camiones del grupo de Morelos, partiamo alle 6 p.m e arriviamo
all’aereoporto quasi senza accorgerci con un pullman di lusso a 8 €uro. Nel
grande caos dinnanzi all’aereoporto, troviamo infine un “combi” che ci
porta proprio davanti all’albergo. E qui di fatto il nostro viaggio si
conclude.
Ultime osservazioni sulle
parole in uso, come ad es. jitomate per pomodori freschi, grandote per piuttosto
grandino, jale per tira ovvero pull, taza per wc, escoger per scegliere.
Miercoles 7 de septiembre 2005
Siamo al “Fiesta Inn”
all’Areopuerto “Benito Juarez” di Ciudad de México, D.F.
Gran abbuffata al buffet, e
gran via vai di gente di tutte le parti del mondo che sta qui solo una notte e
via. Ci si avvicina una signora e dice “non vi va di andare in bagno?”, e
noi un po’ sconcertati restiamo in attesa che aggiunga altro, e dice
“regalano un anello alle signore …” e ci fa vedere un anellino che ha al
dito. Poi Annalisa va a vedere nel bagno delle donne, ma non c’è nulla e
nessuno …
Ma oramai che il viaggio è
finito, ci stiamo abituando ai messicani, alla “messicanità”, all’
ambiente, alla mentalità, alle cose, ai modi, al clima, alla vegetazione, ai
cibi, ai colori, alle musiche, ecc. e tutto sta diventando se non “normale”,
consueto. E’ allora che ci sarebbe bisogno di entrare nel fiume del vivere,
lavorare, condividere la quotidianità. La dimensione viaggio sta evaporando.
Uno slogan dice: México, vive lo tuyo ! ed è corretto, è proprio così, ognuno
vive le sue esperienze le sue impressioni e sensazioni, ognuno si porterà a
casa un suo Messico che vale soprattutto per lui. E poi abbiamo percepito la
differenza con il viaggio del luglio/settembre 1979 (forse un giorno mi metterò
a ricopiare su file il diario che ho manoscritto su un quaderno): non si tratta
solo del fatto che il paese era meno “sviluppato” di oggi, né solo del
fatto che noi eravamo una coppietta di due giovani, ma si tratta anche di quel
che dicevo prima, cioè che la realtà di un viaggio la capisci bene solo dopo
che sei tornato e che è passato abbastanza tempo per apprezzarla e/o per
criticarla, ma in ogni modo è unica, è una realtà contestualmente interiore
ed esteriore in cui ti immergi con le tue domande e con le risposte che credi di
aver trovato, e che non sono quelle attuali. Anche nel medesimo periodo, se due
persone simili tra loro per età, idee, mentalità, approccio alle cose,
compiono un viaggio identico, passando per gli stessi posti anche solo con uno
scarto di una settimana, stanno passando in una realtà diversa, fanno incontri
diversi, gli capitano situazioni differenti con cui confrontarsi, ricevono una
immagine, una qualità di sensazioni diverse, si fanno idee differenti perché
si danno spiegazioni differenti dell’accaduto. Quindi figuriamoci se lo si fa
in un momento diverso della propria vita, del proprio percorso di maturazione e
di ricerca, entrando in un contesto storico sociale differente. Insomma è tutto
un gioco di specchi e di riflessi incrociati, ogni realtà è la tua realtà, ma
ogni input che ricevi ti cambia, ti condiziona, ti influenza, ti trasforma, e il
ping-pong diviene qualitativamente differente rispetto a quanto vissuto, e poi
ricordato e rielaborato ad anni di distanza. E’ un gioco di stimoli e
risposte, di verifiche e controverifiche. Quanto si impara viaggiando! È molto
più accelerato il ritmo rispetto alla consuetudine quotidiana di casa. Ogni
mondo, per es, il mondo che chiami “messico”, ti da qualcosa, ti condce per
mano in un percorso, ti fa fare un viaggio di maturazione, quella realtà
vivificante lascia un segno, una traccia. Ma anche tu insieme ad altre migliaia
di persone venute da fuori lascerai una tua traccia, darai un input inconsueto
ad alcuni di quelli con cui ti sei incrociato, sarai un esemplare di differenza.
Si prende, ma anche si da. La realtà del tuo mondo “messico” è come una
grande madre accudente, che si prende cura di educarti, di formarti, di
nutrirti, che ti resterà dentro con segni che solo col tempo potrai meglio
capire. E il tuo “messico” magari comincerà a mancarti, ne sentirai la
nostalgia, ti creerai altre aspettative per un nuovo viaggio, che in parte non
saranno soddisfatte o confermate o verificate, ma ce ne saranno di nuove e
impreviste. E’ questo un vero viaggio, cioè un segmento intenso del tuo
generale viaggio della vita. Si può tranquillamente anche tornare in certi
luoghi amati, ma bisogna sapere che non sarà più mai lo stesso viaggio già
fatto, e questo è molto bello e stimolante. Quindi potresti trovare un tuo
“messico” anche in altri luoghi.
Carlo Pancera