Note prese durante il viaggio nell’altopiano del Messico centrale

Diario de viaje en Mexico, dal 27 luglio all’ 8 settembre 2005

di Carlo Pancera

 

 

Ecco il viaggio è veramente solo ai primissimi inizi e già comincio a chiedermi  -di nuovo- ma che cos’è? che indirizzo e che senso prenderà? Ma anche: cosa significa per me in generale e in questo particolare caso (torno in Messico dopo molti anni) e momento della mia vita…? Quando in aereo vedo una signora con un bell’abito tradizionale di tipo yucateco, ecco che sensazioni e pensieri che erano dentro di me, ma di cui non avevo precisa percezione, riemergono ora che li rivedo e li riconosco. E’ il contatto reale, concreto, totale, con un mio simile essere umano, portatore di alterità e di differenza, che mi sollecita. Lei è una donna moderna, che viaggia, che va in aereo, che legge un libro, ma che è solo l’ultima generazione di un mondo distinto dal mio, lontano, e che proviene da lontano, con cui ora mi trovo a confronto e con cui mi raffronto.

Ecco il viaggio è veramente iniziato!

Alla fine del lungo volo finalmente un po’ stressati tiriamo un sospiro: siamo arrivati, che bello! Eravamo venuti tanti anni fa da giovani, e ora rieccoci qui con i ragazzi i nostri figli. Con il taxi arriviamo all’albergo in centro: come al solito io prenoto sempre, appena confermato il biglietto aereo, per le prime due notti, in modo da non avere incertezze e problemi appena si arriva stanchi. Quindi avevo scambiato delle mail con un certo albergo nel centro storico, e mi ero portato con me per sicurezza la stampata relativa alla prenotazione. Fatto sta che entriamo con le valige e andiamo al banco della ricezione e chiediamo le nostre due camere, la risposta è che non c’è una camera libera in albergo, e non risulta alcuna nostra prenotazione. Mostro il foglio con la stampata della mail, ma non sanno che dirci, chiedo di parlare con chi ha sempre risposto agli scambi di mail e ha “firmato” la conferma, ma dicono che quella persona in questi giorni non c’è. Dopo varie discussioni ci dicono che non c’è problema, di portare pazienza e di aspettare fuori che appena avranno tempo cercheranno se ci può essere un’altra soluzione per noi in un altro albergo. Siamo stanchi, la sorpresa è spiacevole, fuori c’è un sole molto forte, ma restiamo in attesa (anche se non c’è dove sedersi). Dopo un ora ritorno alla ricezione, e in seguito ad altre discussioni ottengo che se ne occupino, infine ci dicono di andare all’ Hotel Principal, che là hanno due camere libere, e che avrebbero pagato loro il taxi. Arriviamo all’altro albergo, dove le camere che ci propongono, che danno sul cortile interno, non hanno finestre, se non una grata sopra alla porta. Diciamo che non le vogliamo e che non sono equivalenti a quelle che avevamo prenotato. Ci danno allora una grande camera con quattro letti, un bagnetto in camera separato da vetri smerigliati (dunque nessuna privacy), e che ha la finestra, che però da sulla calle Bolìvar da cui viene un rumore assordante continuo per il traffico stradale. Bisognerà stare con la finestra chiusa e tenere sempre acceso il fastidioso ventilatore… Accettiamo comunque questa soluzione.

Ecco che con questo esordio il viaggio è veramente iniziato! … siamo proprio in Messico.

L’unico vantaggio è che siamo a sole tre cuadras dalla piazza centrale (zòcalo= lo zoccolo). E inoltre nella vicina avenida cinco de mayo ci sono delle pasticcerie favolose, e un posto straordinario dove fare la prima colazione.

 

Jueves 28 de Julio, México - D.F.

Siamo a 2240 m. di altitudine slm, nella piazza principale di Città del Messico, cosa mai ci potrebbe essere di nuovo qui? Quando eravamo venuti allo Zòcalo 28 anni fa, nemmeno si sapeva che qui sotto alle case c’erano i resti del Tempio Maggiore di Tenochtitlàn ! in mezzo alla capitale dell’impero azteco e nel bel mezzo del lago Texcoco. . . .

Eccolo qui, finalmente di nuovo allo scoperto, e anche con i suoi magnifici reperti nel bel museo a lui dedicato qui a fianco. E così c’è subito, appena arrivati, l’incontro con le tre culture, anche qui nella piazza centrale, quindi: la cattedrale, il traffico automobilistico e la gente di oggigiorno al mercatino, i reperti aztechi. Non c’è più bisogno per gustare questa sensazione di andare fino alla famosa (ma lontana, a Tlatelolco) Plaza de las Tres Culturas di sesantottina memoria.

La cattedrale dopo cinque secoli è un po’ sprofondata; sotto, il terreno paludoso non tiene abbastanza per poter sopportare il peso del barocco coloniale con tutti quei suoi stucchi, con le sue colonnone colossali, con tutti gli ori esibiti che brillano. Non è già questo, già di per sé, un elemento carico di simbolismo? Tutto ciò in effetti lentamente sta sprofondando… Ma la gente corre là dentro … si affretta verso un ufficio dove segnano su un registro le prenotazioni per far dire delle messe in suffragio.

Poco più in là c’è un altare con una statua a colori di Jesucristo, dove si attaccano dei lucchetti, e dopo la preghiera con la propria richiesta, si buttano in un contenitore apposito le chiavi. E’ contro la maldicenza, le malelingue, perché si chiuda loro la bocca. Poi un po’ più avanti, c’è il “Gesù del cocco”, e poi quell’altro legato invece ad una colonna. Intanto che ci addentriamo, il prete con un bel coro di voci popolari, canta bene degli inni sacri.

Nel Museo con i reperti delle rovine del Templo Mayor azteco c’è la straordinaria pietra circolare da 8 tonnellate che fu scoperta durante gli scavi per una linea della metropolitana, e tra le moltissime altre cose strabilianti c’è una stupenda maschera verde di smeraldi del volto del dio Tlàloc, tutt’attorno e sotto alla bacheca, cola dell’acqua: è il grande dio della pioggia, il suo è un potere immenso, di vita e di morte.

Con vertine espositive ben fatte si mostrano gli animali e le piante a cui si riferiscono i disegni stilizzati di stile modernissimo, molto espressivo, che rendono bene la potenza divina cui alludono questi simboli.

Il coccodrillo è fonte di vita anch’esso, ed è simbolo di della Terra vivente: tutta la vita che c’è, è sopra alla superficie, e questa è simbolizzata dalla sua pelle dura e squamata. Perciò otre alla testa stilizzata ci sono tante scaglie in pietra o in coccio, che quindi non sono sassetti casualmente gettati lì, …ma scaglie di vita.

Fuori dal museo un po’ più in là c’è un mercatino baratito molto molto animato da gridi, rumori, vocìo. Per attirare l’attenzione un venditore di biglietti della lotteria sa imitare benissimo il “chiacchiericcio” dei pappagallini.

Il frastuono permanente del traffico fa come da rombo di sottofondo, a volte in crescendo minaccioso, a volte in calando, a seconda dei semafori.

Diamo una occhiata dentro al Palacio Nacional.

La sera scrosciano secchiate pesanti di Tlàloc che si diverte a sconvolgere la vita della metropoli moderna per un’oretta. Torniamo io e Miki in hotel totalmente tragicamente fradici, ma proprio zuppi.

 

Viernes 29 de Julio

Andiamo alla Alameda (l’ex spazio dell’antico mercato centrale azteco), dove oltre al famoso bel parco, visitiamo il Museo delle Belle Arti, che ospita un grandioso mural di Diego Rivera, del 1947 in cui è ricapitolata la storia stessa delle civiltà e delle culture del Messico, e vari altri murales di famosi artisti. Poi andiamo al Centro Cultural “José Martì” dove c’è anche un taller de ajedrez , un “laboratorio” all’aperto in cui alcuni esperti insegnano a perfezionarsi nel gioco degli scacchi e nei suoi misteri. Un tìo, un tale vorrebbe iniziare il nipotino per introdurlo in un mondo, in un modo di vivere, ma il ragazzetto appare frustrato e sconcertato. Non si tratta solo di trucchi e segreti del mestiere, ma anche di postura, di sguardi, di partecipazione emotiva o al contrario di capacità di distacco da esternare con immediatezza oppure in modo ben calcolato.

Sul muro di fianco vedo che c’è una lapide del 2001 affissa dalle lesbiche, che ricorda una storica manifestazione di omosessuali di un secolo prima. Mentre poco più in là un’altra segnala che proprio lì di fronte a quella chiesa, la Iglesia de San Diego, per più di due secoli si accesero i roghi della “Santa” Inquisizione.

Ora arriviamo invece nel bel quartiere di Coyoacàn tutto fatto di casette, ville e villette, ognuna con un suo stile, molto verde, giardini, piccoli parchi, fiori... Ed eccoci che entriamo nella Casa Azùl di Frida Kahlo. Coinvolgente, travolgente, bella e tragica, forte come la sua personalità straordinariamente egocentrata. Ci sono suoi quadri, autoritratti psicologici, foto, opere del marito Diego de Rivera, opere di amici e altri artisti come Orozco, Klee, Duchamp. Tra i suoi dipinti che più mi colpiscono ci sono “il fiore della vita”, “la cerbiatta ferita”, e “l’abbraccio di Amore e dell’Universo”. Un bel giardino con curiose statue, oggetti precolombiani, e del folklore popolare. Tutta la disposizione della casa, degli ambienti, i colori, le varie stanze è molto originale. Vale assolutamente venire sino a Coyoacàn anche solo per visitare quest casa-museo.

Di lì a un paio di cuadras (=isolati) c’è il rifugio di Leòn Trotsky, diversamente disperante. Una villetta anch’essa trasformata in museo, interessante e intrigante. Qui il grande ebreo russo, leader rivoluzionario esiliato da Stalin, che si stabilì a Coyoacàn nel 1937, venne assassinato a colpi di piccozza nel 1940. La villetta era stata fortificata ma l’interno ci restituisce uno sguardo sulla abitazione di un intellettuale di quegli anni, tutto pare ancora vivo, solo fermo a quel fatidico giorno di agosto.

E proprio ora ecco che nella plazuela (=piazzetta) due mariachi (=tipici gruppi musicali originari dell’ovest ) cantano un tradizionale ma squallido canto machista (=maschilista) sull’amore folle e disperato tra un “galletto” e una “coqueta” (=civetta o civettuola).

Poi telefoniamo ad una signora di cui avevamo il recapito, per vederci e chiacchierare, lei subito promette di accompagnarci con la sua auto a vedere la città perché è così grande che sarebbe per noi troppo stancante girarla. Quindi ci da un appuntamento e ci dice di aspettarla ad un certo angolo della piazza dello zòcalo. Aspettiamo, aspettiamo, ma non arriva, forse è un po’ in ritardo a causa del gran traffico… aspettiamo ancora, ma non la si vede. E’ oramai più di un’ora (!) che siamo qui fermi in piedi all’angolo a scrutare con attenzione tutte le auto che passano. Le ritelefoniamo ma non risponde. Stiamo pensando di tornare in albergo, quand’ eccola che arriva… le chiediamo se c’era tanto traffico, e lei ci dice con tutta tranquillità e sincerità naif che era così conciata quando abbiamo telefonato, che prima di uscire si è lavata e cambiata e pettinata e truccata per essere almeno decente, intanto, dice, voi eravate qui a visitare il nostro zòcalo, non è vero? Le rispondiamo che veramente, come le avevo scritto, lo avevamo già visitato in un precedente viaggio, e comunque ora con i ragazzi lo avevamo visitato ieri. Allora, se voi avete già visto il centro storico, ci dice, vi mostro io delle zone che sicuramente non conoscete. Tutta la sera siamo travolti dall’irruenza e dalle energie inesauribili di quella potenza della natura messicana di nome Lourdes che ci ha trascinato con la sua auto su per las Lomas de Chapultepec (=le alture del grillo), dove c’era la fortezza dell’ultimo re azteco Moctezuma, per farci vedere i quartieri alti delle ville dei miliardari (e parlando come avesse una mitragliatrice in bocca, ci dice fatti e misfatti di tutte le famiglie maggiorenti della città), e poi le zone dei grattacieli e dei grandi buildings di vetro-cemento delle multinazionali (raccontandoci anche qui una miriade di cose al proposito), e su e giù per le immense avenidas che, quasi come autostrade, attraversano per kilometri la grande megalopoli. Io intanto vengo colto dalla stanchezza, forse dovuta al cambio di fuso orario, e al sole, all’aria, all’altitudine magari, e insomma dopo vari giri, con un po’ di mal d’auto, crollo addormentato. Ma lei continua imperterrita ad attraversare in largo e in lungo la grande megalopoli, anche se ogni venti minuti circa le diciamo che siamo stanchi e che preferiremmo fermarci in un bel posto a chiacchierare con calma. Ad un certo punto la imploriamo di riportarci in albergo, dicendole che ci risentiremo nei prossimi giorni (??!).

 

sabado 30 de julio

Comunque eccoci anche oggi a riattraversare in taxi este monstruo de ciudad (appellativo con cui usano chiamare la megalopoli) con i suoi grandi viali come la immensa Avenida Insurgentes, e vere e proprie autostrade urbane, e il nuevo viaducto, e la Périferica … Però poi quando si esce dalle vie di grande scorrimento, de repente si entra in una realtà a parte, perché certi quartieri sono un po’ come dei paesini a sé stanti dentro la metropoli; è un po’ come nella riserva naturale del romanzo “Brave New World” (1932) di Aldous Huxley, che comprendeva dentro anche i villaggetti degli esseri umani allo stato naturale. Questo paesino coloniale in cui siamo ora, è San Angel, tanto carino, che è proprio messicano “autentico” di quelli di “una volta”, insomma risponde agli stereotipi (positivi).

Per prima cosa entriamo nella Iglesia de San Jacinto, che mi da la sensazione come di venire sbalzati nel futuro di un passato controriformista… (anche questo è un altro mio viaggio mentale). Ci sono le croci con la scala e con i vari simboli, e con il volto del Cristo, proprio come li vedevo nei villaggi del Perù. E poi tutte le scritte sulle colonne, che ti sgridano o ti imboniscono… pur che tu provi un sentimento di colpa.

E fuori invece c’è un formicolio pazzesco di gente pigiata che tenta di procedere tra le bancarelle del mercadito ferial, bancarelle anche loro tutte appiccicate l’una all’altra e con un pasillo stretto stretto. Belle cose! e di qualità. E poi in sovrappiù ci sono tutti gli ambulanti che arrivano dalle campagne carichi delle loro carabattole e cosine varie. E le cafeterias, i bar, strapieni, i suonatori con chitarre o con strumenti i più vari, e l’ambiente, e le casette, il giardino, tutto qui è il Mexico che uno ha in mente, dai film o dai manifesti turistici. E’ proprio conforme alle aspettative che pur sappiamo essere oramai assurde e fuori tempo, ma che in fondo coltiviamo lo stesso, e vorremmo vedere confermate, e la cosa sorprendente è che qui lo sono… Che bello! …e che relax –nonostante tutto- rispetto al traffico motorizzato urbano del monstruo tentacolare.

 Infine andiamo alla casa-museo di Diego Rivera, il suo museo Anahuacalli costruito in pietra lavica. Oltre a disegni e opere sue, ospita la sua straordinaria collezione di oggetti precolombiani. Al ritorno vediamo la famosa statua dorata della dea Nike (el angel de la independecia) in cima alla colonna nella glorieta (=rotonda spartitraffico) centrale  nell’immenso Paseo de la Reforma.

Terminiamo con una visita al museo di arte moderna nel parco di Chapultepec vicino a cui eravamo già passati ieri con Lourdes senza poterci fermare.

 

Domingo 31 de Julio

Facciamo un giro nella zona che sta dall’altra parte dello zòcalo, dove ci sono mercatini popolari poveri. Una ha un galletto impagliato con sotto delle ossa sbruciacchiate, e promette divinazioni. Altri vendono le loro povere e poche cose … Poi vediamo l’imponente edificio della Inquisizione spagnola, e poi quello del Collegio gesuitico, oggi sede della Escuela Nacional Preparatoria (che fa parte della UNAM la Univ. Naz. Autonoma), che è il Magistero per la formazione degli insegnanti. Entriamo, ed ecco, sì, qui c’è il famoso affresco dell’Auditorio, dove si sono visti per la prima volta Diego de Rivera e Frida Kahlo. Miki fotografa le sedie… dietro a cui lei si era nascosta per non farsi notare da lui… (come è egregiamente mostrato in una scena del film che avevamo appena visto da poco). Inoltre ci sono i murales di Orozco, e di Siqueiros, e Leal.

Poi prendiamo il metro e facciamo undici fermate (!) per andare a incontrarci con le Ofelie (madre e figlia con lo stesso nome, ma la figlia si distingue come Ofeliz, cioè Ofelia feliz), e per poi andare con loro in un locale popolare del weekend per mangiare il pozole. Dal nàhuatl (la lingua degli aztechi parlata ancora oggi da una minoranza) che significa “spumoso”, mais spumoso, che può essere bianco o rosso, o che è conosciuto anche nella versione di maìz cacahuatzintle, cioè mais “come cacao”. E’ una pannocchia di mais con grani grossi. Bisogna bollirlo con aguacate (=avocado), cipolla, e chile. Ma c’è la ricetta dello Stato di Guerrero, e quella dello Stato di Sonora, e molte altre…di Jalisco, del Michoacàn… che differiscono un poco tra loro. Lo si può fare più verde usando i semini verdi di zucca barucca. E’ lungo da preparare.

Lo gustiamo in questo locale, una fonda (dall’arabo funduq), che è una trattoria economica molto popolare, aperto solo nel fin de semana, e viene sin qui molta gente apposta. Di domenica vengono alle 11 per il “brunch”. Dunque il pozole è un po’ un simbolo della cucina mexicana, e come dicevo può essere piuttosto blanco oppure verde, cucinato in una cazuela grande o chica. Si usa para acompañar chalupas, chicharròn, pata, aguacate, sardina en aceite y tomate,Como carnitas ci sono pentoloni di barbacoa de pollo, e poi di arroz, mole, frijoles, …

Poi prendiamo calabaza en tacho (ci vogliono: piloncillos, melado, tacho, azucar y azucar refinada), oppure si utilizzano: una miel de melado, una naranja, dos guayabas, una raja de canela: hervir un rato

Prendiamo bebidas, e come postres: flan napolitano, y gelatina.

C’è scritto sulla parete: “Lo que come, lo que canta, y lo que lee, eso es un pueblo”. E perciò qui si mangia, si canta, e si chiacchiera. Abbiamo mangiato bene e abbondante. I prezzi sono abbordabilissimi e la qualità ottima, e il modo in cui i cibi sono preparati è proprio quello che la gente del posto esige.

Dopo un po’ il rimbombare delle voci ci stordisce un poco. Usciamo, e chiacchierando ci facciamo dire bene il significato e l’uso di certe parole e espressioni che qui si sentono molto di frequente: rumbo, me rumbo…hacia…, andare verso, mi precipito verso; taquilla è lo sportello; bolleto e mai tiket; tope è il bump stradale; la caseta è il casello nella autopista con cobro, nell’autostrada a pedaggio; tramo è un pedazo; los sobornados, sono i corrotti, ovvero, ci spiegano, quelli che si sentono in obbligo di dare una mordida (qualcosa per tenere a freno) a un policia quien abusa; la mochila è un borsello grande, uno zainetto; eccetera, così ci aiutano a chiarirci le idee su certi discorsi che avevamo ascoltato, e ad acclimatarci linguisticamente per captare meglio l’alma mexicana.

Poi con Ofelia (Ofeliz) e la sua amica Beatrix (con la figlioletta Victoria) andiamo con la sua auto alla ciudad universitaria, modernissima, dei primi anni ’50, che è la più grande dell’America Latina, in particolare certi edifici della UNAM, con i famosi murales a mosaico di Juan O’Gorman, che decorano l’esterno della Biblioteca Centrale, e quelli di Siqueiros al Rettorato; e infine, sempre con la sua auto, ci porta sin davanti al Centro Nacional del Cine, che è molto interessante. Ci lasciamo, e noi restiamo lì al bar e prendiamo le informazioni che ghila desiderava avere sulla storia del cinema messicano.

Infine alla sera andiamo a Cinco de Mayo al café La Blanca, con ambiente popolare. E poi a piazza Garibaldi dove ascoltiamo alcuni gruppi di Mariachi, e poi con non poche difficoltà troviamo un taxi per rientrare in albergo.

 

Lunes 1° de Agosto

Attraversiamo col taxi di Ricardo (quello stesso giovane autista che ci portò a San Angel) los barrios pobres del Estado de México, che è il territorio subito fuori dal Distrito Federal (e infatti molti per riferirsi strettamente alla città di Mexico, dicono DF). Qui vediamo che ci sono molte farmacie “similares” cioè con medicamentos copiati per non pagare il diritto di brevetto alle multinazionali farmaceutiche.

Ricardo ci racconta dei problemi dei taxisti e delle discussioni tra di loro. Certi sono “regolari”, gli L o S, cioè de sitio, altri invece sono i cosiddetti “operativos”, però non-autorizzati dalle autorità (e cioè sono senza le assicurazioni, ma per il resto sono a posto e affidabili). Poi ci sono i “clandestini” ovvero i taxi “liberi” (a volte poco affidabili).

Ieri avevamo visto un “sit-in permanente” di protesta contro ai soprusi di deputati potenti.

In questi quartieri deprivati c’è molta conflittualità, Aids (Sida), e violenza. Non hanno l’acqua corrente né la luce, né altri servizi perché sono abitazioni in gran parte abusive, non-autorizzate. Però poi succede che il governo federale accorda loro il terreno in proprietà come forma di condono, e allora se delle imprese edilizie vogliono costruire proprio lì e quindi preliminarmente sbaraccare tutto e fare abbattere le casupole, loro possono vendere il terreno (il che in certi casi è per loro un gran affare, perché si possono così permettere di pagare una abitazione “vera”).

Man mano che si va verso l’esterno aumentano il caos, le industrie inquinanti, la sporcizia, e crescono cittadine come la povera Ecatepec che attraversiamo.

PA-PA’! squilli di trombe! Siamo giunti a Teotihuacàn, il luogo dove sono nati gli dei (questo il significato del nome). L’impatto è forte nonostante l’avessimo già visitata la volta precedente e me la ricordassi abbastanza bene.

E’ certo che se non si condivide una interpretazione della propria storia, e se questa non si fonda su alcuni simboli e sulla condivisione di alcuni “snodi” storici fondamentali come patrimonio culturale generale, non c’è nazione, non c’è identità nazionale. Qui a quanto pare è stata soprattutto la revoluciòn popolare che fu campesina e india di Emiliano Zapata e di Pancho Villa, contro Porfirio Dìaz, e la sua vittoria e consolidamento nelle istituzioni politiche e statali, a dare a tutti il sentimento di appartenenza a una comune “messicanità” in cui riconoscere le proprie radici e la necessaria convergenza e fusione di tali radici. Altrimenti il meticciato non sarebbe stato così diffuso, e non ci sarebbe stata una nazione, ma solo tanti popoli diversi con proprie storie e riferimenti (il pensiero mi va al classico libro di Octavio Paz sulla identità messicana come esito del meticciato culturale).

Ma ora lasciatemi soffermarmi a guardare stupito i voladores che si esibiscono nello spiazzo di terra battuta del grande parcheggio prima della entrata. Gli uomini-uccello salgono in cima a un palo di 30 metri da cui si gettano legati con una corda e fanno tredici giri concentrici simulando il volo. E’ un rito azteco (ma non solo) che è ancora praticato.

La volta scorsa, 28 anni fa, non c’era una vera e propria entrata obbligata, c’era un botteghino isolato nel prato, dove andavi a pagare il biglietto. Dunque passiamo per l’entrata, cioè all’edificio di ingresso della porta n.1, dove veniamo però a sapere che non posseggono sillas de medas (cioè sedie a rotelle per handicappati o per anziani) per i visitatori, pur essendo un Parco archeologico Nazionale dichiarato patrimonio dell’umanità … e questa è una cosa da cui si misura il grado di civiltà o meglio il grado di civilizzazione raggiunto da una società che voglia definirsi “civile” (è pur vero che in generale, come ci dicono, gli handicappati motòri hanno già la propria carrozzina, ma non serve solo a questa categoria di persone… (!), e comunque qui stra-abbondano i turisti giunti in aereo da tutte le parti del mondo… tra cui molti sono pensionati, e alcuni anche minusvalidos, ma senza sedia a rotelle…).

Ma ora eccoci là, come trasportati in un istante, con una invisibile macchina del tempo, indietro di 15 secoli, nella più grande città non solo delle Americhe precolombiane, ma anche tra le maggiori del mondo di allora. Che immensità!

La cosiddetta calzada de los muertos è un grand Boulevard, una big Avenue, o una Gran Avenida, o Gran Vìa, lunga due kilometri tra le due grandi piramidi, si estende per altri tre e mezzo verso la cittadella, di straordinarie proporzioni. E ora che ce l’ho di fronte non faccio fatica a farmi un altro viaggio visivo e mentale e ad immaginarmela con tutti i numerosi templi che la fiancheggiano, tutti colorati, e magari con in mezzo una processione sacra con i variopinti costumi, con i fiori, le piume d’uccello, i colori sgargianti.

Con Michele giriamo un po’ sul retro lungo un sentierino di campagna, e allora sì che sembra di essere qui un secolo e mezzo fa, quando i primi archeologi e studiosi moderni camminarono strabiliati per questa spianata… E’ incredibile pure che Cortès ci sia passato vicino ma l’avesse ignorata, e che gli spagnoli durante il loro dominio coloniale non se ne fossero interessati (tranne Bernardìn de Sahagun). La fantasia di nuovo mi rapisce.

Io e lui saliamo in cima alla piramide della Luna e poi a quella del Sole. Questa è la terza del mondo, dopo la piramide di Cheope e quella di Cholula (nelle sue dimensioni originarie). È stata costruita quasi due millenni fa con tre milioni di tonnellate di pietre.

Sono contento di avere scalato assieme a Michele entrambe le due grandiose piramidi, sono soddisfatto di questa cosa che abbiamo fatto assieme eccitati dall’entusiasmo, come si trattasse di una sorta di tappa, come se questo fosse un evento carico di significati, e che marca un evento, che forse, chissà, non si ripeterà (oppure che inconsapevolmente poi vorremo ripetere altre volte)…

Ma è nel palazzo del Quetzal-papàlotl o quetzal-mariposa (=uccello-farfalla) che si entra veramente in un ambiente antico, e soprattutto questa sensazione si acuisce giù nel tempio che c’è sotto, è qui che tocchi con gli occhi il sacro di età arcaica. Tutto in pietra, con saloni e corridoi e affreschi colorati (che poi rivedremo al museo di antropologia di C.d.M.), illuminato da fioche torce. Solo la presenza di alcuni turisti del nostro mondo globalizzato rompe un po’ l’incanto. Altri affreschi si trovano nel palazzo dei giaguari, e nel tempio delle conchiglie-piumate.

E poi certe parti sotterranee l’altra volta non erano ancora state messe allo scoperto (o non erano accessibili e aperte al pubblico?). Nel palazzo di Tepantitlàn c’è il famoso affresco del “paradiso di Tlàloc”, che si vede anche al museo antropologico, veramente impressionante.

Pranziamo al comedor nella gruta (una grandissima e fresca grotta) mangiando cose molto messicane: strisce di petti di pollo al mezcal, una sopa un po’ strana, e una carne con il mole de chocolate. E poi andiamo al vicino museo a vedere il grande plastico con cui si ricostruisce come doveva essere la città al suo apogeo. Suggestivo. Era al centro di una grande rete di scambi culturali, astrologici, e commerciali con i regni di El Tajìn capitale totonaca, Cholula, Montalbàn, e con i maya.

E’ incredibile anche pensare che nel 650 circa fu semidistrutta da una rivolta contro lo strapotere della casta sacerdotale.

 

 

(un balzo all’indietro =Por Atràs --à sabado 30 de Julio)

Prima di andare a San Angel eravamo stati nel bell’edificio liberty con gli affreschi. E’ uno stupendo edificio fine aa.Venti / primi aa.Trenta, completamente aperto all’interno con grandiosi murales tutt’attorno per i tre piani. Di grande impatto quello di Diego Rivera, precursore (o in sincronia) del film Metropolis; veramente artistico Guzmàn; interessante Alfaro Siqueiros (che incontrai quando ero ragazzo e che mi lasciò un suo autografo) il quale proprio si fa notare, si impone, è letteralmente strabordante !

 

(por atràs --à domingo 31)

dopo la colazione nella Casa de los Azulejos, eravamo entrati prima nella chiesa francescana, dove mi danno due opuscoli della sociedad EVC (El Verdadero Catolicismo), e poi nel Palazzo di Iturbide (un eroe dell’indipendenza), dove c’è una esposizione di Juan o’Gorman, con alcune belle tele surreali. E’ straordinario.

 

 

Martes dos de Agosto

Siamo al Museo de Antropologia y Arqueologìa, che ricordavo benissimo perché mi aveva molto colpito e impressionato, ma di cui stranamente non ricordavo la possente colonna centrale che pur è veramente molto suggestiva. E’ molto interessante e veramente ben fatta tutta la parte antropologica e folklorica. Bella anche la esposizione temporanea su “donna e dea”. E’ davvero un museo straordinario, uno dei grandi musei del mondo, che valorizza magnificamente le civiltà antiche, e le culture contemporanee indigene. Si percepiscono bene anche le continuità sul lungo periodo, le permanenze culturali e la loro forza vischiosa. In effetti è in realtà l’insieme di due grandi musei. Come si sa al piano terra ci sono le antichità, e al piano rialzato i reperti etnografici di quei popoli o territori corrispondenti, basta prendere le scale o l’ascensore ad ogni sezione. Quindi puoi o fare una visita orizzontale (percorrendo tutto il piano terra, cioè i tempi antichi, e quindi tutto il piano rialzato sui tempi recenti), oppure una visita verticale, ovvero a zig-zag, andando via via su e giù comparando per ogni territorio o cultura sia la cultura antica che poi quella attuale. Insomma questo è uno dei grandi musei del mondo, punto obbligato di visita per gli straordinari pezzi esposti che incantano e tengono catturati gli occhi di qualunque visitatore, e che sarebbe impossibile qui ricordare a parole.

Infine si esce come si può uscire da una immersione in un mondo fantastico.

Leggo un manifesto della “Academia de la Lengua y Cultura Nàhuatl”, che indice il suo XI concorso nazionale di poesia “Nezahualcoyotl” e nel cartellone riporta questa poesia, che trascrivo nella versione castillana: “Solamente él, /por quien se vive. /Vana sabidurìa tenìa yo, /(…) Realidades preciosas haces llover, /de ti proviene la felicidad, /dador de la vida! /Olorosas flores, flores preciosas, /con ansia yo los deseaba, /vana sabidurìa tenìa yo (…)” (da. MS. Romances de la Nueva España, M.20r). Il riferimento è a Xochipilli, “el príncipe de las flores, es el dios azteca de las flores, el maíz, el amor, los juegos”… La promulgazione dei vincitori del certamen si terrà a Santa Ana Tlacotenco un villaggio originario del territorio del D.F. a lato del monte Tlàloc a 2550 m.slm., durante la festa del paese il 26 di luglio. L’idioma aborigeno nàhuatl parlato dagli indios del centro del Messico fa parte della famiglia linguistica yuto-azteca, che è considerata come la più diffusa lingua aborigena del paese secondo la classificazione di W. R. Miller.

 

Miercoles 3

Ricardo si offre di accompagnarci lui a Puebla allo stesso prezzo del pullman, e così intanto chiacchieriamo. Passiamo a lato dell’ Iztaccìhuatl, e in 120 km giungiamo a Puebla che sta proprio a poca distanza dal monte La Malinche (4461 m.slm). (Ripenso alla straordinaria storia della povera Malinche… su cui avevo letto un bel libro).

Avevo prenotato all’Hotel Cabrera in calle 10 Oriente, per sei giorni, è proprio modesto ma accettabile.

Che bella città! Veramente gradevole. Pranziamo con pollo col pipiàn verde (semi di zucca), empanadas, e  tallerines.

Faccio un giro con Michele alla ricerca di un trasformatore per ricaricare la batteria del cellulare, e così vediamo strade e negozi molto popolari e non turistici.

Alla sera io e Annalisa andiamo in un quartiere con bei bar dove suonano dal vivo. Quanto mi piacciono e mi coinvolgono certe belle canzoni popolari messicane…!

 

Giovedì 4

Andiamo col bus a Cholula (5 pesos) per vedere la famosa piramide ricoperta da una collina di terra. Sull’orizzonte si vedono maestosi i due grandi vulcani, il Popocatépetl (5465 m.slm) e l’ Iztaccìhuatl (5230m) che è però spento e inattivo da secoli.

(ora ciao, smetto di scrivere queste note che sono solo insulse annotazioni di percorsi e di cose fatte, queste sono soltanto dei pro-memoria personali, e nulla più… yà basta! Mi sono proprio scocciato con me stesso che non sono neanche più capace di scrivere un diario di viaggio… che rabbia…: niente rendiconto di giovedì).

 

Jueves 4 de Agosto

Io e Annalisa cerchiamo il camion per andare a vedere il paesino di Colpàn, prendiamo andata e ritorno, e all’andata per prudenza prendiamo quello che fa tutte le fermate, ma ci perdiamo proprio quella nostra dove avremmo trovato la coincidenza per Colpan, e la fermata dopo ci lascia parecchio distanti…   e allora ci mettiamo tranquilli in una trattorietta che una coppia di due anziani hanno aperto in casa loro, in cortile, un cortile qualunque, e intanto loro ci chiedono di dove siamo e allora ci parlano degli italiani di Chipilo, un paesino vicino. Sono lì da quattro o cinque generazioni, hanno aperto una fattoria che produce latte, formaggi, burro, yogurth, ecc., e dicono che ancora parlino un po’ in veneto tra di loro. Medito su queste persone che sono qui da cinque generazioni e che sono considerati (e forse anche si considerano) ancora degli italiani…

Torniamo e mangiamo a Cholula proprio sullo zòcalo, che ha un portico veramente lunghissimo e bello (forma una galleria di 170 m.), tanto che è il più lungo dell’ Hispanoamerica. Poi andiamo per vedere il museo nel palazzo del “caballero de l’aguila” (titolo prehispanico), ma è chiuso, e allora andiamo per visitare la capilla real con sette navate in stile moresco arabeggiante, con tante cupole (49), ma pure questa è chiusa… comunque la intravediamo, mentre entriamo nel convento di San Gabriel che nel 1549 sostituì il tempio a Quetzalcòatl (il sacro e mitico serpente piumato o uccello-serpe).

Quindi andiamo a vedere il mercadito che c’è alla base della piramide sepolta, e da lì iniziamo la salita.

La storia narra che all’epoca anti-diluviana dimoravano su questa terra i giganti, poi con il diluvio morirono quasi tutti. Si salvarono solo sette fratelli che avevano trovato rifugio nella grotta della montagna di Tlaloc. Il sopravvissuto Xelhua volle erigere una grande piramide in omaggio a Quetzalcòatl, e per questa costruzione giunsero operai ed esperti da tutte le parti e si fondò la città di Cholollàn. Si iniziò la costruzione con grandi mattoni di adobe fabbricati appositamente a Tlal Manalco, e trasportati passandoli di mano in mano per una lunga fila di uomini robusti. Ma il padre di tutti gli dei, Tonacatecutli, temendo che questa costruzione raggiungesse le nuvole, gettò fuoco celeste, terra e un gran masso a forma di rospo addosso a tutti e così tutti si dispersero e non si proseguì più con l’edificazione. I pochi rimasti sono appunto gli antenati dei cholulani attuali. La grande montagna artificiale comunque resta a testimonianza dei grandi poteri di Xelhua. (parafrasi dal testo del codice vaticano della collezione di Lord Kingsborough, che trovo riportato in una pubblicazione).

Una specie di storia tipo torre di Babele. Si allude ai saperi posseduti dai primi gruppi di toltechi che giunsero in questa regione del Anàhuac (cioè la valle dei mexìca), essendo stati scacciati da Tula, e che disponevano di capacità ingenieristiche e costruttive e saperi architettonici, che parvero grandiose (degne di giganti) e quasi divine agli occhi dei contadini locali. Per un certo periodo dunque Cholollàn, pronunciata dagli spagnoli Cholula, dovette essere un centro cerimoniale importante. La piramide ora ricoperta di terra, ha una base di 400 metri ed è stata interrotta ad una altezza di 62 metri, per cui è da considerarsi una delle più imponenti del mondo. In cima alla collina dedicata a Quetzalcòatl, fu costruito dagli spagnoli un santuario alla Virgen de los Remedios. La cittadina, essendo un così importante luogo sacro indigeno, fu letteralmente sommersa da 365 chiese costruite già nella seconda metà del cinquecento.

 

Viernes 5 de agosto

Siamo ancora con i nostri gentilissimi ospitanti di “Servas”, Gustavo, Gustavo giovane (detto Gusy), Cecilia, e Cecilia giovane (chiamata Cecil, o Cecy), insomma una famiglia con due nomi in quattro. Nella bellissima e potente camioneta (cioè il van) Crysler di Cecilia ci fanno ascoltare un CD di Lila Downs, “una sangre”, è veramente ammaliante. E chiacchierando ci facciamo spiegare il significato e l’uso di certe parole e espressioni: si dice llave per dire grifo, rubinetto, rentar un coche per alquiler, affittare un’auto, anteojos per le lenti e per dire gafas para el sol, diurex per dire uno scotch… eccetera.

Ritorniamo ancora allo zòcalo di Cholula, e andiamo al bel ristorante a tema “cinematografico”, dove ora viene proiettata “La enamorada”, un film messicano del 1947, intanto che prendiamo encacahuetadas de pollo.

Il tipo della macelleria, quello con la moglie svizzera di Lugano, diceva che meritava andare a Colpàn se vogliamo vedere un autentico paesino di quella regione. Riusciamo a raggiungerlo con la loro camioneta 4x4, ma è un posto in cui in un certo senso, non c’è assolutamente nulla, è un pueblito pobre, un povero paesino su in montagna. Ci sono nelle stradine delle “macellerie” allucinanti di carne di maiale. E invece la chiesa è affascinante: ci sono (come altrove in Messico e in CentroAmerica) tanti fiori per terra dinnanzi all’entrata e sul pavimento dentro la chiesa, e ora all’interno c’è una funzione, c’è dentro anche un cane, una donna di campagna canta bene durante un oratorio che fa parte della officiazione. Restiamo là ad ascoltare.

Da qui si vedono benissimo i due grandi vulcani, i due patròni dell’area, il Popo e lo Iztacci. Allora uno è popolarmente chiamato anche Gregorio (il Popo), con le sue nuvolette sulla cima, e l’altra montagna è detta la Doña quien duerme bien despejada, la Signora che dorme, con il cielo ben sgombro. Una volta capitò che lei fosse un po’ in pena, preoccupata, perché lui non si faceva più sentire da un pezzo, e allora credendolo morto lei si è spenta, … a quel punto lui ha fatto fuoco, rombi e fumo per la disperazione. Una storia “romantica” parecchio più antica di quella di Romeo e Giulietta.

Poi andiamo a vedere la Universidad autonoma de las Americas (UALA), e poi ci addentriamo in un enorme centro commerciale.

Stamane faceva molto caldo e nell’ hotel avevano aperto i vetri del tetto. Anche nel piccolo ristorantino nel cortile accanto ci sono dei vetri apribili, come pure in moltissimi altri posti. Spesso sotto ci sono come delle strisce di tela per fare un po’ di ombra (proprio come nelle calli del casco antiguo, cioè del centro storico, di Siviglia).

Davvero comoda la camioneta di Cecilia.  El zapatero (il calzolaio) del negozio di arreglo de calzados (riparazione scarpe) mi ha praticamente ricucito /rifatto entrambe le scarpe (a una si era scollata solo una piccola parte delle suola) per 15 pesos (=1€ e 20) !

Ogni pomeriggio e ogni sera scroscia una gran pioggiona, che poi passa e va.

 

Sabato 6

Andiamo a fare la prima colazione sino da Vip’s, e purtroppo mi fanno attendere per due uova poché tantissimo tempo per nulla… avevano semplicemente perso il fogliettino d’ordine…  Caray! (è una diffusa interiezione al posto di un volgare carajo).

Siamo poi andati al quartiere “Sapo” (=rospo) pieno di café chantant, e botteghe e laboratori artigiani, e bancarelle popolari, e ristorantini, eccetera.

I nostri amici ci raccontano la storia del niño perdido (che forse si chiamava Miguelito ?). E anche il racconto parallelo della llorona (=piagnona) che sempre si lamentava: ohi, ohi hé perdido a mis niños… che ora purtroppo ho già dimenticato ma che in qualche modo aveva un collegamento con la storia del famoso callejon del beso (vicoletto del bacio) che veniva raccontata già in nàhuatl (la lingua degli aztechi) in cui si spiega que tienen que darse un beso, es solo un par de metros de ancho (in cui debbono darsi un bacio essendo largo solo un paio di metri). E questa è anche un’altra storia che allude a Popo e Iztacci. Ma ne riparleremo quando andremo a vedere proprio quella stretta calle.

Cecil ci racconta anche che fa la volontaria e gira nelle banche a raccogliere denaro per comperare medicine per malati di cancro poveri.

Quindi andiamo al grande centro commerciale Angelopolis (dal nome completo della città che è Puebla de los angeles, per via di una leggenda locale).

Andiamo infine a visitare il museo regionale dell’ INAH (Instituto Nacional de Antropologìa e Historia) dove compriamo delle cartoline con le riproduzioni di foto d’epoca rivoluzionaria, di Zapata, di Villa, del generale Macìas, e di altri personaggi. C’è anche una esposizione relativa alle feste che si fanno nel “dia de muertos”: in alcune case si prepara un altare dei morti in onore del defunto della casa, con molta cura e affetto si collocano fiori, cibo, incensi, acqua aromatizzata, candele, giocattolini per i bambini, la sua bevanda preferita e la sua foto, e quindi dopo aver pregato si fanno ballare nei festeggiamenti alcuni scheletrini scherzosi. Certi piccolini sono di marzapane e poi si mangiano, certi si tengono. E’ una usanza molto diffusa e popolare, con varianti locali, ma presente in tutto il Messico (ovvero, come dicono, in tutta la Repubblica), un tratto, un rasgo, caratteristico tipico della cultura messicana, di cui si è scritto e discusso in moltissimi studi etnografici al proposito.

 

 

Domenica 7

Andiamo a zonzo per i dintorni dello zòcalo con Gustavo, Gusy, Cecil e i due fratellini tedeschini Eva e Simon di Norimberga (ospiti in casa loro). Assistiamo a delle belle danze indigene sul sagrato della chiesa domenicana. C’è anche un gruppo di Palenque, la cittadina del sud con i famosi reperti maya, (che ci ricorda il viaggio dell’altra volta in cui andammo anche nel Sud). Ci spiegano che palenque è un sostantivo che sta a significare palizzata, recinto, luogo fortificato, ma anche lo spiazzo dove si svolgono le battaglie tra galli. E siccome in un luogo così trovarono sottoterra dei resti archeologici stupendi, per questo la località nello stato messicano del Chiapas si chiama così. Ma nella lingua maya sembra che volesse dire “la cassaforte della terra”. Entriamo in chiesa anche se in quel momento c’è la messa, perché andiamo a vedere un retablo superbarocco d’oro carichissimo e tutto brillante (sbirluccicante direi), grande come l’insieme delle pareti di fondo. Strabiliante.

Desayuniamo assieme ma senza Michi che se ne sta per conto suo, e poi andrà a camminare in quartieri poveri, e ci racconterà che la cameriera di un bar gli ha detto che i ragazzi della sua età qui hanno tutti due o tre ragazze (forse Michele le avrà detto che lui è già impegnato), e lo stesso vale per le femmine, e poi sceglieranno.

Torniamo verso lo zòcalo dove ci sono ancora dei balletti di indios, ma subito ci chiama col cellulare Gusy dicendoci di andare alla Casa de la Cultura dove si stanno esibendo stupendi balletti folklorici, danze in costume, ecc. di compagnie veramente molto brave. E in effetti vediamo che è un evento organizzato dall’assessorato alla cultura, e lo spettacolo è gratuito e di alto livello. E’ un gran piacere vederli danzare, ci sono anche molte bellissime ragazze, che stanno benissimo in costume tradizionale, tutte truccate, e non pochi giovani del pubblico si mettono a ballare un po’ in disparte, o almeno accennano a passi di danza perché restano coinvolti dalla musica. Restiamo lì per un bel po’ di tempo perché merita ed è letteralmente affascinante…

Dopo la fine di queste esibizioni, c’è un complesso cubano ospite, con un bravo cantante, la gente invade il patio e si mettono tutti a ballare. Tutto intorno, sotto ai portici ci sono dei banchetti di campesinas (contadine) indie dei paesi qui attorno, con cose varie di medicina indigena tradizionale, brujerìa (per fare stregonerie, fatture), verdure, erbe, e prodotti artigianali eccetera. Compero una camicia larga di tela bianca che è proprio come quelle che si vedevano sui peones nei vecchi film sulla revoluciòn, una camicia di telone grosso e grezzo, molto “romantica”.

Andiamo a pranzo. Riprendo, per curiosità di chi legge, dal ricco menu de “La casita poblana” (che in realtà è un locale muy grande). Guaxolote, che è carne di tacchino con guacamole de aguacate molido, crema e frijoles (fagioloni). Chipotle che è un particolare tipo di chile. Taco de pollo, è un rollo di frittella con carne di pollo. Tostadas, sono dei toasts, o meglio delle fette di pane tostato con varie guarnizioni. Chalupas sono delle tortillas con varie guarnizioni. Mole de epazote, che è una hierba. Chile en nogada, un piatto che si può trovare solo a Puebla e solo in agosto, è una salsa fatta con noci pelate, con frutta un po’ piccante (melograne, banane, fichi, mela, pesca, uvette), canditi, e cannella. Agua de Jamaica, cioè una bibita aromatizzata con flor de Jamaica. Gusano de Magüey, che è un verme di cactus che si mette nel rhum. Escamoles, uova di formiche. Arroz mexicano, cioè riso rosso per il condimento di carote e pomodori, servito con plàtanos machos fritos (banane “maschie” fritte). Sopa de tortilla, fatta con strisce di frittata in un caldillo de tomate con queso, brodino di pomodoro con formaggio. Gaznates, che sono clara de huevos batidos con jugo de limòn bianco d’uovo sbattuto con sugo di limone zuccherato, fatta a meringata e servita in un cono. Duraznos en almìbar, ovvero pesche sciroppate.

Da questi stralci dal menù potete farvi una idea della estrema ricchezza della cucina di Puebla. Provate ora a scegliere quale ordinazione fareste. Tutti questi piatti tipici sono non solo frutto di una culinaria raffinata, ma sono anche davvero buoni, seppure i sapori siano molto particolari e forse non a tutti possano piacere di primo acchito. Ma d’altronbde la cultura culinaria, è parte fondamentale della cultura materiale popolare e davvero il passaggio dal crudo al cotto ha significato un grande salto qualitativo, soprattutto grazie alle donne, ai loro saperi e alla loro fantasia colorata.

Poi andiamo a casa loro, dove Gusy doppia tre CD per noi con bellissime canzoni messicane, che ci riascolteremo a casa per un lungo periodo nostalgico.

Mentre Gustavo (senior) ci parla della sua azienda che cadde in rovina quando vi fu la grande svalutazione del peso del 40%, dato che essa era basata sulla esportazione/ importazione all’estero. Tutta una vita distrutta senza vie d’uscita… Poi ha ripreso, grazie a dei fidecommessi, e alla pazienza e alla comprensione dei debitori esteri. E così ha messo in piedi una rete di aziendine indipendenti e un bel gruppo di collaboratori. Ci ha poi parlato di come si fa a dirigere e a stimolare i dipendenti e i soci, e come trarre il meglio da loro.  Passa quindi all’esempio di Gusy jr, che riusciva proprio bene nel basketball ed aveva molte doti naturali che potevano venire instradate e sviluppate, e certamente da lui si sarebbe potuto tirare fuori un ottimo giocatore perché era veramente molto portato, le cose gli venivano facilmente bene … Quindi lui è stato d’accordo che Gusy piantasse lì gli studi. Bisogna che uno faccia volentieri quel che fa, che ne tragga soddisfazione, che ci si appassioni, che ci si identifichi. E così è pure (anzi soprattutto) nel lavoro, guai se lo fai per riuscire e basta, o solo per il salario, o perché non hai altro, o per farti apprezzare dagli altri, eccetera… Si dovrebbe invece cercare di avere una attività in cui identificarsi nel senso che si desidera profondamente fare e dare il meglio perché non si è proprio capaci di non farlo. Ma qui bisognerebbe entrare nel campo della psicologia del lavoro, che lui non ha approfondito. Però ci è sembrato che fosse bravo ad esprimere i concetti con grande passione, competenza, e anche con precisione. A lui pare di aver trovato la sua vera strada nel guidare un gruppo e nel prendersi le sue responsabilità per le decisioni assunte. Inoltre dice che ha capito che un tempo sbagliava a dedicarsi tutto solo al lavoro e tornare a casa fingendo di non avere altri pensieri, quando invece la sua testa era altrove anche quando era in famiglia. Ora dice che cerca di tenere i due ambiti il più possibile alla pari quanto al tempo che vi dedica, e anche ai pensieri che vi dedica.

Infine ci abbracciamo tutti con tanti saluti e baci e promesse di rivederci in futuro, e usciamo dalla bella villa dei Rojas.

 

Lunes 8

Abbiamo preso il pullman “ORO”-Directo che fa la autopista del Siglo XXI inaugurata l’anno scorso, con cui si arriva a Cuernavaca in due ore e mezza. Dal finestrino si capisce bene che questo è proprio un altipiano. E’ bello e molto verde, con pochissimi abitanti. Per giungere a Cuernavaca che si trova a “soli” 1542 m.slm. si va ad un passo e insomma si fanno molti su e giù e con molte curve, per cui sento un po’ di mal d’auto. Poi col taxi arriviamo al bell’ Hotel “Bajo el Volcàn”. Mangiamo al ristorante “Casa Hidalgo” piatti “internazionali”, cioè linguine al burro per me, e per Miki le linguine con gamberetti e salsa parmesan. E’ tantissimissimo! Beviamo agua de naranja, due jarras (=brocche) perché qui fa caldo. Avevamo subito fatto il bagno in piscina appena arrivati perché c’erano 31° gradi ed eravamo tutti sudati. La piscina interna a una villa qui la chiamano alberca.

Saliamo sul terrazzo da cui si vede un vasto panorama trovandoci qui sul punto più alto della collina. Lo scrittore nordamericano M. Lowry, durante il suo soggiorno a Cuernavaca  mise un tavolino, una sedia e una macchina da scrivere sul terrazzo del suo albergo da cui si vedeva l’imponente vulcano Popocatepetl sullo sfondo, e scrisse un romanzo che intitolò “Under the volcano” poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale (edito poi nel 1947). Il libro ebbe un successo enorme e ne furono fatte innumerevoli edizioni in molti paesi, fu tradotto anche in italiano e pubblicato dall’editore Feltrinelli (fu allora il primo successo della nuova casa editrice). Oggi l’albergo, ridenominato appunto Bajo el volcàn è visitato da molti nordamercani, ma è anche soggiorno di turisti generalmente ignari di ciò, che vengono semplicemente per ammirare il panorama.

Poi facciamo un giretto sullo zòcalo, che è veramente uno zoccolo un po’ sopraelevato cui si accede con una scalinata (ma qui invece la piazza centrale si chiama ufficialmente Plaza de Armas). E’ pienissimo di gente nonostante sia lunedì. E poi ci sono i bei giardini “Morelos”. Tutti convergono qui a descansar (=riposare), e a sdraiarsi (acostarse), perché è verdissimo, con grandi e begli alberoni secolari. Dunque ci sono mille botteghini e tienditas, “negozietti” al suelo, per terra, di campagnoli dei paesini di provincia che vengono carichi delle loro robe da vendere, che mettono giù, con sotto il lenzuolo stesso con cui le hanno trasportate. Portano il massimo possibile a due sole braccia; certi portano con sé pure i bambini, per poter trasportare un po’ più mercanzia.

Attacco discorso con tre-quattro bambini, specialmente con Alicia che è affascinata dai giochetti con le dita che le faccio vedere.

Siccome di nuovo abbiamo pranzato tardi (ma oggi addirittura alle 6 !), poi non ceniamo. Gironzoliamo per un quartiere artigiano dove parliamo con una vecchia india molto dignitosa che parla con grande calma serafica.

La città in generale è piacevole (nonostante la recente industrializzazione) e si capisce perché fu la sede dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo e di sua moglie Carlotta, quando giunsero da Monfalcone a prendere possesso del Messico.

 

Martes 9 de Agosto

Domani ripartiremo. Spesso mi capita che al momento di organizzare uno spostamento, tutto mi pare faticoso, mentre poi so benissimo che sarà interessante e positivo e tutto si svolgerà abbastanza semplicemente a patto di fare le cose pian piano con tranquillità.

Oggi a colazione abbiamo un po’ le solite difficoltà a farci capire… Michele vorrebbe delle uova strapazzate con prosciutto e formaggio, ma qui le uova strapazzate sono previste solo o con prosciutto o con formaggio… con entrambi ci sarebbe effettivamente un piatto di uova con prosciutto e formaggio, ma non strapazzate… oppure ci sarebbe la possibilità di farle, ma non nel paquete del menù con i vari tipi di desayuno (=prima colazione), ma in  quello dell’ almuerzo (=pranzo)… Quindi Michele dice che gli sta bene con la tariffa  indicata al di fuori dei desayunos, ma gli dicono che non si sa come si potrebbe fare poi con il conto perché noi abbiamo il desayuno già incluso nel prezzo della camera, ma solo stando dentro a 150 pesos per due persone…  abbiamo un bel dire che noi pagheremmo volentieri i pesos di sovraprezzo pur di averlo, ma non c’è niente da fare… eccetera. E per fortuna che ce la caviamo abbastanza benino con la lingua. Alla fine di tutta questa lunga e faticosa storia di contrattazioni mattutine, si concorda che Michi è “fuori” di due pesos (=16 centesimi di €uro), e che li dovrà pagare extra, ma solo efectivos, cioè cash, in contanti, cioè al di fuori del pagamento del totale finale; però ci spiegano che  il servizio del cameriere in questo caso non sarebbe incluso, quindi ci sarebbe anche la propina (=la mancia) da aggiungere… tanto più che Michele avrebbe più facilmente potuto prendere huevos anziché revueltos, invece estrellados. (i primi sono strapazzati poco cotti, mentre gli altri sono strapazzati molto ben cotti). E poi ci sono pure i piatti “divorciados”, e quelli “simultàneos” (con riferimento alle tipologie di menù), per cui non tutti i piatti dei vari menù sono intercambiabili tra loro.

Insomma questo tipo di “problemi” è molto frequente, con le varie combinazioni tra i menù, i paquetes, e la comida corrida (il menù corrente, del giorno). Lo stesso avviene per le camere: a un solo letto ma grande, a due letti ma piccoli, oppure suite, o suite junior (cioè con tre posti), o a quattro letti ma grandi (come era a C. de Mexico). Per cui essendo noi una famiglia di quattro persone, dobbiamo calcolare bene quando facciamo per telefono le prenotazioni perché la somma di due camere può essere più o meno uguale a una per quattro, oppure anche ad un prezzo molto maggiore; e questo indipendentemente dal fatto che si abbiano due bagni avendo preso due camere, anziché uno solo con la camera quadrupla…

Anche i biglietti dei pullman differiscono sensibilmente a seconda della Compagnia, della classe, se sono diretti, o diretti ma con un paio di fermate intermedie, oppure ordinari, cioè con molte fermate locali. Questo genera molteplici combinazioni possibili… quindi quando prenoti, oppure quando arrivi allo sportello, devi avere le idee già molto ben chiare.

Bisogna fare tutto in anticipo, perché per ogni cosa bisogna sempre aspettare, e avere una fiducia incrollabile che non si sono dimenticati di te (cosa che può succedere, ad es, come già dicevo, tre giorni fa a colazione alla fine risultò che avevano perduta la mia ordinazione), ma che semplicemente devi solo aspettare ancora. Per es. immaginatevi al telefono chiedendo queste informazioni… Poi verrai servito, ma magari con una sequenza di servizi che non è quella che a noi può parere logica o che vorremmo (ad es. può capitare che si arrivi accaldati e si vorrebbe avere subito da bere e dopo il mangiare, mentre può darsi che avvenga l’inverso, oppure che tu abbia il mangiare ma che dovrai aspettare ancora molto per avere le posate, eccetera).

Facciamo delle foto nel bel giardino tropicale dell’albergo, e poi nella sala da pranzo che ci piace essendo tutta aperta su tre lati. Lo stesso fanno anche degli altri clienti messicani. Ricordo che anni addietro ci facevano sorridere certi turisti americani con la camicia a fiori, oppure giapponesi, in Italia, che facevano foto a una distesa di colline con i prati, o a statue o ai monumenti di cui certo non mancavano le cartoline, o a degli alberi o dei fiori, oppure al ristorante, o alla camera d’albergo, o in aereo o in pullman….! Chissà cosa avevano in testa? Forse che il soggetto di una foto dovesse essere un po’ quello di un quadro, con un ritratto da vicino, o un bel paesaggio, … e dunque tra noi ridevamo di loro, che facevano allora proprio quello che stiamo facendo anche noi oggi…

La piccola Alicia cui regalo una saponetta dell’albergo, dopo un po’ ritorna, forse mandata da sua mamma, a chiedermi se si può succhiare, o comunque mettere in bocca, oppure no? Le spiego che non è una caramella ma serve solamente per pulirsi meglio le mani o il viso o il corpo, lavandole sotto l’acqua, e che invece farebbe venire molto mal di pancia mangiarlo, e che comunque non è buono. Capisce subito benissimo, e corre a raccontarlo.

Cuernavaca, oltre ad essere la capitale dello Stato di Morelos, è una città piena di fiori, e  sembra essere tutta una città di ville e di seconde case, perché è nota come “città dell’eterna primavera” per il suo clima. Certi sono ricchissimi, con ville veramente stupende con giardini interni che in effetti sono piuttosto dei parchi. Praticamente questa è la città con più piscine pro-capite di tutto l’Altopiano messicano.

Per dire “di tutto il Paese”, ovvero “di tutto il Messico”, loro per non fare confusione dicono “di tutta la Repùblica”; perché México è anche uno Stato della confederazione; e la immensa “vallata” del Messico (o Anàhuac), è una regione dell’altopiano; tanto che anche per menzionare Ciudad de México, la chiamano o DF (=de efe) oppure la capital federal.

 

Cuernavaca divenne famosa in tutto il mondo come un paradiso in terra proprio grazie a Lowry, e quindi qui vennero negli anni Cinquanta e Sessanta molti nordamericani in pensione a stabilirsi definitivamente, costruendosi belle ville con piscina, poi imitate da tutti i ricchi messicani; e tutt’ora qui vengono molti turisti gringos che non sono visti con gran simpatia dagli abitanti.

Qui un po’ tutti in una qualche misura sembrano condividere ideali riformisti o vagamente rivoluzionari, ma si tratta solo di una ideologia diffusa (che è poi quella originaria del partito che è stato al potere per 71 anni che è il partito rivoluzionario istituzionale, PRI, strana definizione paradossale) e non è un vero e proprio convincimento con contenuti precisi e chiari. Comunque qui venne a stabilirsi il grande filosofo e sociologo Ivan Illich che diede vita nel 1961 ad un famoso centro studi internazionale, il CIDOC, che esiste tutt’ora e che pubblica ancora libri e una rivista, divulgando la sua originale e creativa visione del mondo e dei suoi problemi. Per cui negli anni Sessanta/Ottanta vennero qui molti che erano attratti dal clima di discussioni e dibattiti e ricerche che il centro studi promuoveva, e poi molti qui restarono, trovando un clima -appunto non solo meteorologico- accogliente ma anche una apertura da parte della mentalità politica di molti messicani, che allora non si trovava facilmente nei paesi dell’ occidente industrializzato.

Cuernavaca è molto viva culturalmente, ci sono vari istituti di studi che ci sembrano innovativi o comunque interessanti (come ad es. abbiamo visto “Nueva Acropolis” - Filosofia y Humanismo).

Con Ghila andiamo in una trattoria dove lei prende una pizza hawayana, e io il mio amato caldo Tlalpeño, che è un brodo caldo rosso, con riso, pezzetti di pollo, cipolle dolci, aglio, prezzemolo, e una fetta di avogado, cui si aggiunge prima di mangiarlo una spruzzatina di lime al gusto. Per chiamare il cameriere di solito usano dirgli joven; per una penna per scrivere si dice pluma; e para no molestarlos. (espressione che usano molto di frequente), è una premessa di cortesia, =per non disturbarvi…

Poi giriamo attorno al Palazzo di Cortés. Ci sono ancora ben visibili grandi pezzi dell’edificio precedente azteco, con uno scudo piumato, un’aquila, un sauro, … ma non si sa nulla sull’edificio antico, né di chi fosse, né cosa fosse, né quando sia stato trasformato.

Al mercadito Ghila si compra un bel vestito con disegno tipico di Oaxaca.

La città ha anche una storia prehispanica, quando si chiamava Quauhnahuac, che gli spagnoli interpretarono come Cuernavaca (=corno di vacca), ma resta ben poco, mentre a soli 38 km. fiorì tra il 700 e il 900 d.C. (cioè tra la fine di Teotihuacan e l’imporsi di Tula) la maggiore località precolombiana dell’attuale Stato di Morelos, e cioè Xochicalco.

Viene a trovarci in albergo un amico di “Servas”, Sergio, assieme a suo figlio Sergio, e ci racconta un po’ di cose sui posti dove prevediamo di andare, e sulla pratica di regatear, cioè di contrattare. Ci parla dell’arte locale della terracotta (barro), e ci parla anche della piccola frutta (nanche) qui molto utilizzata nella gastronomia; e poi ci racconta del subcomandante Marcos, e ci accenna ai problemi delle autonomie locali, e a quelli legati allo sviluppo delle infrastrutture, e ci parla della condizione della donna, dei matrimoni tradizionali, e della grande arretratezza (materiale e culturale) dei poveri indios.

E’ tutto molto interessante, e anche lui è calmo e tranquillo, pur essendo molto appassionato degli argomenti su cui ci ha intrattenuto. Una persona veramente gradevole. Ci salutiamo con il rincrescimento di non poterci fermare per frequentarci di più.

 

Miercoles 10

Con un camion della Compagnia “Flecha Blanca” di 2° classe, ordinario, saliamo oltre i tremila metri di altitudine tra foreste, laghetti, pascoli con cavalli, mucche, pecore. Posti bellissimi, un panorama piuttosto differente da quello precedente. Ma ci sono continui sbalzi di altitudine, e molte curve, per cui anche questa volta sento un po’ di mal d’auto.

Eccoci ora a Toluca, a 2640 m.slm. Non c’è posto nel bell’ albergo in un edificio coloniale dove avrei voluto andare, e ci sistemiamo in un albergo moderno (il San Francisco) dove mangiamo dei pessimi espagueti “Alfredo”, e cotoletta empanizada alla milaneza, e Miki degli espagueti con aglio, olio e peperonzino (che non c’è), non piccanti, non saporiti, e molli stracotti. Anche in Messico dunque in certi ristoranti si può mangiar male…

Giriamo sotto i portici, Portales, dietro allo zòcalo, che dicono sarebbero i portici più grandi del Messico, con una lunghezza di 560 m. e con 120 arcate, che ospitano numerosissimi negozi. Ghila si compera dei vestitini da sera. Girovaghiamo a zonzo senza una meta. Ceniamo in una trattoria popolare, e i ragazzi si passano il tempo giocando con le loro carte “Magic”. Qui è di nuovo Estado de México. Sembra che il termine Mexica anticamente significasse “ombelico della Luna”.

 

Jueves 11 de Agosto

Con i nuovi amici di “Servas” (la famiglia Guillermo, cioè Memo, Karla, e Ivan Franco Piñon), andiamo fuori città, a Metepec a vedere un bel mercatino di oggetti, e di artigianato.Questi mercatini popolari li chiamano tianguis.  Ci colpisce una bambolina di carta che viene dall’artigianato di Puebla ed è una cinesina. Ci dicono che “la china poblana era una esclava de Veracruz, china, y un poblano rico la comprò; como se arreglava mucho con trajes tìpicos de Puebla y era guapa, la casò y se quedò con ella; de aquì la muñequita de papel”. Cioè che “era una schiava cinese di Veracruz, e un ricco di Puebla la comprò, e siccome stava molto bene con abiti tipici di Puebla e (si vedeva che) era bella, lui la sposò e rimase con lei; da qui proviene la bambolina di carta”.

Al mercatino, come già avevamo visto altrove, ci sono raffigurazioni e statuette in ceramica con don Goyo y doña Rosita, cioè con Gregorio “el Popo”, e la sua morosita, nelle vesti di un prode guerriero senza paura, e di una bella principessa di lui perdutamente innamorata, e da lui inseparabile. Quando lui coraggiosamente parte per una guerra lontana, lei resta molto in ansia, e geme e sbuffa nell’attesa. Ma quando poi le dicono che non è ritornato dall’ultima battaglia, e che nemmeno si trovano sue tracce, lei disperata non sa reggere al colpo, e muore di crepacuore. Ma lui si era solo allontanato per inseguire i nemici in fuga, e quando poi infine torna vincitore, lei ha già esalato il suo ultimo respiro, è già spirata… Da allora il Popo veglia a fianco della sua eterna innamorata che gli dei impietositosi hanno mantenuto miracolosamente in vita, ma solo in un lunghissimo e profondo sonno da cui ancor oggi non si è risvegliata. Così lui ogni tanto sbuffa e geme e a volte si adira ed esplode di rabbia, o rumoreggia per chiamare e risvegliare la sua bella addormentata. Ecco la variante locale della fiaba che già avevamo ascoltato.

Poi sempre insieme con loro, andiamo in centro a visitare “el Cosmovitral”, che è qualcosa di meraviglioso, sia per la concezione così ardita (e per averlo commissionato), sia per la realizzazione tecnica, sia per l’effetto che fa e per i valori che vuole comunicare, sia per il risultato estetico complessivo. Si tratta di una costruzione di ferro e vetro, che è ritenuta il più grande complesso di vetrate che ci sia al mondo, opera del maestro Leopoldo Flores, degli anni dello stile che noi chiamiamo Liberty. Comprende un bellissimo jardin botanico con piante di varie parti del mondo.

Mi piacciono moltissimo lo stile, i colori, l’ideazione dell’insieme. E’ grandioso e impressionante, e infine è bella la collocazione lì del giardino botanico, che è pure molto ben disposto. Purtroppo non hanno cartoline, o un libro di riproduzioni delle varie vetrate, o un poster, nada de nada  (!). Vederlo può valere già da solo un viaggio qui a Toluca.

Mangiamo da “Vip’s”, chiacchieriamo, giriamo e guardiamo negozi.

(por atràs): Stamane avevamo fatto la prima colazione noi due alla “Hostaria de la Rambla”, proprio sotto i Portales. Atmosfera anni ‘50/’60, con lui che serve ai tavoli, lei che sta alla cassa e risponde al telefono, e poi le inservienti così premurose. Ambiente casalingo, da bottega di famiglia, visite, chiamate ai fornitori, giro di gente conosciuta e di fiducia, chiacchierate amene miste al combinare affari… Sembrava di essere tornati appunto alla seconda metà degli anni Cinquanta…

 

Viernes 12

Quest’oggi noi saremmo anche rimasti in città per andare a vedere il mercato del venerdì, ma Ivan e Karla dicono che è solo roba per povera gente, di bassa qualità, e che non vale la pena. Chissà… Certo oramai i mercati popolari sono molto cambiati rispetto a 28 anni fa, quando nel nostro viaggio giovanile, appena arrivati in Messico da soli due giorni, corremmo a prendere un camion della “Flecha Roja” apposta per venire qua al mercato del venerdì, e ne restammo molto colpiti. Si dice che questo grande mercato popolare sia il più grande del Paese (della Repùblica), e vengono letteralmente da ogni parte.

Certamente, come abbiamo già potuto constatare, ci sono i risvolti spiacevoli del fatto che il Paese è “in via di rapido sviluppo”, per cui, come accadde anche da noi negli aa. Sessanta, stanno scomparendo il folklore locale, le tradizioni i costumi, e questi vengono rimpiazzati dalle T-shirts, da abiti di scadente qualità, in fibre sintetiche, si diffondono i sandali di plastica o di gomma, ci sono persino sombreri in plastica… e va riducendosi una economia di campagna con i suoi prodotti locali naturali, eccetera ecc. Proliferano misere casette in cemento, per cui le periferie delle città sono ormai tutte una sequela di “cubabitacoli” con cavi di ferro che spuntano dal soffitto per un improbabile progetto futuro di aggiungere un primo piano rialzato, ovvero sono casette al grezzo, ma abitate, non intonacate né dipinte, con i solai che diventano luoghi ove scaricano residui d’ogni genere, in attesa di un colpo di fortuna che permetta di finire la casa. L’insieme è davvero squallido e misero, manca l’igiene e mancano i servizi, il fango è ovunque… l’immondizia pure.

Insomma andremo invece a fare una bella gita fuori città. Bianca non viene, ma c’è la giovane Guillermo che guida, e ci sono Memo, Karla, Ivan. Loro quando fanno una gita vanno all’ingiù, perché partono da 2650 metri e scendono verso altre località, mentre noi per fare una gita tante volte andiamo all’insù, in collina o in montagna… Dunque con il loro pulmino attraverseremo una bella campagna, e infine visiteremo uno straordinario sito archeologico poco noto. In quest’area campagnola e agreste, che chiamano campiña, ci sono molte pecore (borregos), montoni (carneros), ma anche animali per noi inusuali, come l’armadillo. La flora è molto varia e mista. Prima con pini, poi scendendo con piante di mamey, e palme. Le palme da banane, producono sia il platano tabasco, che è una banana “maschio” di forma normale, oppure il platano manzano che è una banana grassoccia.

Ora ci stiamo avvicinando al sito antico, che si chiama Malinalco, forse da malinalli che è un’erba, oppure probabilmente da Malinalxòchitl che è la sacerdotessa. Questa zona, tutt’attorno a San Miguel del manantial era un territorio vassallo della Triplice Alianza che all’inizio del Cinquecento costituiva parte del Imperio Azteca. Qui anche le case più povere dei montanari erano, e sono ancora, fatte di pietra, chiamate tetlepanque. Parcheggiamo in un paesino, dove c’è una grande vasca-lavatoio. Poco prima di giungere ai resti archeologici principali, che si raggiungono con una lunga camminata a piedi in salita, c’è un cuauhuacalli dove si compivano i sacrifici dei guerrieri nemici, evento che faceva parte delle cerimonie di iniziazione dei cavalieri, e qui avveniva l’ordinazione dei caballeros Aguila e dei caballeros Tigre, che erano i più prestigiosi titoli della gerarchia militare antica. Infatti c’è una scultura di una testa di serpente con le fauci spalancate, gli occhi sbarrati e la lingua fuori, che segnala il sito. I resti della città sono veramente splendidi, e da là si gode di un bellissimo panorama. I bassorilievi sui lati degli edifici, e soprattutto dei templi sembrano mostrare che qui convergessero per motivi cerimoniali rappresentanti di vari popoli diversi sia provenienti da nord che dal centro America, forse per scambi di conoscenze, e in effetti lo stile artistico è di volta in volta piuttosto differente.

Scendiamo e torniamo al piccolo paesino dove ci fermiamo in una trattoria a pranzare. Ci danno un bel tavolone grande dato che siamo in otto. Come entrata ci sono i tlacoyos (si tratta di una specie di panzerotto con salsa), oppure ci sono le quesadillas con vari tipi di formaggi. Ma soprattutto le trote del fiume qui accanto, che vengono cucinate o come truchas empapeladas (al cartoccio) o al horno (al forno), oppure frita al mojo de ajo (fritta con una crema di aglio), oppure a la plancha (sulla graticola). Per finire c’è il platano macho, che lo asan, lo arrostiscono su un fornelletto anche nei carretti ambulanti, e lo danno con leche condensada o marmelada. Assaggiamo anche della melassa dalla caña de azùcar schiacciata tra due rulli.

In un negozietto di generi alimentari vari (miscelanea) compro anche delle marmellatine di guayabas, e di mamey (di cui avevamo da poco visto l’albero). Ho assaggiato del mamey anche la nieve, cioè la granita/gelato. Alla fine ci sono i liquori digestivi, che sono alcolici e contengono un rametto o un vermetto per insaporire maggiormente: el maguey es para el pulque, mentre el agàve verde para el mezcal, e azùl para tequila.

E’ proprio vero quel che dice uno slogan pubblicitario della segreteria per il turismo: “come y conosce” cioè mangia e conosci. In generale l’essere umano conosce nella misura in cui esperisce, sin da neonato e per tutto il corso dell’esistenza, l’uomo deve provare per meglio capire. L’ingestione del cibo è una modalità immediata di esperire, tramite l’odorato, il palato, la masticazione, l’ingestione e la digestione. Conoscendo di cosa ci si ciba si conosce una parte essenziale di una cultura. Nella sua dimensione culturale l’alimento ci aiuta a capire il territorio, la gente, gli usi e le tradizioni. E’ un elemento importantissimo della cultura materiale perché aiuta a rinforzare i sentimenti identitari, e viceversa a conoscere e capire meglio le identità altrui. Da qui possiamo risalire alla natura del terreno, ai riti che riguardano la semina, la raccolta e poi la preparazione degli alimenti, e alla storia che ha portato a esperimentare e decidere certe modalità di preparazione e di lavorazione, nonché alla scelta di certi ingredienti. E’ in gran misura una sapienza femminile quella del cucinare. Quindi attraverso la culinaria conosciamo la geografia, la storia, le abitudini, i gusti, gli usi e costumi, la creatività tipica di una popolazione. Inoltre l’atto del mangiare assieme, fa sì che i commensali si riconoscano reciprocamente come esseri umani, e si condivida una esperienza che non riguarda solo il senso del gusto, ma che coinvolge anche l’odorato, e a volte il tatto, e dice molte cose anche a proposito della estetica, del gusto per i colori, le forme, gli accostamenti. E’ un atto che nella condivisione ci permette di confrontarci, di ricordarci le nostre origini, di fare comparazioni, e dunque ci ricollega alla memoria individuale e collettiva. In definitiva non solo la preparazione dei cibi, ma anche il loro consumo avviene nella cornice di un rituale sociale, che coesiona, o che comunque intesse relazioni. Per questo mi sono spesso soffermato sulla ricchezza e originalità delle cucine messicane.

Ripartiamo per tornare in città, passiamo a lato del panteon municipal (il cimitero monumentale) molto ricco di addobbi e adornato con fiori. Ci fermiamo un attimo ad ammirare Tenango dove c’è la zona archeologica di Teotenango che è pure molto bella, con templi e la piazza per la pelota. Sempre su alture.

Infine tutta la grande famiglia Guerrero (e Franco) al completo ci vuole assistere per il nostro viaggio di stasera e accompagnare al Terminal de camiones. Varie peripezie per prenotare il bus, poi perché una volta arrivati in stazione dicono che era pieno, ma anche per posteggiare vicino al terminal e poi per prendere il camion giusto dell’ora giusta del tipo corrispondente ai nostri biglietti. E’ una grande stazione con moltissima gente e confusione.

Calorosi saluti e abbracci a tutta la famiglia, un adiòs a “Toluca La Bella en el corazòn de México”.

Partiamo alle 19.30 con un bus della compagnia Herradura de plata. Viaggio notturno con lampi, fulmini e tuoni.

 

Sabado 13

Arriviamo al mattino a Morelia, capitale del Michoacàn, el alma de México. Ci sistemiamo nel bell’hotel in centro, in un palazzo di epoca coloniale. Pepe arriva mentre stiamo facendo colazione, e alla recepcion gli dicono che ancora non siamo arrivati. Quando gli telefono, lui è appena rientrato a casa. Dice che verrà qui di nuovo più tardi. La camera non ha gli scuri, viene solo un filo d’acqua appena appena dal rubinetto, il sistema doccia è stravecchio, la tazza del water perde, la prima colazione non è inclusa. Si spende 65 €uro a notte in quattro.  Ma il vecchio edificio coloniale è proprio bello, e l’albergo è vicinissimo al centro… Ci risistemano nell’edificio accanto con un bel patio fiorito. Restiamo. Quando ci sediamo per il desayuno e chiediamo che le uova anziché sode siano solo appena appena bollite, la signora si scoccia (anche se in realtà si tratterebbe di un risparmio di tempo in cucina….).

La inserviente anziana dai lunghissimi capelli forti e robusti a treccia, annaffia i fiori nel cortile aperto del patio (stanotte ha piovuto moltissimo), e quando le si avvicina un falegname e le chiede di darle una chiave per un lavoro che sta facendo in albergo, lei gli dice di aspettare un tantito perché ora è impegnata e non può interrompere per andare a prendergli la chiave… (la chiave suddetta sta appesa a un muro ad un paio di metri da lei). Quando ha finito di dare acqua va alla ricezione e si mette a fare delle cose, intanto il carpintero è ancora là seduto che aspetta…

Scendo e mi metto ad aspettare Pepe, i due patii sono davvero stupendi, però dopo un po’ l’attesa di Pepe si fa lunga, e noi vorremmo andare a vedere la città, la famosa ciudad de la cantera rosa.  Ecco che arriva Pepe con suo figlio Pepe, e si mette a raccontarci la storia della sua famiglia, e poi la storia di questa città che ancora noi non abbiamo visto. Torna a casa a prendere sua moglie.

Andiamo intanto nel vicinissimo zòcalo, tutto è lento e tranquillo, la città ha un aspetto particolare e caratteristico, ed è gradevole. Siamo però un po’ stanchi perché in pullman non abbiamo dormito bene. Pepe arriva con Oliva, e ci racconta di nuovo che a lui ieri sera avevano detto in albergo che noi non eravamo arrivati, e così pure gli hanno ripetuto stamattina…

Oliva è sorridente e vivace, e ci chiede se vorremmo andare con loro ad una festa famigliare per una prima comunione. Pensiamo che potrebbe essere una occasione per vedere un aspetto di vita e di usanze locali. Andiamo con la loro macchina in un posto un po’ lontano, fuori città. La festa si svolge in un prato isolato in cui hanno allestito un tendone con dentro i tavoli e tutto l’occorrente. Ci sono varie decine di persone, Oliva ci dice che solo lei ha 26 nipoti/e. Veniamo travolti dalla confusione e dal persistente rimbombo del vocìo sotto il tendone, cui si aggiunge la musica dal vivo. Ci fanno sedere e si inizia a mangiare: las corundas, el pozole (blanco, rojo y verde), tostaditas, eccetera eccetera sino ad un pastel. Tutto con piatti, posate e bicchierini di plastica che si piegano per il peso. I giovani cantano, e alcuni suonano, e le donne ballano, poi sarà la volta degli uomini. Poi inizia la cerimonia per la festa della 1a comunione di una nipotina: discorso della madrina, scambio di regali, e infine lettura di una dichiarazione di fede cattolica. La madrina legge dicendo tra l’altro: “…e che a Gesù io lo amo…” mentre qualcuno mi fa notare che nel foglio c’era scritto “ e che Gesù ama me” … (ma qui ora non sarebbe il caso di soffermarsi su sottigliezze erudite da esegesi, o su interpretazioni freudiane dei significati dei lapsus, o su una ermeneutica antropologica della cultura locale, ecc).

Ghila prima di uscire era andata apposta in camera a cambiarsi e si era messa il vestito elegante comprato a Toluca, e ora vediamo che forse è un abito proprio per invitate a feste di Quinzeañeras o per occasioni simili.

Michele prova a ballare, e pure Annalisa dopo molte insistenze. La festa si protrae sino a sera e noi siamo prigionieri dato che non abbiamo una nostra auto e non sapremmo nemmeno dove ci troviamo. Io girovago nei dintorni, curiosando qua e là. Quando fa scuro ci sono i fuochi d’artificio, e poi dei balletti in costume con ballerine molto belle.

E in poche parole la festa non finisce mai, e noi non conosciamo nessuno e siamo un po’ assordati e stanchi.

 

Domingo 14 de Agosto

Oliva ci spiega che la festa delle quindicenni (Quinzeañeras) qui è considerata un vero e proprio evento. Non ho capito se anche Pepe junior la fece, ma per la loro figlia Diana vollero che si svolgesse addirittura in cattedrale, e quando arrivarono dei lontani parenti dagli Stati Uniti, che non sapevano che avrebbero dovuto mettersi eleganti per l’occasione, si litigarono. C’erano 300 invitati, fecero una quantità assurda di foto che ci mostrano, e anche un lunghissimo video che pure ci mostrano. Ma ci parla anche della Boda de los Cincuenta, cioè delle “nozze d’oro” noi diremmo, che loro organizzarono per certi suoi colleghi, in cui c’erano 600 invitati!!...

Vediamo che in macchina ci sono due copie della rivista “Rebeldìa”, che sostiene le battaglie degli indigeni e dei campesinos poveri soprattutto nel sud, ed è molto vicina alle posizioni politiche dei guerriglieri Zapatisti, e diciamo che vorremmo visitare località abitate da popoli indios originari, allora Oli (è lei che è abbonata) ci racconta di quando fece la volontaria per i servizi sociali e sanitari, e andò nella zona della Costa Chica (Sierra Guerrero) dove vivono molti indigeni e molti neri. I neri discendono da schiavi fuggiaschi che si nascondevano in quel territorio fuori mano, e dunque anche se sono sempre stati emarginati hanno conservato molto forte un senso, un orgoglio, della loro libertà, dell’essere appartati. I nativi aborigeni, sono proprio gli ultimi della scala sociale, quelli che sono sempre rimasti ai livelli più bassi in tutti i campi. Questi indigeni rifiutano ogni contatto e non vogliono essere “disturbati” dai “bianchi” per nessun motivo, per cui al suo gruppo di volontari resero l’attività molto difficile perché si rifiutavano decisamente di lasciare vaccinare i loro figli (in questa zona è molto diffusa la small-pox, cioè la varicella ).

Ci fa ascoltare delle canzoni popolari tradizionali di cui è molto appassionata e di cui ha una notevole collezione di cd. Maria de Lourdes, che è norteña, detta “La princesa”, Lola Bertràn “la Grande”, che è considerata “la reyna de la canciòn ranchera”, Jorge Negrete “el Rey” de Sinaloa, el Charro, Amparo Ochoa, che cantano storie su una base musicale tra quelle fisse tradizionali, con loro varianti. Queste storie parlano di esempi paradigmatici come “la historia del chiquito que lo matò un toro por la noche” (aveva disobbedito a los papàs che gli avevano proibito di avvicinarsi all’animale), o storie di melensi drammi amorosi, e spesso sono di matrice india.

Di contro alla “falsa coscienza di sé” di molti meticci, e di molti che vivono in povertà, Pepe ci dice che invece i suoi (come quei due anziani col cappello, o suo suocero, o la cognata sindacalista) sono sempre stati molto consapevoli della loro posizione sociale, con dignità.

Andiamo a Zirahuén un piccolissimo centro con povere case e alcuni abarrotes (piccolo emporio, o negozio di generi vari), e una neverìa (gelateria). Ci dirigiamo verso la riva del lago, dove vicino al molo ci sono un bar, un ristorante, e vari venditori con bancarelle, o ambulanti, con prodotti tipici dell’artigianato locale, o piccole cucine all’aperto con focolari a legna, dove sulla piastra fanno tortillas schiacciate con una piccola pressa a mano, oppure propongono vari tipi di pescado o carne. Al ristorante Zirah proprio attaccato all’imbarcadero fanno una buona comida michoacana.

Con la lancha (piroga a motore) attraversiamo il lago contornato di pini e color blu profondo, fino a Copàndaro sull’altra sponda. Il lago è rispettato e anche un po’ temuto dalla popolazione locale in seguito ad un evento tragico, su cui si racconta una leggenda india che vede due giovani innamorati che cercano di sfuggire a genitori contrari alla loro unione, e che termina tragicamente con il loro annegamento e la loro trasformazione in sirena e tritone. Per cui la leggenda consiglia di non voler gettarsi in acqua per nuotare, perché dopo di allora tutti quelli che lo hanno fatto sono annegati o si sono mutati in pesci, questo anche perché si mormora che i due siano divenuti custodi di un misterioso tesoro sommerso.

E ora eccoci finalmente a Pàtzcuaro, antica capitale di un regno rimasto indipendente rispetto all’impero Azteca. La piazza principale è dedicata a Vasco de Quiroga di cui c’è una statua, e di cui si racconta che per convertire al cattolicesimo il popolo dei purépechas, costruì una grande luna in cartone con il volto della Madonna, e la appese in chiesa, dicendo al popolo convenuto che la loro Luna era poi quella stessa, solo con un nome spagnolo… per cui ancora oggi i devotissimi campesinos indigeni vedono nel volto della ragazza vergine e immacolata lo splendore della luce lunare che rischiara la notte. Fu per tutta la vita un amico degli indigeni e un loro strenuo difensore.

Un’altra statua che c’è in una piazza accanto, è dedicata a Làzaro Càrdenas, grande liberale riformatore, ha lasciato la sua Quinta (cioè la sua proprietà terriera) alla città affinché vi facessero un Centro di Educazione e di Servizi di Alfabetizzazione.

Vediamo una danza de los viejitos (dei vecchietti) in cui ci sono anche dei ragazzi e pure un bambino (che è il vecchietto più giovane che ci sia al mondo!). La ragazza suona la viruela (come i musici di ieri sera), uno strumento cinque-secentesco che è una specie di chitarra con una cassa armonica più grande ma con una corda in meno.

Questa cittadina india ci piace moltissimo e vorremmo tornarci per starci con calma.

Andiamo in un paesino che c’è più in là lungo la costa del lago di Patzcuaro, che è sempre della stessa etnìa, e si chiama Tzintzùntzan. Qui incontriamo il giovane Humberto di 12 anni, che ci spiega tutto della storia locale; con lui visitiamo anche le rovine dell’antico palazzo reale. Anche a Patzcuaro avevamo visitato un palazzotto, ma era spagnoleggiante, che fu residenza dell’ultimo re purépecha, che era considerato dagli spagnoli un loro alleato, sotto il loro protettorato.

Vasco de Quiroga lo amano ancora molto, e con Cardenas è uno dei soli due che abbia avuto da loro il titolo onorifico di Tata. Alla fine del lago c’è un paese che porta il suo nome. Ora qui vediamo che ci sono decine e decine di camiones, ne contiamo più di cinquanta, da cui scendono fiumi di gente che viene qui per la Virgen (cioè per la festa della domenica di ferragosto). Qui las carnitas de cerdo sono famose e saborosas y muy cocidas, pertanto chissà quanti poveri maialini vengono uccisi oggi per dare a tutti las carnitas… Quindi per questo ci sono molte volontarie che devono animarse (darsi da fare), e sono soprattutto della organisaciòn de las mujeres cenopistas (il CENOP è un organismo di attività sociali del partito rivoluzionario istituzionale al potere). Scambiamo due parole con una cui esterniamo questa nostra inquietudine a proposito di quante urla di porcellini sgozzati costano le risate e la alegrìa di questi festanti per la Virgen. Ci dice che effettivamente tutto è sempre così tanto complicato: se non lo fosse vorremmo vivere tante volte, ma proprio poiché la vita è così, ci basta viverne una.

Non lontano da Pàtzcuaro, dopo Uruapàn, prendendo la autopista verso sud, all’uscita per Cuatro caminos, c’è Nueva Italia.

Torniamo a casa loro, dove c’è la figlia Diana al computer, e vediamo i quadri di Pepito (ha lo stesso nome del nostro cagnetto…), e il puzzle da 20 mila pezzi di Gabriel, che occupa una intera stanza, lo studio di Pepe.

Mary, la sorella di Oli, con dei begli aretes (orecchini) di stile indigeno, ha una chiquilla, una bimba piccolina, avuta per proprio conto, è un tipo “Kahlo” e non si vuole sposare, e ci dice che soltanto un Marcos (il comandante guerrigliero dell’EPZLN zapatista), o un Jorge “el Negrito” (un guerrillero degli anni ’50) potrebbero ridare prospettiva alle popolazioni indigene. Scriveva nel 1950 Octavio Paz in El labirinto de la soledad: “Noi tutti uomini nasciamo diseredati e il nostro vero stato è quello di orfani, ma questo è vero in modo particolare per gli indios e i poveri del Messico”.

Torniamo in albergo, poi andiamo in piazza e leggiamo su un muro una targa messa dall’Ayuntamiento (il municipio) di Morelia che dice: “en la calle y en los muros, el pueblo hace y escribe la historia de su ciudad”.

La sera alla trattoria “Onyx”, Michele se atreve, si azzarda, e vuole provare lo scorpione fritto … ! (che impressione ci fa vederlo mentre lo pone sulla lingua e poi lo fa scomparire nella sua bocca …!), mentre Ghila prende come finale lychees flambé

Qui in piazza ci sono tipi particolari, a parte dei turisti inglesi, che ci paiono ben poco “tipici”, c’è un po’ di tutto… forse tutto il mondo fra qualche decennio sarà così? Resterà così poco delle caratteristiche specifiche di ogni paese? E quelle facce indie o meticcie col sombrero faranno la fine degli uomini aborigeni delle riserve naturali del “Mondo Nuovo” di Huxley? O interverranno altre specificità a fare la differenza? Quanto i cambiamenti come quelli attualmente in atto nella globalizzazione capitalista annullano le identità collettive?, e quanto invece le identità precedenti persisteranno nel tempo avvenire?

 

Lunes 15 de Agosto

Ieri Oli ci parlava della sua attività di volontariato nel servizio sanitario al Sud, dandoci un quadro di situazioni “estreme” eppur ancora diffuse in certi ambienti soprattutto indigeni. Già altri (Sergio, i Guerrero) ci avevano tracciato un quadro di società e culture con riferimenti etici inaccettabili per una società moderna: le donne sposate per contratto, costrette a fare un certo numero di figli, obbligate a restare fuori dagli ambiti decisionali, l’incomprensione e rifiuto rispetto a valori non autoritari e di valorizzazione di ciascun individuo, eccetera.

Ma come si può ridurre una cultura solo ai costumi? e gli usi? e le gerarchie? Come si può sopravvivere in una cultura solo mantenendo i suoi abiti e poco più? La lingua materna ridotta a lingua locale e secondaria, che sviluppi può mai apportare?

Sono questioni complesse su cui riflettere.

Andiamo a fare due passi a vedere la sede storica dell’Università di Morelia, che è l’antico Collegio gesuitico, e che forse è la più antica dell’America Latina (o è quella di Lima?).

Una targa sul muro rivolta agli studenti delle classi “de iniciaciòn” porta scritto:

Frente a nuestra propia consciencia, en la soledad de nuestros actos, debemos fortalecer los voladores de nuestra cultura: cuidado, respeto para ti y para las instalaciones”. Unviversidad Michoacana de San Nicolas de Hidalgo.

I Purépechas chiamavano Tarascos gli spagnoli che avevano preso donne purépechas come mogli o concubine. Il termine tarascos nella loro lingua significa “cognati”. E gli spagnoli, vedendo che questa denominazione era accettata quando chiamavano così i nativi, presero a chiamare così il popolo dei Purépechas dato che non capivano la loro lingua. Quindi sino a tempi recentissimi in spagnolo ci si riferiva a questa popolazione denominandola i Tarascos, e per il territorio dicevano: il regno tarasco (!)

L’ultimo re, o capo (il titolo era Calzonzin), che si chiamava Huitziméngari, ad un certo punto decisero di ucciderlo, perché gli indigeni riconoscessero solo nel re di Spagna la suprema autorità, ma non riuscirono mai a sottomettere del tutto questo popolo.

Sino ad un passato recente si pensava che gli Amerindi provenissero dall’Asia al tempo in cui lo stretto di Bering era attraversabile. Ma poi fu ritrovato l’uomo di Tepecpàn che era sicuramente aborigeno, e che risale ad una datazione precedente, e poi ne fu ritrovato un altro a Tuxpàn. Ora si dice che le culture erano abbastanza simili e quindi forse i gruppi che via via a scaglioni nel corso dei secoli arrivarono da Bering, presero facilmente da questi aborigeni molte delle loro usanze e conoscenze, e si mescolarono con loro.

Ghila si compera un sombrero tejano (ovvero texano), e con i suoi stivaletti vaqueros (cioè da cow-boy) sta proprio bene.

Abbiamo poi visto l’acquedotto, e il santuario di Guadalupe che sta al termine della lunga calzada de San Miguel, che i penitenti percorrono tutta in ginocchio giungendo sanguinanti al tempio dove li attende un Cristo proprio come loro nelle loro stesse condizioni. Il tempio è splendente e carichissimo. A lato c’è la cappella con il Santo con dipinta l’immagine della Virgen de Guadalupe sulla sua tonaca. Diceva Octavio Paz a proposito della particolare venerazione della Vergine di Guadalupe da parte dei poveri campesinos e dei poveri indios: “Questo fenomeno di ritorno alle viscere materne, ben conosciuto dagli psicologi, è senza dubbio una delle cause che determinarono la rapida popolarità del culto alla Vergine. Orbene, le divinità indie erano dee di fecondità, legate ai ritmi cosmici, ai processi di vegetazione e ai riti agrari. La Vergine cattolica è pure una Madre (Guadalupe-Tonantzin la chiamano ancora oggi alcuni pellegrini indi), ma il suo attributo principale non è quello di vegliare sulla fertilità della terra, ma di essere il rifugio dei derelitti. 

La situazione è cambiata: non si tratta più di assicurare le messi, ma di trovare un grembo. La Vergine è la consolazione dei poveri, lo scudo dei deboli, il riparo degli oppressi. Insomma, è la Madre degli orfani”.

Stamane dopo l’università avevamo girato per il mercado de dulces y artesanìa. Grande e con alcune cose interessanti per i dolci particolari, e per i liquori; comperiamo una bottiglia di Aloe bitter – Licor de Aloe vera con hierbas, hecho con ingredientes naturales (cioè dalla polpa della foglia del cactus dell’agave).

Certi hanno dei sombreroni e dei calzoni e degli stivaloni di pelle di coccodrillo, e dei cinturoni stupendi, coloratissimi, lavoratissimi e con fibie enormi.

 

Martes 16

Annalisa ed io stanotte siamo stati male, lei malissimo. Mentre facciamo colazione tra le 12 e mezza e le 13, passa una grossa manifestazione con bandiere rosse. Studenti, lavoratori, e gente di campagna, di paesini contadini, con le loro gonne tipiche, le lunghe trecce, gli ombrelli parasole, i monili semplici. Vengono da una zona india. Saluto e faccio brevi semplici conversazioni, informandomi sulle loro vite. Mi impressiona molto questa gente e questa loro manifestazione, e mi fa riflettere.

Intanto io prendo delle medicine, e poi rientriamo in albergo e crolliamo addormentati per la stanchezza. Dopo Michi va a comperare un litro di Elektrolit, e pian piano mi riprendo.

La problematica delle popolazioni indigene è un gran intreccio, o groviglio, di questioni diverse e disparate, che rende assai complessa la gestione del rapporto tra diritti e doveri anche solo nell’approccio intellettuale. Pensiamo a quei neri e a quegli indigeni che non volevano vaccinarsi né che venissero vaccinati i loro figli, nonostante si trattasse di una vaccinazione obbligatoria per legge, e si trattasse di popolazioni falcidiate da quel certo morbo. Faccio delle mie personali associazioni di idee, e mi pare che così similmente ci si era ritrovati nel corso della storia europea ad es. a chiederci: di chi è, e per chi è, il non-adulto? il bambino? (per es. in casi di orfani, o di bimbi in affidamento, o di immigrati clandestini, … di contrari alle trasfusioni, di figli di drogati, o di senza fissa dimora, di rom, ecc…) di chi è? di sé stesso, della famiglia, dei genitori, o dei tutori, dello Stato, che in certi casi è così paterno e paternalistico che a tutto e tutti provvede … ? chi ne risponde? chi se ne assume le responsabilità  ? eccetera. Proviamo a trasporre quegli interrogativi su altre tipologie di individui, come ad es. sulle popolazioni vinte e assoggettate, sui nemici sconfitti, sugli “estranei” (magari chi in patria non condivide i sentimenti di appartenenza alla identità nazionale dominante…, cioè non ne condivide la lingua ufficiale, la religione dominante, i valori correnti, i costumi, i comportamenti, la mentalità diffusa, ecc.). Già sul piano strettamente politico, nella nostra storia moderna ci si era posta la domanda: come obbligare (e chi potrebbe essere legittimato a farlo?) il popolo sovrano ad esercitare i suoi diritti, se non vuole? Con incentivi? Quali? Con pene e sanzioni? Fino a che punto?

Si pensi ad es. al controllo di ispettori internazionali sulle operazioni di voto in Iran, si pensi solo alla loro lunghissima durata, casualità, incontrollabilità… (vi ricordate di quel film sulla giovane volontaria nelle campagne?). Proprio in Mexico 25 anni fa vedemmo che gli analfabeti, i marginali, i culturalmente deprivati, o gli alloglotti potevano praticare la dichiarazione di voto orale di fronte a testimoni fidedegni (=funzionari elettorali)… riusciamo a figurarci tutta una serie di eventualità conseguenti a questa disposizione? che pure era stato emanata per venire incontro ai diritti di chi magari nemmeno ha idea di cosa siano le elezioni e che senso abbia il parteciparvi…? (anche in altri paesi accadde questo, ad es. in Ecuador solo da pochissimi anni gli indigeni, che nelle ampie regioni andine sono la maggioranza assoluta dell’elettorato, si resero conto del potere che avrebbero nelle loro mani…).

Se ad es. c’è l’obbligo all’istruzione elementare, ma senza sanzioni in caso di deroga, sappiamo che di fatto qualsiasi legge non ha effetto. Pensiamo alle discussioni nel periodo della rivoluzione francese sulla democraticità o meno del concetto di obbligo imposto per legge (almeno per dare effetto alla realizzazione di certi diritti civili di base) …

Nel caso di obbligo scolastico evaso, vanno dunque puniti i genitori per la loro eccessiva ignoranza? Ma gli individui appartengono alla famiglia (o al clan, alla tribù, ecc.) o allo Stato? Chi comunque se ne prende cura, ad es. della loro alfabetizzazione e istruzione? E nel tempo extrascolastico chi li accudisce? Qual’ è la responsabilità dei funzionari scolastici se la gran parte degli aventi diritto all’istruzione, o comunque i soggetti ad obbligo scolastico, non frequentano le scuole gratuite e pubbliche? C’è una loro responsabilità in questo? Ma l’educazione è anche qualcosa di più ampio della istruzione strumentale, e dunque di qui possono venire molti pericoli potenziali di abuso da parte delle istituzioni (si pensi nella storia anche recente agli aborigeni australiani, o ai pellerossa canadesi, ecc.) anche solamente riguardo alla imposizione di certi modelli culturali.

Dunque come si configura il concetto di un diritto obbligatorio? Ovvero di un diritto-dovere? Certamente gli esperti di storia del diritto e di diritto pubblico o diritto costituzionale saprebbero illuminarci in proposito. Ma credo che in paesi con tradizioni giuridiche, culture, e sviluppi storici differenti risponderebbero in modo differente essendoci state discussioni differenti che hanno portato a conclusioni differenti… (si pensi a Cina, subcontinente indiano, Africa, America Latina, in rapporto per es. con paesi a noi più vicini, come i paesi arabi, la Turchia, i paesi dell’Europa orientale, eccetera).

Per esempio nella politica sanitaria e di igiene pubblica, come si può configurare il rispetto di tradizioni, usi, costumi, concezioni del mondo e della vita, credo religiosi, ecc. differenti dalle nostre ? come si intreccia questo problema ad es. con il rispetto del principio della libertà religiosa? O della autorità paterna e genitoriale?

Facciamo il caso di quel che Oli ci aveva raccontato degli strati più poveri e culturalmente deprivati della regione della Costa Chica. Là ad esempio i neri non si vogliono assoggettare alle regole del mercato del lavoro, mentre gli indigeni sì, sono molto più disponibili e forse anche per questa loro disponibilità che va ad intrecciarsi con una realtà di sfruttamento selvaggio da parte dei bianchi, le cui regole mafiose li mettono in condizioni tali da essere agli ultimi posti nella scala sociale del Messico, con problematiche molto gravi. Né d’altronde essi sanno come cercare di integrarsi in modo corretto e si vanno a ficcare spontaneamente in situazioni poi irrisolvibili di ricatto, per semplice insipienza e mancanza di esperienza e di comunicazione delle informazioni. Inoltre, come già dicevo, vedono lo Stato come un loro nemico, e non si fidano dei funzionari pubblici, nemmeno di tipo sanitario, come nel caso che riportavo sopra del loro rifiuto che questi estranei appartenenti ad un apparato governativo ad es. inoculino qualcosa nel sangue dei loro bambini. (Nelle Ande peruviane invece le vaccinazioni di base non sono obbligatorie, ricordo una manifestazione a Cuzco di medici, infermieri e personale sanitario contro la legge che regolamenta il settore vaccinazioni).

Poi c’è la questione della lingua. In Messico certi gruppi linguistici sono relativamente “ben messi” e si vedono oramai ampiamente riconosciuti nei loro diritti di espressione (ad es. per la lingua nàhuatl, o la purépecha, e altre). Ma altri no. In che lingua alfabetizzare i bimbi messicani di altri idiomi per farne dei cittadini pari agli altri, nella tutela dei loro diritti, e nella educazione alla consapevolezza di questi, nonché nella cognizione delle modalità e delle vie per esercitare quei loro diritti ?

Anche lo Stato imponendo degli obblighi ai propri cittadini, fa presenti i propri diritti (ad esempio di esigere la leva militare), ma dovrebbero essere anche fissati con chiarezza i suoi doveri a provvedere al bene(essere) sociale (ad es. il dovere dello Stato a mettere a disposizione di tutti i cittadini -o degli abitanti?- tutti i mezzi per poter acquisire l’istruzione obbligatoria).

Poi c’è la questione squisitamente etica della obbligazione morale dei genitori verso i figli, che però, teniamolo ben presente, può essere vissuta in modi diversi e anche intesa in modi diversi, e variabili relativamente alla posizione nella scala socio-culturale (ad esempio nella borghesia commerciale, o delle professioni,piuttosto che tra gli intellettuali, oppure tra il recente ceto impiegatizio, o tra i salariati inurbati, o i braccianti agricoli, o tra le fasce senza reddito fisso, … ecc).

Ma, tornando ora al diario, la sera vengono a salutarci gli amici, perché domattina presto partiremo.

 

Miercoles 17

Pago l’albergo e vado a fare colazione da “Sanborn’s”. Dopo 24 ore intere di digiuno, mangio qualcosa. Siamo esseri dal delicatissimo equilibrio elettrochimico, se solo si altera un poco vi sono subito conseguenze fisiche (e mentali) rilevanti …

Col taxi torniamo a Pàtzcuaro, sono 53 km. La cittadina è a 2660 m.slm. e qui fa più freschino. Andiamo in un albergo a tre stelle del centro, la Mesòn del Gallo de Oro, in un bell’edificio, con patii, e mobili in legno massiccio intarsiati; c’è molta umidità e quindi chiediamo di avere le due stanze al piano rialzato. Il dépliant dice che l’albergo “cuenta con una excelente ubicaciòn, es el lugar ideal para que Usted goce con tranquìlidad de los sìtios de interés y esparcimiento de nuestra bella ciudad, le permitirà disfrutar de todos los atractivos de la ciudad y pueblos ribereños ricos en historia.”.  Gironzoliamo nell’area tra le due piazze, cioè plaza Quiroga (o Plaza Mayor o Principal) e plaza San Augustìn (o Plaza Bocanegra), e ci gustiamo beati l’atmosfera umana di questa bella regione india. Mangiamo alle 4 allo stesso ristorante dell’altro giorno, “El Patio” in plaza Quiroga, il cui menù dice: “Le ofrecemos alimentos sanos y bien sazonados, en nuestro restaurante Usted se deleitarà con los platillos de nuestra cocina regional como son las tradicionales corundas, chocolate de metate, café de Uruapàn, pan de nata, pozole, enchiladas placeras y una gran variedad de ricos platillos”. Qui ora c’è, al posto dei viejitos, uno che canta e suona la chitarra, e ci chiede che canzoni vorremmo (siamo in quattro e chiediamo i superclassici “cielito lindo”, “cuccurrucucù paloma blanca”, “qui saz qui saz qui saz”, e “malagueña solerosa”).

Veniamo a sapere che fino a ieri in un paese vicino c’era la fiera dei costruttori di chitarre.

Osserviamo le varie e numerose farmacie, c’è la farmàcia de descuento, de similares, de patente, de ahorro, ecc.

Qui il classico poncho si chiama gavaña, o galvàn; le sciarpe, rebotes; lo scialle, chal; i golf, sueteres; le giacche, chalecos; i berretti, gorras; poi ci sono chalinas, ruanas, sarape, quesquemen … Il negozietto di abarrotes, cioè di tutto un po’, si chiama tienda de toditos; la drogheria, venta de controlados; in una ci sono tanti sciampoo preparati artigianalmente, c’è lo champù cacahuananche, quello de hiel de toro, quello antisettico de tepezcohuite, e quelli per ogni tipo di capelli, col chile, o coll’aguacate, o con ajo-chile-y romero, …

Diluvia. Il fiume di acqua piovana che scorre rapido ha già quasi raggiunto l’altezza, sempre notevole, del marciapiedi; il tombino di questa strada è scoppiato per la pressione dell’acqua, ed ora è una fontana; la scalinata si è trasformata in una serie di impetuose cascatelle rapide. Restiamo riparati sotto un portico e aspettiamo, assistendo all’incredibile ma anche divertente spettacolo della pioggia allestito dal dio Tlàloc.

Andiamo a piedi alla Central de camiones per prenotare il prossimo trasferimento, facendo stradine periferiche in salita, in discesa, tutte sconnesse, di sassi, di terra battuta con avvallamenti e pozze. Altro ambiente rispetto al casco historico, pattume sparso, sporcizia, cani randagi. Ci sono varie officine di meccanici, che fanno riparazioni di camion, pneumatici, insomma ci sono odori, rumori, nulla di propriamente turistico, e raggiungiamo il terminal.

La sera andiamo a cena a plaza Vasco de Quiroga in una deliziosa trattoria di cocina contemporànea, el restaurante El Primer Piso, dove io prendo  pollo ripieno di banane, mandorle e cocco, il tutto in salsa di mango; Annalisa prende filete de pescado en salsa tinta (di seppia); Ghila spaghetti con carne de res, semini di sesamo, salsa di soya e ajocalì. Prima di iniziare ci danno degli hot snacks, =antojitos calientitos.

Sul menù è riportata questa citazione di Cervantes: “el problema de cocinar bien es un problema no sempre facil de resolver. Unos tienen comida y no tienen apetito, otros tienen hambre y no tienen comida, yo tengo ambas cosas, Loado sea el Señor! Vallamos mi fiel escudero a donde el buen pan y el buen vino”. E più oltre: “el destino de una naciòn a menudo depende de la digestiòn del primer ministro”.

Riporto per curiosità alcuni nomi di paesi dell’area attorno a Pàtzcuaro: Cucuchucho, Tzintzuntzan, Ucazanaztacua, Eromguaricuaro, Tzurumutaro, Calzuntzin (che era la sede del re purépecha).

 

Jueves 18

Vado per conto mio (siccome Pepe non mi porta né all’università né qui, come invece noi ci aspettavamo) a vedere il locale Centro de educaciòn basica para adultos, sul cui ingresso c’è scritto: “de lo que hagamos hoy depende el mañana” (da quel che facciamo oggi dipende il domani). Entro e mi sembra di entrare in una antica casa romanacon l’impluvium e intorno il porticato, in mezzo un giardino con una fontanella (anziché una vasca). Mi sembra un istituto molto interessante, si aggirano qui vari contadini indios che sembrano un po’ sperduti.

Pàtzcuaro è un centro importante proprio in quanto convergono qui traffici, mercanzie, persone, scambi. La geografia urbana originaria venne stravolta e coperta, non si riconoscono più le piazze e le viuzze precedenti, e si formano altri percorsi, altri spiazzi, altre visioni e scorci del contesto e della campagna circostante. Dalla collinetta si vede giù sino al lago.

Proprio di fronte alla nostra Mesòn, c’è un bed&breakfast, tradotto con Hotelito. L’originaria Patatzécuaro era “el lugar de cimientos del cues (templo)”, cioè il sito dove era stato posto il basamento del grande tempio, già mercato e hospedaje para los transeuntes, cioè caravanserraglio per i viandanti. Abbandonato sotto il fuoco del terribile e idiota de Guzmàn, venne ripopolata da Tata Vasco Quiroga con tremila indigeni e 28 famiglie spagnole che vi si installarono. Ora conta sessantamila abitanti.

Chiacchieriamo e ci intratteniamo a lungo con l’espansivo Juanito di 11 o 12 anni, che ci chiedeva dei soldini. Vuole venderci dei sacchetti di croccantini che però hanno un aspetto che a noi non piace, e allora ci chiede qualche moneta per poter fare colazione, che gli diamo, e poi alle 12 dovrà essere a scuola (perché lui frequenta quel turno). Allora intanto si fa dei giri e cerca di raccogliere dei soldi, ma può girare soltanto nel porticato sud della piazza, se no altri più grandi di lui glieli portano via. I suoi sono a Tijuana, suo zio è a Morelia, e lui è qui a casa da solo, sta con vari cani e gatti e galline, ma ha voglia di compagnia e di chiacchierare.

Al Museo de Artes Populares ci sono al suolo delle ossa di zampa di mucca, che sono molto adatte per pulirsi le suole delle scarpe quando c’è fango. Ammiro un Cristo fatto di pasta della canna di mais, e dei vasi di rame battuto. Sono tutti reperti prehispanici. Quello che gli spagnoli interpretarono come “diavolo” è rappresentato in terracotte raffiguranti cani bifronti, gatti fantastici, mucche distorte. Sono pezzi che provengono da Zamora. Scopro che c’è dentro al Museo nel “cortile” del retro, la base di una piramide lunga 400 m. i cui resti sono frammisti a povere casupole di legno abitate. C’è pure una casa tradizionale tarasca di legno visitabile come museo. Sulla pietra di ingresso c’è un caracol, una chiocciola-labirinto. Una parte di questa antica casa era stata trasformata in un carcere: ci sono ancora dei segni, graffiti, intarsi dell’epoca della conquista, con dei puntini per scandire il passare delle settimane. Sembra che si trattasse di seminaristi del collegio gesuitico ritenuti “inosservanti”.

Con el popote del trigo y el tule (canne lacustri) gli indigeni facevano dei giocattoli, e figurine dei mestieri, poi i successivi e più recenti reclusi costruivano dei piccoli trenini con i vagoni, o degli areoplanini …

I custodi-ciceroni del museo si alternano per ogni sala, (forse così si creano più posti di lavoro ?)

Andiamo a Ihuatzio dove ci sono i resti di una fortezza antica e poi a Tzintzuntzan, che è anche questo un piccolo paesino. Vediamo tra i prodotti artigianali delle pesanti maschere di terracotta (de burro), o delle maschere di legno un po’ più leggere. I purépechas si unificarono a metà del XV secolo sotto Tzitzipandàcuri, Signore di Tzintzuntzan, quale Caltzontzin unico di un regno un po’ più grande dell’attuale Stato di Michoacàn. Sconfissero gli eserciti aztechi e si assicurarono l’indipendenza. Morto il re proprio all’arrivo dei conquistadores a causa dei virus da loro introdotti, regnò qui suo figlio Tangaxoan che avendo valutato la situazione, era disposto a perdere tutto pur di tentare di salvare il salvabile, e quindi si recò ad incontrare Cortès e si convertì al cattolicesimo presso i francescani. Ma nonostante ciò più tardi Nuño de Guzmàn lo fece morire a furia di torture per farsi dire dove era il tesoro dei Taraschi. Fu allora che tra gli indios circolò la voce che fosse in fondo al lago nel punto in cui le acque sono più profonde e dove pare che si aggiri un pesce gigante molto feroce. Ma dalle prospezioni recenti pare che non ci sia alcun “tesoro” sommerso. Dopo Tangaxoan fu poi re vassallo del protettorato tarasco Huitziméngari, nel palazzotto a Pàtzcuaro, poi anch’egli ucciso.

Prendiamo una lancha e attraversiamo il lago che ora a causa del tempo si è tutto increspato. All’isola di Janitzio ci sono centinaia di negozietti e comedores e cantinas, tutti ben decorati e dai mille colori sgargianti, con tantissimi fiori, e tutte le donne (e anche alcune bambine) in costume tradizionale. Qui si pesca e quindi si mangia pesce, in particolare il pescado blanco, ma non è molto buono, sa un po’ di terra…

Durante il pranzo (all’aperto) alcuni bambini ci assillano insistentemente mentre stiamo mangiando per venderci dei vasetti di terracotta contenenti tamarindo. Uno di 8 anni, che finisce il suo palito (=ghiacciolo) guardandoci, si avvicina ancor di più e chiede delle tortillas, gliene diamo un paio e lui ci mette dentro i nostri avanzi. Poi arriva il suo fratellino di 11 anni e lui gli da la tortilla vuota, e quello si offende molto. Intanto arrivano altri che vendono il tamarindo, e ci dicono che avremmo dovuto comperare da loro anziché dare a questi due che sono solo dei poveracci scansafatiche che non fanno niente.

Io e Miki saliamo gli infiniti gradini che portano su in cima sino alla patetica statuona del “povero” Morales, immortalato come un gigante con il pugno alzato. Quasi non ci sono turisti, e quei pochi sono nazionali. Gironzoliamo sbirciando di qua e di là. Il retro dei comedores e delle tiendas è penoso. C’è molta povertà, e il pattume è ovunque. Mi pare che il barcone della basura (immondizia) ne porti via troppo poca. Ci sono in giro per le stradine molti cani randagi, e gatti, e uccelli e galli, … Al ritorno veniamo a sapere che il piccolo Marcelino ha voluto la pelle del pesce lasciata nel piatto da Michele.

Mentre rientriamo, anche oggi si scatena il diluvio universale.

Ceniamo all’interno dell’albergo. Il menù è così suddiviso: para despertar, del huerto, para acompañar, del rancho, para el antojo, de la granja. Desayunos: mañanero, del campo, michoacano, sonorense, para la cruda. Comidas y Cenas: botanicas, de la hortaliza, del rancho, de la granja, para terminar dulcemente de tomar. Taxas y Iva incluidas, propina no incluida.

 

Viernes 19

Mi & Ghi si sentono male. Grazie a Juan della recepcion che telefona al suo amico Carlos, impiegato della Central camionera faccio subito un salto là con un taxi e mi cambiano la validità dei biglietti per domani mattina. Forse che sia stato il pescado blanco di Janitzio?

Girovago a zonzo per il mercato che c’è a sinistra della plaza mayor, e poi in quello più povero dalla plazuela più in là dove c’è la Secretarìa de Educaciòn. Qui i venditori non hanno nemmeno un carretto, o una bancarella montabile. Tutto è per terra, c’è melma, basura, mosche… Ieri avevamo visto un bancale, una mesòn de dulces, davanti al sagrato, completamente contornata da un nugolo di api e vespe.

Entro in chiesa per potermi appoggiare e mettermi a scrivere. I soliti scenari: iperrealisti Cristi lacerati e sanguinanti; madonnine di Guadalupe sorridenti ed eteree; varie statue idolatrate di santi anche loro molto realistici e colorati, a grandezza naturale, che ti guardano; fedeli che restano abbagliati, come smarriti e incantati sin dall’entrata alla vista dell’ icona della vergine di Guadalupe dietro all’altare carico d’oro e argento; altri che teccano il legno dei piedi del Cristo e poi alzano lo sguardo pieni di aspettative e fiduciosi che lui li ascolti e comprenda, quasi cercando con gli occhi e con l’espressione del viso di convincerlo che loro sono meritevoli.

Entrano, chiedono, mostrano sottomissione, implorano, e poi se ne escono al mercato.

Una bambina-sorella al mio lato accudisce un bimbo piccolissimo che piange e poi si calma un po’. Ora la bambina sbatacchia il piccolo che urla per acquietarlo. Ne avrà la forza? Non cadrà? Nessuno si gira nemmeno per una occhiata.

Tutti entrano e si segnano con estrema cura e soggezione di fronte alla potenza della V.de G. che di tanto in tanto un miracolo ancora lo fa. Guay! si el cielo no me escucha …

Vicino c’è un Monte dei pegni. E un altro ufficietto di prestamo inmediato, con gente accalcata a la ventanilla, poi se ne vanno al mercato.

Las almas de los muertos te acompañan sempre”.

Nella Biblioteca publica, dedicata a Bocanegra (che è una eroina della revoluciòn, del movimento di emancipazione femminile) c’è un grandioso mural di Juan O’Gorman, che sintetizza tutta la storia del Michoacan, con tanti personaggi, colori, episodi; è tutto da interpretare, necessita che qualcuno lo illustri, tutti questi murales messicani sono supporti per un passaggio di comunicazione orale, sono supporti visivi, didascalici, all’oralità, il loro valore sta nel far passare un immaginario adeguato per imprimere nella mente degli spettatori dei concetti in forma di immagini. Questo figlio di un immigrato irlandese, a cui la terra nella quale era nato e la gente nel cui seno era cresciuto ha lasciato un imprinting così forte e indelebile, da far sì che la sua innata creatività abbia potuto svilupparsi in modo così profondamente tipico dell’animo messicano, e in particolare di quella mentalità diffusa di tipo repubblicano e riformista che sta a fondamento non solo delle istituzioni di questo paese, ma della identità contemporanea che ha unificato tutti questi luoghi, queste genti in un crogiolo unitario, che O’Gorman (come gli altri artisti di murales, Siqueiros, Rivera, Orozco, Guzmàn, e gli altri già citati) ha saputo trasfondere in colori, e forme del suo estro artistico, che hanno incontrato il gusto e l’immaginario del popolo di quegli anni, esprimendolo, e dandogli uno sbocco figurativo, ma anche arricchendolo in modo personale.

Rincontro Juanito, con un sacco delle sue cosine, che mi dice che stamane non riesce a vendere, non è la solita lagna, è una confidenza che mi fa visto che mi sono soffermato da lui. Al ristorante, quello che era seduto al tavolo di lato al nostro, passando mi dice buona sera e buon appetito signore. Episodi simili già sono successi in varie altre occasioni. Si fa presto a venire notati e identificati, e diventare un “personaggio” del luogo (la macchietta del turista). Rivedo anche il viejito più giovane del mondo, è un bambino di 5 anni con una maschera, che recita nel tradizionale spettacolino la parte del piccolo vecchino, è il suo lavoro, ci guadagna dei soldini e si diverte anche un po’.

Giriamo incantati nel centro artigianale La casa de los once patios (la casa dagli 11 patii) di grande fascino storico-architettonico, e ci sono anche dei bei prodotti esposti. Acquistiamo qualcosa in Portal Hidalgo.

E’ proprio vera la pubblicità locale della Regione: Viaja a lo extraordinario. E resterà valida sin quando il turismo non avrà ecceduto un limite quantitativo sopportabile e farà scattare il passaggio ad un altro livello qualitativo, meno autentico e più artefatto; cioè se viene meno la possibilità di ammirare le bellezze locali (architettoniche-artistiche, storiche, paesaggistiche, di costume, …) nel contempo assaporando l’atmosfera della vita quotidiana reale con i suoi colori, la sua musica, e con le sue miserie e malinconie, essendovi calato dentro, allora forse non ci sarà più possibilità di comprensione dell’animo profondo di questa terra e di questa gente, e sarà l’inizio dell’avvento della omologazione globalizzatrice. I nuovi tempi sono vicini, temo.

 

 

 

Sabado 20

La prima colazione, il desayuno, il pétit déjeaunné, ci contraddistinguono come italiani, provenzali, catalani, ecc. Questo costume di una prima colazione leggera e dolce, siamo in pochissimi al mondo a preferirla; forse ora si sta diffondendo un pochino attraverso gli alberghi di tipo internazionale (?).

Ci viene a prendere quel taxista di ieri con una super camioneta “donde cabe todo, todito” (dove, cioè nel bagagliaio “ si riesce a farci stare tutto, un po’ di tutto”). Ha sul sedile un foglietto dei “Testigos de Jehovà” perché dice che è curioso e interessato a tutto. Da qualche anno ci sono varie organizzazioni religiose (soprattutto provenienti dal nordAmerica) che stanno facendo un’opera di propaganda capillare e si stanno diffondendo sulla base di un certo malcontento o di una insoddisfazione per i tradizionalismi della chiesa cattolica, o per il ritualismo spesso di routine e svuotato di contenuti, magari sentiti come non più vitali. Ma lui dice anche che ora si è incuriosito dei musulmani (c’è stata una certa immigrazione da paesi mediorientali nel corso del novecento) perché dice che se gli Usa ritengono che siano i loro peggiori nemici, allora gli sembrano sicuramente interessanti.  (d’altronde per comprendere questi suoi sentimenti ripenso a quando Oliva diceva che gli Usa hanno voluto che si parlasse per lungo tempo molto male della Germania sconfitta, in modo che si sminuisse, o non si parlasse affatto dei crimini commessi dalla politica degli Usa nel mondo …).

Prediamo il camion che va verso ovest, verso lo Stato di Jalisco; si attraversano verdi vallate con cavalli, mucche, pecore ecc. ma anche disabitate, però tutte ben coltivate. Tempo di vedere due film (“Vento di passione”, The Legend of Fall, con A.Hopkins e B.Pitt; e “I spy” con E.Murphy), ed ecco che siamo arrivati alla nueva central camionera a Guadalajara ! (a 1550m.) L’albergo che abbiamo prenotato (il Plaza del Sol) sta in periferia, a Zapopan, depositiamo in camera le borse, e quindi prendiamo l’autobus e andiamo subito in centro in una mezz’oretta. Ci dirigiamo direttamente tra Colòn e Galeana alla “Terraza Oasis”, al secondo piano, dove ancora c’è musica! La grande sala è scatenata, ci sono solo musiche popolari ballabili, c’è un casino inenarrabile, tutto rimbomba, troviamo modo di sederci, e le altre persone del tavolo ci squadrano ben bene, c’è di tutto, ragazze in cerca di un uomo, coppie che non pensano a null’altro che farsi penetrare dalla musica e ballare, pensionati, ex ballerini, sposini appassionati… Michele viene subito travolto perché lo invita la scatenata Angela, che poi sapremo essere una assistente sociale sui 40. Ma poi anche altre lo vogliono per fare un giro, perché si appassiona e balla con foga. Angela è un bel po’ sbronza, ci si appiccica, e anche quando sarà tutto finito, non ci molla, e non riusciamo per un po’ a liberarci di lei. Poi passeggiamo, il centro è zeppo di gente, ci sono vari locali (in plaza Tapatìa c’è “Las sombrillas del Cabañas” all’aperto), altre Terrazas, qualche ubriaco che vagola.

Andiamo alla plazuela de los mariachis (che hanno qui la loro “centrale”), ma è un po’ una delusione, torniamo in taxi correndo in velocità per le grandi avenidas, sottopassi, e autostrade urbane, per attraversare questa seconda metropoli di più di 5 milioni di abitanti.

 

Domingo 21

Desayuno, e poi con 4 pesos facciamo un lungo percorso con il camion 275 “fino” a Tlaquepaque, la principale cittadina dell’ex regno di Tonalà, di bell’aspetto coloniale, ora centro artigianale di mobili e oggetti di arredamento di alto livello qualitativo. Carino il patio e los portales de Pariàn. Mangiamo al restaurante El Patio dove ci sono canti di due brevissimi cantori (lui e lei), e canti e spettacolino di mariachis femenil, nove ragazze con trombe, violini, eccetera, bravissime. La fontana è fiorita, ci sono uccelli, pappagalli, ambiente. Sulla costa del vicino lago Chapala c’è un lungo tratto di case e ville chiamato “Riviera” dove vive la più grande colonia stabile statunitense al di fuori degli Usa.

Qui ci sono anche tipi intellettuali meticci, altri sono i miliardari delle Lomas de Chapultepec (C.d.M.-DF), varie persone di altri Stati (Leòn, Monterrey, ecc.), e appunto gringos che trincano “Margarita’s” e che sembrano pensionati in festante ritiro. Il cagnetto con il collare con brillanti è spaventatissimo dalle tre ragazze-mariachi con le trombe. Ottimo pasto =filete de Texcoco, pescadito, tarta de fresas, café, jugo de naranja… spettacolo ed esibizioni, ecc. totale 24 €uro in quattro.

Ci sono in giro degli huitcholes (minoranza india di questo Stato, sono circa 60 mila e vivono sulla Sierra Madre occ., loro chiamano sé stessi Wixarikas, o Wixaritari, ma furono denominati così dagli aztechi, parlano una lingua del gruppo cora-chol) che vendono i loro prodotti; sono con i loro bei costumi bianchi con decorazioni coloratissime, e il tipico fazzoletto annodato sul collo. Per dire arrivederci loro dicono nepalteri. Sono i grandi esperti di peyotl, il cactus “divino” dall’estratto allucinogeno utilizzato dai loro sciamani, sulle cui credenze Antonin Artaud scrisse nel 1937 un classico libro, la loro spiritualità è legata alle forze e alle energie della natura.

Invece chido è un modismo per dire guapo, lo dicono le signore del magnifico negozio di arredamento con fontana di azulejos, che ci regalano un pelòn rico di tamarindo e chili, dolce-piccantino. Si spreme e al “pelatone” spuntano i “capelli” …

Scopriamo che in questi giorni c’è proprio la esposizione-mercato delle comunità indigene, quindi perciò ci sono Nàhuatl, Wixaritari (huicholes), Mazahuas, Mixtecos, Otomìes, e Purépechas (tarascos).

Visitiamo il museo della ceramica.  Andiamo in giro tantissimo passando da un sontuoso negozio di arredamento per ville di lusso, pieno di cose belle di gran buon gusto, alle bancarelle del mercatino popolare, cariche di robetta scadente, ai prodotti dei folklori indigeni. Ci sono pure molte tiendas di superalcolici come la famosa tequila fatta dall’agave, che prende il nome dall’omonimo villaggio poco distante, qui in vendita assieme ad altri liquori in vari negozi, come appunto il peyote, o liquori con il gusano, ecc.

Torniamo con gli occhi pieni di bellissimi patii e le orecchie e la mente piene di musica, canti (bella la voce di lei, ma forse ancor più quella di lui) e esibizioni come nel caso delle mariachi femenil.

Al ritorno, saliamo sul primo camion, nessun problema basterà cambiare più avanti, ma intanto partiamo, se non ché il cambio ad Aranzaza è incasinatissimo e ci stanca molto.

 

Lunes 22 Agosto

Prima colazione con succhi di frutta, la scelta è tra: naranja, zanahoria, piña, mango-guayaba-platano, toronja(=pompelmo rosa)-piña, perejil-naranja-guanàbana, naranja-fresa-maracuyà. Qui si prendono di quei super pasti allucinanti. Ci sono una quantità di piatti di carni, spezzatino, arrosto, guarnizioni, eccetera, da gran pranzo principale.

Ora che si termina e si esce come minimo sono le 11. La scuola (almeno per certi turni) inizia alle12. Quindi poi vanno a mangiare alle 4 / 4 e mezza.

Dopo un po’ di gironzoli troviamo una lavanderia, che ci fa tutto, e anche stira, di più, anche consegna a domicilio in quattro ore! Totale per tutti e quattro: 6 €uro …

Andiamo verso le 4 e mezza anche noi a pranzare appena al di là della nostra immensa Avenida alla trattoria “Karne Garibaldi”. Menù fisso, servizio degno di un “Guinness dei primati”, camerieri quasi tutti studenti universitari. Usciamo strapieni …

Facciamo un pensierino se andare all’immenso mercato di Tonalà, ma siamo un po’ stanchi di folla.

Più tardi per cena Ghi e Miki vogliono farsi da loro stessi un pasto casalingo, e vanno al supermercado, dove poi li raggiungiamo. E’ interessante vedere i banchi. Le confezioni di cannella o di spezie, sono letteralmente enormi, ma lo sono pure quelle dello zucchero, sale, nescafé, eccetera, perché hanno tutti grandi famiglie molto numerose. Alla sera dunque Ghi e Miki si fanno in camera (sulla piastra dell’angolo-cottura) degli spaghetti Barilla con aglio-olio e pomodoro in polpa. E infine ci sorbiamo una tipica telenovela latinoamericana in tv.

 

Martes 23

Andiamo a fare il desayuno noi due, prendo bolillos tostados, ma sono straunti, e AL un cernito. Nei negozi e nei bar ci sono torte pazzesche, qui ce n’è una finta per reclame per 300 invitati, e poi ci sono vestitini per feste varie, occasioni conviviali, ricorrenze. Sono disponibili a spendere grandi cifre per cose come queste…

Alle 10 i primi negozi cominciano appena appena ad aprire, saranno tutti realmente funzionanti non prima delle dieci e mezza / undici. Perciò le famiglie fanno colazione ora con tutta calma.

Andiamo in centro e rivediamo con la luce del giorno le parti pedonali che avevamo viste la prima sera al buio. Fa molto caldo.

Regaliamo caramelle a dei bambini, e una saponetta a una che canta e suona (almeno sono cosine che si tengono loro…).

In cattedrale c’è una teca con santa Innocenza, dove ci sarebbero le sue mani e il suo sangue …. I fedeli ci mettono dentro dei bigliettini con le loro richieste alla santa. Un altro invece è poco più in là, che accarezza con speranza e quasi mostrandosi pentito, e chiedendo come le sue scuse, rivolto ad una statuetta colorata di san Nicola …

Giriamo incuriositi per il povero mercadito degli huitcholes. Dietro di loro ci sono sul muro scritti dei versi del poeta Yañez.

Alla agenzia Sonrisa comperiamo i biglietti del bus per Guanajuato, da una signora con la gonna di tela a rovescio, lentissimissima. Se gli studenti-camerieri di ieri hanno il Guinness  per il servizio più rapido, questa lo meriterebbe davvero per il servizio più lento in assoluto. Ricorda i compaesani intontiti nel cartone animato di “speedy” Gonzales.

All’Istituto Culturale Cabañas (curioso personaggio!), già ospizio, vediamo murales di Orozco, simili a quelli appena visti poco fa nel Palacio del Gobierno dello Stato di Jalisco. Come già commentavo più sopra, è la “religione civile” della rivoluzione del secolo scorso che fornisce le basi per il sentimento di identità messicana. Il modello in negativo, per contrasto, sono gli stati uniti dei gringos, e con questo la cornice si completa. Per quanto riguarda il passato si demonizzano tutti i dominatori spagnoli, e invece –nonostante i gravissimi errori compiuti a volte solo per ignoranza e incompetenza- a volte si menzionano gli evangelizzatori “buoni”. Questo in generale, o come base minima comune, poi in particolare gli autori dei murales civili, sono parte di un laicismo di matrice anticlericale novecentesca; Orozco ma soprattutto Siqueiros e de Rivera, disprezzano tutti i sacerdoti che hanno approfittato della colonizzazione dei conquistadores per crearsi un loro ambito di potere forte nei confronti dei vinti. A questa opera di comunicazione figurativa della ideologia dominante, si aggiungano tutti i racconti popolari cantati.

Mangiamo al ristorante-bar-sala da ballo “El Méxicano”; le immancabili tortillas avvolte calde in un tovagliolo, e le salsine piccanti, decorano la tavola. Annalisa prende camarones e io una arrachera (carne di manzo, ammorbidita in aceto e tagliata a pezzetti o strisce, cotta alla brace, più tenera del burro…), e dei bicchieroni di succhi di frutta con le popotes (cannuccie).

Que bonito es lo bonito ! làstima que sea pecado …”; “el amor es lo ideal, el matrimonio lo real”; “Toma rompope, evita el exceso” ( si tratta di rum con latte).

In piazza della Minerva, c’è sotto la sua statua la scritta: “Justicia, Sabidurìa, y Fortaleza son los mejores custodes de esta leal Ciudad” (Camoa).

Riattraversiamo la metropoli con il 285. Negli autobus si constata la estrema composizione della popolazione in tutti i possibili intrecci e combinazioni tra i componenti.

Anche nella plaza del Sol non mancano i banchi di deposito, per un mese chiedono 8%. Al Mercado de la Libertad di fianco a Plaza Tapatìa ci sono anche Monti di Pietà e di prestamo inmediato.

 

Miercoles 24 de Agosto

Andiamo alla enorme central camionera e partiamo per Guanajuato (a 2010m.slm) dove giungiamo dopo una sosta a Leòn, in sole quattro ore e mezza. Il taxi non può fermarsi davanti al nostro albergo perché è in zona pedonale, e quindi ci facciamo un pezzetto di strada a piedi con le valige sotto il caldo. Con il taxi abbiamo avuto occasione di vedere come hanno sistemato la viabilità saltando il centro storico, in questa cittadina che è tutta sui versanti scoscesi della montagna: ci sono vari tunnel sotterranei, con bivi, curve, salite, discese, sotto alla città stessa.

L’albergo è di stile coloniale, molto bello, 850 pesos la camera. Si chiama Hosteria del fraile (ospizio del frate), in un edificio del seicento in pieno centro storico (Sopeña 3). Dei tempi antichi non resta praticamente più nulla se non il ricordo nei libri di storia.

Ma poi la città dopo la conquista da parte degli spagnoli fiorì come una delle più splendide città coloniali, ed oggi il centro storico ne è riprova, essendo uno dei meglio conservati. Dunque usciamo subito e ci inoltriamo tra vie pedonali, piazzette e vicoli. Vediamo il famoso callejòn del beso, e poi ci soffermiamo in una plazuela graziosa con begli alberoni grandi e frondosi (ed ombrosi) a mangiare una crèpe (!).

Alla sera ceniamo in un bel ristorante, “Casa Vasquez” con uno che suona su un organino (elettronico) delle belle canzoni tradizionali un po’ jezzate. Di sera ci sono moltissimi locali aperti, bar, cafeterias, ecc. frequentate da giovani, dato che questa è una rinomata cittadella universitaria. Torniamo un po’ stanchi all’albergo. Anche di fronte alla nostra finestra verso le 10 pm apre un locale con musica a tutto volume fino alle due e mezza / tre del mattino.

 

Jueves 25

Gironzoliamo dunque per le stradine, le salite, le piazzette, e sono molti i posti carini. Questa specie di gioiello arroccato con i suoi “carrugi”, già abitata un tempo da minatori, ora ha saputo riconvertirsi al turismo valorizzandosi per il passato coloniale, ma anche rivolgendosi soprattutto ai giovani. Sono stati capaci di rendere attraenti luoghi che furono poveri e popolari, rendendoli località attraenti e ben connotate sotto il profilo estetico. E… non è cosa da poco … Ci sono dunque oltre ai begli edifici, e patii, tanti negozietti carini da guardare. Il sole picchia duramente, non lo si può proprio ignorare.

Il tempio della Compagnia (cioè dei gesuiti) ha sopra al portale un sole, che troneggia sopra le tre persone della Trinità che conversano tra loro, sopra alla stessa Madre Vergine, sopra Sant’Ignazio di Loyola. A somiglianza di Puebla nella chiesa con la testa del falso bugiardo, vedo dentro una rappresentazione del padre che conversa col figlio sotto lo sguardo di benedizione suprema.

Anche a Guanajuato si sentono i richiami degli ambulanti, “i gridi della città”. Qui c’è l’arrotino che ha un suo zufolo indio chichimeca con un suono molto particolare tipo il flauto andino. Quelli della azienda del gas hanno il loro richiamo in tono basso e con il loro particolare ritmo della cantilena che enunciano. Certi bar e certi negozi hanno un’aria, una atmosfera che si respira entrando dentro, da anni cinquanta o primi sessanta.

Guanajuato nella lingua degli Otomies significa “villaggio delle rane”, e quindi c’è questa somiglianza con la nostra piccola Vigarano (Fe) … !

Al rientro in albergo alla sera troviamo che c’è una festa indiana (hindu) di matrimonio tra due giovani che avevamo visto nelle camere vicine. Ci sono pure genitori, parenti e amici … Siccome sono proprio nella camera di fronte alla nostra porta, andiamo a regalare un foulard “made in Italy”, e ci fanno la foto ma noi siamo già in pigiama … Poi dalle 5 alle 6 e mezza ci sarà casino.

 

Viernes 26

Breve viaggio in cui si vedono i “soliti” stupendi paesaggi sterminati, senza una casa o quasi, con mucche, cavalli, pecore, ecc., qualche gran sombrero incollato in testa. Barrancos, mesitas, rios, … e arriviamo all’altra cittadina squisitamente coloniale: San Miguel de Allende (1850m.slm). La cittadina è proprio carina; l’albergo “de la Soledad”, è stupendo, anche se è nel nostro viaggio l’albergo più caro (990 pesos la camera, cioè quasi 80€uro per una matrimoniale King size enorme). Siamo a due passi dal giardino municipale. Pranziamo nel ristorante Posada Carmina in un patio del settecento, contornato non solo di archi in pietra, ma di alberi di arance, e pieno di fiori, con la fontanella, i passerotti, e c’è musica dal vivo all’aperto, moooolto gradevole. Il menù della comida corrida è buono ci danno tantissimo, per 7 € e mezzo, ma ci abbiocca un po’ (complici il sonno e il caldo).

Sembra che qui ci siano vari pensionati dagli Usa che si sono installati a vivere qui. Evitano l’inverno, la pensione che si fanno spedire qui vale molto di più come potere d’acquisto, stando qui trovano altra gente come loro con cui chiacchierare … e magari certi poi aprono un loro negozio … mica male …

Giriamo per i quartieri più popolari e meno turistici. Al mercato stanno chiudendo, torneremo domani perché sembra interessante. La sera in albergo c’è un “evento”, forse anche qui una boda, e quindi c’è un tale Xavier che suona benissimo la chitarra classica e canzoni spagnole tradizionali (mi pare di averlo già visto, o sentito … chissà …).

Andiamo a mangiare alla Terraza del bar Mamamia. Si aspetta 40 minuti per venire serviti di due spaghetti e una pizza (già non più calda…) di scadente qualità. Ma nonostante ciò lo spettacolo è impagabile. Prima ci sono due affiatatissimi con chitarra, un mex e un gringo, straordinari! Che alto livello tecnico, che padronanza dello strumento …! Poi un complesso molto bravo; uno dei chitarristi cambia ben quattro strumenti, da una microscopica chitarrina-banjo che forse è un chihuahua (?), a una chitarra, a un’altra di un altro tipo, ad una chitarrona, a seconda degli effetti sonori del timbro necessari; però per ciascuno c’è una tecnica specifica. Un altro passa da un’arpa piccola, ai cucchiai, alle maracas; e un altro canta e/o suona il tamburo, il flauto indio doppio, e il flauto diritto classico. Insomma anche loro bravi: comperiamo il loro disco cd.

Fuori prima c’era in piazza una fiesta paesana, poi un complesso del tipo banda tradizionale, e poi forse dei mariachi. Tutti poi dopo un po’ si avviano per delle callejoneadas (cioè delle processioni lungo le calli, i callejònes) seguiti da numeroso codazzo di gente. Ora che usciamo è tutto già finito, ma ci sono qua e là dei gruppi di persone che cantano in coro o che stanno attorno a uno con chitarra.

Io e Miki facciamo un giretto, vediamo parecchi locali aperti e molto frequentati. Al rientro in albergo troviamo che c’è una che canta per quelli del ricevimento, ed è brava con voce bassa intona canzoni popolari.

Ce ne andiamo a letto, ma non riesco a dormire per il caldo, nonostante il ventilatore sul soffitto, ma soprattutto per i gatti (due novità notevoli …). C’è anche un locale vicino con un bravissimo pianista jazz che era un piacere ascoltare ma che pure lui mi teneva sveglio. Spegni il ventilatore, togli la coperta di cotone, rimetti la coperta, chiudi la finestra per l’aria oramai freschina, riapri poi la finestra per il soffoco, chiudi le tende per la luce, ma allora ritogli la coperta, …, ecc. (per non dire del cuscino!!). E i sogni di conseguenza. Ci sono i due gatti maschi avvinghiati stretti e arpionati con le unghie, che vorrebbero entrambi andarsene, ma non consentono all’avversario di avere la meglio, e quindi non mollano la presa, ecc…

 

Sabado 27

Las Catrinas (le “caterine”) sono le “scheletrine” eleganti, le statuine, o meglio le marionettine che rappresentano delle morte, degli scheletri, vestite elegantemente. A metà settembre alla fiesta liberano i tori in strada, e allora chissà se ci scappa una qualche Caterina …

Ritorno assieme a Miki al mercato, perché non ho fatto altre mille foto? Perché già certe cose mi hanno colpito e mi sono molto piaciute, mentre ora le do più per scontate, o perlomeno comunque come “già viste”. Quindi c’è come un processo di “iniziazione” alle immagini: le prime hanno il loro valore in quanto proprio sono le prime, sono primizie, sono fresca testimonianza di quel vissuto oltre che di quel contenuto di immagine. D’altronde cosa sono mai le foto di un viaggio se non stimoli, suggestioni, che permettono rimembranze, che suscitano il ricordo di quel preciso momento, o di quel viaggio. Ecco anche perché certe foto di guide, libri, riviste, che vedi, vengono ad assumere poi un altro significato, un’altra densità di contenuto, un altro impatto, quando le rivedi, anzi le riguardi, dopo esserci stato tu in quel posto. Mentre, viste prima della partenza, non sai che attributi darle, come contestualizzarle, e la foto è “neutra”, mostra solo delle figure (magari affascinanti). A meno che non sia di per sé un capolavoro, una stupenda foto ben fatta da un bravo fotografo, una specie di opera d’arte fotografica, ma allora la guardi e ne resti colpito, per il suo valore estetico.

Giriamo per varie piazze del centro, e ammiriamo dei bellissimi palazzi di epoca coloniale, trasformati in un insieme più o meno composito di negozi … Ce ne sono di molto belli, tipo quelli a Tlatepaque.

Ma quell’ “in più” che contraddistingue un viaggio in questo magnifico Paese, è certamente l’onnipresenza della musica, c’è sempre una presenza, un sottofondo musicale al tuo gironzolare e guardarti intorno. Il transitare, l’attraversare una località è anche una occasione sonora. Si portano con sé nella memoria anche i ricordi di canti, di strumenti, di melodie, altre che di immagini, di sapori, e di una lingua con la sua fluidità e il suo ritmo. Musica e immagini vanno associate.

Ora c’è nel patio, sotto uno di quei begli alberoni di arancio, una che canta suonando la sua chitarra: ma che piacere impagabile averla qui a propria disposizione … e tra l’altro che bel quadretto che compongono lei e il contorno, visto dal terrazzo della balconata interna !...

Rientriamo in camera e qui si odono altri suoni, di tromba, di una orchestrina, che ci entrano da fuori a cullarci.

 

Domingo 28

Ripenso a quel diario di viaggio della donna inglese che nell’ottocento venne a vedere le dolomiti con una sua amica, in cui quella signora (Amelie Edwards, Vette inviolate, Londra, 1873, tr.it. Belluno, 1985) raccontava non solo delle montagne, dei paesaggi, delle vicende che le accaddero e delle difficoltà di alloggio e di ristorazione, ma dava pure il suo sguardo sulla gente, i suoi giudizi sommari e sbrigativi sulle cose che accadevano, la sua interpretazione particolare del perché e del per come di quanto la colpiva e stupiva, descrivendo così la sua mentalità e il suo immaginario in gran parte costruito sulla base di pregiudizi e preconcetti di cui lei stessa non era neppure consapevole. Mi chiedo dunque cosa sto scrivendo e quale sia il senso di questi appunti. Se poi li paragono al testo di Cacucci (La polvere del Messico, Feltrinelli,1996, 2005) che ho appena letto, o anche al libro di Kapuscinski  (In viaggio con Erodoto, 2004, tr. it. Feltrinelli, 2005), che sto finendo di leggere …. Forse dovrei smettere di scrivere ahora mismo. …

Circa a mezzodì partiamo. Una camioneta con tutti i nostri bagagli ci porta alla central camionera di Querétaro. Lì arriviamo proprio quando parte il bus diretto per la nostra meta: Tequisquiapan, detta Tequis, a 2100m.slm. Dove ci sistemiamo a “La Rinconada”.

Il paesino è animato di gente che fa la gita della domenica e da tante bancarelle o negozi per terra della gente di campagna dei dintorni. Carino, e con belle cose. Si capisce che è destinato a turisti interni, non si vede alcun straniero (tranne noi stessi).

Mangiamo al “Maridelfi” da strariempirci una comida corrida veramente rica.

C’è uno con una piuma sul cappello che canta e batte i piedi a tip tap e suona la fisarmonica. E’ esaltatissimo, è come una specie di cantastorie, ed è un tipo da vecchio varietà, canta cose buffe e con doppi sensi. Ma la fa veramente molto lunga, e poi quando ha finito non chiede nulla a chi è ai tavoli vicini (come noi) a quelli verso cui si rivolgeva, che pure sono a pochissimi passi.

Più in là un gruppetto canta e suona serenate a due ragazze; forse sono stati mandati lì da qualcuno … le ragazze erano un poco imbarazzate.

Ci sono vari vecchietti e vecchiette indie con i capelli tutti bianchi, la pelle proprio marrone, molto rugosa. Mi pare che non parlino correttamente in spagnolo.

Facciamo la spesa e torniamo al nostro complejo, dove Ghila e Miki sono ad aspettarci attorno alla piscinetta. Appena portiamo la spesa Miki cucina gli spaghetti aglio-olio-peperoncino-pomodoro.

Alla sera comincio a leggere la raccolta di racconti di Juan Rulfo, El llano en llamas, del 1953, e la sua novela Pedro Pàramo, del ’55: straordinari! Leggo ad alta voce il primo racconto, e a Ghila piace tanto che leggo poi ad alta voce anche le prime pagine del romanzo. Ma ancor più: sono stanco, vado a letto … e non riesco a smettere di leggere fin oltre mezzanotte. Annalisa mi dice: basta, poniti un limite. E così smetto di andare avanti, ma poi mi viene una specie di nostalgia, o sentimento di mancanza, … e allora mi metto a rileggere (a mente, in silenzio) le stesse pagine che avevo già letto, però come se le leggessi a qualcuno ad alta voce, e così facendo sia da lettore che da pubblico auditore simultaneamente, tiro ancora più tardi, ma mi godo questo tipo di lettura. Anche non sono poche le parole o le espressioni che non conosco (e a volte sono pure parole-chiave …) tuttavia il ritmo musicale è talmente suadente, la cadenza, il suono stesso, la fascinazione di questa bella lingua, mi  prendono, mi pervadono e mi soddisfano. E poi certo c’è lo stile, e il contenuto, ma soprattutto quella atmosfera da sogno, un po’ magica, quell’ inframezzare la realtà, sentimenti, parole, pensieri, ricordi, natura, paesaggi, personaggi, pur dentro un discorso semplice di frasi brevi con poca complessità sintattica, e con ripetizioni … E’ molto ben còlta e resa la mentalità campagnola di gente semplice ma non per questo meno ricca di umanità, anzi. Gente che è e si sente parte integrane del tutto, del contesto, dell’intorno.

 

Lunes 29

Facciamo conoscenza con qualcuno che è qui in albergo, Gabriela e sua figlia Denis, che vive a Palanco DF e lavora nella RCI. Giochiamo un po’ a biliardo assieme, soprattutto Miki e Denis. Stiamo fuori in giardino a mangiare la nostra colazione, e poi in piscina a farci un bagno nell’acqua tiepida. Proseguo con la lettura di “Pedro Pàramo”, e ascolto il CD di Roxana. Ci facciamo degli spaghetti (Miki fa il cocinero) e poi leggo a Annalisa i primi due capitoli del diario di viaggi di Kapuscinski, mentre Ghila è in fase scrittoria. In questo complejo ci sono l’alberca, la concha de ténis, il posto dove c’è il cartello No balompié ! dove si gioca a calcio (…), il biliardo, il ping-pong, la palestra, ma non c’è il telefono nei bungalows-camere, non c’è un bar, non c’è un comedor (un ristorante), non c’è serivicio de desayuno (non c’è la prima colazione), non fanno nulla alla sera, ecc…

Andiamo alla Libreria “Rulfo” per richiedere una copia del “Gato de Oro”, e vedo dei CD dello stesso proprietario della libreria, Armando Zamora, che recita brani di prosa e di poesia. Ne compero senz’altro uno, il primo, e mi fa una dedica. In camera lo ascolto, mi piace il suo modo di porre quei testi. Lui mi aveva detto che se volevo potevo venire in libreria a partecipare ad una riunione che fanno tutti i mercoledì sera.

In tv c’è una trasmissione-spettacolo su casi esemplari condotto da una che fa la lezione a tutti su come si fa a vivere come si deve, mentre mostra al pubblico i mostri da circo. Ad es. una famiglia in cui c’è con il capofamiglia una seconda compagna e assieme a loro i vari figli della loro unione e di quella precedente di entrambi loro, che sono rimasti con il padre o con la madre. E la conduttrice esterna i suoi giudizi in merito alla immoralità della situazione. Tra questi figli, o figliastri, ce n’è uno di 14 anni che stava in casa assieme con una fidanzata di 16, ma poi si sono lasciati, e la ragazza ora è rimasta in casa in camera con la nonna di lui, perché dice che quella oramai è la sua famiglia. Non solo questi di cui riferisco, ma ben pochi dei personaggi messi in mostra durante questa trasmissione hanno un lavoro regolare, tutti hanno lasciato la scuola presto (non è prevista nessuna sanzione per le deroghe all’obbligo scolastico) e si arrangiano con lavoretti vari saltuari.  E la conduttrice li provoca, per fare spettacolo, ma se non reagiscono li insulta per spronarli. Dice che quella loro non è definibile come una “famiglia”, ma è semplicemente un “ammasso di gente” in una unica casa, dove c’è promiscuità. Accusa i due adulti che dice hanno “rubato” l’infanzia al ragazzino, e gli ordina di ritornare a fare l’alunno, ma lui non vuole riprendere la scuola, preferisce fare i lavoretti che trova, e la conduttrice si mette a urlare dicendo ai due adulti che quella non è una vita “consona alla sua età”. Da come reagisce il pubblico si percepisce che sono complessi i raccordi tra livello di scolarità, maturità, e educazione. Sgrida la ragazza di 16 per il fatto che dunque lei a 15 anni era andata a letto con un ragazzo e che avrebbe anche potuto restare incinta, o forse non sapeva certe cose?!, le domanda urlandole in faccia … forse non aveva mai visto gli animali da cortile?! E lei risponde che allora non si rendeva del tutto ben conto di quello che avrebbe potuto succedere. Ma forse, la incalza la conduttrice, non aveva mai visto i film d’amore in televisione?! Ecco cosa succede ad essere ignoranti, a non andare a scuola, ad avere dei riferimenti immorali in casa! dice la conduttrice rivolta al pubblico dei telespettatori (un po’ morbosi forse, se come me sono arrivati sino alla fine della puntata). E così di seguito, la trasmissione ha questo andazzo, di stimolo ad una mentalità da pettegolezzo e ad una curiosità invasiva sui particolari di certi momenti privati.

Certo sono questioni complesse e delicate, che non riguardano solo la relazione tra livello di alfabetizzazione o scolarizzazione, ed il saper vivere o il maturare sotto il profilo psicologico, ma riguardano anche le condizioni sociali, economiche e di marginalità o marginalizzazione in cui conducono la loro esistenza queste persone che abitano in baraccopoli, e sono cresciute in contesti dove c’è un altissimo tasso di disoccupazione e di delinquenza. Ma certo non è sgridandoli, o accusandoli o svergognandoli e sbeffeggiandoli in pubblico, che si può risolvere la loro condizione, che generalmente non è originata da una loro scelta consapevole…

Comunque questo è più o meno il livello di certe trasmissioni popolari che si possono vedere alla televisione 

 

Martes 30 de Agosto

Siamo andati a fare un giro: il paese è ben messo, pulito. Poi io e Miki abbiamo mangiato un pranzo abbastanza buono, io ho preso un chiles en nogada, e poi una milaneza de res.

Al pomeriggio facciamo tentativi vari di telefonate per programmare la prossima tappa a Taxco, prima da un apparecchio di un negozio (come dicevo in camera non c’è telefono), poi usando la tarjeta da un apparecchio pubblico, ma senza risultati. Allora insistiamo di poter telefonare dalla ricezione dell’albergo, assicurando che avremmo pagato gli scatti fatti. Non so quante ricerche abbiamo dovuto fare di numeri, perché risultava che quelli che componevamo o erano incorretti, o numeri inesistenti (il che non è vero), eccetera. Facendo ricerche di compagnie di pullman venne fuori che addirittura non esiste una società Estrella de Oro, che invece avevamo già preso nei giorni scorsi … Insomma alla fine l’esito è che andremo con la compagnia ETN al terminal di México Norte, e poi vorrà dire che prenderemo un taxi da lì per andare al Terminal Sur, che ora sappiamo che è generalmente noto come Central Tasqueña, e poi là si vedrà quale camion troveremo al momento per Taxco…

Sto rileggendo pagine qua e là dal “Labirinto della solitudine” di Octavio Paz.

 

Miercoles 31 de Agosto

Ho finito il libro-diario di Kapuscinski. Oggi giriamo per cercare una tintora che non troviamo e allora diamo da lavare e stirare a una signora che, come dicono, lo fa “privata- mente”. Ma c’è voluta una buona dose di determinazione. Perché quella che aveva fatto stampare dei suoi volantini di reclame che aveva lasciato in ricezione, abbiamo faticato molto a trovarla in quanto appunto fuori non c’è una insegna, un cartello, perché non è un negozio, ma lo fa a casa sua, ma insomma non c’è nemmeno un bigliettino o quel volantino, nessun segnale non una scritta. Comunque una volta finalmente identificata la casa sono rimasto un bel po’ a suonare il campanello (a meno che forse non fosse il pulsante della luce? Ma non ho visto nessuna lampadina accendersi…) e insomma siccome sentivo dei passi, ho più volte chiamato dal cancello “Señora ! ”, tanto che degli operai che lavoravano nella casa di fianco sono venuti a guardare. C’era pure il cane lupo, ma non ha mai fatto neanche un minimo bau. Alla fine abbiamo desistito, e cercato se per caso, era invece più in là, se forse il numero civico era sbagliato. Poi una signora di passaggio ci ha detto che lei sapeva di una che lava e stira a domicilio, ma che sta in tutt’altro portone. Abbiamo infine suonato e bussato lì, e proprio quando stavamo per andarcene, il marito ha aperto la porta.

Poi siamo andati con un taxi a fare una gita ad una mina de òpalo (una miniera di opale). E’ il señor Héctor Montes che ha una o due piccole miniere dove scava, e che nella sua casa poi lavora, pulisce, rifinisce, e vende. Ma quando siamo arrivati sin là per una strada sterrata, lui non c’era, ma la moglie è stata paziente e brava a spiegare tutti i procedimenti e le fasi della lavorazione, cui partecipano tutti quelli della famiglia. Praticamente è una fortuna e una scommessa ogni volta, perché il pezzo di parete che spacchi e poi fai cadere giù può contenere qualcosa, oppure no, non si può mai sapere se stai lavorando sodo magari a vuoto. E poi potresti rompere accidentalmente i pezzi di pietre preziose incastonati nella roccia … Così loro vivono, con il loro laboratorietto famigliare nel cortile, e con la loro aziendina domestica. Quest’anno hanno avuto una commessa per 90 tonnellate (bum! chissà?!) di agata da mandare in piccoli pezzettini in bustine a un distributore Usa che serve molti negozi nordamericani. Così ora sono tutti là dietro impegnati a mettere in bustine di plastica i sassetti, e poi a fare dei pacchetti, e quindi a metterli in gran sacconi che spediscono via treno-merci. Anche il taxista si è interessato a queste spiegazioni e ha cercato di coinvolgere la signora in una promozione che pubblicizzi di più la loro ditta, e che la reclamizzi tra i turisti, in modo che lui e i suoi colleghi facciano più spesso viaggi là da loro con i clienti. Sì la donna era un pochino interessata, e comunque era sempre gentile.

Più tardi Ghi vuole fare degli acquisti per fare dei regalitos, dato che questo non è un posto conosciuto dal turismo estero e ci sono buoni prezzi e belle cose. In una tienda vendono i vestiti confezionati nel loro stesso taller (laboratorio) di sarte. Poi arriva la figlia di questa signora (che sarà sui 42 anni al massimo) di 22 anni con il suo bambino di 2 anni. Abbiamo visto tantissimi casi così di giovanissimi con figli.

Grande mangiata alle 4, prendo filete a la tasqueña.

Alle cinque e un quarto vado al taller literario alla Libreria Rulfo. Ci sono già alcuni partecipanti e mentre siamo seduti sulle sedie di vimini fuori dal negozio chiacchieriamo un poco, e uno mi fa vedere che si danno degli argomenti da trattare e ciascuno si prepara prima, e mi mostra il suo quaderno tutto fitto di appunti. Poi andiamo su al piano rialzato dove c’è la saletta delle riunioni. C’è una anziana signora che sta a capotavola di un gruppo di una dozzina di persone. Parla di un autore messicano vissuto a Parigi, e poi legge un suo racconto breve. Silenzio assoluto. Ci sono i rumori del traffico che entrano dalla finestra e rimbombano nella saletta, si sentono dei cori dalla vicina chiesa, e in effetti forse non si è còlto tutto quel che la anziana sigora diceva con la sua fievole voce. Intanto quando sento che sono arrivati in libreria anche Annalisa, Ghila e Michele, mi alzo e scendo per discrezione. Io e Michele torniamo su, mentre Ghi vuole fare i suoi giri.

Poi più tardi torna, per farci vedere che ha comperato ad una cifra irrisoria e ridicola dei fagiolini salterini, che sono dei bruchi dei fagioli, che stanno dentro a ogni fagiolo, da agosto a fine marzo mangiandosi l’interno, e poi ne escono già farfalline. Ecco ora siamo pieni di fagioli, opali, e regalini vari.

In varie case c’è all’esterno del portone la scritta “sono cattolico e non voglio propaganda contraria alla mia religione”.

Anche certi garages hanno fuori dalla loro saracinesca delle targhe con scritto per esempio: “Respete mi entrada y yo respetaré su coche” (rispetti la mia entrata e io rispetterò la sua auto) per evitare che di notte parcheggino davanti alla saracinesca, e poi al mattino loro non riescano a far entrare le auto da riparare… oppure “Se ponchan llantas gratis” (si forano ruote gratis). Come avevamo visto già in altre città.

Al mercato alimentare ieri eravamo scappati di corsa dall’area delle bancarelle di carne perché la puzza era insopportabile, ma proprio intollerabile.

Verso le 21 in tv c’è sul Canal G (=Guate Visiòn) Marta Susana, quella presentatrice e conduttrice con i capelli corti bianchi vista martedì sera, e dunque questa è la televisione del Guatemala, non è messicana. Stasera sgrida un tale perché non è capace di dare affetto alla figlia femmina e le preferisce il figlio minore solo perché è maschio. La moglie dice che quando partorì la femminuccia temeva che lui si arrabbiasse, e invece lui la sollevò dalla culla, la prese in braccio, le diede un bacio, e poi la ripose (è proprio come facevano gli antichi padri romani per dichiarare la accettazione come proprio di un neonato). Ma dice che dopo di allora non la considerò più, per lui era affare di sua madre. Lui replica che un figlio può essere di aiuto a una famiglia quando sarà grande, mentre una figlia no, si sposa e va a vivere in un’altra famiglia. La conduttrice gli dice che invece suo padre era contento di avere avuto anche una figlia perché le femmine poi sanno come essere di consolazione al papà, dando più affetto dei maschi, che sono più impacciati, e che la considerò sempre bene pensando che poi un giorno lei lo avrebbe accudito e curato in caso di bisogno…

Poi vengo a sapere che questa è una trasmissione molto seguita non solo in Guatemala e in tutto il Messico ma anche in altri paesi hispanici.

 

Jueves, el dia primero de Septiembre

Oggi per quasi tutto il giorno non abbiamo fatto proprio niente (che meriti di essere segnalato in queste note). Al tardo pomeriggio, dopo la siesta delle “cinco de la tarde”, due passi in paese. Sulla vetrina di un ristorante c’è un letrero (cartello) con scritto: “evìtenos la pena de negar el uso del wc” (evitateci la pena di rifiutarvi l’uso del gabinetto). E in un prato: “No pise el pasto” (che non vuol dire non fate la pipì su quel che mangiate, ma non calpestate il prato, ovvero la pastura del pascolo).

In piazza già sono iniziati i preparativi per la grande fiesta della notte tra il 15 e il 16. Stanno allestendo tanti baracchini di comidas che offrono carnitas, cioè cabeza, ojos, maciza, lengua, mollejas, cesos, (testa, occhi, parti basse, lingua, ventre) e midollo e altre parti (per noi di “scarto”) baratitas, cioè  “economiche”, tipo trippa, intestini, o che so … e essendo esposte sulla bancarella (che ovviamente è sprovvista di frigo…) il “profumino” è intenso con questo caldo … Qui gli indigenas locali che vengono dalle campagne sono gli Otomies, anche loro molto poveri.

Davanti alla chiesa ci sono quelli della banda musicale paesana, uno però è un bimbo, e un altro un ragazzino, ma a parte ciò suonano trombe, trombone, grancassa, flauto dritto, flauto indio, eccetera in un modo che neanche Fellini, ne aveva trovata una così di banda municipale… ci allontaniamo dalle loro esercitazioni di prova. Due suorine stanno mettendo su un banchetto con librini e immaginette di stagno o di stoffa o di pelle, del Niño de la Salud, che è un gesubambino che c’è in non so in quale chiesa da qualche parte in Messico che si è recentemente rivelato possedere formidabili poteri per alleviare le sofferenze delle malattie o infermità ma in misura proporzionale alla fede che si ha …

Alla sera alle 21 c’è di nuovo il programma televisivo “Cuentame tu historia” di cui vi ho già parlato. Marta Susana stasera ascolta un ragazzino, forse un “monello” di strada, un chico de la calle, che dice che la madre lo picchia, per questo sta fuori casa, e che è lei che non lo manda a scuola. La madre invece dice che il ragazzino è tremendo e che quanto alla scuola non vuole assolutamente andarci. Allora lei chiede al pubblico e ai telespettatori qual è a loro parere la verità: è un monello imbroglione, o uno che non se ne importa di nulla, un vero ribelle, oppure una vittima, ed è la madre che lo rende tale perché lo picchia nella speranza di raddrizzarlo, oppure la madre è una donna violenta che beve e che non lo ama affatto ? Marta Susana vorrebbe rivolgersi alle autorità e toglierlo alla custodia materna, a meno che lei prometta di educarlo senza sberle e colpi, e lo mandi a scuola come si deve, e gli dia affetto. La madre dice che lui si fa la pipì nei pantaloni, e dunque lei dovrà pur castigarlo per dargli un freno, se no … La conduttrice la sgrida e dice che a una madre ubriacona e violenta, che già lei stessa ha avuto a sua volta una madre simile, va ordinato che ai suoi figli deve dare amore, quell’amore che non ha ricevuto, e intanto che deve smettere subito e totalmente di bere. La tizia replica che lei ha smesso già da un mese, e anche l’abuela (la nonna) che è da un mese che fa la brava cristiana, e che la chiesa l’aiuta, e che ormai è cambiata, non è più quella di prima.

La presentatrice dice che non basta la chiesa, o la fede –se poi davvero c’è- o la buona volontà, bisogna piuttosto rivolgersi a un medico, a uno psicologo, a un esperto, a una istituzione dei servizi sociali, ma questa gente dice che loro non ne sanno nulla, o non ne vogliono sapere. La “verità” che lei chiede ai suoi ospiti è molto più complessa, non è in bianco e nero. Chi può giudicare cosa è vero e cosa falso, cosa sembra verisimile a ciascuno, cosa è in realtà falso di ciò che dicono (e si dicono), chi è il colpevole qui? La colpa alla fine di chi è? Chi ha ricevuto un torto? Forse la colpa sarà un po’ di tutti e un po’ tutti hanno ricevuto dei torti … quanto incide la costrizione delle condizioni materiali, quanto quella delle condizioni, e relazioni, psicologiche, caratteriali … E coloro che dovrebbero provvedere (cioè psicologi, assistenti sociali, istituzioni civili e religiose, …) sono attrezzati per farlo? Sono presenti? Sono davvero in condizioni di poter aiutare? Sono preparati professionalmente? Sanno fare e come farlo? Ma alla fine la minaccia di Marta Susana è ancora sempre quella: ti togliamo la patria potestà, diamo i minori ad un istituto. Allora pur di evitare questo forse il ragazzino andrà nella tanto odiata scuola … i genitori si attiveranno … que se anìmen! Oppure ne approfitteranno per togliersi un peso, un problema, una quotidiana seccatura, discolpando(si) e dicendo(si): sono poveretto … siamo dei poveretti. Di nuovo resto colpito da questo stupido e incredibile programma.

Ho voluto dare questo squarcio a titolo di documento sulla mentalità, la cultura, e il tipo di problematiche e di discussioni che sono tanto diffuse in questo Paese, ed evidenziate in modo scandalistico con grande rilievo sui giornali, le riviste, i rotocalchi, la radio e la televisione, lasciando poi a voi riflettere su quanto riportato.

In questo periodo, come già dicevo, ci si sta preparando per la prossima grande fiesta, il grande rito nazional-popolare del grito, e già ora con i preparativi sono tutti presi da questa ricorrenza e si sentono tutti molto messicani e provano l’orgoglio di esserlo. Blasfemo chi dice diversamente, sacrilego sarebbe l’esprimere dei dubbi, almeno nel contesto di questa importantissima e diffusissima religione civica che sta a fondamento dello stesso sentimento spirituale-laico dell’identità collettiva: la “messicanità”. Ogni dichiarazione di diversità, di distinzione, di non adesione, anche se storica, culturale, determinata da fattori materiali, , economici, sociali, di marginalità/emarginazione, è assolutamente ineffabile, inesprimibile, se non a costo di provocare per reazione un moto di disprezzo che mantiene nella marginalità anzi ti caccia nell’area del rifiuto.

Tra i doveri civili, esibiti e reiterati in occasione di queste grandi kermesses cicliche, c’è quello di gridare ben forte e pubblicamente, il proprio orgoglio patrio. Secondo questa visione al di là di qualsiasi differenza siamo tutti messicani, al di là di tutti gli abissi che ci potrebbero distinguere, di questi esasperati estremi che sono una caratteristica della società e del Paese, veniamo tutti accolti sotto la grande bandiera e possimo trovare il nostro rifugio in essa. Che cosa ci potrebbe mai essere di più tollerante di un atteggiamento come questo? come si potrebbe dunque rifiutare questo? !Que viva Mexico! Anzi: !Que Viva México hasta siempre! Grideranno tutti in coro in tutta la Repùblica la notte del 15.

Ci sono alcune leggi di base che sono “strette”, cioè di stretta osservanza, senza eccezioni, senza ma e senza se, su cui ci deve essere transigenza zero. Senza che debbano intervenire “tolleranze” o accomodamenti, o concessioni. Su certe cose non si deve e non si può lasciar correre. Tra queste, che si chiamano “Leyes secas”, c’è per esempio quella per cui non si possono nemmeno vendere vino e birra e alcolici nei giorni di festività nazionali o di elezioni. Per cui nei giorni precedenti e soprattutto la sera prima c’è tutto un gran affaccendarsi a fare scorte per i grandi festeggiamenti … ! (come possiamo constatare noi stessi già ora) e in queste grandi occasioni, come si dice anche da noi: chi non beve in compagnia, o è un ladro o una spia. E così sono sempre giorni di baldoria e eccitazione, ma anche di incidenti, di violenze, e a volte di tragedie, che il giorno dopo vengono riportate a titoli cubitali in prima pagina, e che sono indicate come le famose eccezioni che servono solo a ribadire e confermare la regola, ripromettendosi che per la prossima occasione sia ancor più ferrea e intransigente. Quindi si accompagnano sempre grido festoso, allegria, e infine disperazione. Qualcuno anche verrà in qualche modo sacrificato, non solo tanti agnelli saranno sgozzati, e cibo e vino tracannati, ma qualcuno ci lascerà la borsa … o la vita.

 

Viernes 2 de septiembre

A volte non ci si capisce, non ci si intende o non si riesce a farsi intendere. Se ad es. vuoi delle saladitas, ma dici galletas saladas, non ti capiscono. Oppure chiedo se ha due francobolli per queste cartoline, e lei tira fuori i bolli, e in quel momento le dico, beh me ne dia cinque per favore. Mi dice: no, ne basta uno per ciascuna cartolina. Dico lo so, ma ne vorrei cinque; e mi risponde: non vorrà dirmi che ne vuole tre in più? Si. Oppure ad es. io dico mi porti del riso, ma per favore in bianco. Mi risponde: lo vuole con il Ketchup (che pronunzia Kàzòp) anziché col pomodoro? No. Dico vorrei delle uova strapazzate col formaggio. Mi risponde: non si può, non si può strapazzare il formaggio, perché c’è o il queso o il quesillo (il formaggio o il formaggino), l’uno si scioglie e l’altro viene a pezzettini.

Dico alla cameriera dell’albergo: entri pure nella stanza a fare le pulizie anche se io resto qui in camera. Mi risponde: ah se non posso entrare certamente dovrò ritornare più tardi!

Il risultato del fraintendimento si dice: con patas arriba, cioè restare a gambe all’aria.

Uno dei tanti esempi della lingua parlata in Messico è il cartello: “Los camastros son para uso de alberca” (=le sdraio sono per uso della piscina). Mi fa venire in mente che a fine luglio avevo visto un articolo di giornale o di una rivista, in cui si commentava la recente uscita della versione elettronica della 22° edizione del DRAE il Dizionario della Real Accademia Spagnola della lingua, e l’autore di quell’articolo si lamentava per il fatto che si sancisse così un canone che veniva fissato nella lontana Spagna, mentre nel mondo di lingua spagnola la Spagna è oramai solo un piccolo paese di 40 milioni di persone (di cui una parte poi sono di espressione catalana, basca, galiziana o altro), mentre invece il Messico è il più grande paese di lingua spagnola. Ma alla fine non dava proposte di soluzioni alternative, e lodava comunque il DRAE perché menziona tutti i termini e tutti i significati attribuiti loro nelle varie zone del mondo; e lo apprezzava per il suo insostituibile ruolo conservatore che permette alle 20 nazioni di lingua spagnola e ai 400 milioni di hispanohablantes  di restare uniti nella comunità linguistica.

Quindi il dizionario è ancora visto in Messico soprattutto per la sua funzione regolatrice e direttiva, per verificare se una espressione può essere considerata corretta o errata, più che non esser visto come un organo di ricezione e registrazione delle modificazioni della lingua, che cioè constati i suoi mutamenti e li contempli. Almeno così a me pare, anche perché so che era stato così anche da noi, poi il fascismo ha inquinato il concetto con un colore politico, per cui era stato sempre più visto come strumento autoritario (che cosa insensata …) per imporre certe espressioni (del tipo che si dovesse dire “ristoratore” anziché ristorante, o cose del genere, per estirpare i francesismi e gli anglicismi …). Poi ricordo che Carlo Salinari fu il primo a uscire negli anni sessanta con un “dizionario della lingua parlata in Italia”. Mentre nel mondo di lingua inglese già da molto più tempo è così, il dizionario segue i cambiamenti e gli sviluppi e si tiene aggiornato alla realtà contemporanea, fermo restando che un inglese corretto (detto Queen’s english, o King’s e.) costituisce il riferimento, anche se però non tutti lo parlano.

Così ad es. da noi fino a un paio di decenni fa si riteneva giusto che almeno i mezzi di informazione pubblica, oltre che ovviamente le istituzioni di istruzione pubblica, usassero un linguaggio corretto nell’espressione, nella grammatica e nella sintassi per proporre al vasto pubblico un modello di riferimento, abituando alle formulazioni, ai vocaboli, e alle dizioni corrette. Oggigiorno oramai è anzi il contrario, i mezzi di comunicazione avvalorano il linguaggio popolare delle larghe masse adottando le loro espressioni quotidiane di uso comune, e il cosiddetto “conservatorismo” linguistico è visto come un atteggiamento aristocratico e da intellettuali, di tipo reazionario e privo di senso perché fuori dalla realtà. Di qui poi l’uso non solo di adottare il linguaggio delle masse nel comunicare con le masse, ma addirittura i mezzi di informazione e di comunicazione sono i principali veicoli per introdurre e consolidare anglicismi e neologismi, anzi ancor più, per imporre l’uso di termini inglesi o anglo-americani. Oramai in molte categorie professionali e scientifiche, anche in campi umanistici, come la sociologia o la psicologia, è di prammatica attenersi all’uso delle definizioni, dei modi di espressione, e dei termini direttamente tratti dall’uso inglese, per cui oramai non solo si sono introdotte queste terminologie, ma non se ne può più fare a meno (computer, hard disk, floppy, RAM, mail, check-in, test, screening, trailer, background, feed-back, AIDS, pap test, TAC, più vari neologismi anche ridicoli, tipo testare, velocizzare, ecc.).Similmente in Grecia; diversamente nei paesi arabi e in quelli orientali.  Ma là si intersecano altre questioni più complesse date dalla scrittura, o dal divario tra lingua scritta e parlata (Cina, India, p. arabi).

Ogni mese vengono presentati circa ottanta quesiti alla Academia Méxicana de la Lengua, sull’utilizzo corretto e sul significato esatto di certe parole o locuzioni. E questo non solo per l’avvento delle nuove tecnologie come internet o della dominazione degli slogan pubblicitari delle multinazionali, che tendono a “tradurre” in modo automatico, o comunque alla lettera.

Si sente inoltre l’esigenza di un “Diccionario PanHispanico americano”, che registri ogni messicanismo, o argentinismo …ecc. Già ne avevo visti degli esempi in Perù che saltavano all’occhio anche di un non esperto come me. Ora sembra che il DRAE nella 22esima edizione sia più attento finalmente ai cosiddetti españolismos, mentre sino a tempi recenti un vocabolo per il solo e semplice fatto di essere utilizzato in Castiglia aveva validità di carattere generale, e ai vocaboli corrispondenti ma diversi, usati altrove si dava il marchio di localismi. Ma se in Spagna per dire computer si usa ordenador, e in Messico computadora, e fenomeni simili si verificano in vari ambiti, ci può essere il “pericolo” che si verifichi una divisione della lingua, tra Europa e America. L’autore di quell’articolo diceva che secondo lui la soluzione è che le varie accademie si consultino regolarmente e stabilmente e si mettano d’accordo su un termine comune. Ma a me pare irrealistico poiché sempre in ogni paese prevale quella di uso corrente imposta di fatto da chi non sa nemmeno che esistano accademie della lingua. Ma la RAE afferma che i neologismi vanno trattati come tali. Qual è dunque la funzione sociale del dizionario, ammesso che si debba attribuirgliene una come obiettivo? Nell’articolo in questione si conclude che se non avesse una funzione conservatrice, quello stesso articolo un giorno potrebbe non essere più leggibile per molta gente di lingua “spagnola” (o latino-hispanica). Pertanto un dizionario, e in particolare quello, deve comunque sempre rifarsi ai classici, ai grandi autori della letteratura e non ad altro.

E il sogno di Simòn Bolìvar della Grande Patria Comune … ? Idem per la communauté francophone, o per il multiforme mondo degli “english”-speaking-peoples, o per lo hindi quale impossibile lingua comune per gli indiani, o per l’arabo scritto, o per il bahasa-indonesia, o per il malese ufficiale della Grande Malaysia, ecc. (non so come sia per l’universo di espressione “cinese”). Per fortuna -si fa così, tanto per dire- una fondamentale funzione unificante qualcuno pur la svolge: e cioè il cinema, la tv satellitare, internet, le canzoni, youtube, gli sms, eccetera. Se la tv non portasse in tutte le case i film americani imponendo l’american-english degli Usa (e la visione del mondo che esso esprime), già ora la frammentazione sarebbe non più ricomponibile per gli oramai troppi pidgin-english, idioms, slangs locali, eccetera, mentre ora sembra in atto un processo di diffusione di una certa koiné un po’ “holywoodiana” scritta nelle e-mail e soprattutto nei vari chatting sui social networks, e che è praticata sul lavoro, o per turismo da tutti quelli che stanno all’estero o che viaggiano e si incontrano. Addirittura lo stesso Michele qui in albergo, giocando a biliardo con la ragazza messicana ha verificato che si intendevano meglio tra loro parlandosi in quell’ inglese che condividevano e che è comune ai molti giovani che l’hanno imparato non solo a scuola, ma con le canzoni e i film. E qui in Messico gli anglicismi nel linguaggio corrente certo non mancano (e non certo solo a causa di chicanos e pachucos). Ma nel contempo qui in Messico da secoli sono entrati nel linguaggio comune vocaboli delle varie lingue aborigene, più o meno hispanizzati o distorti, o con significati “impropri”, ma anche tali e quali, in misura forse maggiore che in altri paesi del Latino-America. E anche questa è –oltre ai vocaboli in spagnolamericano locali- l’altra grande caratteristica del linguaggio messicano, che si avverte subito già al primo contatto.

 

Vado alla riunione della “Tertulia” (=circolo di conversazione) del venerdì sera in Libreria. Oltre ad me e ad Armando, il padrone, ci sono Ramò, Ana Luisa, e due coppie. Atmosfera simpatica da chiacchiere tra vecchi conoscenti, ognuno racconta delle sue letture, dei suoi viaggi, delle sue curiosità in modo informale. Ramòn, di 74 anni, legge appassionatamente tutto sulle più antiche religioni, le prime religioni dice lui, dei Sumeri, degli Ammoniti, dei Fenici, eccetera, e prende pagine e pagine di appunti in un quadernone enorme, le cui pagine sono fitte con una scrittura precisa, chiara, fine, e ne legge delle parti e li commenta ogni volta che gli amici hanno voglia di ascoltarlo. Me li mostra e commenta un poco. Poi Armando racconta delle due volte che è stato in Perù sulle Ande, e del maestro spirituale che va a trovare a Urubamba: Antòn Ponce de Leòn. La prima volta era andato là per farci nascere la figlia, perché là ci sono energie straordinarie. Poi è tornato con la famiglia 15 anni dopo per far conoscere certi ambienti ai suoi figli. (Si tratta del centro “Samana Wasi”, la casa del riposo, nella valle sacra degli Incas, vicino a Cuzco). Insomma una riunione molto gradevole e interessante.

Annalisa. Ghi, e Mi tornano dalla loro gita in taxi. Il taxista ha raccontato per filo e per segno come si fa a cucinare il capretto al barbecue, che è una specialità di qui. Cominciando a partire da come si deve costruire il forno, eccetera. Poi ha raccontato di quando ha preso su due turisti dal residence e li ha portati a fare un lungo giro nei dintorni, e cosa hanno fatto e cosa han comprato …E che in un paesino in cui avevano fatto una sosta erano stati invitati a una festa familiare di compleanno. E quando, dopo aver abbondantemente mangiato e bevuto i due hanno chiesto quanto dovevano per il pranzo, lui ha spiegato loro che un invito è un invito e basta, e allora loro hanno comperato una bottiglia di tequila e l’hanno portata come loro regalo di compleanno. Ecc. ecc. …

Insomma quel che volevano dire Ghila e Michele è che i messicani non sono proprio capaci di restare in silenzio e di guidare e nient’altro. Come il nostro taxista dell’altro giorno, Memo, che si era interessato alla miniera e ai vari prezzi, e ha fatto varie domande alla signora. Dopo di ché ci ha chiesto solo venti pesos in più per tutto il lungo tempo (due o tre ore) che è stato lì ad aspettarci. Meglio così per loro, i giri fanno parte anche della loro giornata, della loro vita di autisti, mentre da noi in Europa si definisce professionale un atteggiamento di “rispettoso” distacco, per cui un autista guida e basta, tutto il resto non lo riguarda, lui è lì in quanto svolge le sue funzioni di conducente e nient’altro, il suo vero sé stesso è tale solo nel tempo libero dal lavoro; e il lavoro è qualcosa che è solo questione di retribuzioni, rapporti sindacali, gestione, organizzazione, produttività e assolutamente nient’altro. Almeno nelle grandi città del nord come Milano o Torino, Genova, è così, mentre per loro qui è la loro giornata di vita. Intanto che guidano telefonano ininterrottamente, e parlano come fossero a casa loro, e dicono “amor mio”, “tanti baci”, “sto facendo questo giro sai, ma dopo passo da te”, ecc… Tra l’altro raccontava che in due miniere su quella strada sono stati trovati alcuni opali di fuoco che sono rarissimi. Mi viene in mente un romanzo poliziesco australiano ambientato ad Hong Kong. Chissà qui i titolari delle miniere come hanno saputo gestire la faccenda, se appena saputolo in giro certi gli sono “saltati addosso”, o se quelli sono riusciti a farsi finalmente un bel gruzzolo di soldi e a vivere bene. Forse qui ancora le cose vanno come dovrebbero, ma altrove imperano i narcos, i narcotrafficanti armati, che sono raggruppati in varie mafie di banditi che spadroneggiano in tanti settori e ambienti (cfr. i libri di P.Cacucci, o di Y.Herrera, o i film messicani sul tema).

 

Sabado 3

Ieri sera a cena ho raccontato un po’ quel che avevo letto sul monolite di Bernal (che dopo la rocca di Gibilterra e il pan-di-zucchero di Rio è il più grande del mondo), molto simile a quello del Wyoming da cui trasse spunto il film del ‘77 “incontri ravvicinati del terzo tipo”. E da lì poi con Miki il discorso è andato alla vita nell’universo, agli orfici greci, e agli inframondi degli Aztechi e in Platone …

Stamane dunque partiamo, con un camion della “Flecha Amarilla” preso al volo, che ci porta al Terminal Norte a DF, ma dopo un lungo e faticoso attraversamento di Ciudad de México, che in termini di tempo costituisce più di un terzo dell’intero viaggio… Poi prendiamo un taxi che con le nostre valige legate sul tetto ci porta in soli tre quarti d’ora al Terminal Sur che chiamano appunto Central Tasqueña, dove mangiucchiamo qualcosina e prendiamo il biglietto del grupo Estrella Blanca. Si arriva a Taxco distrutti, dopo aver attraversato un panorama stupendo, prima salendo forse quasi a tremila metri, poi scendendo in una magnifica vallata verde contornata da montagne con fitti boschi, molti fiori (è la valle di Cuernavaca), e poi risalendo e ridiscendendo, finché passando tra vari anfratti si giunge ad una incasinatissima cittadina arrampicata e abbarbicata sui pendii delle colline.

Il Terminal è un grande caos tra traffico congestionato, sporcizia, rumori, fumi, in un angolino troppo troppo angusto. Il traffico è intenso perché ci sono solo stradine dove stanno tutti quanti fermi in fila indiana da uno, scappamentando e rumoreggiando follemente. Taxi neanche a parlarne, e poi sono solo maggiolini Volkswagen senza il posto di fianco al guidatore (che è stato proprio divelto in tutti), per metterci lì le valige. Annalisa e Michele vanno avanti con un taxi che sono riusciti finalmente e miracolosamente a catturare togliendolo a qualcun altro. Noi restiamo nel piazzale a battagliare per un secondo taxi (hanno solo due posti passeggeri), ma la folla è grande e agguerrita. Ghila telefona al nostro albergo per chiedere alla ricezione se possono mandarci loro un taxi o una macchina a prenderci. Dopo un sacchissimo di tempo … arriva (!), quando oramai i pullman (che erano arrivati quasi tutti contemporaneamente) già se ne sono andati tutti, e quindi ora di taxi se ne trovano quanti se ne vogliono perché non c’è più nessuno, la gente è andata tutta via. Anzi vengono loro ad offrirsi. Ma noi oramai attendiamo la macchina che speriamo ci abbiano mandato. Alla fine entriamo nel volkswagen, l’auto si fa una arrancata tutta in prima sul colle di fronte a Taxco. Lassù alla recezione del “Montetaxco”, chiediamo subito di Annalisa e Miki, ma nessuno ne sa nulla, né di loro né della nostra prenotazione, né delle nostre telefonate di ieri e dell’altroieri, né di quella di poco fa … Annalisa non risponde al cellulare (o quassù non c’è campo). Siamo veramente sconcertati, il tizio della recezione cerca molto tra i vari quaderni e foglietti di note, ma non trova proprio i nostri nomi, chiede ai facchini, ma non hanno mai visto Annalisa e Miki, né li ha mai visti la sua collega, allora Ghila chiede ai portieri e poi ai vari taxisti che ci sono lì davanti e che non hanno nulla da fare, ma non ricordano di averli visti arrivare … Che dovremmo fare? A questo punto siamo veramente in ansia. Insisto ancora tanto, ma senza risultati. Alla fine mi viene in mente un nome che forse mi avevano detto al telefono, e dico che mi pare che le nostre camere siano in una dépendance chiamata “Mar-bel” è possibile? “Ah, ma allora, se lo aveste detto subito ! sì dovete andare all’altra recepciòn, quella della dependencia, guardi è là che dovete andare.” … ! e mi indica una sala più in fondo dove in effetti c’è un’altra recezione…  Già, già, benvenuti in Messico. C’erano Annalisa e Michele oramai preoccupati e non sapevano più cosa pensare (e inoltre qui sulla collina non c’è campo per i cellulari).

La sera al ristorante-buffet con il terrazzo sulla piscina, che da a strapiombo sulla strada, e con davanti Taxco illuminata proprio di fronte a noi … ci riconciliamo col posto. Fanno pure i fuochi d’artificio e c’è una orchestrina che suona ! … cosa si poteva desiderare di più ?

Adereze (= dressing) è il condimento, ed è proprio questo che a volte lascia a desiderare. In un locale di videogiochi leggiamo: “Favor de no hablar malas palabras!” cartello che forse poteva starci bene alla recezione …

 

Domingo 4

Scendiamo a Taxco (a 1860 m.slm) entrando in quattro nei tre posti a sedere (io mi siedo davanti sul pavimento) del maggiolino volkswagen, con i suoi ottimi freni e pneumatici e la sua trazione posteriore. Il guidatore mette la prima, e va giù.

Giriamo per le parti più orizzontali della città. C’è un traffico ossessionante e molto inquinamento. Troppa gente, troppo argento, come dice Miki. Qui è tutto solo impostato sui negozi (in gran parte di prodotti in argento), e non si vede quasi, e dunque non si gode, la bellezza della cittadina. In questo contesto così angusto, e con stradine piccole e strette, dovrebbero rendere tutto il centro storico pedonale, o obbligare ad usare solo mezzi di trasporto ecologici …

In piazza c’è una sorta di fiesta elettorale con giochi per bambini, canzoni, eccetera, in cui si dice in conclusione di votare per Tizio.

Mangiamo su una bella terrazza panoramica. Poi nel tornare veniamo intralciati da una processione, chiediamo che cos’è e ci dicono: “un difunto”. C’era tanta gente, ma forse quasi solo la moglie e la figlia (?) erano in nero, e piangenti, gli altri erano in camicia o camicetta bianca, e i fiori, delle calle, erano bianchi. Ci sono pure dei Mariachis che suonano canzoni, non sempre solo meste.

Prendiamo un “combi” per tornare su allo zocalo (un pullmino-taxi su cui possono salire tutti quelli che ci stanno). Arrivati, un bambino sta per chiudere la porta che andrebbe a schiacciare la mano a Ghila che stava ancora scendendo, per fortuna il tempestivo intervento di Annalisa che ferma il bambino, fa sì che non succeda nulla.

Poi giriamo ancora molto per negozietti (alcuni hanno belle cose), e infine andiamo su una terrazza a riposare e prendere un thé, mentre giù in piazza ancora suonano e cantano. Poi ritorniamo pian piano a piedi io e Ghi, e in una piazzetta rivediamo quelle orrende riproduzioni degli autoflagellanti. Che impressione! Passando col taxi avevo pensato che fosse per commemorare le vittime dell’Inquisizioe (che idiota!), invece è una tradizione di Semana Santa che avevamo in effetti vista descritta nel Museo e Casa della Cultura, intitolato a Borda. Tra l’altro questi era uno strano personaggio cui non so se meriti intestare una casa della cultura… 

C’è anche un museo intitolato a William Spartling che avviò tra il 1929 e il ’31  l’attività di design e di produzione di gioielli d’argento a Taxco. La città in effetti era stata per secoli la fonte della materia prima, ma non c’era un artigianato di lavorazione locale. Spartling, un amico di Faulkner e di Dos Passos, venne in Messico come architetto per ampliare la “Casa Mañana” di Elizabeth Morrow a Cuernavaca (la moglie dell’ambasciatore nordamericano), e vedendo i suoi disegni di ispirazione prehispanica per i decori della casa, la Morrow gli suggerì l’idea di fondare la moderna gioielleria messicana rilanciando lo stile originario. Anche De Rivera fu d’accordo. Così Sparling oltre a promuovere le esposizioni di Rivera negli Usa, aprì un negozio e laboratorio di design messicano contemporaneo che ebbe una enorme fortuna. Oggi moltissime sono le copie non autorizzate dei suoi lavori, e le imitazioni o gli oggetti ispirati al suo stile. Ma in questi casi è difficile stabilire cosa sia copiato e cosa sia originario (anche Spartling copiò a sua volta disegni antichi). Certo è che in quel periodo non solo Frida Kahlo e gli artisti dei murales contribuirono a un rinascimento di una estetica specificamente messicana.

A tavola a pranzo raccontavo ad Annalisa di quel libro che ho comprato su Regina Teuscher, uscito per il 33° anniversario della sua uccisione (o sacrificio …) nell’ottobre ’68 durante la strage dei 68 studenti (o martiri) a Plaza de las Tres Culturas a Tlatelolco, così ben ricostruita da Elena Poniatowska. Regina da certi viene mitizzata e idolatrata, e su di lei già fioriscono delle leggende (cfr. la novella di A.Velasco Piña, e il film Ni olvido ni perdòn). C’è chi la chiama “la Réina de México”, che con altri 400 (il numero dei feriti) “si offrirono in sacrificio consapevole delle proprie vite, pur di dare il via a un risveglio spirituale e morale dei messicani”. E’ comunque considerata un simbolo, di innocenza, bellezza, gioventù e cultura. E molti considerano lei come la maggiore impulsora del ritorno, della rivalorizzazione, o rvivificazione tra i giovani di quella generazione, della spiritualità indigena precolombina, ma anche del suo gusto estetico, e questo 25 anni prima delle famose celebrazioni del 500enario della scoperta del continente, che segnarono un punto di svolta nella storia della rinascita spirituale di tutta l’America india e della sua identità culturale. E’ comunque interessante e significativo che in certe occasioni che vengono sentite intensamente e percepite come di grande significato simbolico, ritornino a manifestarsi antichi schemi culturali, come quello dell’offrire la vita in sacrificio, di immolarsi, di soddisfare le richieste di dèi esigenti, o di vedere nella morte una nuova vita che sorge, del sangue che purifica e rigenera, del valore simbolico dei numeri (68 nel ‘68), o della violenza che viene scaricata dall’alto (gli elicotteri) come monito e segnale, eccetera.

Diversa gente camminando, o passando in autobus si segna ogni volta che si passa in vista di una chiesa, o un altarino, o una croce …, è una religiosità molto attaccata a formalismi, rituali, a un concetto teurgico del rapporto col divino, di sottomissione, di ingraziamento, di scongiuri, di richieste e di attese. Le cerimonie dell’autoflagellazione ad esempio sono molto sentite e vissute come catartiche.

Prendiamo un jugo de mango in un bel “café de Chiapas”, con un tipo simpatico che ha voglia di conversare, e che mi aveva chiesto se sono uno scrittore perché aveva visto che prendo questi appunti sulla mia Moleskine.

Al mercato c’erano dei bei gioielli, e non solo plata ma anche pietre dure e coralli, che erano molto a buon prezzo, essendo oramai in settembre.

Ci sono anche bellissime ceramiche e disegni su fogli come di papiro, tutto è supercoloratissimo, una festa di colori sgargianti che sorprendentemente si accostano sempre benissimo tra loro.

 

Lunes 5

Stiamo andando in gita con un “taxi” privato. Passata Huajintlàn siamo nuovamente nello Stato di Morelos: cavalli, asinelli, capre, pecore, mucche, cani … boschi, molto verde, alberi della famiglia dei ficus, gli amates amarillos, che sono anche molto alti, e lo huamucil che produce una frutita blanca. Ci sono cuevas e anche un lungo tunnel sotterraneo naturale. La gente qui all’inizio di novembre va in gita nei boschi per raccogliere lo jumil, uno scarabeo che contiene molto iodio, e lo mangiano crudo, ma è forte e piccante, oppure ne fanno una salsa molto saporita. Il libro che ho preso di Miguel Ruiz sulla sabidurìa tolteca, parla delle due forze, il Tonàl e il Nopàl, e anche del “sogno della vita”. Sono concetti che avevo letto già in Castaneda, anche se trattati diversamente.

Intanto siamo arrivati a Puente de Ixtlà, poi si sale e ci sono aguilotes, e correcaminos. C’è pure un lago vulcanico, Cuatetelco.

Ed eccoci infine alla nostra mèta: Xochicalco ! Strepitoso! Qui c’è tutto, la calzada per i carri, l’arena, il campo di pelota, il tempio di Quetzalcoatl, e che grande area sacra … e c’è pure un calidario dove tra i vapori bollenti si purificavano prima di entrarvi.

E c’è l’immenso panorama fino alle montagne, al Popo, al lago. Come dicevo ci sono molte aquile che volteggiano nei loro giri altissime con le loro ali di apertura eccezionale, e c’è il silenzio … Vedo grosse formiche rosse che pungono non poco, con le loro strade nell’erba e le tane, e vedo anche i correcaminos (in inglese Road Runner, quello che in un famoso cartone fa impazzire di rabbia il coyote…) che passano, e grandi mariposas (=farfalle) colorate.

Il nome della città in lingua nàhuatl significa “nel luogo della casa dei fiori”. Questa imponente e magnifica località è rimasta pressoché sconosciuta o ignorata, e quindi abbandonata a sé stessa fino a vent’anni fa … Pur essendo stata menzionata da frate Bernardino di Sahagùn già nel 1529, è stata dimenticata fino al 1909. E’ solo dopo il nostro scorso viaggio, e cioé a partire dai lavori archeologici del 1984 che si comprese l’importanza della città e questa venne studiata e valorizzata. In quell’anno c’è stato il primo progetto di ricerche e il sito è stato dichiarato di interesse a livello federale. Il primo libro di studiosi è del 1994, pubblicato a cura dell’ INAH, l’ist. nazionale di antropologia e storia. A tutt’oggi sono a disposizione dei visitatori soltanto una cartolina e tre cosiddette miniguide, cioè dei micro opuscolini del 1995 ristampati dalla segreteria del turismo dello Stato di Morelos. Tutto qui. A fronte dei grandi investimenti fatti  per la sua valorizzazione, tra cui la strada e il bel museo, immerso nel verde. Però ancora ben pochi visitatori sanno che esista, oppure sanno dove sia, o come si raggiunga.

Quando eravamo lì, c’era una classettina di Liceo con due insegnanti che hanno fatto anche una cerimonia mettendosi in cerchio attorno alla base dell’ altare nello spiazzo della plaza principal, su cui avevano deposto moltissimi bei fiori freschi, e mi pare una statuina-immaginetta della vergine di Guadalupe. Hanno iniziato richiamando energia, e poi tutti, visibilmente emozionati, si sono abbracciati con slancio. Quindi hanno portato via tutto quel che avevano, cioè le loro cose e i loro rifiuti, e se ne sono andati.

Siamo dunque rimasti quasi sempre soli qui, finché al momento della nostra partenza sono passati quattro turisti con un cicerone (magari a noi qualcuno avesse spiegato qualcosa!, o almeno ci avesse detto che si poteva trovare una guida …).

 Il monumento principale è la stupenda piramide dei serpenti piumati, che all’epoca era ovviamente policroma, e che ha conservato ben due strutture sottostanti più antiche; bellissimi i bassorilievi dei serpenti e dei sacerdoti e dei governatori seduti a gambe incrociate, con collane, orecchini, cavigliere, braccialetti. C’è segnata anche una data esatta, che forse è quella del completamento della costruzione del tempio maggiore, che sarebbe relativa all’anno 10 “della canna”, che forse si riferisce però ad un grande evento quando vi fu la riunione di molti sacerdoti di varie parti del regno e di altri paesi lontani, per cui qui venne studiata la eclissi di sole del 743. Per quell’evento si erano preparati, ed erano convenuti per la data del 9 del mese “occhio di rettile”, studiosi e “scienziati” di varie provenienze (la stessa civiltà locale sembra essere stata un amalgama di influenze e anche un centro di riferimento di conoscenze). Sull’acropoli ci sono altre piramidi ed edifici molto interessanti e ben conservati tra cui appunto anche un osservatorio (questo era in realtà il lungo tunnel con aperture verso il cielo), il bagno termale di vapore, o temazcal, di cui già ho accennato, la piramide gemella, la piramide delle stelle, uno stadio per il gioco della pelota. Lungo i bordi della grande scalinata che porta all’acropoli ci sono decorazioni che rappresentano le viscere interiori del serpente, importanti  per il loro valore medico.

Dunque a quanto sembra di poter congetturare dai bassorilievi, salivano ogni anno per la ricorrenza di quell’evento astronomico, con animali addobbati, che forse portavano offerte, e inoltre si formavano dei cortei in cui tutti erano vestiti in modo particolare, con caschi piumati, e poi si svolgevano gare, e il gioco della pelota sacra, che rappresentava i movimenti del cosmo. I bassorilievi, che erano riccamente colorati, sembra dunque che si riferissero a questo. In quella occasione probabilmente si verificava, e all’occorrenza si “aggiustava”, il calendario che doveva sempre essere in perfetta concordanza con gli eventi astronomici, e si aggiungeva o sottraeva uno dei cinque giorni complementari. Questo veniva stabilito e calcolato in base all’ingresso del raggio solare il 14/15 maggio e il 28/29 luglio. Insomma leggendo queste cose c’è di che esaltarsi essendo lì nel sito, e viene facile fantasticare e figurarsi quel louogo abitato e vivo, e rimanerne strabiliati. Per questa sua straordinaria rilevanza la cittadella sacra è stata dichiarata dall’Unesco nel 1999 Patrimonio dell’Umanità. Vale il viaggio per una visita (si raggiunge rapidamente con la Autopista del Sol) al sito, e al museo gestito dall’ INAH e dal Conaculta (il consiglio nazionale delle culture autoctone).

Ora mi viene in mente che sopra al Templo Mayor c’era della frutta in offerta votiva, posta qua e là su un mucchietto di riso che qualcuno aveva portato e poi lasciato.

Come ricorda uno dei suoi poemi, il re Nezahualcoyotl scrisse: “Volveràn a sus lejanas tierras, llevando en las pupilas no solo la imagen del Valle Florido y Limpio, y de nuestra hermosa ciudad, sino también, en sus espìritus, el calor de nuestra amistad”. Nel XV sec. Nezahualcoyotl fu un grande sovrano di questo territorio che allora era il regno chichimeca, che aveva suggellato una alleanza con l’impero azteca grazie al suo matrimonio con una principessa méxica.  Oltre che guerriero e abile politico (rafforzò una triple alianza con Aztechi, e Texcoco), fu sapiente e fece la grandezza del suo reame costruendo acquedotti, e riserve d’acqua, fondò un giardino botanico, ma come dicevo fu anche poeta, e saggio, per cui rese la città punto di incontro di “intellettuali” e “filosofi”; sostenne la concezione di un dio unico. Morì a settant’anni nel 1472, dunque prima del viaggio di Cristoforo Colombo.

Al rientro a Taxco mangiamo in una bella terrazza con vista, e poi vediamo il mercato all’ingrosso dell’argento e delle pietre, con alcune bancarelle che rivendono anche al dettaglio (mayoreo e menudeo, cioè all’ingosso e al minuto). Torniamo stanchissimi accatastati in un piccolo maggiolino VW con Miki “seduto” sul pavimento di fianco al guidatore. Subito inizia a piovere.

 

Martes 6

Giriamo per comprare regalini; c’è sempre in giro molta forza pubblica con gran pistoloni, fucili, armi automatiche, come se stesse per scoppiare una guerra.

Fruta chiquita: nanche amarilla muy dulce, bollita; ciruela chabacanas, che è come una prugna grande dolce; el chico, un tipo di mamey chiquito.

Prima di partire eravamo andati al bar-cafeteria “El Quetzal” in Benito Juarez, dove eravamo stati ieri sera, e avevamo chiacchierato con Antonio. Ma ora c’era la sua socia, che è figlia di una tedesca di Berlino e di un bulgaro, ed è venuta qui perché ha sposato un messicano. E’ anche stata per un po’ in Italia, a Siena, e poi in Nuova Zelanda; per questo ha un bel collare con pendente di ispirazione Maori, che si è fatta fare da un disegno suo. E’ simpatica, ci mostra la foto della sua bimba Morgana di due anni. Poi arriva Antonio che è proprio come si dice “una pasta d’uomo” e conversiamo un po’ mentre Ghila, che è nel negozio di fianco, fa amicizia con dei ragazzi che fanno tatuaggi. Quando gli dico che siamo stati a Xochicalco, Antonio racconta che quello era già un primo passo verso l’intreccio tra conoscenze spirituali di vari popoli mesoamericani, Maya, Toltechi, Aztechi, che avrebbe potuto avere degli straordinari sviluppi, ed è per questi incontri sul tempio maggiore che ci sono rappresentati sacerdoti differenti con vestimenti diversi, e profili diversi, così come nel frontone i due quetzalcoatl si incontrano, e uno ha apparenza maya. Dunque è stato un sito eccezionale che meriterebbe una grande attenzione da parte degli studiosi. Il rammarico è che forse la gestazione di una fase ulteriore dello sviluppo culturale indoamericano è stata interrotta.

Ci salutiamo, Ghila pensa che manterrà i contatti con loro.

Partiamo e ci porta il taxista Abelardo con cui abbiamo avuto simpatia nelle scorse occasioni. Gli chiediamo se sa dirci di più sui flagellanti, e ci dice che lui è stato uno di loro e che conosce bene la cosa, e inizia un fiume in piena di parole, che dura per tutto il viaggio. Si tratta della confraternita di san Nicola, la “Hermandad de San Nicolàs: los encruzados van a hacer una manda para un familiar para pedir algo. Dos retiros: el primer con las cadenas en la procesiòn que tarda con la cruz y los pies amarrados. Segundo: son doze decenas de espinas, son de madera de arbol de zarza. Mordendo con la boca el rollo que te aiuda a cargar. Cada encruzado tiene dos ayudantes. Empieza a las 10 de la noche, hasta las 5 de la mañana, lleva la capucha de tela, un lazo colgado al rollo.” Durante i tre anni ti seguono nella vita quotidiana. Si prende una corda di un metro e 20 piegata a metà, e alle due parti si mettono dei “clavitos de punta finita transparados de la cuerda de piola, y el plomo. Esta cuerda se llama “disciplina”. La cruz es pesada de 40/50 kg., va rezando el rosario y se va flagelando, abriendo y cortando la espalda. Las espinas son como una uña de gato. Cuando te quitan las cosas hay que tener mucho cuidado. El encruzado no siente nada, los lazos te cortan la circulaciòn. La segunda procesiòn es la mas pesada. Es la noche siguiente, portanto amarrar ….” eccetera eccetera, da qui in poi non ho più preso nota perché la storia mi disgustava parecchio.

Intanto ci ferma un blocco militare di una pattuglia che si mette ad ispezionare tutte le nostre valige. Lo Stato di Guerrero (nomen omen) è quello in cui al momento c’è più mafia di narcotrafficanti che fanno la spola con la Costa Chica.

Abelardo riprende il suo racconto: e allora ecco che ad Ixtapalapa si crocefigge uno che viene caricato e golpeado come durante il percorso di Gesù, si chiama Abelardo Ayala, ha 27 anni, un figlio di 9 e un bebé di un mese. Dopo aver raccontato tutte quelle cose, ora dunque inizia a dirci che non era solo un sostenitore della confraternita, ma che lui stesso per quattro anni è stato un autoflagellante, e che la cosa lo ha aiutato. Gli chiediamo che cosa intende, in cosa lo ha aiutato? Allora racconta che lui è stato un alcolista pur essendosi sposato a 18 anni perché aspettavano un bambino. Quindi è stato sul punto di rovinarsi sia sul lavoro, che in casa, ha fatto fuori due auto, e la moglie è stata sul punto di lasciarlo per sempre e andarsene con il loro bambino. Così è andato dalla associazione alcolisti anonimi, ma si è trovato malissimo, e poi volevano che andasse là tutti i giorni, mentre lui aveva da lavorare. Ma soprattutto perché li sgridavano e minacciavano e colpevolizzavano, e lui si sentiva malissimo a venire trattato così. E poi non gli piaceva l’ambiente, la gente, era un brutto ambiente. Ci dice che c’è moltissimo il problema dell’alcolismo in Messico, e soprattutto ovviamente negli strati sociali poveri e con difficoltà lavorative o famigliari. Rimproveravano loro soprattutto il modo di pensare e di vivere, facevano insinuazioni pesanti sui loro genitori e i loro famigliari. E così lasciò l’associazione.

Sua moglie si arrabbiò moltissimo per questo, e i suoi genitori erano preoccupati e disperati. E’ così che prese la decisione di fare da sé e impegnarsi con tutta la forza di volontà però per conto suo. Andò in chiesa a pregare il Signore e a promettere. Disse al curato (al parroco) di scrivere per lui un “documento” di impegno formale controfirmato dal prete. Va a casa per dire di questa sua decisione che è oramai tardi, e la moglie nemmeno lo lascia parlare, ma lui le fa sentire il fiato e in quel momento le dice di questo impegno formale che ha preso di fronte al parroco. La moglie è contenta e gli dice che gli da fiducia, ma gli dice anche che gli da ancora solo questa unica possibilità. Lui è contento, ela rassicura che dimostrerà a tutti di che cosa è capace.

Tutto il primo anno è stato terribile. Ora ne sono passati quasi cinque da quel giorno. Per tre anni ha fatto il tagliatore e pulitore di diamanti, poi ha lasciato perché era troppo grande la responsabilità. Da un paio d’anni fa il taxista, una settimana di notte e due settimane di giorno, con la Union de Permisionarios. Una volta è stato usato da delinquenti per trasportare roba rubata; appena se ne rese conto si è dichiarato non disponibile, ma gli hanno piantato una pistola vicino al collo. Per puro caso è passata di lì una bambina (erano le 6 del mattino, e certi negozi fanno quel turno) che si è messa ad urlare e a chiamare suo padre, allora lui ha subito buttato lontano le chiavi ed è scappato dall’altra parte. E’ andato alla polizia a denunciare la cosa, e lì lo hanno trattenuto sotto arresto preventivo, finché le indagini non avessero chiarito il tutto. Intanto i due delinquenti hanno avuto il tempo di dileguarsi. La padrona del negozio più tardi ha accettato di andare a dichiarare che non intendeva che fosse estesa anche a lui la denuncia che intanto aveva presentato contro ignoti. Insomma alla fin fine è andato tutto a posto, e uno dei due è stato trovato e arrestato ed è condannato a quattro anni di galera.

Ora, ripensando a quel che diceva sulla Hermandad, sono tradizioni secolari che qui sono molto più diffuse che da noi, penso a es. alla calzada del acueducto a Morelia, che è una lunga strada parzialmente lastricata sull’argine, che viene tutta percorsa in ginocchio dai penitenti che arrivano alla mèta cioè alla chiesa con la pelle e la carne lacerata. Come d’altronde lo erano le cerimonie e i rituali in certe ricorrenze anche nel nostro Sud, ancora all’epoca di Ernesto De Martino e degli studi dei primi antropologi meridionali, e studiosi del folklore, e della demologia, cioè degli usi e costumi popolari tradizionali. Mentre al giorno d’oggi sono ridotti a fenomeni estremi e marginali, non del tutto approvati neanche dalla chiesa. Coloro che li compiono sono persone che si sentono profondamente in colpa (e in difetto appunto nei confronti dalla generosità dello spirito di Gesù) e in questo modo forse si “liberano” dai gravami e tormenti interiori. Ma forse oramai da noi una persona che arriva a compiere certi atti in una occasione che non sia quella dei rituali e delle cerimonie del folklore locale, sarebbe oggi avviato dai servizi sociali e sanitari verso cure di tipo psichiatrico, mentre invece in quei contesti, come abbiamo visto a Taxco o Morelia, viene generalmente approvato e anzi ammirato da molti altri fedeli…

Sempre Abelardo, in quel profluvio di parole che ci ha comunicato durante il viaggio, aveva raccontato anche che a Taxco ci sono 234 maggiolini VW taxi, e che lui e molti colleghi sono fanatici radio-amatori, e che oltre al divertimento e al piacere della cosa, hanno anche organizzato una specie di società di volontari per dare aiuto e soccorso a chi ha incidenti, o che si perde, o resta senza benzina, oppure è vittima di aggressioni e assalti… Loro si mettono subito in contatto e i più vicini accorrono, poi giungono gli altri, tanto che se c’è un atto di delinquenza, li accerchiano e sono così tanti che quelli non possono fare più nulla, e intanto arriva la polizia. Per cui ad es. diventa difficile fuggire nel tempo fra quando è dato l’allarme e quando la polizia arriva. Hanno avuto coraggio e dei bei successi. Poi si ritrovano nel week-end, per le fiestas, le ferias, eccetera. Lui si è fatto così molti amici in varie città anche lontane.

Gli chiedo come mai abbia sul retro dell’auto una pegatina (una decalcomania, un appiccichino) del PRI, forse per le elezioni del mese prossimo? Mi dice che il partito rivoluzionario istituzionale è oramai una mafia politica inserita in ogni dove nelle istituzioni pubbliche, nei centri di potere, nella amministrazione ad ogni livello. E dunque i dirigenti del sindacato ufficiale dei taxista, e quindi del sindacato nazionale di riferimento, sono tutti del Pri e praticamente ti mettono in condizioni per cui non puoi rifiutarti di mettere l’appiccichino propagandistico. Cioè in realtà loro te lo mettono, e tu devi trovare modo di giustificarti di fronte a loro se lo togli, e intanto così ti metti in mostra, ti dichiari pubblicamente. Allora molti non dicono nulla al momento, ma poi proprio per questo votano diversamente, come accadde appunto alle elezioni scorse. Lui l’altra volta l’aveva tolta e per sua fortuna nessuno se ne era accorto, ma questa volta l’ha lasciata, ma perlomeno ne parla male.

Infine arriviamo a Cuernavaca passando per paesaggi meravigliosi, pieni di verde, con ampi orizzonti, e poi in cui nelle cittadine e nei paesi si vedono fiori in gran abbondanza e di tanti colori, nei viali, nei giardini, nei patii, sulle terrazze, sui balconi. Ripassiamo davanti al nostro albergo che rivediamo con un po’ di nostalgia, e poi con i camiones del grupo de Morelos, partiamo alle 6 p.m e arriviamo all’aereoporto quasi senza accorgerci con un pullman di lusso a 8 €uro. Nel grande caos dinnanzi all’aereoporto, troviamo infine un “combi” che ci porta proprio davanti all’albergo. E qui di fatto il nostro viaggio si conclude.

Ultime osservazioni sulle parole in uso, come ad es. jitomate per pomodori freschi, grandote per piuttosto grandino, jale per tira ovvero pull, taza per wc, escoger per scegliere.

 

Miercoles 7 de septiembre 2005

Siamo al “Fiesta Inn” all’Areopuerto “Benito Juarez” di Ciudad de México, D.F.

Gran abbuffata al buffet, e gran via vai di gente di tutte le parti del mondo che sta qui solo una notte e via. Ci si avvicina una signora e dice “non vi va di andare in bagno?”, e noi un po’ sconcertati restiamo in attesa che aggiunga altro, e dice “regalano un anello alle signore …” e ci fa vedere un anellino che ha al dito. Poi Annalisa va a vedere nel bagno delle donne, ma non c’è nulla e nessuno …

Ma oramai che il viaggio è finito, ci stiamo abituando ai messicani, alla “messicanità”, all’ ambiente, alla mentalità, alle cose, ai modi, al clima, alla vegetazione, ai cibi, ai colori, alle musiche, ecc. e tutto sta diventando se non “normale”, consueto. E’ allora che ci sarebbe bisogno di entrare nel fiume del vivere, lavorare, condividere la quotidianità. La dimensione viaggio sta evaporando.

Uno slogan dice: México, vive lo tuyo ! ed è corretto, è proprio così, ognuno vive le sue esperienze le sue impressioni e sensazioni, ognuno si porterà a casa un suo Messico che vale soprattutto per lui. E poi abbiamo percepito la differenza con il viaggio del luglio/settembre 1979 (forse un giorno mi metterò a ricopiare su file il diario che ho manoscritto su un quaderno): non si tratta solo del fatto che il paese era meno “sviluppato” di oggi, né solo del fatto che noi eravamo una coppietta di due giovani, ma si tratta anche di quel che dicevo prima, cioè che la realtà di un viaggio la capisci bene solo dopo che sei tornato e che è passato abbastanza tempo per apprezzarla e/o per criticarla, ma in ogni modo è unica, è una realtà contestualmente interiore ed esteriore in cui ti immergi con le tue domande e con le risposte che credi di aver trovato, e che non sono quelle attuali. Anche nel medesimo periodo, se due persone simili tra loro per età, idee, mentalità, approccio alle cose, compiono un viaggio identico, passando per gli stessi posti anche solo con uno scarto di una settimana, stanno passando in una realtà diversa, fanno incontri diversi, gli capitano situazioni differenti con cui confrontarsi, ricevono una immagine, una qualità di sensazioni diverse, si fanno idee differenti perché si danno spiegazioni differenti dell’accaduto. Quindi figuriamoci se lo si fa in un momento diverso della propria vita, del proprio percorso di maturazione e di ricerca, entrando in un contesto storico sociale differente. Insomma è tutto un gioco di specchi e di riflessi incrociati, ogni realtà è la tua realtà, ma ogni input che ricevi ti cambia, ti condiziona, ti influenza, ti trasforma, e il ping-pong diviene qualitativamente differente rispetto a quanto vissuto, e poi ricordato e rielaborato ad anni di distanza. E’ un gioco di stimoli e risposte, di verifiche e controverifiche. Quanto si impara viaggiando! È molto più accelerato il ritmo rispetto alla consuetudine quotidiana di casa. Ogni mondo, per es, il mondo che chiami “messico”, ti da qualcosa, ti condce per mano in un percorso, ti fa fare un viaggio di maturazione, quella realtà vivificante lascia un segno, una traccia. Ma anche tu insieme ad altre migliaia di persone venute da fuori lascerai una tua traccia, darai un input inconsueto ad alcuni di quelli con cui ti sei incrociato, sarai un esemplare di differenza. Si prende, ma anche si da. La realtà del tuo mondo “messico” è come una grande madre accudente, che si prende cura di educarti, di formarti, di nutrirti, che ti resterà dentro con segni che solo col tempo potrai meglio capire. E il tuo “messico” magari comincerà a mancarti, ne sentirai la nostalgia, ti creerai altre aspettative per un nuovo viaggio, che in parte non saranno soddisfatte o confermate o verificate, ma ce ne saranno di nuove e impreviste. E’ questo un vero viaggio, cioè un segmento intenso del tuo generale viaggio della vita. Si può tranquillamente anche tornare in certi luoghi amati, ma bisogna sapere che non sarà più mai lo stesso viaggio già fatto, e questo è molto bello e stimolante. Quindi potresti trovare un tuo “messico” anche in altri luoghi.

   

Carlo Pancera

carlo.pancera@unife.it

 

 

 

 

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