VIAGGIO NEL MANI
Grecia
SULLE TRACCE DI PATRICK LEIGH FERMOR
Racconto di viaggio dal ventidue giugno al primo di luglio 2013
Introduzione
Credo fosse giugno del 2012 quando con Lilia e Stefania, in una di quelle chiacchierate che servono a ritardare il ritorno a casa dopo una cena, venne fuori di nuovo il discorso sul Mani, una delle destinazioni più “estreme” della Grecia. Fu in quella regione che Patrick Leigh Fermor fece il suo viaggio con sua moglie Jean, poi raccontato con garbo e buono stile nel libro “Mani, Viaggio nel Peloponneso”. Era passato qualche anno da quando lo avevamo letto e da quella lettura era nato il nostro desiderio, rimasto per tanto tempo inappagato, di fare una vacanza di nuovo insieme seguendo quegli stessi itinerari.
Periodicamente se ne parlava ma capii che se non me ne fossi occupato io nessun altro lo avrebbe mai organizzato. Quella sera di giugno, tornando a casa, decisi di trasgredire per una volta alla mia consuetudine di fare in Grecia la solita vacanza per mare e tornato a Santo Domingo, nelle sere tediose, e durante le insonnie, mi sono divertito a progettare il viaggio. Qualche mese dopo inviai la prima proposta a Roma. Mi aspettavo qualche mail entusiasta e invece i miei amici mi chiesero se non ero matto a organizzare una vacanza con un anno di anticipo, scrissero che non potevano prevedere dove sarebbero stati nel giugno del 2013, né gli impegni che avrebbero avuto. Risposi che bastava semplicemente riservassero quelle date da subito come: “Vacanza nel Mani” e continuai a divertirmi con il progetto. Il viaggio nel Mani sulle tracce di Patrick Fermor infine è stato organizzato, lo abbiamo appena terminato e queste sono alcune note, opinioni e commenti in liberta, che si riferiscono a quei dieci giorni.
Appena siamo arrivati all’Herodion Hotel di Atene, che è in una centralissima via ai piedi dell’Acropoli, nel momento di consegnare i documenti mi resi conto di aver lasciato a Roma il portafoglio con carte di credito e patente, fui preso dal panico, ma dopo pochi minuti lo considerai un augurio di buon viaggio, non avrei guidato macchine e sarei dovuto stare più attento alle spese. Naturalmente ero entusiasta di essere di nuovo in Grecia, ero stato in questo paese talmente tante volte, e ricevuto tanta allegria, simpatia e benessere che il solo mettervi piede di nuovo mi faceva star bene. In Grecia ho viaggiato moltissimo, per terra e soprattutto per mare. Ho navigato tra le isole ioniche e quelle inospitali del Peloponneso poi via via fino all’arcaica e torrida Creta, al rosario delle incantate isole del Dodecanneso e alle ruvide, selvatiche Sporadi. Ho navigato in diagonale e in linea retta per tutto l’Egeo, ormeggiato e salpato da tutti i porti delle ventose Cicladi, dove al mio arrivo avevo sempre l’impressione che mi si stesse aspettando, quelle sono isole di sirene, che mi blandivano poi alla partenza affinché restassi ancora un poco. Troppi sono stati i momenti passati in beatitudine, con mezzo bicchiere di ouzo da bere lentamente mentre imbruniva.
Io, Paolo e Ninni, in silenzio, perché non c’era bisogno di dire niente. Né più, né meno che mezzo bicchiere di ouzo e gli amici al tuo fianco, all’imbrunire in una qualunque isola greca. Quante partite di scopetta ho vinto e perso con Giorgio sul ponte di un caicco, e quante chiacchierate interminabili con Lilia, e Vittoria e Stefania e Osvaldo, sulla banchina di quanti porti di Grecia, ai tavoli di quanti bar ormai deserti dato l’ora tarda, o nel pozzetto di caicchi, parlando e ridendo sottovoce per non svegliare gli altri, addormentati in basso e perduti in sogni, che forse erano reiterazioni oniriche di partite a scopetta o di chiacchierate ai tavoli di bar deserti a tardissima ora la notte, perché in Grecia realtà e sogno sono simmetrici, e si confondono e alternano continuamente.
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Quando sono di nuovo in Grecia, in questa terra eterna e immutabile, sotto la luce trascendente di un cielo che non trovi da nessun’altra parte al mondo, improvvisamente tutto, proprio tutto, anche i gesti più semplici come bere un bicchiere d’acqua, leggere un libro, aprire una porta… Diventano momenti indimenticabili della tua vita e li godi e assapori con gusto pieno, e questa pienezza così particolare ti sorprende tanto che ti viene voglia di dare una testata contro il primo muro che ti capita per vedere cosa succede. Ma come faccio a spiegarlo a quelli che mi chiedono continuamente. “Dove vai in vacanza quest’anno? Ancora in Grecia? Ma non c’eri già stato? Che ci troverai poi in Grecia non lo so!”. A me verrebbe voglia di spiegarglielo, ma è troppo complicato e rispondo: “ Hai ragione, non lo so neanche io .”
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Atene, tranne il Partenone cosi marcatamente visibile nel profilo della città, sembra per il resto voler nascondere le tante testimonianze della sua storia straordinaria, confondendole e disseminandole nella confusione anarchica delle case e delle botteghe nei mille vicoli di Monastiraki e della Plaka, tanto che il turista, dopo il Partenone, il Museo dell’Acropoli, e il Museo Archeologico, raramente prolunga la sua visita per vedere e conoscere altro. Ma il centro di Atene è pieno di cose interessanti che vale la pena vedere. La Biblioteca di Adriano ad esempio, o la Stoà di Attalo, il Theseion, la Torre dei Venti, il tempio di Zeus Olimpio, il quartiere Keramiko che è stato l’antico cimitero di Atene dove ci sono bellissime antiche tombe, da li partiva la Via Sacra verso Eleusi e la Panatenaica verso l’Acropoli. La parola “ceramica” proviene dal nome di questo quartiere, dove lavoravano i vasai). Più a sud, un po’ nascosta tra le case, c’è l’antica Agorà, vale la pena visitarla considerando che proprio in quell’area si svolgevano le assemblee, le prime democratiche assemblee della storia, ed è proprio nel Buleterion che Socrate fu accusato e condannato, e sempre in quell’area si esercitò per lungo tempo l’ostracismo che colpì molti grandi personaggi e persino Pericle accusato di tirannia. Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che in quell’Agorà, attraverso le assemblee di cittadini liberi, nacque l’embrione della democrazia che poi crebbe, si sviluppò e diffuse in tutto il nostro mondo occidentale.
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In una stradina pedonale a pochi passi dall’albergo, c’erano alcuni piccoli ristoranti senza pretese con tavoli e sedie all’ombra di grandi tende, ci fermammo in uno di questi a mangiare qualcosa in fretta per avere il tempo di visitare il vicinissimo nuovo Museo dell’Acropoli di cui si vedevano le grandi vetrate dietro un alto muro. Ricordavo la sua inaugurazione il 19 giugno del 2009, quel giorno io con Jenny e gli altri miei amici dominicani con i quali sarei partito il giorno dopo per una crociera nelle Cicladi eravamo arrivati per visitarlo, ma era chiuso al pubblico. Potemmo però entrare anche noi tra una folla di invitati , esibendo le nostre tessere dell’ICOM, International Council of Museum. La direttrice ci prese in simpatia e ogni dieci minuti era da noi a spiegarci qualcosa, ci raccontò che il progetto aveva sollevato a suo tempo una montagna di polemiche, che il museo era di 14000 mq e ospitava più di 4000 pezzi, e varie altre amenità poco interessanti. Lo spazio interno è bellissimo e ti accoglie nella hall d’entrata con una larga rampa che sale al primo livello e che ricorda tutte le rampe che salgono alle tante acropoli greche. Le cariatidi a metà del percorso, (una è una copia dell’originale al British Museum), sembravano riceverci come padrone di casa. L’enorme sala delle sculture al secondo livello, era illuminata dalla bella luce naturale che entrava dalle grandi pareti vetrate, oltre le quali anche l’Acropoli e il Partenone così vicini, entravano nel campo visivo. Le tante opere, Kores e Kouros, distribuite per tutta la sala come muti personaggi di una pièce teatrale, si lasciavano vedere integralmente e non solo frontalmente come capita in altri musei. Salendo ancora si arriva a un’altra grande sala, fuori asse rispetto al resto dell’edificio, quest’ambiente anch’esso vetrato, ha lo stesso orientamento del Partenone che vedevamo ormai quasi al nostro livello. Al suo interno, il simulacro del tempio è stato costruito nelle stesse dimensioni dell’originale sull’Acropoli e contiene nella giusta sequenza, ma all’altezza degli occhi per poterne godere la bellezza, tutto il ciclo delle metope e del fregio, purtroppo con molte parti in copia. Queste parti mancanti, trafugati, anzi rubati da lord Elgin e vendute al British Museum di Londra, non sono state ancora restituite malgrado le pressanti richieste fatte dallo stato greco, con il risibile pretesto che in Grecia non c’è per loro una collocazione adatta.
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Il 22 giugno era il compleanno di Daniela, da Santo Domingo per sicurezza mesi prima, avevo riservato un tavolo alla Taberna Strofy, la taverna da me scoperta in uno dei miei viaggi di molti anni fa’, allora era solo un buon ristorante con prezzi accettabili, una piccola porta di legno dava accesso a una stretta scala, si saliva oltrepassando il piano della cucina, fino a una terrazza con tavoli e sedie, davanti a tutta l’Acropoli con Propilei e Partenone così vicini che si aveva l’impressione di poterli toccare con mano. Oggi con il successo è molto cambiata, ha assunto un’aria di falsa eleganza da ristorante gourmet alla moda, ha un sito internet di buona grafica da dove riceve prenotazioni da tutto il mondo ed è frequentato, quasi esclusivamente da stranieri, rimane tuttavia un’esperienza notevole cenarci la sera. Alla fine del pasto, inaspettatamente e arrivata anche una torta con candelina, per festeggiare l’ignara Daniela. Si era fatto buio e il Partenone con i Propilei al calare della notte si erano a poco a poco illuminati fino a diventare sfavillanti, mitologiche navi spaziali magicamente immobili sulla notte di Atene.
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A colazione ero sceso per primo e nella caffetteria dell’albergo, con me c’era solo una vecchia coppia d’inglesi che studiavano silenziosamente itinerari indicando con il dito su una mappa. Avevamo deciso di salire all’Acropoli che, sebbene visitata molte volte, rimaneva tuttavia un momento irrinunciabile del nostro viaggio. Oltre la vetrata che dava sulla via vedevo passare pullman di turisti diretti proprio all’Acropoli che era poco più in alto, esattamente alla fine della nostra strada. Preoccupato di tanto traffico, quando più tardi mi raggiunsero gli altri, mentre loro facevano colazione, Mirella ed io salimmo a piedi per capire se sarebbe stato possibile entrare, ma tornammo subito indietro perché la folla all’ingresso e alla biglietteria era quella delle domeniche all’entrata degli stadi di calcio. Decidemmo quindi per un programma più frivolo; Un lungo giro per il variopinto e caotico quartiere turco di Monastiraki che è una specie di bazar a cielo aperto, e a quello accanto della Plaka, pieni entrambi di gente in movimento, ristoranti, kafenion e gelaterie, negozi di tappeti finti antichi, abiti usati, pessimi quadri e molte brutte riproduzioni di varie dimensioni in finto bronzo, finto marmo o finto avorio di quasi tutto quello che s’incontra nei musei greci. Dopo circa un’ora di giri nel caos e nel caldo, abbiamo incominciato a salire verso Anafiotika, uno dei quartieri più pittoreschi di Atene. In realtà Anafiotika è un piccolo villaggio cicladico incastonato nei contrafforti nord dell’Acropoli. È un saliscendi di strette viuzze torte e scaloni per giganti, un labirinto di muri bianchissimi e gatti sospettosi, vi furono alloggiate le famiglie dei muratori provenienti da Anafi, che dovevano costruire il nuovo palazzo del re Ottone di Baviera e questi si costruirono anche una replica della loro Chora sperduta nel sud del Egeo. Avremmo dovuto incominciare a salire per visitarlo ma tutti erano già troppo stanchi e dopo la prima rampa di scale si fermarono in blocco in una stradina in forte pendenza, proprio davanti a un ristorante con i tavoli di legno paurosamente inclinati. In un attimo li vidi tutti scomodamente seduti e inclinati come sotto un forte vento. Me ne andai con Mirella che non vuole rinunciare mai a nulla, chiedendomi come avrebbero potuto mangiare eventualmente una minestra su quei tavoli. Li ritrovai un’ora dopo, al mio al ritorno, Mirella che nel mio giro avevo perduto in qualche vicolo, era con loro, anche lei scomodamente seduta.
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Nel pomeriggio due taxi ci portarono al Museo Archeologico Nazionale dove tutti noi eravamo già stati altre volte, qualcuno era contrario a tornarci perché “l’aveva già visto” ( come se si trattasse di un film). Dopo poco ci siamo dispersi tutti, ognuno seguendo il proprio istinto e i propri gusti, fermandoci in alcune sale e saltandone altre. Io mi misi a fotografare in dettaglio, tutti i panneggi delle statue, ovunque ci fosse una scultura con un chitone o una tunica drappeggiata, mi resi conto che, in molti casi alcuni panneggi erano molto simili, ad esempio quelli frontali sui seni delle statue femminili, come se ci fosse stata una maniera riconosciuta e codificata, un canone, per rappresentarli.
Non dobbiamo dimenticare che molti degli scultori di quelle statue erano in realtà artigiani che lavoravano in botteghe su commissione, solo alcuni di loro non riproducevano ma creavano. Policleto, uno dei grandi scultori classici attivo fra il 460 - 420 a.C. nel suo Doriforo (portatore di lancia, I secolo a.C.), applicò un sistema di proporzioni e rapporti da lui poi codificano nel cosidetto “Canone di Policleto” che continua ad essere applicato ancora oggi nelle accademie d’arte. A proposito di riproduzioni forse pochi si ricordano o sanno che la maggior parte delle sculture di marmo di eroi o divinità dell’Olimpo greco presenti nei musei, sono copie di epoca romana, spesso di opere originali in bronzo. Tornando a Policleto, di lui non ci sono pervenute sculture, le tante che conosciamo sono anche loro copie di epoca romana., e del famoso Doriforo, una delle sue opere più replicate. La nostra visita si prolungò moltissimo, e senza fissarci un appuntamento, la stanchezza e la fame ci fece incontrare tutti al bar del grande patio interno a mangiare panini con salciccia e bevendo birra Mithos.
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Quando siamo usciti, la piazza era assediata ancora da un calore d’altoforno, sarebbe stato da masochisti fare un qualunque programma di visite archeologiche all’aperto. Lilia propose di salire a bere qualcosa nel roof garden dell’Hotel Gran Bretagna in piazza Syntagma, un albergo molto famoso, ricco di storia e passaggio obbligato di tutte le personalità in transito per Atene, salimmo all’elegante terrazza e trovammo posto proprio vicino al parapetto, tutta la città biancheggiante sotto il sole del pomeriggio, era distesa sotto di noi come un prezioso tappeto di terrazze le une sulle altre all’infinito, adagiate sulle ondulazioni del terreno fino ai piedi delle colline lontane e risalendole per un breve tratto, come la schiuma di un’onda sulla battigia. Solo l’Acropoli, con i suoi templi dorati e lo stravagante bernoccolo del Licavetto contornato di alberi, emergevano da quel mare di terrazze opalescenti che noi osservavamo dall’alto del roof garden come dal ponte di una nave. Quando siamo scesi per tornare in albergo annottava, di fronte al monumento ai caduti c’erano gli euzones nelle loro antiche e buffe divise, Il loro cambio della guardia potrebbe essere scambiata per un’astratta coreografia del Bauhaus. Facevano anche percorsi di marcia lentissimi, ritmati da strane pause come in un rallenti cinematografico seguito da un fermo immagine che nello spazio ristretto tra le loro garitte e il muro del Parlamento, sembravano occulte traiettorie geometriche da teorema euclideo. Alla fine tuttavia mi resi conto che quel marziale rito tersicoreo mi aveva completamente stregato per quindici minuti, facendomi tornare il bambino che ero nella mia infanzia, davanti ai teatrini di marionette. Alla fine anche gli euzones s’immobilizzarono come marionette senza fili, con il loro fuciletto proteso in avanti e lo sguardo vitreo, fisso sull’infinito. Un inserviente andò ad asciugar loro il sudore con un pezzo di stoffa, come farebbe un puparo con i suoi pupi alla fine dell’atto. Quando tutto finì e la notte incominciava ad accendere tutte le sue luci lasciammo i due euzones nella loro fissità metafisica e tornammo in albergo.
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Dovevamo ritirare le due auto prenotate da Roma, l’agenzia era a pochi passi dall’hotel e miracolosamente, alle 10,40 eravamo già in cammino per Methoni. Trovammo l’autostrada per Corinto e Pilos solo dopo esserci, per una ventina di minuti, perduti e ritrovati in uno stradone alla periferia nord di Atene. Coloro che non volevano restare anche il secondo giorno avevano cambiato opinione e trovato la città cambiata in meglio rispetto agli anni della loro ultima visita. Non c’erano evidenti segni della grande crisi attuale nella quale sappiamo, si dibatte questo paese fratello, ma lungo il percorso, dopo essere usciti dalla città, questi segni hanno cominciato tragicamente ad apparire. La perfetta autostrada per Corinto e Pilos era poco trafficata di auto sebbene fosse tempo di vacanze, erano pochissimi anche i camion che trasportano merci, e soprattutto non si vedeva nessun cartello stradale con la pubblicità, neanche quelli di multinazionali come Coca-Cola, Samsung. Apple, o di auto come Nissan, Mercedes ecc. Evidentemente anche le multinazionali straniere non hanno ritorni sufficienti da giustificare campagne promozionali. Addirittura i tralicci di sostegno dei grandi pannelli, abbandonati alle intemperie e senza manutenzione, erano in molti casi parzialmente distrutti, facendo capire che il fenomeno era incominciato da molto tempo.
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Costeggiavamo sulla sinistra il golfo del Saronico con qualche nave alla fonda, la penisola di Salamina e l’isola di Egina apparivano a tratti in veloce sequenza tra gli alberi e le case, poco dopo Megara saremmo dovuti uscire per prendere la strada locale per Corinto e affacciarci poi sul canale che resta sempre una divertente curiosità turistica, ma ci rendemmo conto di aver oltrepassato l’uscita giusta, così abbiamo continuato per molti altri km di perfetta autostrada, attraverso colline coltivate a grano ed estesi oliveti, solo ogni tanto qualche basso edificio industriale disturbava con i suoi volumi geometrici le dolci colline d’Arcadia che stavamo attraversando. Dopo esserci inoltrati nella Messenia ancora più verde e ricca, arrivati alla diramazione che ci avrebbe portato a Messene, (la citta fondata nel 369 a.C. dal tebano Epaminonda e dalla quale partirono i coloni che fondarono la nostra Messina). Per un mio errore, Il percorso diventò lunghissimo, ma infine, dopo molte richieste d’indicazioni. Arrivammo a una locanda-ristorante con terrazza affacciata proprio sui ruderi dell’antica città in verità non troppo riconoscibili. L’area archeologica si distendeva sotto la terrazza, dove stavamo mangiando con scarse e confuse tracce di edificazioni, pochi semicerchi concentrici di un teatro, poi forse un’agorà con ai lati la successione delle colonne mozze di una stoà e altri segni incerti di edifici tra il verde di prati ben curati che lasciavano immaginare una città molto estesa e ricca. Prima di ripartire visitammo anche tratti di possenti mura difensive e una splendida esedra che era stato uno degli ingressi fortificati dell’antica Messene, oltre la quale si accavallavano verso nord, una dietro l’altra, le mille colline a oliveti della Messenia.
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Eravamo in cammino lungo una strada provinciale che a ogni curva rivelava porzioni lontane della piana di Navarrino e lo squarcio blu del suo grande golfo, ci fermammo infine, nel piccolo porto di Pilos sotto gli ombrosi e giganteschi platani di una piazzetta al bordo dell’acqua dopo aver invano cercato di raggiungere la famosa mezzaluna turchese della spiaggia di Voidokilia. Erano circa le sei del pomeriggio, c’era ancora tanta luce, era in realtà il nostro primo giorno di vacanza nel Peloponneso, dopo qualche gelato e dopo esserci riposati un poco della stanchezza del viaggio in auto, siamo ripartiti per Methoni alla ricerca del nostro albergo.
Il rustico e dimesso “Panorama Apartaments” che avevo prenotato, aveva dei miniappartamenti molto semplici, con terrazze aperte a sud davanti al golfo, e a Methoni con le sue poche case raccolte intorno al porto. Sul suo lato occidentale, una cupa fortezza si prolungava come una lingua gigantesca di terra bassa cintata da mura entrando in mare per un mezzo km fino a una veneziana “Porta de Mar”. Questa severa costruzione merlata, era separata dall’abitato da un fossato che finiva in un tratto di spiaggia deserta. Un poco separata dalle mura, sulla spiaggia c’era una piccola costruzione in pietra, forse una vecchia casamatta che qualcuno aveva trasformato nella cucina di un ristorante aggiungendo poi una bassa tettoia di legno dipinto di azzurro, pochi tavoli, un certo numero di sedie impagliate e qualche rara lampadina ondeggiante nella brezza. Naturalmente è proprio lì che abbiamo cenato più tardi, ancora triglie fritte freschissime e gamberi, greek salad e retzina che ormai veniva bevuta con gusto da tutti.
Durante la cena il brusio molesto di un lontano generatore di corrente si mescolava con lo sciabordio delle onde che quasi venivano a lambirci i piedi. Infine per esagerare con la straordinaria messinscena, è sorta da un mare di pece, un’enorme, sanguigna luna che ha paralizzato per un breve intervallo le nostre chiassose conversazioni.
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Le piccole stanze claustrali del “Panorama Apartaments” e la brezza notturna hanno assecondato i nostri sonni e dopo il risveglio abbiamo caricato i bagagli e siamo andati nel piccolo bar di una piazzetta di Methoni di fronte al mare a consumare con tutta calma una vera colazione greca con uova fritte, yogurt, miele, greek coffee e grandi spremute d’arance. Alla partenza, per non ripetere un lungo tratto di strada dove eravamo già passati il giorno prima, avremmo dovuto prendere la strada per Koroni, altro castello veneziano sulla punta sudorientale della Messenia, ma abbiamo rinunciato, cosi anche Koroni va ad aggiungersi alle località saltate dal programma. Il nostro destino era Kardamili, centotrenta Km verso oriente. Abbiamo attraversato tutta la regione fino a Kalamata che forse avrebbe meritato una breve sosta, ma non ci siamo fermati.
Andrea che guidava l’auto di testa con me come “navigatore” ha la tendenza a non fermarsi se non gli si da un largo preavviso, probabilmente non ci siamo persi nulla, il percorso lungo il porto lasciava vedere grigi edifici industriali, magazzini polverosi e cataste d’imballaggi. Uscendo dalla città la strada si è rimpiccolita, siamo entrati nel Mani e abbiamo incominciato a percorrere 20 km lungo la costa attraversando piccoli borghi marini con belle terrazze sull’acqua, fin quando la strada si è ulteriormente ristretta tra estese coltivazioni di olivi, fino a Kardamili, dove siamo arrivati affannati verso le tre del pomeriggio.
Eravamo arrivati nel posto mitico di cui avevamo parlato per anni. Il luogo dove Patrick Leigh Fermor aveva passato con sua moglie Joan, sessanta anni della sua vita.
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Il “Melitsana Village Hotel” dove avevo prenotato era fuori del paese, verso nord alla fine di una stradina di tre km lungo la costa rocciosa. Era una struttura moderna, di linee e volumi semplici, con degli appartamenti in pietra di uno o due piani sparsi in un uliveto al bordo dell’acqua. Dopo aver controllato ognuno la sistemazione di tutti gli altri in una vociante processione, e fatto tutti i commenti possibili sulle diversità delle sistemazioni, ci siamo rinchiusi nelle nostre tane climatizzate, lontano dalla calura e dal frinire delle cicale. Io che non faccio sieste e non ho una compagna con cui polemizzare, ho fatto una lunga doccia fredda, poi mi sono messo a leggere, poi a scrivere qualche nota per il diario, infine, annoiatissimo e impaziente, decisi di andare in paese per conoscerlo, ma non avendo ne auto ne patente, mi sono avviato a piedi sotto un sole spietato fino a Kardamili che non mi ha fatto però inizialmente una grande impressione. Questo borgo cosi famoso è quasi soltanto una doppia fila di case anonime ai lati della strada provinciale, non aveva nulla che giustificasse la scelta così estrema di Fermor di passare qui tanti anni della sua vita, anche se in realtà la sua casa è in una bella baia vicina.Kardamili insomma non corrispondeva per niente ne con quello che avevo immaginato ne con la descrizione di un borgo turrito che io vagamente ricordavo di aver letto. Sono andato a rileggere quel passo dove Fermor scrive: “Era un borgo diverso da tutti quelli che avevo visto in Grecia. Le case, simili a castelletti di pietra dorata, con torrette a pepaiola d’aspetto medioevale, erano sovrastate da una bella chiesa.”
Lui ne fù affascinato e si rallegrò del fatto che la guida ne parlasse citando solo lo scarso numero di abitanti, desiderava che rimanesse sconosciuta al turismo il più a lungo possibile. Come abbiamo visto, il turismo è arrivato e probabilmente in gran parte a causa proprio del suo libro. Il sapore di quella Kardamili fermoriana doveva tuttavia essere rimasto, almeno in alcune zone nascoste, mi misi quindi alla ricerca della Kardamili celata, pensai di trovarla forse nei vicoli verso il mare, ma no, la Kardamili di Fermor, era altrove e l’avrei cercata con calma in un altro momento considerando che lì avremmo passato due giorni. Nella ricerca trovai però un simpatico bar con un insolito nome francese, “Aquarelle”, con pergola proprio sulle rocce dove s’infrangevano le stanche onde di un mare quasi calmo.
Mi misi a leggere la guida del Peloponneso che avevo portato con me insieme al moleschine e ordinai anche la spremuta d’arancia con ghiaccio che avevo visto servire a un tavolo vicino, poi incominciai a osservare i pochi clienti seduti con aria tra pensosa e annoiata su quella terrazza, credo fossero tedeschi, notai che tutti avevano una certa schiva eleganza, le donne con capi semplici di buone stoffe a disegnini minuti, avevano l’aria di persone che erano in qualche albergo o pensione non per due soli giorni come noi, probabilmente erano i tedeschi “caparbi arrampicatori del Taigeto” come erano stati definita dalla guida che stavo leggendo, dove lessi anche un'altra notizia, che però conoscevo già, quella che definiva il “Lela’s Taver ” il miglior ristorante di Kardamili”. E di lato all’acquarelle, guarda a volte il caso, c’era proprio l’insegna del “Lela’s Tavern”.
Prenotai subito per otto e tornai alle mie indagini antropologiche e alle spremute d’arancio, stavolta con aggiunta di Campari. Tra le persone che erano con me su quella terrazza, c’era a un tavolo anche un tipo alto e allampanato con pesanti birkenstock ai piedi e una fragile moglie davanti. Aveva la faccia dura e abbronzata di un montanaro e occhi che denotavano una certa risolutezza, era quasi sicuramente tedesco e certamente un arrampicatore caparbio come la definizione della guida. Me lo immaginai risalire i canaloni franosi del Taigeto a grandi passi decisi, con la mogliettina arrancante a centinaia di metri più in basso. Sulla vetta mi sembrava di vederlo rivolto ad ammirare commosso i balzi del monte appena conquistati come in quel famoso quadro del “romantico” Caspar David Friedrich. Magari ascoltando dal suo I.POD brani del “Sigfrido” di Richard Wagner, un altro romantico tedesco.
Quando incominciavo ormai a sentire una leggera ebbrezza da alcool mista a noia, e avvertivo un gran desiderio di andarmene a dormire, arrivò il gruppo degli amici in un alone di vaporosa, fragrante eleganza un po’ anni settanta, impegnati in un allegro cicaleccio di meraviglia per la bellezza di quella pergola sull’acqua. Mangiammo poi benissimo in una terrazzetta separata del “Lela’s”, unico tavolo da otto, sotto tralci di vite e con la risacca nelle orecchie. Durante la cena Renè pose questo strampalato quesito che vale la pena ripresentare esattamente: ”Stabilito che la circonferenza terrestre è di 40.000 km. Se per astratta ipotesi si costruisse un muro alto un metro, lungo tutto l’equatore, la lunghezza della circonferenza terrestre di quanto aumenterebbe?” Incominciò una discussione infinita, con penne e matite, tovaglioli di carta per fare calcoli, cellulari accesi nella funzione calcolatrice, ognuno con il suo sistema e qualcuno dando anche lunghezze a capocchia, sperando di indovinare “ 70 metri?, Un kilometro?”, qualcuno chiese “Ma perché sul equatore?” Siamo andati avanti con questo rompicapo enigmistico per circa venti schiamazzanti minuti, scandalizzando certamente i compassati arrampicatori tedeschi degli altri tavoli. Infine René che sembrava conoscere già il risultato, presentò un suo calcolo bislacco dal quale la circonferenza risultava più lunga di un solo metro. Questo scatenò un putiferio che si calmò poco dopo, per l’arrivo delle ordinazioni. Dopo aver rispolverato tra confuse memorie scolastiche, circonferenze e diametri, moltiplicazioni per 3,14 e divisioni per 6,28, ognuno certo del suo risultato, dimenticammo tutto e ci mettemmo a mangiare di buona lena. I miei calcoli come quelli di Stefania, portarono l’allungamento a 6,28 metri, oppure 62,80. ma forse 628. Non sapendo dove mettere la virgola lascio ad altri la soluzione del problema !!
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Siamo rimasti a Kardamili anche il secondo giorno come previsto e poiché tutti avevano già mostrato risvegli difficoltosi e per rianimarsi si dilungavano in colazioni svogliate, io, Stefania, Lilia, Mirella, con Daniela alla guida decidemmo di andare alla ricerca della casa di Fermor, sapevo all’incirca, dove avrebbe dovuto essere e dall’alto di una curva della strada costiera ne vedemmo una parte, con un portico ad archi coperto da un tetto di tegole rosate parzialmente nascosto dalle chiome di qualche pino mediterraneo. davanti alla casa c’era un bel giardino che finiva sulle rocce di una piccola baia azzurra. Poco dopo trovammo anche la stradina di sassi che scendeva in forte pendenza verso la casa. Daniela ci portò coraggiosamente fino al cancello della villa che però era chiuso, c’era anche una vecchia auto messa di traverso, forse abbandonata lì di proposito. Oltre gli alti cespugli dietro alla cancellata ossidata sapevamo esserci la casa ormai abbandonata di Patrik Leigh Fermor. Gli arbusti selvatici e le stoppie secche erano cresciuti disordinatamente tutt’intorno sbarrando quasi completamente il passaggio e si avvertiva sotto il sole ardente e l’aria immota, un senso di fatale, inevitabile rinuncia. Cosi abbiamo ripreso la macchina e senza dire una parola durante tutto il percorso siamo tornati in albergo.
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Alle due del pomeriggio, dentro un bell’oliveto, altro pasto nel ristorante ”Elià” (nome greco dell’olivo), Ormai il nostro piccolo “Grand Tour” sembra cadenzato da pranzi e cene come punti e virgole nel racconto di un viaggio gastronomico alla ricerca degli autentici sapori mediterranei, poi dal materialismo del cibo siamo passati con disinvoltura alla spiritualità del pellegrinaggio tanto atteso fino alla chiesetta di Agios Nikolaos, il luogo tanto amato da Chatwin in vita, dove per suo desiderio, il suo amico e nostro mentore Fermor aveva disperso le sue ceneri. Avevo studiato l’itinerario sulle mappe di Google, e risalendo i sinuosi tornanti per raggiungerla, dopo una breve sosta nel piccolo borgo di Proastio, abbiamo continuato per altri chilometri di tortuosa ascensione fino a Exochori, e da li, dopo essere scesi e risaliti da una vallette siamo arrivati in un minuscolo borgo di poche case malandate, un pastore senza neanche aspettare che io domandassi m’ha fatto segno di girare dietro a un muro di mattoni e lì c’era un fazzoletto di terra con quattro o cinque olivi e verso la valle la chiesa di che stavamo cercando. Agios Nicolaos era in realtà una minuscola cappella bizantina fin troppo deteriorata, cosi piccola che se non fosse stato per la cupoletta di vecchie tegole sconnesse che si ergeva tra le due falde del tetto, avrebbe potuto essere scambiata per uno di quei piccoli ripostigli per gli attrezzi che s’incontrano spesso nelle campagne. Aveva la sua facciata di miniatura a strapiombo sulla valle di Kardamili di cui vedevano lontano i tetti di un rosso appena sfumato dalla distanza davanti a una larga fascia di mare cilestrino. Il luogo che Bruce Chatwin aveva definito il più bello che avesse mai visto, possedeva davvero qualcosa d’incantato, la sua posizione cosi protesa sulla valle sottostante gli conferiva un’aria di nobile distinzione, sul retro della chiesetta sopra un basso ripiano della muratura, ignote mani avevano deposto una patetica foto di Chatwin trattenuta negli angoli con piccole pietre. Siamo rimasti per un poco a chiacchierare sul fronte della chiesina davanti alla vallata immensa, come si fa nei cimiteri dopo il funerale di un amico perduto, era un modo per rendergli un nostro postumo, affettuoso omaggio. Avevo portato con me un po’ di pane che abbiamo sbriciolato dietro la chiesetta, tra gli olivi insieme al contenuto di una bottiglia di retzina assecondando un suo desiderio espresso prima che morisse.
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Nella mia divertente ricerca di documenti che riguardassero la regione, mi ero imbattuto in Kazantzakis scoprendo che Zorba il Greco, il libro che gli diede la fama, era in gran parte autobiografico. Kazantzakis, filosofo e scrittore, era nato a Creta nel 1883 in Megalokastro (l’attuale Heraklion) ed ha passato tutta la sua vita nella continua ricerca della spiritualità e di se stesso. Viaggiatore instancabile in Europa e nel mondo si fermò per qualche anno anche a Stoupa, pochi km a sud di Kardamili, proprio lungo la strada che avremmo dovuto percorrere nel nostro viaggio verso Areopoli. Nikos Kazantzakis era arrivato lì dopo aver passato circa sei mesi in ritiro spirituale in uno dei monasteri del Monte Athos nella Penisola Calcidica, li aveva stretto amicizia con un avventuroso, estroverso greco di 16 anni più grande di lui, che era arrivato al monastero con il proposito di farsi monaco dopo la morte della moglie. Si chiamava George Zorbas, era macedone, figlio di un ricco allevatore di pecore dopo aver praticato vari mestieri aveva finito per lavorare in una miniera dalla quale fuggì dopo qualche anno con Eleni, la giovane figlia del capataz. Malgrado o forse proprio per questo, il loro era stato un matrimonio felice nonostante fosse stato costellato dai tradimenti di George tanto che Eleni prima della sua prematura morte gli diede ben otto figli.
Nikos Kazantzakis dopo l’esperienza di Monte Athos arrivò a Stoupa, dove aveva comprato (o forse ereditato) una miniera di lignite, affittò una piccola casa su uno scoglio a lato della spiaggia di Kalogrìa, ed è lì che riceveva ogni sera, da George Zorba le informazioni sull’andamento dei lavori in miniera. L’impresa non funzionava e fu portata avanti fino all’inevitabile fracasso, ma l’esperienza e l’incontro fra due anime solo apparentemente incompatibili sarà raccontata nel libro “Zorba il Greco”, ambientato pero da Kazantzakis nella sua natia Creta. Va da se che volessi vedere la spiaggia di Kalogrìa e la casa dove Nikos Kazantzakis aveva passato quel periodo della sua vita, (di quella casetta nell’inesauribile miniera d’informazioni del WEB avevo trovato anche una foto dell’epoca cosi come la foto del vero Zorba, in mezzo a centinaia di foto di Anthony Queen), dopo qualche incertezza di percorso e resistenza da parte di alcuni di noi, finalmente siamo arrivati. La spiaggia era un triangolo di sabbia pieno di ombrelloni aperti su un esercito allineato di corpi al sole, era contornata su due lati dalle tamerici più rigogliose che abbia mai visto e sul lato destro, sopra un rilievo di roccia piatta, c’era ancora sotto un albero, come nella mia vecchia foto, la casina a un piano con tetto a due falde che ospitò lo scrittore. C’erano anche pochi semplici ristoranti a lato di quella spiaggia e in uno di loro ci rifugiammo per dissetarci.
Purtroppo quella non era più il luogo dove Zorba aveva ballato e discusso della miniera con Kazantzakis, le loro tracce si erano perdute su quella sabbia ora occupata da turisti adoratori pagani del Sole. Per giunta quella spiaggia, una delle poche di sabbia tra le altre in genere di ciottoli della costa maniota aveva intorno un abitato che non esisteva al tempo di Kazantzakis cosi come non esisteva a quell’epoca la consuetudine di prendere il sole e fare i bagni di mare.
Lungo la strada verso sud ci fermammo nel piccolo porto di Agios Nikolaos. C’era una stradina affacciata su un minuscolo specchio d’acqua con poche barche, difeso appena da uno sperone di roccia e cemento. La stradina aveva dal lato interno una fila allineata di case molto simili tra loro, sicuramente ristrutturate di recente, con balconi e vasi di fiori che difficilmente si vedono nei piccoli borghi manioti. Non aveva nulla della magia e dell’autenticità di altri posti visitati, forse perché è stato scelto come destino di vacanze da una media borghesia greca che senza volere lo ha lentamente snaturato dandole un tocco di frivolezza e di pittoresco che non meritava. Dopo Agios Nikolaos continuammo per Trakila, dove tentai un percorso lungo una strada che esisteva su una vecchia mappa, era una strada sterrata che ci avrebbe fatto risparmiare qualche kilometro ma siamo finiti in un tratturo. Tornati sulla strada principale, abbiamo attraversato senza fermarci i villaggi di Platza, Lagada e Agios Nikon, in mezzo ad una campagna con pochi e radi uliveti. Ci stavamo avvicinando al Mesa Mani (o Basso Mani) e Il Taigeto, costante presenza a sinistra delle nostre rotte, appariva più glabro e roccioso. Oitylo, dove siamo infine arrivati è un bel borgo di case in pietra e vicoli tortuosi e strettissimi per una buona difesa dalla pirateria turca, il buffo è che la storia parla di questa piccola città come di un famoso covo di terribili pirati dove si praticò anche la tratta degli schiavi fin quasi all’ottocento. Noi non l’abbiamo visitata per stupida fretta e da lì ci siamo precipitati lungo una ripida discesa che porta in due soli lunghi tornanti, tagliati nella viva roccia di un inquietante dirupo, fin sulla sottostante spiaggia sassosa della grande baia di Limeni. Con una piccola deviazione siamo arrivati a Karavostasis, un posto fascinoso, poche case allineate sotto la montagna che termina in mare lasciando appena lo spazio di una breve e stretta strada. Nel lungo marciapiede dal lato dell’acqua, un unico ristorante aveva sistemato sotto una pensilina di tende arancioni i suoi tavoli allineati in lunga successione come il trenino di un parcogiochi, eravamo al bordo di un mare limpidissimo che lasciava vedere perfettamente il fondo roccioso e come sempre abbiamo mangiato benissimo e troppo. Il lato “Gourmet” del viaggio ha sempre esercitato una forte attrazione di cui non avevo minimamente tenuto conto. Durante l’insonnolita chiacchierata dopo pranzo Lilia incominciò a fare domande per ricordare luoghi e situazioni da trasferire sul suo diario così incominciò a chiedere “Dove siamo stati l’altro ieri?”, “come si scrive Agios Nicolas?”, “come si chiama quel posto con la torre molto alta?” Mi chiese persino quando saremmo arrivati in un certo villaggio da cui eravamo passati la mattina. Qualche giorno prima mi aveva persino chiesto perché al ritorno verso Atene non ci fermavamo a Mistrà quando la visita di Mistrà io l’avevo definita imperdibile fin dalla prima stesura del programma, evidentemente per pigrizia non l’aveva mai letto.
Mirella invece era in continuo Master di Italiano, sospetto però che il chiedere continuamente il significato di alcune parole fosse un suo vezzo di protagonismo, un modo per esserci. Ogni volta che durante la conversazione saltava fuori un vocabolo sconosciuto si rianimava e chiedeva “Che significa questa parolla?” (nella nostra lingua abbondano le doppie, così gli stranieri tendono a metterle dappertutto. A Santo Domingo un amico mi saluta cosi: Ciao, io parlo ittaliano, bonassera amicco mio.) Giorgio durante il pranzo di Karavostasis , parlando del proprietario del ristorante disse “ mi sembra un tipo sagace” e lei “ sagacce?? Che significa sagacce ??” io le spiegai che i sagaci erano gli abitanti di una vicina città chiamata Saga, sempre il lotta contro i coriacei , abitanti di Coria! Ma Lilia intervenne subito “non gli dar retta, è un trabocchetto”, e lei “ trapochetto ? trapochetto? che significa trapochetto!”. E via tutti a spiegare “non trapochetto ma…trabocchetto tra-boc-chet-to,… con due ci e due ti”..
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L’albergo prenotato da Andrea, Il Lonta Guest House, era in realtà una vecchia casa-torre riadattata, aveva solo tre minuscole camere disponibili, le altre erano a disposizione di Giacomo il proprietario e di un suo amico di cui non abbiamo mai saputo il nome, la casa rivelò immediatamente la sua antica natura di piccola fortezza maniota, per la ristrettezza dei passaggi e la scala di accesso ai piani superiori angusta e tortuosa per una difesa più facile. Per le stesse ragioni di difesa le tre piccole stanze affittate, avevano finestre minuscole e vi si entrava con una certa difficoltà, in qualche caso anche abbassandosi per la poca altezza del passaggio, ma tutte quelle limitazioni e barriere risultarono fortemente seducenti per i miei amici che ne rimasero incantati, Io e Mirella, ancora uniti nel dolore, siamo stati invece decentrati in un'altra casa vicina, meno fascinosa sebbene bella nella sua asciutta sobrietà. Avevamo due comode e anonime stanze limitrofe alle quali si accedeva da un grazioso cortiletto lastricato, con una bella pianta d’arancio e un ciuffo d’oleandro. Proprio fuori della mia stanza c’era un tavolo di ferro dipinto d’azzurro, con tre seggiole in tela dove mi misi subito a consultare mappe e a scrivere qualche nota per il mio diario. Una porticina di legno che si apriva direttamente su una stradina laterale aggiungeva un sapore di casa privata che mi piacque molto. Il viaggio da Kardamili e l’ultima lunga sosta nel ristorante di Karavostasis ci lasciarono appena il tempo di sistemare le nostre cose, fare una doccia veloce e prepararci per la cena. Nel pomeriggio, pochi km prima di salire dopo vari tornanti fino ad Areopoli eravamo passati tra le case di Limeni aperte sul mare e avevamo sbirciato tra le terrazzette dei vari ristoranti per capire in quale di questi poter mangiare la sera e all’imbrunire eravamo tornati. Le donne in svolazzanti chiffon e seriche vesti e noi uomini in leggere camicie di lino dai delicati toni pastello, qualche paio di sandali, espadrillas, morbide sciarpe e persino un panama stropicciato portato distrattamente. Tutto come in una foto di Vogue-Estate, ma forse più come in un acquarello satirico di Mino Maccari. Conversando amabilmente tra noi siamo entrati con sublime distacco per prendere un drink nel lounge-bar di un bellissimo hotel-boutique e passare poi a un vicino restaurant gourmet , rosicchiando qualche appetizers e sorseggiando cock-tails variamente colorati, su sofà minimals in similpelle bianca mentre un enorme palla di fuoco s’immergeva lentamente in mare a occidente, rivelando in controluce dall’altro lato del golfo, i monti della Messenia e tingendo di purpureo in un unicum totale, cielo e mare.
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Siamo partiti da Areopolis per Capo Tenaro, estremo lembo verso sud, dopo una colazione consumata in una specie di cripta della casa-torre “Londa Guest House” che alloggia le tre coppie di amici coniugi. Il compagno di Giacomo, come il riguardoso maggiordomo di un film dei fratelli Vanzina, ci serviva con garbo e falsa professionalità deliziose marmellate con assortimento di tè, pasticcini, pane tostato e burro. Giacomo, il signore e padrone della Guest-house, è un simpatico e un po’ strambo personaggio che forse per hobby o per sopravvivere o per tutte e due le cose, gestiva quella piccola struttura alberghiera come una sua casa privata facendoci sentire suoi amici ospiti. Per un suo naturale modo di essere, fece subito di tutto per piacerci, e ci riuscì benissimo. Scoprimmo che era un grande lettore di libri, pittore con qualche qualità e gran viaggiatore, gli invidiai molto la collezione che mi mostrò, delle mappe militari dettagliate di tutto il Mani. Estroverso, un poco esibizionista e indubbiamente gay, compariva ogni tanto inaspettatamente, svolazzando per pochi secondi con una battuta, un commento, un consiglio oppure citando un verso, o mostrando un suo disegno per poi sparire di colpo dietro un muro come un duende.
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La giornata era magnifica e il percorso che ci aspettava forse il più interessante della nostra vacanza, quello attraverso il Mani più autentico, con la più alta concentrazione di città turrite, di storie affascinanti, di guerre fratricide, di “vendette” (in italiano nel dialetto maniota) e di treve (tregue). Dopo pochi km siamo arrivati alle grotte di Dirou. Avevo consultato il gruppo perché non le consideravo abbastanza interessanti per le nostre curiosità letterarie ma mi sbagliavo, si decise di visitarle. Queste grotte che si trovano in un’ansa della costa occidentale, insieme con altre hanno alimentato nell’antichità la leggenda che l’ingresso all’Ade fosse proprio in questa regione, queste di Dirou sono parzialmente invase dall’acqua e sono lunghe circa quindici km dei quali pero si possono visitare solo tre. Leggende locali dicono che il loro percorso inesplorato attraversa il Taigeto arrivando fin sotto Sparta. All’entrata bisognava scendere una trentina di scalini per arrivare in un antro discretamente ampio, dove erano ormeggiate alcune barche. Lo stesso antro, come la successione di altre grotte e strettoie, era debolmente illuminato da lampade come padelle galleggianti seminate lungo tutto il percorso. Lilia che soffre di claustrofobia decise di non partecipare al tour e rimase fuori al sole con Daniela in attesa del nostro ritorno mentre noi temerari, magari anche con qualche non confessata inquietudine, siamo saliti su un vacillante barchino a fondo piatto con, inpiedi a poppa un Caronte greco in camicia sbottonata e siamo salpati per l’Ade della mitologia greca o della commedia dantesca a scelta, sotto la tempesta di flash di un fotografo appostato da qualche parte nel buio. Siamo così entrati in un’oscura foresta pietrificata di stalattiti e stalagmiti moltiplicati dal riflesso sull’acqua immota, in un silenzio rotto solo dallo sciabordio del remo e dal suono smorzato delle nostre parole che risuonavano afone come quelle di litanie in una chiesa deserta. L’ultimo tratto del percorso abbiamo dovuto farlo a piedi passando anche attraverso strettoie trasudanti di stalattiti e stalagmiti. Quando finalmente uscimmo da un’apertura della roccia su una stradina di fronte al mare dove c’erano ovviamente già le nostre foto in vendita, l’intensa luce del giorno ferì i nostri occhi ma riscaldò anche le nostre anime provate da quel malinconico percorso.
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Riprendemmo poi il viaggio verso il capo su una strada che scendeva a mezzacosta lungo un tratto carsico che la guida descriveva” ricco di grotte e fiumi sotterranei” e per qualche km vidi scorrere sulla sinistra, una parete rocciosa alta un ottantina di metri lungo la quale a tratti si aprivano antri oscuri e crepe profonde poi, oltrepassata di nuovo Pyrgos, e successivamente Lakkos e Gardenitza, ci siamo fermati a Kitta, (Nome che sembra avere parentele con il parola franca o veneta di Città). Era il luogo dove le “vendette” tra famiglie nikliane si erano prolungate anche ben dopo la liberazione dai turchi e la creazione del nuovo stato Greco. Joannis Kapodistria, primo presidente della Grecia liberata, riuscì a porre fine all’ultima faida, solo mandando un reggimento d’artiglieria, che a cannonate troncò tutte le torri più alte. Ma chi erano questi misteriosi, permalosi, vendicativi nikliani? Questa domanda dopo aver letto di loro sul libro di Fermor aveva incuriosito anche me. Ebbene sembra fossero aristocratici bizantini originari di Nikli, (Tegea) antica città, poche miglia a sud di Tria Polis (la moderna Tripoli che deve il suo nome proprio alle tre città storiche limitrofe): Tegea, (Nikli), Mantinea e Paladio. Ma credo più interessante riportare quello che scrive Wikipedia sull’argomento.
“Sembra che la Maina sia stata dominata in quegli anni dal clan dei Nikliani, rifugiatisi nella regione dalla città di Nikli (Tegea). Nel secondo periodo bizantino della Maina si formarono quattro caste nella popolazione locale: i Nikliani, i Megalogenites, gli Achamnomeri e i Fameyi. I Nikliani erano gli abitanti della città di Nikli rifugiatisi nella Maina dopo il saccheggio della loro dimora originaria per opera dell’Imperatore Bizantino Andronico II Paleologo. Kyriakos Kassis sostiene che i Nikliani fossero all’inizio una famiglia, mentre Patrick Leigh Fermor li identifica più generalmente con gli abitanti di Nykli. I Nikliani erano la potente aristocrazia che iniziò a costruire Castelli e Case-Torri nella Maina. I Megalogenites (cioè "ben nati"), erano rifugiati da diverse parti della Grecia provenienti da famiglie potenti e conosciute, come le dinastie imperiali dei Commeni e dei Palaeologi, ma anche dei Latriani (o Medici) ed altre. Perlopiù ignoravano le leggi tribali dei Nikliani o provavano a vivere in armonia con esse.
Anche i Megalogenites costruivano Case-Torri come I Nikliani. Gli Achamnormeri erano la classe media dei Manioti. Dai diritti ridotti rispetto alle prime due classi, essi potevano costruire Case-Torri meno alte e di materiali meno nobili del marmo e della pietra. Erano comunque proprietari di terre e spettava loro una porzione dei beni comuni come la piccola cacciagione, il sale, e il pesce. Avevano libertà di movimento e mezzi di produzione. Secondo il costume locale, una costruzione di torre riuscita durante la notte ne comportava la promozione sociale, sempre che non fosse contrastata con successo dai vicini. I Fameyi erano l’ultima casta. Non avevano proprietà ed erano forza lavoro non qualificata; si possono paragonare ai servi della gleba dell’Europa occidentale. Potevano ottenere l’emancipazione e diventare Achamnòmeri.”
E’ chiaro che, in una società così organizzata in classi, ognuna volesse difendere il suo status o salire di grado, quindi e probabile che le lotte fossero soprattutto tra nikliani e megalogènites o tra megalogènites e achamnòmeri, e certo in minor parte anche tra famiglie nikliane. Non mi ha mai convinto la storia delle vendette solo tra nikliani, probabilmente in ogni villaggio di niclikana c’era solo una, o al massimo due famiglie.
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Fermor nel suo libro “Mani”, racconta un divertente episodio occorsogli durante il suo peregrinare proprio a Kitta. Era sbarcato con sua moglie Joan, dopo un viaggio in caicco, in una piccola baia a mezzaluna (dalla descrizione che ne fa senza nominarla credo sia la baia non troppo lontana di Mezzapo). Dopo un lungo bagno risalirono la costa e arrivarono assetati a Kitta nel primo pomeriggio trovandola deserta, bussarono a varie porte e grate invano fin quando una vecchina li trovo esausti, seduti sulla panca, fuori di una bottega chiusa. La vecchina sparì per tornare poco dopo con una brocca d’acqua e un piatto di fichi d’india, il bottegaio arrivo subito dopo. Fermor dice: “Arruffato dal sonno” e amareggiato per aver fatto aspettare degli ospiti stranieri. Anche noi come Fermor trovammo Kitta deserta, ma senza botteghe chiuse per la siesta pomeridiana o vecchiette generose con piatti di fichi d’india. Le torri mozzate forse erano le stesse, cosi come alcuni ruderi parzialmente invasi da erbacce secche. Di quell’antica città rimaneva tuttavia evidente una certa aria di nobile declino e una sostanziale bellezza. Eravamo arrivati in auto, e stavamo per mancarla perché la visione che io avevo stando seduto nel sedile posteriore della macchina era limitata, sebbene cercassi continuamente di vedere la strada a destra e a sinistra della testa di Andrea che era alla guida. Mi venne in mente per associazione il momento nel quale, da lontano Patrik e Joan scorsero Kitta e la gemella Nomia svettare su due collinette, “rimanemmo in contemplazione di quelle torri che pareva si arrampicassero in cielo” scrive Fermor. Il nostro viaggiare in auto, certo accorcia i tempi e ci consente di vedere più cose in minor tempo, ma chiusi e rannicchiati in quelle scatole metalliche, vediamo e possiamo apprezzare qualcosa solo quando ne scendiamo. Il vero viaggiatore va a piedi, osserva le cose lentamente e il pensiero, ha il tempo di elaborare impressioni e sensazioni.
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Quando siamo arrivati a Gerolimenas, malgrado ci fosse stato detto che era un magnifico posto, non lo abbiamo trovato cosi interessante, c’era un’atmosfera di abbandono e di desolazione che non mi piacque. Un dirupo di roccia bruna sul lato nord del porto ricopriva con lunghe ombre un tratto di mare e il largo uso della pietra di un colore brunastro, aumentava la cupezza dell’insieme, c’erano diverse case non finite, costruite direttamente sulle rocce nel lato sud del porto a pochi passi dall’acqua e altre dietro una calcinata spiaggia di sassi. Tutto era permeato di una strana atmosfera d’immutabilità e d’inedia, come in quei dipinti dell’ottocento napoletano che raffigurano i piccoli porti di Procida o Pozzuoli. Probabilmente Gerolimenas non era molto cambiata dal viaggio di Fermor e sembrava volerci ricordare che il vero Mani da lui conosciuto molti anni addietro era questo e non quello che noi avevamo incontrato fin lì. Scendendo ancora più a sud il paesaggio si fece più spoglio e pietroso, oltrepassammo Alika, e la piccola spiaggia di Kiparissos senza fermarci, fin quando apparvero dietro una curva, le alte torri dorate di Vathia. Sembrava fossero scaturite per un miracoloso fenomeno sismico direttamente dal bastione di roccia sul quale si ergevano. Era una visione esaltante che ci obbligò a una breve sosta per ammirarle meglio. L’ultimo tratto di strada per arrivarci cingeva quel grumo di torri in un gomito come in un abbraccio. Ci siamo fermati sotto le sue mura per visitarla e abbiamo incominciato a percorrerla in tutti i sensi lungo vicoli sconnessi e in parte chiusi dai crolli, scalonate e stretti passaggi. Alcune torri le stavano restaurando e altre con finestre nuove e facciate di pietra tagliata di recentem, erano già certamente abitate. Un uomo, all’apparenza straniero, stava preparando addirittura una grigliata nel minuscolo giardino della sua torre restaurata.
Fermor aveva finito di scrivere il suo libro sul Mani nel 1958, com’è scritto in calce alla sua prefazione, e lo scrisse in una bella casa di Idra, prestatagli dell’amico pittore Niko Ghikas, ( di Ghikas e della sua pittura parla con entusiasmo Henry Miller nel suo bel libro “Il Colosso di Marussi” dimostrando che di pittura non ne sapeva un gran ché). Immaginando che il viaggio, sicuramente non certo di qualche settimana, sia stato fatto circa quattro o cinque anni prima, Ma sicuramente mi sbaglio per difetto, si arriva al 1953., cioè circa 60 anni fa.
Sono bastati sessant’anni per ridurre in rovina questo borgo e forse dentro dieci sarà ignobilmente ricostruito com’è capitato a Mistra, il nostro prossimo destino.
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Avevo letto in una guida, che per fare delle belle foto d’insieme era meglio salire al piccolo cimitero poco più in alto, cosi ci siamo spostati. Il cimitero era stato ricavato sul ripiano di una piccola sella che si ergeva in alto, proprio di fronte al grappolo di torri. Nessun morto recente era stato sepolto tra quelle erbe secche, le poche tombe abbandonate erano in cattive condizioni con le loro semplici croci sghembe e nomi e date stinte dalle piogge. Muovendoci rispettosamente tra quelle lapidi abbiamo fatto qualche foto di quella corona di torri mozze appollaiata su un picco come le piccole città turrite che appaiono negli affreschi del Lorenzetti o del Perugino e che ricordano San Giminiano. Nikliani anche in Toscana? Certamente no. Forse però è stata proprio la stessa struttura sociale medioevale di piccole nobiltà terriere in ambienti avari di risorse, a creare anche da noi quello stesso fenomeno di citta turrite. Ce ne siamo andati più tardi lasciando Vathia con le sue torri dorate e il piccolo cimitero con le sue pietose tombe, alle cure del vento occidentale che risaliva fresco dal mare rinforzandosi tra le insellature delle colline.
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Nel riscrivere questo diario e rileggendo gli appunti dal mio piccolo moleschine rosso, ho ritrovato quest’annotazione “ Patrick e Joan furono a Vathia per alcuni giorni ”. Ma la storia, che si riferisce proprio a Vathia durante il viaggio di Patrick è troppo divertente per tacerla e vedrò di farne un breve sunto. Patrick e Joan erano sbarcati a Porto Kagio da un caicco, volevano risalire verso nord ma avevano troppi bagagli, così si misero a cercare e trovarono un unico mulattiere che però, non avendo voglia di muoversi chiese un prezzo molto alto, s’iniziò una lunga contrattazione ma il mulattiere non cedeva, quando Patrick infine disperato accettò, il mulattiere diede una gran bastonata al suo innocente mulo e si avvio verso nord con i loro bagagli, imprecando per un buon tratto di strada, dietro di lui seguirono Patrick e Joan fin quando, stanchi decisero di riposarsi per prender fiato e furono raggiunti da una ragazza con un agnellino di traverso sulle spalle, tenuto alla maniera già vista in mille presepi e recentemente anche al Museo del Partenone (ricordate la bella statua del Moskoforo?). La ragazza si chiamava Vasilio ed era diretta a Vathia da suo padre, Patrick e Joan non avevano destino se non quello di risalire verso nord e Vasilio li invitò a Vathia dove furono accolti alla maniera omerica da suo padre che, dopo chiacchiere e bevute di ouzo nel cortile al piano terreno, al arrivo del buio disse: “ è una serata calda, mangiamo al fresco”, e fece salire tutti con tavoli e sedie sull’alta terrazza della torre. Patrick scrive; “La più alta di Vathia”. Si calò una corda che veniva ogni volta ritirata con cibo e vino. E cenarono tutti sotto la luna, tra l’altro Patrick e Joan, quando Vasili e suo padre si ritirarono, stesero delle coperte sul pavimento e dormirono li. Nel magnifico racconto di Fermor (Vale la pena rileggerlo, da pagina 172 a pagina 176, è un piacere impagabile), non si parla particolarmente di altre case abitate ma s’intuisce che il suo ospite non è il solo a vivere lì.
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Marmaris è una piccola baia a sud di Vathia, con due piccole spiagge non di ciottoli ma di sabbia, nel mio programma di viaggio avevo previsto una sosta per mangiare e, se possibile, fare anche un bagno. Avevo considerato che se c’era la spiaggia, tra l’altro di sabbia, avrebbe dovuto esserci anche un ristorante o una qualche taverna. In effetti, il ristorante lo abbiamo trovato, proprio come avevo pensato, sulla spiaggia ma una decina di metri più in alto, a mezza costa, aggrappato alla parete di una sella rocciosa come un grosso ragno, e nessuno di noi ha avuto voglia di scendere e risalire la cinquantina gradini per provare la temperatura dell’acqua.
Il bagno però lo abbiamo fatto poco dopo, quando siamo scesi zigzagando lungo i tornanti di una strada in forte pendenza fin nella grade baia di Porto Kagio. Lo strano nome di questo posto pare sia la contrazione del veneziano Porto Quaglio perché qui venivano a sostare le quaglie migranti, prima di spiccare il volo verso Creta. Sulla larga fascia di spiaggia ghiaiosa, di fronte a tre alberghetti di un’architettura improbabile, c’erano delle sdraio sulle quali ci siamo stesi al sole a sonnecchiare intorpiditi come coccodrilli, alcune barche malandate, erano quasi immobili in acqua sopra i loro riflessi alla fine di un precario moletto di tavole, il luogo era privo di qualunque elemento caratteristico e pittoresco, tuttavia ne ero affascinato, ero in una totale beatitudine, avvertivo quasi fisicamente, con il calore del sole che scaldava il mio corpo raffreddato dopo un lungo bagno, il lento dissolversi e defluire delle inquietudini e delle ansie dalla mia mente.
Da dove scaturisce il perenne fascino che esercita qualunque luogo, anche il più anonimo che incontro viaggiando in Grecia? E’ una malia che mi prende sempre e che provai anche in quel golfo silenzioso, davanti alle ultime propaggini del Taigeto che alle mie spalle poco più a sud, si sarebbe immerso definitamente nel mare di Creta, veniva anche da quelle colline pietrose nel lato sinistro della baia, punteggiate di rari arbusti in lotta di sopravvivenza e a tratti oscurate dalle ombre di nubi in lento cammino verso occidente. Ripensai alle torri diroccate di Kitta viste qualche ora prima, cristallizzate nel tempo e nello spazio, ricordai il silenzio di quelle pietre che mi aveva inaspettatamente turbato, la luce tagliente e le ombre profonde delle pareti non esposte alla luce e la consapevolezza che quasi avvertivo fisicamente, di superstizioni e miti, nascite e morti, vendette e tregue e le dure lotte per sopravvivere che avevano dovuto caratterizzare per tanti anni questo lembo di terra dimenticato da tutti.
Siamo rimasti a far niente impigriti e stregati da quel limbo fino alle sei di sera. Dovevamo risalire altri cinquanta kilometri per tornare ad Areopoli, percorrendo stavolta il lato orientale del Mani. Avremmo dovuto visitare Ligia con le sue torri e scendere poi con una breve deviazione nel piccolo porto di Agios Kiprianos con le sue quattro case sull’acqua e una bianchissima spiaggia di ciottoli. Anche qui Andrea oltrepassò rapidamente la deviazione ed io lo lasciai continuare. Più avanti abbiamo attraversato Kokkala sempre senza fermarci e a Flomokori ci siamo brevemente fermati prima di scendere per una visita e una sosta abbastanza inutile nel porto di Kotronas, poi finalmente di nuovo in cammino fino ad Areopoli in albergo.
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Giacomo aveva preparato un simpatico e semplice party di saluto sulla terrazza del suo piccolo studio di pittura dove aveva esposto su cavalletti, in modo un poco forzato, alcuni suoi quadri, una pittura figurativa con pennellate veloci, vagamente impressionistica con belle combinazioni di colore e temi, in definitiva una pittura commerciale abbastanza interessante. “sperava in una vendita?” Forse.
Noi dopo aver girovagato con curiosità per lo studio ci siamo raccolti sulla terrazza più alta con bella vista sui tetti di Areopoli e sul vasto spazio intorno, giallastri riquadri di stoppie cintati da bassi muri di pietre e a occidente il lontano tremolio luccicante di una larga striscia di mare. Il cielo si stava lentamente diluendo dall’azzurro rosato a ponente fino a un azzurro più intenso sopra le nostre teste. Arrivarono pistacchi, olive e un vinello chiaro facile da bere.
Giacomo denunciava una certa soddisfatta allegrezza, ebbi l’impressione che questo gesto amicale del party fosse un rito ripetuto con noi e ripetibile con altri prossimi ospiti, rito al quale forse lo costringeva, la sua solitudine di intellettuale, gestore di una Guest-House nel Mani. Aveva bisogno di comunicare, di raccontarsi e di mostrarsi, parlammo di Fermor e del nostro viaggio sulle tracce del libro, e rimase freddo, non gli piaceva, e con nostra sorpresa non lo stimava, poi aggiunse un paragone per noi blasfemo,“ ho viaggiato molto più a lungo di Fermor e anche in luoghi bellissimi a lui sconosciuti “ ci disse . Si parlò della Grecia e della riconosciuta fratellanza tra greci e italiani, io dissi che amavo molto la poesia greca contemporanea e che, oltre ai conosciutissimi Giorgio Seferis e Costantinos Kavafis, mi piacevano molto anche Odisseas Elitis e Yannis Ritsos, poeti che lui come me, conosceva e stimava. Dissi che amavo molto anche un altro poeta di cui mi sfuggiva in quel momento il nome, un poeta i cui versi erano colloquiali e diretti, uno che scriveva come se raccontasse banali episodi di vita ma che arrivavano diretti al cuore. Citai a memoria qualche parte di un verso che ricordavo sperando che potesse riconoscerne l’autore; “Su un autobus azzurro, centodieci chilometri all’ora”. e poi: “ L’ uomo accanto a me, dice che va a Katerini” Gli dissi che si chiamava Nasos,…. Nasos e qualcos’altro, Mi parve infastidito. Conoscevo la poesia greca meglio di lui? Pensò che gli stessi rubando la scena? Non mi rispose subito ma dopo qualche secondo con un pizzico di fastidio: “ Ma Nasos è solo un nome, è come se mi chiedessi di uno che si chiami Sandro o Carlo.” Con rabbia mi misi a rovistare ogni angolo del cervello per ricordare quel nome che alla fine arrivò“ ah, ecco,…ora ricordo, Vagènas…. Nasos Vaghènas “, e lui. “Ah sì, lo conosco, ma si pronuncia Vaghenàs e non Vaghènas”.
Più o meno a questo punto terminò il party sul terrazzo del Lonta Guest House, il cielo si era fatto blu inchiostro e qualcuno era già andato a cambiarsi per la cena.
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Per chi legge, che potrebbe avere la curiosità di sapere di cosa stessi parlando, trascrivo qui la poesia di Vaghenàs, dalla raccolta VAGABONDAGGI DI UN NON VIAGGIATORE, Crocetti- editore
Su un autobus azzurro. Centodieci chilometri all’ora. Correndo sotto un cielo ardente.
Tra quaranta persone sudate. Che fumano. Sognano. Mangiano panini.
E un autista di mezz’età col fazzoletto al collo. Che di tanto in tanto sputa dal finestrino e cambia cassette con vecchie canzoni….
Tutte le canzoni saranno dimenticate. L’autobus diventerà ferro. Gli uomini terra.
L’uomo bruno accanto a me, con le basette e la camicia celeste, dice che va a Katerini.
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Giacomo, l’intellettuale greco con forse qualche problema di autostima, ci aveva consigliato il ristorante Barbapetros in una strada vicina, e qualcuno lo aveva prenotato per la sera. Il ristorante aveva minuscoli tavoli sulla strada e un cortiletto un poco più comodo, dove abbiamo mangiato benissimo anche un eccezionale capretto al limone. Nello stesso cortile, in alcuni tavoli vicini, hanno cominciato ad arrivare alla spicciolata in grande sfoggio di baci e abbracci, giovani greci per una cena forse di compleanno. Era il nostro ultimo giorno nel Mani e anche il più pieno di avvenimenti e di emozioni, Il giorno dopo avremmo dovuto raggiungere Monemvassia, un centinaio di kilometri verso est . Sarebbe stato anche un totale cambio di atmosfere, iniziava il nostro ritorno verso Atene e Roma.
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Il primo tratto di costa è particolarmente bello fino a Gytheyon, ed è lo stesso che avevamo percorso in senso inverso il giorno prima tornando da Porto Kagio. Gytheion è una vecchia città costiera ed è stata il porto dell’antica Sparta. Possedeva una delle industrie più fiorenti dell’antichità, la raccolta e il commercio del murice, Gasteropode comune nel mediterraneo dal quale si estraeva la costosissima porpora. Nel lato nord della città ci sono ancora i resti abbastanza ben conservati di un teatro romano, e a sud del porto, collegato oggi da una strada, si trova il basso isolotto di Marathonisi ritenuto il “Kranai” omerico, dove, Paride ed Elena trascorsero la loro prima notte dopo la fuga da Sparta.
Io che per tutta il percorso avevo fatto da navigatore nel sedile posteriore della macchina che guidava Andrea, con le mie carte stradali e guide precariamente sulle ginocchia, allungando il collo a destra e a sinistra per controllare il percorso, attento a dare il segnale di un incrocio con buon anticipo perché Andrea non lo superasse di slancio, sempre attento anche a non sconfinare con le mie carabattole oltre la metà del sedile per non disturbare Mirella, (quando succedeva, mi sembrava di percepire un muto rimprovero nell’impercettibile spostamento del suo sguardo verso il lato dove sedevo). Eravamo entrambi appiccicati il più possibile agli sportelli, io a sinistra e lei a destra. Insomma, era faticoso, e ……. Anche molto noioso e imbarazzante. Successe che in quel tratto ero stanco e mi ero appisolato, così abbiamo sfortunatamente mancato anche la sosta a Gytheion che invece valeva la pena visitare. In realtà tutta la nostra vacanza è stata caratterizzata da una specie di frenesia del viaggiare, un’inutile fretta non giustificata che svaniva solo durante le soste nei ristoranti con il risultato che tranne alcune poche volte, le nostre visite sono state rapide e superficiali, sembrava che le nostre curiosità si esaurissero nel momento stesso dell’arrivo.
Il percorso per Monemvassia che sembrava molto lungo si rivelò rapido e verso le dodici eravamo già al Filoxenia Hotel, un alberghetto squallido in una palazzina a tre piani come quelle cresciute come funghi alla periferia di Roma negli anni settanta. L’avevo scelto per la sua posizione nel borgo di Gefira, all’attacco del lungo ponte che congiunge la rocca alla terraferma, le camere misere come quelle degli alberghi a ore, avevano i balconi affacciati su una bianca spiaggia di sassi. La mia scelta sollevò qualche perplessità non esternata ma palpabile, e io non desidero giustificarla in queste note, dico però che a Patrick Fermor e sua moglie sarebbe andato bene. Davanti all’albergo davvero spoglio come altri intorno, c’era una larga spiaggia di ciottoli, dove era impossibile andare a piedi nudi. C’era qualche famigliola greca ammassata con le proprie cose sotto alcuni ombrelloni e alcune donne vestite di nero, sedute sulla battigia e nel acqua bassa. Sulla stessa spiaggia, sopra una precaria pedana di legno con una rustica tettoia di paglia, c’era anche un ristorante probabilmente stagionale fatto di niente dove mangiavano alcune famiglie greche. Noi eravamo gli unici stranieri e appena ci siamo seduti un cameriere ci ha subito detto “bongiorno, cosa volere mangiare? sargo? barbuni? Tutto fresco”. Stabilendo subito un rapporto privilegiato con Giorgio il quale da sempre non ha barriere linguistiche e con il quale ha continuato per tutto il pranzo, una frammentaria conversazione in un italiano approssimativo. La cucina era dall’altro lato della strada, a un piano rialzato di quattro o cinque gradini ed era un inferno per i camerieri che andavano e venivano per servirci. Devo dire che tra i tanti ristoranti, dove abbiamo mangiato durante questo viaggio più gastronomico che letterario, questo con il tetto di paglia m’è piaciuto più di ogni altro, mi ha ricordato altre estati e altre vacanze e soprattutto un'altra Grecia, noi più giovani, più poveri forse, sicuramente meno indifferenti e pieni di curiosità, tutto era nuovo e sorprendente allora nulla era dato per scontato e si godeva solo per il fatto di stare insieme in posti così diversi da tutto quello che avevamo conosciuto prima, allora non riuscivo ancora a capire come fosse possibile provare tanto appagamento solo mangiando la mattina, due uova fritte che io avevo imparato a chiedere in greco, “dhio avghà tiganikà,” seduto a un tavolo di ferro in un qualunque, trasandato kafenion.
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Alle sette di sera finalmente arrivò quella benedetta visita alla rocca di Monemvasia, tralascio la descrizione del luogo perché conosciutissimo e sarebbe prolisso. Ci siamo andati con una navetta che per un euro copre il kilometro e mezzo fino all’unica porta di accesso (Moni Envasis significa infatti, unica porta), con scarsa fantasia è stata chiamata anche la Gibilterra di Grecia e Napoli di Malvasia, Vi è nato Gianni Ritzos, un grande poeta greco moderno (1909 – 1990).
Io l’avevo visitata molti anni prima, ricordo con Giorgio e Lilia ma non ricordo con quali altri di noi. Fu durante una delle nostre prime crociere, forse con il caicco “Sally”. Allora Monemvasia era in sostanza un rudere, non era visitabile e ricordo che c’erano cartelli che segnalavano il pericolo di crolli, oggi è stata quasi completamente restaurata, ci sono ben dieci alberghi con prezzi che vanno da 1100 a 450 euro al giorno e non posso fare a meno di chiedermi chi può avere voglia di passare qualche giorno chiuso tra quelle mura. Nella strada principale percorribile, l’unica non in salita, la quantità di visitatori nei due sensi era tale che a percorrerla si aveva la brutta sensazione di stare in un autobus affollatissimo spintonando la gente per cercare di scendere alla prima fermata con il terrore che si richiudessero le porte prima. Ai lati di quel corridoio manicomiale si aprivano minuscoli negozi che vendevano inutilità di vario genere, e le proprietarie, tutte donne, in piedi appoggiate allo stipite delle porte dei loro negozi, conversavano perennemente con le colleghe dirimpettaie, in un cicalecciò che si diffondeva nell’aria come uno strato di nebbia sonora fluttuante sulla testa degli stralunati visitatori. Abbiamo anche noi, per inedia seguito il flusso per finire poi nella terrazza di un ristorante vicino all’acqua invaso da famelici gatti ingiustamente spodestati da quelle loro rovine per far posto al turismo di massa. Ho odiato quel posto, credo da quando finì nel programma e fui contento quando tornammo con la navette che mi lascò all’imbocco del ponte dove mi sedetti ad aspettare Stefania che aveva deciso di tornare a piedi.
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Il tratto di strada fino a Skala non presentava nessun interesse, poi prima di arrivare a Sparta, sono apparse a sinistra della strada, una serie di magnifiche prospettive del Taigeto con delle chiazze chiare sulle cime che non sono riuscito a capire se di neve o di roccia, per fortuna io sedevo proprio da quel lato, sempre appiccicato al finestrino e sempre attento a non sconfinare, così il viaggio m’è passato in un attimo. Siamo entrati a Sparta cercando i segnali stradali per Mistrà e dopo qualche giravolta di troppo seguendo le indicazioni, abbiamo abbandonato quest’anonima città dal discutibile passato di grandezza e potenza, che sottomise Atene senza imparare da quella la grande lezione di civiltà che s’irradiò poi nel mondo. Di quella potenza guerresca non rimane oggi che qualche insignificante reperto che non vale la pena visitare. La lasciammo alle nostre spalle per dirigerci verso la bizantina Mistrà arroccata lungo un dirupo del Taigeto, cominciammo a salire una strada zigzagante in buona pendenza fino a un parcheggio quasi deserto da dove si entrava nella parte alta della citta. Mistrà è una roccaforte originariamente fondata dai Franchi, nel 1249 passò ai bizantini e dal 1348 divenne anche despotato della Morea. Quando infine l’astro di Costantinopoli si stava lentamente spegnendo, Mistrà incominciò ad attrarre filosofi, letterati e artisti, che stimolarono una crescita culturale autonoma molto interessante. Tra le tante personalità arrivò nel 1393 anche Giorgio Gemisto detto Pletone, onorato e ammirato filosofo neoplatonico, profondo conoscitore di varie discipline e scuole di pensiero, che in quella roccaforte passò gran parte della sua vita e nel 1452, a novantasette anni vi morì. Egli nel 1438 fece anche parte del seguito di Giovanni VIII Paleologo, che insieme ad altri eminenti personaggi e filosofi orientali, arrivarono in Italia in occasione del concilio di Ferrara spostato poi a Firenze per la peste. (Giovanni VIII tentava con questo concilio la unificazione delle chiese che avrebbe obbligato il papato e l’Europa a difenderlo dagli ottomani ormai alle porte, naturalmente il concilio risultò quasi inutile, Giovanni riportò a casa pochi accordi che furono tra l’altro subito sconfessati a Costantinopoli) Gemisto Pletone tenne in quel anno (tra 1438-1439) diverse lectio magistralis che destarono grande interesse. Nelle sue lezioni, in sintesi egli auspicava un ritorno utopico alla classicità greca, riavvicinandosi alle religioni pagane dell’Olimpo, a Zoroastro, all’astrologia all’esoterismo, ai misteri eleusini, agli oracoli caldaici e ad altre forme di religioni anche misteriche del passato, per fonderle in un'unica nuova religione universale, pacificatrice di tutte le tensioni e le intolleranze. Egli sosteneva che: “ l’uomo nasce già con una sua base di discernimento tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto e le religioni più antiche sono le più aderenti a questi principi mentre l’assolutismo delle religioni, ebraica, islamica e cattolica, hanno allontanato l’uomo dalla verità primordiale.”
Non era un pensiero campato in aria il suo, e lui non era un pazzo, un visionario forse si, considerando il clima religioso di quell’epoca. Molte personalità ne furono conquistate, ad esempio Cosimo de Medici, Marsilio Ficino, Pico de la Mirandola, Basilio Bessarione e soprattutto Sigismondo Pandolfo Malatesta signore di Rimini, il quale, addirittura sfidando la chiesa e il papa che non tollerava certi suoi atteggiamenti paganeggianti, chiese al grande architetto L.B.Alberti di costruire un tempio (non una chiesa), che rispecchiasse le nuove idee, da dedicare a san Sigismondo suo patrono e che fosse anche la tomba del suo casato. L’Alberti progettò il magnifico tempio malatestiano mai terminato che ancora oggi sorprende per la sua modernità senza tempo. Per inciso è lì che giacciono le spoglie di Pletone trafugate da Mistrà proprio da Sigismondo a dimostrazione della sua stima e affetto per il grande filosofo. Insomma, quest’oscuro bizantino approdato quasi per caso a Firenze, sembra proprio l’ispiratore delle utopie e il divulgatore di un pensiero che trovò terreno fertile in quell’Italia alle soglie del Rinascimento Grazie a lui e alla diffusione delle sue idee, non sorse una nuova religione universale ma nacque il laicismo. Dopo secoli di esclusivi temi religiosi, nella pittura appariranno per la prima volta figurazioni che sembrano derivare proprio da questa nuova visione laica del mondo, la mitologia pagana entra con forza nelle rappresentazioni. Raffaello Sanzio, intorno al 1515 dipinge, (in Vaticano), la scuola di Atene, Il Parnaso e Il trionfo di Galatea. Botticelli dipinge nella Cappella Sistina, la Nascita di Venere e La Primavera, stavamo entrando nell’evo moderno, la chiesa perderà la battaglia per contenere questo pensiero nuovo, Giordano Bruno sarà l’ultimo a pagare per le supposte eresie di molti che lo precedettero.
Ma questa è un’altra storia.
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Dopo una frenetica e faticosissima visita delle rovine che sono dislocate a livelli tanto differenti e la visione degli affreschi disgraziatamente quasi tutti in pessime condizioni, io che mi ero intestardito a vederne qualunque frammento per farmene un’idea la più precisa possibile, mi sono allontanato da solo per osservarli con più calma. Sfortunatamente gli affreschi dopo la conquista ottomana del 1460 sono stati dai turchi parzialmente scalpellati e tra questi anche il ritratto di una bruttissima madonna, la “Maria Egiziaca” che sarebbe stato meglio scalpellare completamente. Mi resi conto che una gran parte di questi rientrava perfettamente nell’ortodossia pittorica bizantina dell’epoca. A Costantinopoli e nell’impero, la pittura si era andata nel tempo cristallizzando in forme bidimensionali astratte, aveva via via assunto addirittura canoni di rappresentazione standardizzati, un libro aperto, una mano benedicente, il colore delle vesti, il copricapo, ecc. Erano diventati segnali (come i logos commerciali moderni) che consentivano l’immediato riconoscimento dei vari personaggi. Questa in rozza sintesi era la pittura ovunque nell’impero, anche se verso il 1400 qualcosa cominciò a mutare. A mistrà, l’unico ciclo che presenta caratteristiche interessanti è quello presente nella chiesa della Pantanassa dove i santi escono finalmente dalle loro nicchie e dalla loro bidimensionalità, appaiono paesaggi realistici di esterni boschivi, le scene si animano di movimento e di dettagli marginali , entrano in campo anche anonimi personaggi di contorno, quinte di città turrite, e persino ritagli di cielo azzurro e non d’oro.
Come fu possibile? Sicuramente per la conoscenza di Giotto e della pittura italiana dato che il ciclo pittorico in quella chiesa è del 1430 mentre Giotto aveva già affrescato la Cappella degli Scrovegni nel 1305. Ma anche per le dottrine di Gemisto Pletone che sicuramente aveva un forte ascendente sugli artisti che operavano a Mistrà in quell’epoca.
Tutte queste mie osservazioni, considerazioni e analisi sugli affreschi e sulle vicende di questa città morta, aggiunte alla fatica dello scendere e salire tra le rovine, al sole implacabile, al caldo e alla sete che mi aveva disidratato, incominciarono a essere dimenticate nella fresca penombra di un ristorante incontrato scendendo verso Sparta e più tardi svanirono completamente sostituite dal buonumore nella hall dell’albergo di Tripoli da me prenotato, di fronte all’arredamento moderno che aveva partorito un architetto minimalista, ma anche un po’ fondamentalista. Un concerto di forme minimal e una rassegna di pareti e mobili dipinti solo di bianco o di nero che raggiunse l’acme una volta arrivati nelle stanze e nei bagni, anche lì tutto bianco e nero, dove però i water e i lavandini erano dei bianchi cubi di ceramica di difficilissimo uso. Ci sembrò di essere capitati nel set di quel vecchio film di Jaques Tatì che ironizzava sui malintesi della modernità. La sera siamo usciti per cercare un ristorante e siamo capitati in una piazza dalle dimensioni di un campo di calcio, lungo i lati c’erano dei caffè con tavoli e sedie sotto grandi tende, un po’ come in piazza San Marco a Venezia, ma non è un buon paragone. Nella scarsa luce dei pochi lampioni, sparute famiglie passeggiavano conversando e gruppi di ragazzi si rincorrevano, vociando smarriti nel immensità di quello spazio metafisico che sarebbe tanto piaciuto a Giorgio De Chirico. Abbiamo cercato con ostinazione il ristorante che ci era stato indicato dal portiere dell’albergo e dopo parecchie giravolte, siamo finiti in un ristorante italiano gestito però da una giovane simpatica coppia di greci.
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Eravamo in autostrada, direzione Nemea-Corinto, prima di Nemea saremmo dovuti uscire per visitare Micene, invece non so perché, siamo usciti quasi subito seguendo qualche indicazione che a me era sfuggita. Andrea che ha un suo peculiare modo di guidare, quel giorno lo sentivo distante, non c’era feeling, per cui dopo qualche indicazione che lui non raccolse decisi di starmene tranquillo, seguitai a controllare ogni tanto la nostra posizione con il GPS deI mio I-POD, dispiegando le mie enormi, svolazzanti carte stradali con la preoccupazione di non disturbare la fissità di Mirella. Infine mi sono perso e non ho più capito dove stavamo andando. Lasciando l’autostrada nel punto che io avevo previsto saremmo arrivati in un amen, ma vedevo che lui procedeva con una certa sicurezza, aveva preso in mano la situazione e continuava tra i campi lungo una strada secondaria che sembrava non finire mai, per fortuna non si sa come, dopo qualche conversione ad U, e qualche retromarcia perché s’era oltrepassato l’incrocio, siamo arrivati a Micene ed entrati nel grande parcheggio deserto alla sinistra della biglietteria dove Andrea , molto lentamente, si mise alla ricerca di un posto. Niente di nuovo per me, poiché avevo avuto modo durante i giorni precedenti di conoscere bene questa sua eccentrica sindrome che lo obbligava a parcheggiare sempre nel posto più scomodo e lontano. Anche qui, quando siamo scesi dalla macchina, gli altri ci aspettavano alla biglietteria.
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Siamo saliti nella cittadella di Micene invasa da troppi turisti e ci siamo fotografati a gruppi sotto la porta dei leoni poi, espletato questo irrinunciabile rito, ci siamo messi a girare per le polite stradine in cemento che rendono la visita molto più comoda ma disgraziatamente annullano ogni magia.
Quest’agevolazione innecessaria che ha l’aria di essere la stupida trovata di un qualche oscuro funzionario di ministero, è un insulto alla storia tragica e sinistra di questo luogo. Di qui sono passate dinastie di eroi, si sono consumate vendette e pacificazioni, perpetrati, atroci assassinii, tradimenti e incesti, in un vortice angoscioso e funesto che a dato a drammaturghi come Eschilo, Sofocle ed Euripide materiale abbondante per scrivere pagine che sono oggi nostro patrimonio letterario. Perché di tutto questo non si è tenuto conto? Che messaggio riceveranno e che capiranno le comitive di ragazzotti che salgono la cittadella in ciabatte con in mano bottiglie di acqua minerale e lattine di birra che lasceranno vuote dietro in muro? Quelli che agli amici, prima di partire avranno probabilmente detto “Quest’anno famo la Grecia”. Considerando che disgraziatamente ormai queste mete sono nei pacchetti degli operatori turistici, credo sia meglio in futuro evitarle per cercare destini meno frequentati. Se questo commento a qualcuno può sembrare razzista, non si affligga, lo è!
Siamo saliti fino in cima alla cittadella che scende poi con leggera pendenza verso una valletta tra due pareti di rocce brune che sembrano gli argini di un enorme torrente franoso, in mezzo al quale, come un’Isola o una mitologica nave pietrificata, sta questa rocca micenea. L’aria tersa e la luce creavano da quel lato, vaste zone di ombra, e il verde cupo degli alberi intorno accentuava una certa impressione di malinconico sgomento come quello che si prova davanti al famoso dipinto di Bocklin.
Al contrario, dal lato opposto il paesaggio era radioso, si apriva su una vasta pianura coltivata in maggioranza a oliveto, con sul fondo i profili cilestrini di basse montagne, la luce e la leggera brezza davano un senso di appagante quiete, tutto era immobile sotto il sole come in un dipinto, i gialli delle stoppie tagliate delle terrazze di questa rocca, le grandi pietre squadrate dei muri ciclopici che salivano a lato della strada di accesso e la grande vasca delle tombe reali, semicircolare come un segno esoterico sulla terra, aveva una parte tagliata da una mezzaluna d’ombra come di un’eclisse. Era una visione di pace e di quiete per i tanti, eroi e guerrieri, poeti e musici che qui hanno vissuto e amato ma anche per i moltissimi che qui sono morti e che certo ancora oggi riposano da qualche parte sotto tumuli ignorati.
Questo nostro viaggio nel Mani è finito a Micene, da dove siamo partiti poi affamati credendo di trovare facilmente un ristorante lungo la strada, ma non lo abbiamo trovato. Siamo però riusciti ad arrivare al canale e dalla balaustra del passaggio pedonale ci siamo affacciati per vedere le navi passare sotto di noi nell’acqua lattescente, ottanta metri più in basso. Poi la fame ci ha fatto decidere di mangiare kibe e tacos nella più scalcinata rosticceria di tutta la Grecia, che era proprio nel rumoroso piazzale alla fine del ponte dove avevamo parcheggiato le nostre auto, non ci crederà nessuno ma erano i kibe e tacos più buoni che io abbia mai mangiato.
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Postscriptum.
Il viaggio è finito il primo di luglio, tutti siamo tornati a Roma, io dopo qualche giorno sono partito per Santo Domingo dove, dopo il divertimento del progetto mi sono messo a scrivere queste note.
Ringrazio Giorgio e Lilia, Rene e Stefania, Andrea e Daniela e naturalmente anche Mireille per essere stati eccellenti compagni di viaggio, sperando che mi perdonino se non si riconoscono in queste pagine, dove spesso hanno dovuto far le spese di una prosa sarcastica che vivacizzasse il racconto.
Gianfranco
Casa de Campo. La Romana. Republica Dominicana. 11 settembre 2013