Mangochi, Malawi, Africa…

Racconto di viaggio aprile 2006

di Patrizia

 

 

Sono quasi le sei, albeggia nella città dove mi è capitato di nascere: Milano, Italia, Europa.

Il mio pensiero torna a qualche giorno fa, ai luoghi dove ho trascorso una settimana , luoghi che si imprimono nella mente come solchi impossibili da livellare, Mangochi, Malawi, Africa.

Ascolto i rumori che provengono dalla strada, automobili,camion, autobus,nessuna voce. Le luci delle case sono ancora spente, se ne accende qualcuna qua e là, gente assonnata che si prepara un caffé, si fa una doccia, sceglie i vestiti che indosserà rimirandosi allo specchio. Mangio un biscotto e prendo il malarone con il mio espresso, devo prenderlo per altri otto giorni anche se non sono più là, anche se il pericolo di prendere la malaria si è allontanato da me,da me, non da chi abita lì. I ricordi si accavallano nella mia mente, indosso una tuta, prendo le chiavi dell’auto ed esco. Guidando piano nella città ancora semiaddormentata posso dare ordine ai miei pensieri, srotolandoli kilometro dopo kilometro  sulla strada.

La strada, un unico lungo serpente di asfalto che ferisce la terra rossa e che attraversa tutto il Malawi, da nord a sud; relativamente pochi i mezzi che la percorrono ma, ai suoi, lati un fiume interminabile di umanità in cammino. Donne con un bambino sulla schiena avvolto nel chitenje (pezzo di stoffa di cotone che fa da sopragonna se annodato alla vita, o da culla se annodato sul  petto) ma non solo donne, bambini che portano bambini, bambini da soli di tutte le età che si tengono per mano, che camminano vicini; molti portano sulla testa sacchi di granoturco, secchi  con l’acqua, fascine di legna. Biciclette, che è improbabile vedere montate da una sola persona, uomini con la loro donna dietro e davanti un sacco o della legna. Su questa striscia di catrame si dipana la vita delle persone, da lei dipende il futuro, in lei sono racchiuse le potenzialità di una precaria sopravvivenza, le possibilità del presente. Uno scambio, una vendita, un’ occasione, un regalo, magari da qualche turista di passaggio, dagli “azungu” (uomini bianchi), riconoscibili da lontano per la pelle così bianca ed i capelli così lisci!

Forse arriverà un passaggio per  portarsi più in là, dove c’è un agglomerato di edifici scrostati, retaggio dei tempi del protettorato inglese, dove sono allineate le uniche merci  da esporre in un mercato colorato, ogni singola patata è allineata con grazia e simmetria e, non essendoci bilance,  la capacità di misura è di volta in volta, la cesta o il mucchio, come quei pescetti (tipo i gianchetti) pescati nel lago ed essiccati al sole che costituiscono la principale e più accessibile fonte di proteine.

Ricordo l’emozione nell’accorgermi che percorrendo la strada, ai suoi lati  tra i grandi baobab, erano quasi nascoste delle capanne, mimetizzate dalla vegetazione e dalla terra rossa dei muri,uguale al terreno che le circonda, uguale al pavimento dell’interno…

 

Di questo mi sono accorta in seguito, quando siamo andate a trovare i nostri bambini adottivi. Abbiamo visitato alcuni villaggi e tutti  con le medesime abitazioni circolari fatte di mattoni rossi e di canne,con i tetti di paglia  che al cadere delle intense  piogge annuali si squagliano come zucchero. Sulle porte le donne intente a pestare il mais nel mortaio, o a setacciarlo. Qualcuno ha raccolto della legna ed è andato a prendere l’acqua, i più fortunati hanno una fontana a pompa nel villaggio, altri devono andare ad attingerla nel più vicino corso d’acqua, dove del resto lavano tutto, stoviglie, panni, se stessi! Il nostro arrivo provoca un trambusto, molti si avvicinano e ci circondano, cerchiamo il tal bambino e ci portano alla sua capanna…c’è chi addirittura ci accompagna in un altro villaggio perché avevamo sbagliato “indirizzo”.Ci sorridono e sono stupiti dalle foto digitali, chiedono di guardarsi nel display e sono meravigliati e divertiti nel vedersi, del resto in casa non hanno specchi e non  è loro abitudine guardarsi.  Pensare a  questo mi colma di una pace introvabile nel mio mondo a Milano, Italia,Europa.

Parlare dell’Africa, del Malawi in particolare è un’impresa difficile, non si riesce a individuare un punto di partenza per dare una spiegazione all’arretratezza della popolazione, o sì?

Sembra  retorico tornare ai tempi dello schiavismo,della colonizzazione, ma è il punto di partenza per capire come un popolo con  una sua struttura sociale , una sua amministrazione, un sistema di sfruttamento della terra a seconda dei bisogni delle famiglie, dopo 500 anni sia rimasto allo stesso punto , anzi peggio……… la loro cultura è stata sradicalizzata.

Non sono una storica, non ero neanche tanto brava a scuola, ma non ci vuole molto per capire che se milioni di persone vengono portate via dalla loro terra per essere “vendute“ come manodopera,  per togliere loro l’umanità ,la memoria, il pensiero della loro terra, bisogna venderle separate in luoghi distanti tra loro perché non parlino la stessa lingua, non adorino gli stessi dei. L’intento è quello di togliere loro una identità e non permettere che ricreino legami, comunità.

Il colonialismo, cosiddetto di rapina, sfrutta anche le risorse di questa terra, così come è accaduto in altri paesi come ad esempio l’India. la canna da zucchero è una coltivazione tipica  ma il Malawi non ha molte altre risorse, la terra non è così fertile e gli indigeni non sono esperti coltivatori. Gli inglesi stessi abbandonano il territorio dopo aver “esportato” contadini più esperti condotti dalle loro colonie in India, ed è dal Sud Africa che Gandhi inizia a predicare sui diritti delle “persone”prima di tornare nella sua patria.

La divisione ha da sempre impedito all’Africa di creare una “nazione” africana ed ancora oggi questo paese è spogliato di una formazione culturale. L’istruzione sarebbe la vera arma a disposizione per far “crescere” il tessuto sociale, ma questo  è impossibile se non ci sono scuole, se  la fame e le malattie impediscono di pensare  e soprattutto se il governo non partecipa a questo processo e non forma insegnanti di “tutti”, non scuole delle diverse etnie, ma scuole dove ci si ritrova con un obiettivo comune.

La scuola della mia bimba adottiva Thandi è una scuola materna, perché lei ha quattro anni e mezzo; non ci sono giochi, non ci sono maestre che le insegnano a sviluppare il pensiero, ci sono giovani donne che non hanno una preparazione specifica e che intrattengono i bambini con canti e giochi comuni nell’attesa di dar loro una colazione a base di pane a cassetta e tè, e di un pranzo a base di nsima, la loro polenta, fagioli, o riso. Tra questi bambini ce ne sono alcuni adottati a distanza che ricevono una somma per la loro frequenza a scuola e per la loro famiglia : è brutto dover scegliere, ma Ilaria, che si occupa della scuola materna, stila delle schede, sceglie tra chi ne ha più bisogno e invia  i nominativi in Italia.

Foto di bambini vestiti in ordine per l’occasione ma  sempre un po’ spaventati dalla fotografia, bambini che hanno degli occhi che parlano ma non chiedono, hanno visto  la malattia, la morte,sono cresciuti con la fame per compagna e quando vedono una caramella sono così emozionati che non riescono a mangiarla subito. Ma sono bambini, e con gioia ci accolgono cantando e mimando canzoni nella loro lingua. Quando andiamo via ci chiamano dal cancello del cortile “azungu”  ci gridano “zikomo”(grazie), ed io mi sento addosso il peso della storia, la responsabilità della loro condizione, io che pur essendo fortunata per avere tutto ,vivo in un mondo dove è sempre più raro essere felici, apprezzare la vita per se stessa e non per quello che si possiede. Non sono credente, ma Gesù ha lasciato un esempio,   cercare l’essenza vera dell’essere in ogni uomo: “guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia,perché anche se uno è nell’abbondanza,la sua vita non dipende dai suoi beni”questa è una frase dal vangelo di Luca  e trovo che sia più che mai attuale in un mondo che  è impregnato di apparenza e consumismo, siamo così incastrati nell’ingranaggio capitalistico da anteporre come obiettivi la ricchezza  e il possesso ai rapporti umani, sempre, in ogni luogo,in famiglia come nel lavoro o per la strada. Mi è capitato di incontrare una persona che avvicinandomi mi ha chiesto: “possiamo conoscerci?Io mi chiamo George e tu?” ed io, con il mio inglese elementare mi sono sentita, davanti  a quel ragazzo,  la povera, perché non so l’inglese,  perché il primo pensiero è stato : “cosa vuole questo!”.

           

Immagino la faccia delle persone se succedesse  a Milano, se lo facessi io poi  penserebbero che sono una matta e chiamerebbero il 113!!!   Eppure spesso si ha voglia di parlare, di raccontare le proprie tristezze o di comunicare le proprie gioie… spesso non c’è nessuno che ha tempo e voglia per ascoltare… Penso a tutto questo guidando piano, torno a casa, nella mia casa confortevole, ma vorrei essere lì con quei bambini ,con quelle donne quasi tutte sopravvissute almeno ad un figlio morto, rassegnate alla loro vita e alle loro fatiche. Penso che  la mia piccola Thandi, donna di domani, potrà avere più fortuna, potrà imparare un lavoro, capirà come difendersi dalle malattie, dall’AIDS, e potrà proteggere i suoi figli. Penso a quei bambini già grandi a sei anni, forse  dando loro la possibilità di imparare, di pensare, di ingegnarsi a costruire, inventare, approntare ciò che è utile per la loro vita,  a loro volta insegneranno ad altri, non per andarsene in un posto migliore, ma per rendere migliore il posto in cui sono… Credo fermamente che per dare aiuto sia necessario dare dignità e fiducia in se stessi e le strutture di cooperazione internazionale non tengono conto di questo. Le piccole iniziative di autosviluppo e di cooperazione sono quelle che insegnano che si può vivere e creare sostentamento per tutti in modo diverso. Sono le persone che danno alle persone, quelli che hanno delle conoscenze da condividere, qualcosa da insegnare. Ho conosciuto una ragazza, un’ infermiera che ha lasciato tutto in Italia e da tre anni vive in Malawi, si appoggia ad una missione (perché sono gli unici luoghi dotati di luce e acqua) e cura chiunque si rivolga a lei. I suoi amici, dall’Italia le inviano denaro per acquistare medicine, latte in polvere, fertilizzante per chi deve coltivare, piccole scorte di prodotti da vendere a donne rimaste sole che riescono a sopravvivere con un piccolo commercio, paga il viaggio in ospedale a chi deve andare a fare delle analisi, crea gruppi di ascolto per malati di AIDS, incoraggia a fondare una cooperativa e a costruire un mulino……..ed altro ancora, fatti… e idee portati avanti con difficoltà, perché manca tutto!

Non vorrebbe la citassi perché  esiste quasi un “pudore” nel donare se stessi, non potrò mai scordare però il suo grazie con gli occhi lucidi quando le abbiamo dato il denaro che avevamo con noi…  lei ha detto grazie a noi…

 

 

           

 

                       

 

 

        

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Patrizia

 

 

 

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