Laos
Racconto di viaggio 2010
di Claudia
Uno
dei ricordi più belli del viaggio in Laos è l’allegria, l’ingenuità e il
candore dei bambini. In particolare quando ci guardavano con occhi e bocche
spalancati mentre prendevamo dai nostri zaini le bolle di sapone. Dopo
l’iniziale sorpresa, un po’ timorosi, si scatenavano con gridolini di gioia
cercando di catturarle con le mani, con i piedi, allungando il collo,
rimanendoci male quando gli scoppiavano negli occhi. Ma dopo un attimo di
esitazione ricominciavano a rincorrerle.
Un
giorno è capitato a noi di rimanere a bocca aperta. In un villaggio isolato in
cima a una montagna un ragazzino soffiava delle bolle da un pezzetto di legno
con un foro, prendendo il sapone da una foglia che teneva in mano. Un sistema
artigianale e ingegnoso.
La
prima città visitata è stata Bangkok. Caotica, molto inquinata e affollata di
turisti in cerca di facili divertimenti esotici. Spesso si incrociavano
ragazzine che accompagnavano uomini occidentali o donne agghindate con costumi
tradizionali che vendevano brutti souvenir per niente caratteristici. Povere
donne e bambine che probabilmente provengono dalle campagne e sacrificano la
loro dignità per racimolare qualche soldo.
Al
Wat Saket, il tempio della Collina d’oro si sentiva solo il frusciare delle
bandiere al vento e il tintinnio delle campanelle. La cupola
è ricoperta da piccoli tasselli dorati che riflettono il sole e da
lassù si può osservare la città con i suoi grattacieli e le punte ricoperte
d’oro dei tanti templi buddhisti.
Una
volta ridiscesi nelle vie rumorose, ci siamo inoltrati nel quartiere di
Chinatown dove file di bancarelle e negozi mettevano in mostra migliaia di
oggetti in plastica colorata tutti uguali.
Un
treno notturno con cuccette semplici e pulite e con aria condizionata ci ha
portati fino a Nong Khai, accesso principale al Laos. Nonostante fosse mattino
presto il caldo già cominciava ad tormentarci mentre ci mettevamo in coda in
attesa di proseguire il viaggio su un altro treno, sgangherato e lento. Dopo
avere attraversato il ponte dell’amicizia Thailandia-Laos, a Tha Na Lang si
sono potute evadere le formalità doganali per raggiungere Ventiane.
La
capitale del Laos è definita la più tranquilla del mondo. C’è un piacevole
lungofiume da percorrere in compagnia della gente del posto, pagode con statue
del Buddha, negozietti di souvenir, automobili e scooter molto ben tenuti e
tanto traffico, seppur disciplinato. Ci siamo fermati solo un giorno per poi
continuare verso Vang Vieng su un bus di linea sul quale un televisore ha
trasmesso per tutto il tragitto video musicali laotiani a volume altissimo,
ragion per cui siamo arrivati frastornati alla meta.
Il
soggiorno in questa località turistica è stato rilassante e piacevole. Il
noleggio di una bicicletta il primo giorno e di una moto da cross il secondo, ci
ha permesso di scoprire i villaggi circostanti dove venivamo avvicinati da
diversi ragazzini in giro a zonzo (ci chiedevamo se e quando andavano a scuola)
che spesso mendicavano “money money”. Aggiravamo la questione distraendoli
con qualche giochetto o mostrandogli il binocolo, strumento a quanto pare ancora
sconosciuto.
Abbiamo
visitato tre delle numerose grotte descritte nella guida. Buie, con un forte
odore di umidità frammisto a incenso, si raggiungevano con una scarpinata sulle
rocce bagnate. L’esplorazione di solito terminava davanti a un altarino con
una statua del Buddha, coroncine di fiori secchi, qualche lumino al burro e
delle monete. In una di queste grotte, dopo essere avanzati carponi per un breve
tratto, mi sono appoggiata a una parete ma quando la luce della torcia ha
illuminato un ragno grosso come il pugno di un bambino, mi sono allontanata in
fretta facendo scoppiare in una risata i due ragazzini che ci stavano facendo da
guida.
Luang
Prabang ci ha accolto in modo inaspettato e festoso. Stava infatti per iniziare
una lunga parata folcloristica in costume, con maschere e strumenti tradizionali
e tanta gente esultante che assisteva incantata allo spettacolo dei tamburi,
delle trombe e del vortice di colori che sembrava ballare al loro ritmo.
La
gita sul placido e lento Mekong al tramonto è stata incantevole. Un barcone
tutto per noi ci ha guidati lungo campi coltivati e risaie, mentre i contadini
terminavano la giornata lavorativa e raccoglievano i loro attrezzi, i bimbi
giocavano lungo le sponde e le donne approfittavano per fare il bucato e per
lavarsi. Tutto scorre lungo le rive di questo fiume maestoso dove, tra
l’altro, si raccoglie l’acqua anche per cucinare.
La
sera venivamo rapiti dalle bancarelle del mercato notturno illuminato dalle luci
soffuse delle lampade di carta, dagli odori delle spezie e dal richiamo delle
venditrici che cercavano di attirare l’attenzione sulle loro mercanzie.
Avremmo dovuto fermarci più a lungo per poter apprezzare con calma i numerosi templi decorati di statue e affreschi di divinità, in cui i monaci si muovono in silenzio, prendendosi cura di queste opere antiche e luccicanti e dove gli sguardi pacifici del Buddha trasmettono serenità e fanno scomparire l’ansia.
Abbiamo
comunque lasciato Luang Prabang per raggiungere Muang Ngoi Khiaw in barca,
attirando la curiosità degli altri passeggeri indigeni con i nostri enormi
zaini, le macchine fotografiche e forse la nostra evidente felicità di vivere
appieno questo viaggio. Anche se una vera conversazione era difficile, i loro
sorrisi e i loro saluti al momento della separazione ci hanno commosso più di
tante parole.
Sulla
verandina della semplice e spoglia camera affacciata sul fiume Nam Ou abbiamo
abbandonato per un po’ gli scarponcini e la frenesia della città. Su questa
penisola, infatti, non ci sono mezzi meccanici e alle otto di sera tutto si
ferma: la gente si ritira in casa, la musica si spegne, i ristoranti chiudono.
Non rimane che rilassarsi e attendere che giunga il sonno al gracidare delle
rane e al frinire dei grilli. All’alba ci pensano i monaci a dare la sveglia
con il loro travolgente e lungo battere dei tamburi che richiamano alla
preghiera.
Per
vincere la pigrizia e non bighellonare sull’isola tutto il tempo, ci siamo
fatti accompagnare in barca a due villaggi di pescatori senza nessuna struttura
alberghiera ma solo capanne di legno e paglia, con i bambini che interrompevano
i loro giochi per correrci incontro e le donne che tessevano scialli colorati
fuori dalle case. Nonostante l’evidente vita dura di queste persone, si ha la
sensazione che non siano schiavi del tempo, dello stress, della continua
rincorsa alle mille attività che noi a volte ci ostiniamo a cercare.
Purtroppo
però il tempo a nostra disposizione scorreva più in fretta di quanto avessimo
voluto, per cui presto un altro autobus, affollato e scomodissimo, ci ha
portati, impolverati e stanchi, a Luang Nam Tha.
Dopo
una giornata in sella a uno scooter alla scoperta della campagna e degli
splendidi stupa che dominano dalle colline, abbiamo intrapreso un trekking nella
giungla, lungo sentieri circondati da piante di caucciù provenienti dal Sud
America e trapiantate appositamente per estrarre il lattice.
L’indomani,
raggiunta Vieng Pukha, due giovani e gentilissime guide ci aspettavano per
iniziare un altro trekking, questa volta di un paio di giorni.
Dopo
cinque ore di marcia nella giungla, su pendii scoscesi e guadando piccoli
torrenti, abbiamo raggiunto un isolato villaggio in cima a una collina, popolato
dagli Akha, originari della Mongolia che dopo una prima emigrazione verso la
Cina, a causa delle diverse guerre scoppiate nel Paese hanno raggiunto la
Thailandia, il Vietnam, la Birmania e il Laos.
La
voce di due nuovi stranieri in visita si è sparsa in un battibaleno e presto la
capanna che avremmo condiviso con le guide durante la notte è stata
simpaticamente invasa dai bambini del villaggio. Ogni nostro gesto e parola sono
stati accompagnati dai loro risolini fino all’ora di andare a dormire, dopo
una cena consumata per terra su foglie di banano che fungevano da tovaglie.
Che
magnifica notte di Natale abbiamo trascorso. Il cielo era tappezzato di stelle
che non lasciavano spazio nemmeno a un minuscolo buco e il silenzio era rotto
dai versi degli animali che gironzolavano tutt’intorno fino a quando sono
rimasti solo i grilli a conciliarci il sonno.
Ringraziato
e salutato tutti, la mattina presto ci attendevano altre cinque ore di marcia
per tornare a Vieng Pukha per la nostra ultima notte in Laos.
Il
giorno seguente un mini-bus, atteso sul ciglio della strada, ci ha portati fino
a Huang Xai, dove con un battello abbiamo attraversato il confine per
raggiungere la nostra destinazione finale, Chang Rai.
Rieccoci
in Thailandia. Sebbene sia una piccola città, l’atmosfera è molto più
frenetica che in Laos. Il traffico è intenso, ci sono molti negozi che vendono
articoli di stampo americano e ristoranti che propongono menù europei.
Il
Wat Rong Khun, più comunemente denominato White Temple ci ha riportati per
alcune ore nella magica atmosfera orientale. Questo complesso di templi bianchi,
decorati con pezzetti d'argento scintillanti alla luce degli ultimi raggi di
sole e sorvegliato da enormi statue di creature terrificanti, attrae turisti di
ogni nazionalità, in contemplazione davanti a tanta magnificenza e in
silenzioso rispetto.
Ci
siamo concessi un’ultima fuga dalla città in groppa a un elefante che
agilissimo, nonostante l’imponente mole, si inerpicava per un sentiero di
montagna stretto e ripido. Circondati dai campi coltivati, la voce del mahut che
scandiva gli ordini ai quali il pachiderma ubbidiva diligente e il suono dei
rami di bambù sradicati e divorati golosamente da quest’ultimo mentre
procedeva lento, quasi ci ninnava. Dopo una ricca ricompensa di caschi di banane
ci siamo congedati anche dall’elefante e dal suo istruttore.
Per
concludere quest’ultima giornata del nostro viaggio, ci attendeva una
camminata nelle colline. La natura rigogliosa, le cascate rinfrescanti e i
sorrisi della gente sono diventati gli ultimi ricordi di un’esperienza da
rivivere il più presto possibile.
Claudia