Kyrgyzstan

Diario di viaggio 2012

di Massimiliano Gallina

 

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- Dove vai in vacanza quest'anno?
- In Kyrgyzstan
- Doveeeeee??????
- IN KIR-GHI-ZI-STAN
- Cos'è, una cosa che si mangia?
- No, è un paese dell'Asia centrale.
- E che ci vai a fare?



Già, che ci vado a fare? Ma è così che cominciano i dialoghi di luglio, prima delle vacanze estive.

Quando tutti si preparano per andare al mare... come faccio a spiegare alla gente perchè vado in vacanza in uno dei tanti "Stan" nati dopo la caduta dell'Unione Sovietica, dove la gente parla come unica lingua un russo quasi incomprensibile, mangiandosi molte lettere; dove non esiste l'illuminazione pubblica, e anzi camminare per strada di sera non è una buona idea; dove il primo giorno, quando arrivo all'ostello, incontro molti viaggiatori che hanno passato la notte sul cesso in preda a spasmi intestinali...
Ci vado perchè in Kirghisia (questo è il nome italianizzato) posso fare e vedere cose che non ho mai fatto prima. Posso fare trekking a quote così alte da mancarmi il fiato, mentre di fronte a me si stagliano vette di settemila metri; posso dormire nelle tende dei nomadi, sulle rive di un lago a tremila metri di quota, mentre cavalli selvatici brucano l'erba liberi da qualsiasi padrone; posso aiutare i pastori a mungere le cavalle, per poi lasciarne il latte a fermentare sotto il sole per giorni a giorni, fino ad ottenere una bevanda frizzante e fermentata, la cosa più nauseabonda che si possa immaginare di bere; posso vedere i cacciatori con le aquile togliere il cappuccio ai loro rapaci, per poi lanciarli all'inseguimento di volpi e conigli destinati a fare una brutta fine; posso salire su un autobus in cui tutti i passeggeri volgiono stringermi la mano, chiedermi incuriositi da dove vengo e sgranare gli occhi quando scoprono che non sono ancora sposato, pur avendo da tempo superato i vent'anni; ma, soprattutto, posso incontrare bambini che si divertono come matti a farsi foto a vicenda con la mia macchinetta, per poi restituirmela e, invece di chiedermi soldi, dirmi "grazie per averci fatto giocare".
Ci vado perchè posso fare, e ho fatto, queste e molte altre cose.

E anche la conclusione del dialogo è sempre la stessa:
- Ma non hai paura? Da solo, poi, in un paese sconosciuto...
- Certo che ho paura. Ma dobbiamo fare le cose che ci fanno paura, altrimenti non potremo mai crescere.

 

Bishkek è la capitale del Kyrgyzstan, ed il suo nome significa zangola, a testimoniare quanto i Kirghisi siano legati alle tradizioni della pastorizia. Essi, infatti, sono sempre stati nomadi: pastori legati alla transumanza, che in estate accompagnavano le greggi di pecore e mucche nei pascoli di alta montagna, detti jailoo, vivendo nelle loro grandi tende smontabili, il cui "tetto", il tunduk, compare anche sulla bandiera nazionale; per poi ritornare a valle prima delle nevicate invernali. Fu solo con l'arrivo dei bolscevichi che i Kirghisi furono costretti a diventare stanziali, e ad andare a vivere nelle città coloniali dalle tipiche casette di legno fondate dai primi coloni russi.

Ed è proprio con la zangola che si prepara ancora il kymys, la bevanda nazionale russa: si munge una cavalla (meglio ancora una giumenta), poi si mette il latte a macerare al sole per diversi giorni, finché non fermenta come di deve. Poi si travasa in sacche di pelle che vengono appese alla tenda che fa da casa, sempre sul lato esposto al sole, ed è tradizione che i visitatori che passano di lì la agitino prima di entrare, in modo che non si fermi il burro. Quando è pronto, il kymys diventa una specie di latte ma gassato, leggermente alcolico, e dal sapore acidissimo, decisamente nauseabondo; ricorda un frullato di gorgonzola marcio con l'aggiunta di sciroppo per la tosse. Eppure le gente qui ne va matta: gli scaffali dei negozi sono ricolmi di bottiglie di kymys, e la gente ne beve dalla mattina a tarda sera. Di diverso parere sono gli ospiti dell'ostello, che incontro nel mio primo giorno di viaggio:

 

"Se lo bevi, ti viene subito la diarrea", mi dice Enrique, un catalano doc. Allora mi viene il dubbio:

"Ma se invece hai già la diarrea, te la fa passare?"

"No no, te ne viene il doppio..."

In effetti Enrique non ha una bella cera. E' arrivato fin qui da Barcellona con la sua bici, ma la cosa non mi sorprende: la Via della Seta è un percorso molto frequentato dai ciclisti, e in estate non è raro vederne intere carovane che pedalano dall'Europa fino a Kashgar, in Cina, o anche oltre, stando via un paio di mesi. Enrique, però, ha deciso di fermarsi qui perché è malato da oltre una settimana.

"Sono già andato da tre dottori diversi, - mi spiega un po' affaticato - e ognuno mi ha dato una medicina diversa, dicendomi che quella precedente era sbagliata, e assicurandomi che la sua invece era infallibile. Ma ogni volta stavo sempre peggio. Per fortuna, tra due giorni torno a casa". Quest'ultima è una frase che sento dire da molti, e non mi rincuora affatto.

Con lui c'è Denis, uno scozzese dai capelli rasta e la faccia molto espressiva che ricorda tantissimo Telespalla Bob, il fallito comico che cerca sempre di uccidere Bart Simpson. E' fermo a Bishkek da due settimane in attesa di un visto cinese, che continuano a negargli per via del suo aspetto "poco raccomandabile" (come dice lui stesso). All'ambasciata gli hanno detto che se vuole il visto deve tagliarsi i capelli, ma lui non ne vuole sapere, così si limita a raccoglierli in una lunga coda, sperando che gli dia un aspetto abbastanza serio.

Poi c'è Olga, una bella polacca dagli occhi azzurrissimi e la scollatura generosa; vorrei fare amicizia, ma è bloccata tutto al giorno a letto tranne per le pause in cui corre difilato in bagno... credo che sarà un lungo viaggio...  

 

"Non andare in giro di notte, è pericoloso: ci sono molti ubriachi molesti, e alcuni turisti sono già stati aggrediti". Così mi avverte Zahir, il gestore della guesthouse dove alloggio. In realtà la "guesthouse" non è altro che un appartamento le cui stanze sono state riempite di letti, per stipare più viaggiatori possibile. Io ho prenotato un posto nel "dormitorio", uno stanzone con sei brandine accatastate una in parte all'altra con pochissimo spazio vitale; ogni "letto" è formato da un sottile materassino tipo campeggio, appoggiato su una rete sfondata, al punto che praticamente si dorme con il culo per terra. Ammesso di riuscire a dormire, cosa non facile tra ragazzi che russano, altri che tornano ubriachi alle due di notte, altri ancora che si alzano continuamente per correre in bagno, ed il tizio che occupa la branda opposta alla mia, con cui continuiamo a scontrarci con i piedi. Ma a me è andata ancora bene: alcuni backpackers che non avevano prenotato vengono sistemati alla bell'e meglio sul terrazzo, mentre Marco, un italiano che viaggia con la fidanzata tedesca, trova un posticino su una brandina stesa in cucina, tra il tavolo ed il lavandino.

In compenso la "guesthouse" è pulitissima, gestita da uzbeki che mi fanno togliere le scarpe ogni volta che entro, e che continuano a passare l'aspirapolvere ogni mezz'ora. Zahir è musulmano e rispetta il Ramadan: non beve e non mangia per tutto il giorno, e certo per lui non dev'essere facile sopportare i chiassosi ospiti occidentali che si preparano da mangiare nel piccolo cucinino ad ogni ora del giorno e della notte; ma forse c'è abituato, gestendo un ostello. Di sicuro è meno abituato a vedere ragazze come Petra, una biondissima ceca di un metro e novanta che gira per casa con una scollatura vertiginosa e dei pantaloncini microscopici che scoprono delle gambe infinite; in confronto a lei Zahir, con la sua barbetta a punta ed il lungo caftano, sembra venire da un altro pianeta...

Prima di avvertirmi sui pericoli della città, il buon uzbeko mi ha spiegato come funziona il bagno: se voglio l'acqua calda, devo avvisarlo per tempo, in modo che lui possa preparare il necessario. Nell'ordine, le operazioni da svolgere sono le seguenti: staccare la corrente; smontare il coperchio del boiler; prendere un boccione di acqua (sul genere di quelli portati dall'instancabile Wanda di camera cafè), salire su uno sgabello e versarlo nel boiler; riattaccare la corrente; accendere il boiler; aspettare che l'acqua si scaldi; lavarsi. Ciò va fatto quando lo scaldabagno è vuoto, il che succede ogni volta che Petra si fa la doccia, ed è per questo che la mattina tutti noi cerchiamo di svegliarci presto, facendo a gara per riuscire ad andare in bagno prima di lei...

Ma in fondo Zahir è molto paziente; lui e i suoi fratelli vengono da Osh, città del sud a maggioranza uzbeka, e come quelli della sua gente è tranquillo, taciturno, religioso, astemio, e col senso degli affari. Molto diverso dai russificati kirghisi, molto più caciaroni e con la tendenza al bere ad ogni occasione: basti pensare che, fin dal mattino, ad ogni angolo di strada si possono incontrare matrone di mezza età, sedute su una scatola di frutta rovesciata, che vendono bicchieri di vodka ad un prezzo equivalente ad otto centesimi di euro. In effetti i conflitti etnici sono il principale problema di questo paese: il nord kirghiso ed il sud uzbeko sono divisi, oltre che dalla religione, dal massiccio di Fergana, una catena montuosa con passi ad oltre quattromila metri, le cui strade d'inverno sono spesso chiuse per neve tagliando in due il paese. Tensioni e scontri tra le due etnie sono all'ordine del giorno, e ogni tanto sfociano in una vera guerra civile, tanto che dall'indipendenza sono già saltati due presidenti, evento rarissimo nei paesi centro-asiatici, governati da dittature molto repressive.

Ed è proprio la tendenza al bere che rende la città pericolosa, specie di notte, quando gruppi di giovani fannulloni non hanno un modo migliore di riempire il tempo che tracannare vodka di seconda scelta fino a stordirsi. Da qui l'avviso di Zahir: "E stai lontano dai parchi", aggiunge, ma questo avvertimento è più difficile da rispettare. Come tutte le città dell'ex Unione Sovietica, anche Bishkek è piena di verde: è impossibile camminare più di dieci minuti senza imbattersi in un parco alberato, con fontane, vialetti, panchine, statue dedicate a qualche scrittore o letterato famoso. E col caldo agostano, i parchi sono pieni di famiglie alla ricerca di un po' di ombra, di bambini che corrono sotto lo sguardo vigile di mamme operose, di ragazzi che fanno la corte alle ragazze con minigonna e cellulare, di anziani che fanno confronti tra il presente ed il passato... sembra proprio una città tranquilla e ospitale Bishkek, almeno finché non cala la notte; ma poi... lo scoprirò a mie spese.

 

Sulla Lonely Planet è quotato come uno dei migliori ristoranti del paese, e infatti sono molti i turisti occidentali che entrano alla ricerca di un tavolo, armati della fedele guida. Certo, il foglio di carta moschicida ricoperto di insetti morti appoggiato in bella mostra sul tavolo non stimola l'appetito, ma almeno significa che le mosche non sono finite in pentola...

Sono a Kochkor, un piccolo villaggio del Kyrgyzstan centrale usato dagli escursionisti come base per esplorare le montagne circostanti, per le cui strade si possono incontrare uomini con il kolpak, il tipico copricapo bianco, stretto e altissimo, portato con fierezza da chi non dimentica le proprie origini. Per l'indomani ho prenotato un trekking di due giorni, così stasera mi sono voluto concedere una cena al ristorante, in compagna di Thomas, uno svizzero che dorme nella mia stessa guesthouse; sulla quarantina, ha lasciato il lavoro, si è preso un anno sabbatico, e adesso gira per l'Asia senza un itinerario vero e proprio, più che altro bighellonando decidendo di volta in volta come riempire le giornate. A noi si è aggiunto Mathias, un tedesco che dopo essere stato lasciato dalla morosa è partito alla ricerca di qualcosa, o forse di se stesso. Entrambi sono arrivati fin qui in bicicletta, ognuno per conto proprio, e adesso raccontano le loro storie davanti ad una specie di spezzatino sfrigolante in un piatto che trasuda olio bollente, ed un bel boccale di Baltika 9, la birra russa triplo malto che scioglie la lingua in fretta. Thomas sfodera una cartina dettagliata dei dintorni, che consultiamo a turno cercando di immaginare il nostro prossimo itinerario: da domani comincia il vero viaggio, verso montagne, passi a quattromila metri e laghi alpini. Nel frattempo, parlando del più e del meno, si è svuotato anche il secondo boccale, e lo svizzero comincia a dare segnali di cedimento: sguardo perso nel vuoto, busto piegato in avanti, gesticola molto accompagnando le sue frasi, sempre più sconnesse, con ampi gesti delle braccia e strane smorfie del volto. Quando finalmente riusciamo a trascinarlo fuori dal ristorante e cerchiamo di ritrovare la strada di casa aiutati dall'unica luce della mia torcia elettrica, il buon ginevrino vede un locale ancora aperto, con tanto di luminarie appese intorno alla porta, e ci si fionda a capofitto. Io e Mathias ci guardiamo interdetti, ma non ci resta altro fare che seguirlo; entriamo così in un enorme salone, in cui tavoli, sedie e pareti sono decorate da grandi nastri colorati e infiocchettati, come se si fosse appena celebrato un matrimonio. Peccato che il locale sia completamente deserto, e le svogliate cameriere sono quasi stupite di veder entrare dei clienti. Thomas ordina subito una vodka; la cameriera, vedendo le sue condizioni, gli chiede se vuole anche qualcosa da mangiare, ma lui insiste: "Solo vodka, per favore!" Mathias si adegua e i due, convinti che gli verrà servito un bicchierino, restano perplessi quando si vedono portare un vassoio su cui poggia una bottiglia intera, e di prima qualità! Ma per i due nordici sarà un gioco da ragazzi scolarsela tutta, mentre io mi accontento di un semplice thè; la bevanda purtroppo si rivelerà una pessima scelta, poiché non è bollente, ma solo scaldata, e il giorno dopo pagherò cara questa decisione... la prossima volta, solo vodka anche per me!

Preoccupati da quanto possa essere esorbitante il conto, Thomas appare più sollevato quando legge che il totale ammonta a circa 3 euro... qui gli alcolici sono decisamente a buon mercato! Passata la serata, ci alziamo e ognuno va per la sua strada: domani, almeno per me, sarà un giorno molto impegnativo.

 

La mattina dopo incontro Ermelinda, di Latina, e Pedro, il suo fidanzato spagnolo. Hanno prenotato il mio stesso trekking, con la differenza che loro andranno a cavallo mentre io procederò a piedi: sono bergamasco, sono nato in salita, e preferisco irti ma solidi sentieri al continuo su e giù degli equini, che mi procura solo il mal di mare. Una macchina ci porta al villaggio da cui partirà il trekking; ma quando l'autista si ferma in prossimità di alcune tende nomadi per comprare la sua razione giornaliera di kymys, comincio a sentire la pancia agitarsi in modo sempre più irrefrenabile... cerco di resistere, ma è difficile, e quando arriviamo al campo base devo correre dal gestore chiedendo del bagno. Mi indica una piccola capanna sul retro di una fattoria, ma io nella foga entro nel locale sbagliato, una specie di doccia comune senza l'ombra di un gabinetto... preso dal panico mi guardo intorno alla disperata ricerca di qualcosa di utile... alla fine dovrò usare un cestino dei rifiuti, sperando di ripartire prima che qualcuno si accorga del misfatto...

E adesso mi aspettano sei ore di trekking: spero che non mancheranno i cespugli.

 

La famiglia che ci ospita a Kilenche è una tipica famiglia nomade kirghisa: papà, mamma, zio, e figli piccoli. Vivono in una delle due tende; l'altra è per me, Ermelinda, Pedro e le nostre guide. E' tutto qui, il "villaggio" di Kilenche: due yurte tirate su in mezzo a verdi pascoli, ad oltre duemila cinquecento metri di quota, raggiungibili in cinque ore di cammino tra valli, pascoli, boschi che si fanno sempre più radi man mano che si sale di quota, incontrando molte più pecore che persone. Per me, le cinque ore sono diventate quasi sette, dopo aver camminato sotto il sole a picco, con lo zaino carico e con lo squaraus che non mi da tregua. Le pastiglie che ho preso impiegano tempo a fare effetto, e il trekking si rivela molto impegnativo... anche perché la mia guida sembra indifferente al mio malessere. Si chiama Artin, ha una ventina d'anni, e come molti ragazzi della sua età in inverno vive a Bishkek, dove studia all'università, mentre in estate torna al paesello per raggranellare un po' di soldi come guida turistica. Lui, che percorre queste montagne quasi ogni giorno, parte subito a razzo, lasciandomi presto indietro sotto il sole e con lo zaino che si fa sempre più pesante. Dopo un paio d'ore di cammino abbastanza pianeggiante, lo raggiungo e gli chiedo quanto manca. "Un'ora" mi risponde allegro senza neanche pensarci. Bene, penso io, siamo a buon punto. Non vedo l'ora di arrivare! La strada però, poco dopo comincia a farsi erta e la fatica si fa sentire. Risaliamo un pendio quasi infinito, dopo il quale c'è un'altra valle da percorrere in tutta la sua lunghezza; poi un altro pendio, poi un'altra valle... un pendio, e una valle... non si arriva mai. Dopo altre due ore di cammino nel nulla più totale stramazzo al suolo, disidratato dallo squaraus, che espelle subito l'acqua che bevo; è come camminare a digiuno. "Quanto manca?" gli richiedo, un po' meno fiducioso delle sue valutazioni. Artin ci pensa su, poi: "Mezz'ora", sentenzia allegramente. Dunque fin'ora abbiamo percorso metà della sua "ora", che corrispondono a due ore reali, quindi la "mezz'ora" rimanente non promette niente di buono. Riprendiamo: un altro pendio, poi una valle, poi un pendio, poi ancora una valle... e così per altre due ore. Sto seriamente valutando l'ipotesi di fermarmi in mezzo al nulla e dormire all'addiaccio, quando Artin mi guarda e, senza che io gli abbia chiesto niente, mi dice "dieci minuti!" come se questo dovesse farmi sentire meglio...

 

Ed è dopo la settima ora di cammino che arriviamo finalmente a Kilenche, ma la fatica è ripagata da un paesaggio solenne. Intorno a noi solo montagne e pascoli, con i rumori tipici dell'alpeggio: le pecore belano mentre vengono riportate nel recinto spronate dal capofamiglia a cavallo, mentre suo fratello si occupa dei cavalli che nitriscono allegramente al profumo del pasto serale. Il sole sta per tramontare, e la moglie sta già armeggiando nel piccolo cucinino per preparare la cena. La figlia più grande, che avrà otto-nove anni, ha già fatto amicizia con Ermelinda, che la sta aiutando a colorare un album da disegno. La ragazzina è vivacissima, curiosissima, e quando mi vede arrivare, trafelato e sfinito, viene subito a fare amicizia. Ma è comprensibile: passa tutta l'estate qui, in tenda, con la sola compagnia della sua famiglia, e l'arrivo di un estraneo dev'essere una gran festa per lei, così piena di vitalità. Le mostro la mia macchina fotografica, spiegandole come funziona lo zoom, ma dopo trenta secondi ha già imparato tutto, mi ha strappato la macchinetta dalle mani ed è corsa a fotografare tutto e tutti, entusiasta del suo nuovo giocattolo (suo, insomma...). Il suo sorriso è contagioso, illumina quel suo viso dai lineamenti orientali nascosto sotto una frangia di capelli nerissimi, e non posso resistere quando mi stuzzica per giocare a rimpiattino. Ermelinda fa da base, e io la rincorro intorno all'accampamento, senza quasi sentire la stanchezza della lunga giornata, mntre la bambina ride, grida e si diverte come una pazza. Non posso fare a meno di chiedermi quanti bambini italiani della sua età si divertirebbero allo stesso modo con un gioco così semplice...

Finalmente la cena è pronta; non è molto, ma con la fame che ho qualsiasi cosa mi sembra squisita, anche la zuppa di cipolle e patate che sarà per me l'unico pasto della giornata. Per fortuna, sulla tavola non mancano pane e marmellata, che accompagnano ogni pasto kirghiso, con la padrona di casa che ci chiede con solerzia "altro tè?" ogni volta che svuotiamo le nostre scodelle. Si mangia seduti per terra, il tavolo è alto una ventina di centimetri e l'unica luce arriva dalla porticina della yurta che presto verrà chiusa con una tenda di saggina. E' la prima volta che entro in una yurta, la tipica abitazione kirghisa, formata da un'impalcatura di legno, pieghevole, ricoperta da candidi tappeti di feltro e chiusa in alto dal tunduk, una specie di ruota rappresentata anche sulla bandiera nazionale. Nella yurta si vive, si cucina si mangia, si chiacchiera, si dorme... è incredibile come tutto ciò possa avvenire con semplicità in uno spazio tanto limitato. Ermelinda mi spiega che la prosperità della famiglia si deduce dalle decorazioni della tenda: più questa è addobbata e colorata, infatti, più la famiglia è ricca; e questa, sorprendentemente, deve esserlo molto, perché questa sarà la yurta più fastosa che ho visitato. Dopo cena, i piatti vengono portati via, la tavola smontata, e da chissà dove saltano fuori materassini e trapunte per passare le notte, prontamente allestiti dalla padrona di casa. Intanto la ragazzina vuole giocare ancora, ma io casco dal sonno e, quando mimo il gesto di dormire, lei si allunga dietro una piega della yurta e ne estrae un cuscino che mi porge sorridendo... che tenera! E' per queste emozioni che sono venuto fin qui.

Alle nove è buio, e non rimane altro da fare che mettersi a dormire, anche perché domani sarà un'altra lunga giornata, con il superamento di un passo a tremilaseicento metri. Indosso tutti i maglioni che ho con me, compresa la giacca a vento, poi mi infilo nel sacco a pelo su cui poggio tre coperte di lana: a duemilaesei fa molto freddo di notte. Spero solo che non mi torni lo squaraus; oltre a disfarmi di tutti gli strati, dovrei uscire fuori con cinque sotto zero, attraversare al buio il prato evitando il recinto delle pecore nella speranza di raggiungere il bagno, una buca scavata a due metri di profondità e indicata da un gabbiotto di legno costruito al livello del terreno, evitare di finirci dentro e fare i miei bisogni, il tutto correndo nella speranza di arrivare in tempo...

 

La vita da nomade sicuramente richiede una dieta molto calorica: la giornata è lunga, si lavora dall'alba al tramonto e ci sono mille cose da fare: portare le pecore al pascolo, mungere le cavalle, pulire le tende, raccogliere le verdure dall'orto, aggiustare lo steccato, andare al fiume a prendere l'acqua... e infatti la colazione che la signora ci ha preparato è bella tosta: un semolino come lo faceva mia nonna, bello pastoso e denso, che avrà un bel diecimila calorie... per fortuna oggi sto meglio, e non ho problemi a divorarlo. Oggi il trekking sarà particolarmente impegnativo, e ci vuole una bella scorta di energia! Dato che stasera reincontrerò Ermelinda e Pedro al lago, Artin mi chiede se voglio mettere lo zaino sul loro cavallo, per poi recuperarlo in serata. Non ci metto molto ad accettare: per me tengo solo l'acqua e la giacca a vento, così affrontare la lunga salita verso il passo sarà molto più semplice. Nel frattempo, la signora mi insegna a mungere una cavalla: è un'operazione molto più faticosa di quanto immaginavo, anche perché l'animale non ne vuole sapere di stare fermo, e bisogna continuamente smettere di mungerlo per tirare le redini e riportarlo in posizione.

Io ho finito le mie scorte d'acqua, quindi chiedo poi alla signora se può bollirmene un po' e poi versarmela nella borraccia; mi dice che non ci sono problemi, anche se non ho ancora capito dove trovi l'energia per far funzionare il bollitore elettrico: la risposta è allo stesso tempo semplice e disarmante: una piccolo pannello solare appoggiato alla yurta fornice alla famiglia la corrente necessaria; allora la modernità è arrivata anche qui!

Salutata l'allegra famigliola ripartiamo, e ovviamente Artin sparisce subito all'orizzonte. Ermelinda e Pedro, con i loro cavalli, seguono un percorso diverso, più adatto ai quattrozampe, e li rivedrò soltanto alla sera. Così resto solo in compagnia di Artin; compagnia per modo di dire, perché col suo passo velocissimo mi ha già seminato; ogni tanto si volta indietro per vedere se sono ancora vivo, poi riparte a spron battuto mentre io arranco sotto il sole. Il problema è che lui porta anche la mia acqua, quindi quando ho sete devo sbracciarmi e fargli segno di fermarsi ad aspettarmi, per poi farmi passare l'agognata borraccia. Lo squaraus oggi è passato, ma in compenso ha cominciato a farmi male una caviglia, quindi la salita non è proprio agevole...

 

Dopo un'ora e mezza arriviamo in cima al passo: siamo intorno ai tremilacinquecento metri e l'aria è bella fresca, anche se il sole splende sopra di noi. Ma la cosa più importante è il lago, meta tanto desiderata di questo trekking. Sotto di noi, in fondo ad una lunga vallata, brillano le acque cristalline del lago Song-Kol, a tremilacento metri di quota, uno dei luoghi più incantevoli dell'Asia centrale. Dopo aver recuperato lo zaino, che gli altri hanno lasciato qui, procediamo senza esitazione (soprattutto Artin) lungo la vallata, che richiede altre due ore di cammino per poter raggiungere le sponde del lago. Qui ci fermiamo per un pranzo in una delle tante yurte accampate nei dintorni, dove faccio amiciza con degli alpinisti francesi, che hanno passato un mese su e giù per queste montagne. Quando arriva l'ora di ripartire comincio a sentirmi piuttosto stanco, e il sole si è fatto davvero caldo, quindi è con un po' di timore che chiedo alla mia guida: "Quante ore mancano?"

Lui ci pensa su per un po', poi sentenzia: "due ore". Questa volta, dato che ci ha pensato bene prima di rispondere, ho l'impressione che la sua risposta sia realistica, e mi sento abbastanza ottimista. Riprendiamo a camminare attraverso una sconfinata prateria bruciata dal sole, ed essendo l'una del pomeriggio decido di coprirmi braccia e spalle per non bruciarmi la pelle, anche se so che così faticherò ancora di più. Artin procede pimpante, e di nuovo mi lascia indietro, voltandosi ogni tanto per vedere se ci sono ancora. Camminiamo camminiamo, ma di yurte nemmeno l'ombra finché, giunti in cima ad una piccola altura, vedo delle tende all'orizzonte, piccolissime per la distanza. Artin questa volta si è fermato ad aspettarmi, così gli chiedo se la nostra destinazione è quella, ma non so se essere contento alla sua risposta affermativa. Le tende sono ancora così lontane! 

Il paesaggio, però, è eccezionale. Procediamo su un altipiano in riva al lago, le cui acque azzurrissime richiamano moltissimi animali ad abbeverarsi. Pecore, mucche, montoni vagano liberi nella prateria, mentre mandrie di cavalli selvaggi galoppano liberi, senza alcun padrone, sulla sponda del lago, sotto il sole che fa luccicare la schiuma delle onde... io ho un po' di timore a muovermi, da solo, in mezzo a tutti questi animali selvatici, che ogni tanto partono al galoppo imbizzarriti verso il lago o le montagne circostanti. Per fortuna non mi trovo mai sulla loro traiettoria, ma se la mia guida mi stesse un po' più vicina mi sentirei più tranquillo. Dopo un po', rivedo i francesi che, muniti di cavallo, ci hanno raggiunti e superati; le tende sono ancora lontane... finalmente, due ore e mezza dopo il pranzo, arriviamo al nostro accampamento (stavolta Artin è stato buon profeta...), dove ritrovo i miei compagni italo-spagnoli intenti a godersi la quiete del lago. Il villaggio qui è molto più grande che a Kilenche: ci saranno una cinquantina di tende. Dato che il sito è raggiungibile anche in macchina, nel week-end si riempie di turisti sfaticati che non sanno apprezzare la fatica necessaria ad arrivarci...  Io sono distrutto, ho la caviglia che sembra un'anguria e non sento più le spalle, ma mi siedo con un buon libro, la schiena appoggiata alla yurta, il sole che mi scalda viso e braccia, osservando i cavalli che pascolano sulla riva di un lago cristallino e puro, mentre gli unici rumori sono i belati delle pecore ricondotte al pascolo dai nomadi, mentre la matrona di turno prepara il thè...

 

...e non sento più la stanchezza.

 

In Kyrgyzstan l'ospitalità è sacra. Capita spesso, camminando per strada, di incontrare persone che ti sorridono, ti tendono la mano e ti chiedono: "Come va?". Oppure ci si può imbattere in vere e proprie sale per banchetti, con tavolate imbandite di ogni ben di Dio, dove i viandanti vengono invitati ad entrare e a rifocillarsi. Nessuno lo fa per soldi, anzi: offrire del denaro in queste situazioni è un'offesa grave, perché è come dire: "Il tuo cibo faceva schifo; prendi questi soldi e comprati qualcosa di buono". Questi banchetti sono organizzati per puro spirito di  ospitalità: i kirghisi, popolo per tradizione nomade e quindi sempre in movimento, sono abituati a chiedere e a dare ospitalità a chiunque, senza aspettarsi in cambio nient'altro che un sorriso.

Tutto ciò può sembrare molto bello a noi che siamo abituati a dover pagare anche l'aria che respiriamo; ma come per ogni cosa, c'è un rovescio della medaglia: l'ospitalità non si può rifiutare. Respingere un invito rappresenta per un kirghiso il peggior insulto possibile, e potrebbe reagire in malo modo, tanto violento quanto gentile era stato il suo invito. Se per strada un ubriaco puzzolente e vestito di stracci ti tende la mano, tu gliela DEVI stringere. Se alle otto del mattino qualcuno stappa una bottiglia di vodka e te la porge, tu DEVI bere. Se ti invitano ad un banchetto in un posto lurido, con stoviglie sporche e topi che corrono lungo i muri, tu DEVI entrare e DEVI mangiare. Un "no" non è accettabile come risposta, per quanto tu possa dirlo in modo gentile ed educato, cercando di non offendere chi hai davanti: il rifiuto è di per sé una grave offesa, quindi bisogna sempre e comunque accettare gli inviti, anche se possono portare a spiacevoli conseguenze.

Questi banchetti pubblici vengono organizzati spesso nelle vicinanze di monumenti importanti, o di siti di pellegrinaggio, luoghi in cui passa moltissima gente e quindi gli organizzatori possono essere orgogliosi di accogliere e sfamare molte persone. Per esempio se ne trova uno vicino alla torre di Burana, un minareto costruito nell'XI secolo come simbolo della città di Balasagun, capitale di un vasto regno poi distrutto da Gengis Khan; oppure presso il caravanseraj di Tash Rabat, un luogo sperduto tra le montagne ma dotato di un fascino indefinibile.

Un caravanserraglio è una specie di albergo medioevale, un luogo in cui le carovane di principi, di mercanti, o anche di semplici pellegrini sostavano lungo i loro infiniti andirivieni lungo la Via della Seta, trovando ristoro e riparo dalle intemperie. Quello di Tash Rabat è uno dei meglio conservati, tanto che non dimostra i mille anni di storia di cui è stato spettatore. La leggenda narra che un khan locale, ormai avanti con gli anni, dovesse decidere quale, tra i suoi due figli, fosse più meritevole di ereditare il trono. Decise allora di sottoporli ad un test: li lasciò governare per un anno ciascuno, osservando come si comportavano. Il figlio più saggio introdusse delle tecniche per migliorare l'agricoltura e per diffondere l'istruzione; l'altro, più guerrafondaio, fece forgiare armi e costruire fortezze, tra cui Tash Rabat, che significa proprio "fortezza di pietra". Il padre, infine, optò per il primo figlio e l'altro, disperato, si buttò da una scarpata, lasciando ai  mute testimonianze delle sue ambizioni espansionistiche.

Sono vicinissimo al confine cinese, e dalla strada posso ammirare le vette del Tien Shan, un'imponente catena montuosa la cui altezza media supera i cinquemila metri. Estrema propaggine occidentale dell'Himalaya, Tien Shan in cinese significa appunto "montagne celesti" perché qui, accanto a questo nastro d'asfalto che per centinaia di chilometri percorre il nulla più assoluto, queste vette perennemente innevate sembrano davvero toccarsi con il cielo azzurrissimo, con cui formano un tutt'uno. Certo, riuscirei a godermi meglio lo spettacolo se il mio autista, perennemente impegnato al cellulare, non corresse a centocinquanta all'ora su una strada sconnessa, piena di buche e, soprattutto, di dossi non segnalati che appaiono all'improvviso, costringendo il brav'uomo a frenate improvvise e brusche che mettono a dura prova un'auto che già alla partenza non sembrava molto ben messa.

Ma non importa: Tash Rabat è un luogo magico, impregnato di misticismo. A prima vista non sembra niente di speciale, solo quattro mura e un tetto a forma di cupola. Ma basta percorrere pochi passi tra i suoi freddi corridoi che subito la mente rievoca immagini del passato, quando le lunghissime carovane di mercanti cinesi si fermavano qui per ripararsi dalle piogge e dai predoni, lungo la strada verso la Battriana, la Sogdiana, la Transoxiana: nomi di antichi regni che oggi esistono solo più sui libri di storia. A quei tempi le carovane erano chilometriche, formate da centinaia di carri carichi di spezie, seta, pietre preziose, che instancabili cammelli, o cavalli per i più ricchi, trainavano lentamente per migliaia di chilometri sotto la pioggia, la neve, il vento gelido che qui, a oltre tremila metri di quota, non smette mai di sferzare i viandanti. Dopo viaggi che duravano settimane, gli emissari del Celeste Impero sostavano qui, a Tash Rabat, per riposarsi, comprare cibo dai nomadi del posto, pregare (il caravanserraglio comprende anche una moschea) e incontrare i viandanti che andavano nell'altra direzione: il grande prato di fronte al sito si trasformava allora in un enorme mercato, dove cinesi, arabi, uyguri, kirghisi, turcomanni, mongoli, persiani, si incontravano in un caleidoscopio di costumi, di lingue, di religioni, di usanze, comprando e vendendo di tutto, per poi spesso fare direttamente ritorno a casa, senza bisogno di proseguire oltre.

Ed è sempre qui, a Tash Rabat, che l'ospitalità kirghisa mi costringe ad una sosta forzata. Dopo aver visitato il sito, cerco il mio autista che nel frattempo si è insediato in un vecchissimo rimorchio per camion, ormai inutilizzabile come tale e trasformato in abitazione dagli abitanti del posto. Qui trovo la solita tavola imbandita, dove sono costretto a rifornirmi, bevendo thè e mangiando pane e marmellata. Il posto è lercissimo, le stoviglie nere e lavate chissà quando e con chissà quale acqua, ma non mi è possibile rifiutare. Finché non avrò mangiato e bevuto qualcosa, il mio autista si rifiuterà di ripartire, a costo di restare qui tutto il giorno. Così devo, a malincuore, accettare; la mattina dopo però, come previsto, pagherò la decisione a caro prezzo, ed un forte mal di pancia mi accompagnerà per i successivi due giorni senza darmi tregua. E pensare che ero appena guarito...

   

Di tutto il mondo, il Kyrgyzstan è il paese in assoluto più lontano dal mare. Questa lontananza però non si fa sentire grazie alla presenza del lago Issyk-Kol, uno dei più grandi dell'Asia. Si trova a duemila metri di quota, ma le sue acque sono calde, e in estate sulle spiagge è possibile prendere il sole; per questo negli ultimi anni sulle sue rive sono sorti molti resort turistici, che tra luglio e agosto vengono presi d'assalto da facoltosi turisti russi e kazaki che qui trovano un ideale ambiente vacanziero, con spiagge attrezzate, locali all'aperto, discoteche in stile riviera romagnola, e un mare cristallino, quasi incontaminato (prima che arrivino loro). Grande diciotto volte il lago di Garda, questo bacino mitiga molto il clima della regione: non per niente il suo nome significa "lago caldo", poiché non ghiaccia nemmeno in inverno. Io ho fatto sosta a Bokonbaevo, una polverosa cittadina a pochi chilometri da una piccola spiaggia sulla riva meridionale, molto più pulita ed incontaminata di quella settentrionale, e sono curioso di ammirare questo grande lago.

Ma non sono arrivato fin qui solo per questo. So che da queste parti, ogni anno, in agosto, si tiene il festival della falconeria, e sono molto curioso di assistervi.

La falconeria è molto diffusa in Kyrgyzstan, tanto che se fosse una disciplina olimpica questo paese farebbe certamente incetta di medaglie. I cacciatori con l'aquila sono persone molto rispettate, perché portano avanti una tradizione nomade vecchia di secoli, che riescono ancora a trasmettere ai figli. I possenti rapaci, una volta catturati, vengono incappucciati e fatti dondolare su di un trespolo, mentre il padrone intona una nenia lenta e ipnotizzante, in modo da creare un legame tra sé e l'animale. In seguito il cacciatore risveglia lo spirito selvatico dell'aquila, salendo a cavallo e trascinando delle pelli di animale che fungono da esca, incitando il rapace ad afferarli. Dopo questo periodo di addestramento, padre e figlio partono per le battute di caccia, che si svolgono soprattutto in inverno, quando i piccoli mammiferi scendono dalle montagne tornando alle valli a bassa quota. Si lavora in coppia: il figlio fa da battitore e, correndo e urlando, spinge gli animali fuori dai loro ripari verso uno spazio aperto; a quel punto il padre toglie il cappuccio dall'aquila, che subito spicca il volo: identificata la preda, di solito una volpe o un tasso, si cala dall'alto e la ghermisce con gli artigli, sollevandola da terra per poi farla ricadere. Tramortita, la preda non è più in grado di difendersi dal becco e dagli artigli del rapace, che la fa a pezzi in pochi secondi. Può sembrare una pratica crudele e insensibile, ma per i pastori di queste terre è l'unico modo di procurarsi del cibo fresco, per poter superare il lungo inverno. Un cacciatore non uccide mai più prede di quelle necessarie a sfamare la sua famiglia, né cerca di trarne un profitto economico. Anche l'aquila viene trattata bene, e dopo un anno o due viene lasciata libera di tornare sulle montagne. "Sappiamo che anch'esse hanno la loro casa e la una famiglia che le aspetta, così all'arrivo della primavea le lasciamo andare in mezzo alla natura selvaggia, dove possono tornare libere" - mi dice Ashtnikan, figlio di un cacciatore.

Io non ho mai visto qualcuno cacciare con l'aquila, e sono arrivato fin qui sperando di poter assistere al festival nazionale. In questo evento, i cacciatori di tutto il paese si ritrovano per sfidarsi in gare di bravura, ognuno esponendo orgoglioso il proprio animale. Spero di essere in tempo, e l'addetta del locale ufficio del turismo mi da risposte incoraggianti:

"Sapete quando si tiene il festival della falconeria?"

"Sì, è domani, in un villaggio qui vicino"

"Ah, bene, allora sono arrivato proprio al momento giusto!"

"E' vero: dura un giorno solo"

"Bene; allora oggi vado al lago, e domani torno qui, così mi date informazioni precise su come arrivarci"

"Certo! You're welcome!"

 

Così passo una giornata in riva al lago, prendendo il sole su una spiaggia piccola ma molto affollata di gente fin dalla mattina presto. Non sembra davvero di essere in alta quota: ragazzi e ragazze si tuffano, giocano nell'acqua, tornano sulla sabbia a prendere il sole, poi scartano cartocci di cibo fritto per pranzare in compagnia... pare proprio di essere su una spiaggia nostrana, e finalmente riesco a godermi un pomeriggio di riposo, libero dal pensiero di zaini e di squaraus vari.

 

Alla sera la padrona della guesthouse che mi ospita porta la cena a me e ai due ragazzi ginevrini che già avevo incontrato a Kochkor, e che ritrovo qui. Tutti i turisti bene o male dormono nelle stesse case, quindi è facile reincontrare viaggiatori che magari ho già visto alcuni giorni prima, poi ho salutato per andare dalla parte opposta del paese, e adesso ritrovo per caso, a tavola. Loro domani hanno in programma l'ennesimo trekking, anche se la ragazza non è molto convinta: da alcuni giorni sta passando più tempo sul cesso che tra le montagne...

L'indomani, finalmente, mi aspetta il tanto pregustato festival. Sono davvero emozionato all'idea, perché è una delle poche cose che non ho ancora visto, così torno all'ufficio turistico per avere maggiori dettagli. Ritrovo la ragazza di ieri, ma scoprirò che purtroppo, i kirghisi, per quanto gentili e disponibili, sono piuttosto incompetenti.

 

"Buongiorno, sono qui per sapere come raggiungere il festival"

"Ah... credo di essermi sbagliata. Il festival era ieri..."

"Come ieri? E non c'è anche oggi?"

"No: dura un giorno solo..."

 

 

"In Kyrgyzstan, quando due giovani si sposano, lo stato regala loro una casa" mi spiega Artyun, un russo con cui ho appena fatto amicizia. "Così il marito può lavorare tranquillamente, mentre la moglie resta a casa a crescere i figli. Se no come fanno?" e lo chiede allargando le braccia, come se fosse la domanda più ovvia del mondo. Vorrei spiegargli che in Italia non funziona esattamente così, anzi; e che, sinceramente, non lo so proprio come fanno da noi. Ma non importa, forse lo sa già: Artyun lavora all'ambasciata americana di Bishkek, dove si occupa di consulenze economiche per aziende che vogliono fare affari nel paese, e di sicuro conosce bene il mondo occidentale. Però si ricorda ancora di quando qui era Unione Sovietica, ed ogni famiglia aveva diritto ad una casa, gentilmente fornita dallo stato. Le giovani coppie non dovevano accendere mutui né bruciarsi metà dello stipendio per procurarsi un'abitazione: lo stato provvedeva a tutto, restando ovviamente proprietario dell'immobile, da cui l'allegra famigliola poteva essere cacciata in qualsiasi momento per far spazio a chiunque altro venisse considerato più bisognoso.

Dopo l'indipendenza il governo kirghiso propose alle famiglie di riscattare la proprietà delle proprie case, pagando una cifra simbolica: all'epoca, un appartamento di tre stanze in centro a Bishkek non costava più di due o tremila euro. "I miei genitori - continua Artyun - erano indecisi se comprarsi una casa o un computer; ho dovuto insistere parecchio per convincerli a scegliere la casa, e adesso che vale venti volte tanto non smettono di ringraziarmi".

Oggi la pratica di regalare case è stata abolita ufficialmente, ma in molti villaggi è ancora usanza che il municipio locale assegni gratuitamente delle abitazioni a giovani coppie con la promessa (che qui vale più di qualsiasi contratto firmato) che ne avranno l'usufrutto a vita; in cambio, gli sposini si impegnano a prendersi cura della dimora, sollevando così il comune dai gravosi oneri di manutenzione.

Artyun è in compagnia di alcune sue amiche: una dolce e timida kirghisa, un'allegra kazaka che non smette mai di parlare, ed una uighura, dalla pelle scura e gli occhi penetranti, che definire "di lineamenti orientali" è dire poco. Comunicare non è un problema: il russo è lingua franca qui, quasi un esperanto per il mosaico di popoli ed etnie che abita l'Asia centrale. Artyun e le sue amiche, come molti altri kirghisi, sono arrivati fin qui, nella zvetov dolina, la valle dei fiori, per passare il week-end al riparo dall'opprimente calura delle città. Oggi infatti è sabato, e intere comitive di gitanti arrivano in macchina o in pullman fino a questo incantevole luogo di villeggiatura a duemiladuecento metri di quota per accendere un barbecue, montare un tavolino all'ombra dei pini e rilassarsi, giocare a carte, ascoltare musica, e godersi l'aria fresca e la natura (quasi) incontaminata. Io, naturalmente, ci sono venuto a piedi, con una camminata di un paio d'ore per nulla impegnativa (una volta tanto), giusto un allenamento per le dure salite che ancora mi aspettano. E' stato facile seguire il sentiero che parte da un vecchio sanatorio presso il villaggio di Jeti-Oghuz, cioè "sette tori". I "tori" in realtà sono delle sporgenze rocciose che formano la cima di una collina di arenaria, di cui la zona circostante è molto ricca. Il nome deriva dalla leggenda di sette grossi tori che, cresciuti liberi e forti grazie ai floridi pascoli della vallata, vagavano indisturbati per la zona attaccando i contadini e distruggendo le coltivazioni. Gli abitanti del villaggio pregarono il loro dio di fermarli, ed Egli decise di accontentarli congelando i tori e trasformandoli in montagne.

Questa leggenda mi fa tornare alla mente la Norvegia: anche in quella terra per ogni masso, albero o lago dalla forma un po' strana esiste qualche antico racconto risalente alla notte dei tempi, che pretende di spiegarne l'origine ed il nome fiabesco. La differenza principale sta nei protagonisti dei suddetti racconti: in Scandinavia, le fiabe narrano storie di elfi, gnomi e orchi; in Kyrgyzstan invece, i protagonisti sono meno prosaici: pastorelle, cacciatori, cavallerizzi, al limite uno sciamano. Puntualmente, la collina successiva è oggetto di un'altra di queste leggende. C'era una volta una ragazza bellissima, che viveva in un villaggio vicino. Due giovani del posto, perdutamente innamorati di lei, fanno a gara nel corteggiarla ma la pulzella, attratta da entrambi, non sa quale scegliere. I due decidono allora di sfidarsi a duello: il vincitore otterrà il cuore (e non solo quello) dell'amata. Il finale è piuttosto scontato: i duellanti, accecati dalla brama della vittoria, si uccidono a vicenda; la ragazza, rimasta sola e distrutta dal dolore, muore di crepacuore. Sulla sua tomba crescerà poi una collina che ancora oggi porta il nome evocativo di razbitoye serdze, cuore spezzato.

Da Jeti Oghuz una pista sterrata risale la valle del fiume omonimo, una stretta gola in cui il sole penetra a malapena, fino a raggiungere un grande pianoro. Questa volta il cammino è facile: mi sono procurato una cartina per ogni evenienza, ma non serve perché la pista sale dolcemente e ben segnalata, e posso camminare da solo, in tutta tranquillità, senza dover correre dietro a qualche guida forsennata. Ogni tanto un traballante ponticello dall'aria non troppo rassicurante scavalca il torrente, ma dato che anche le macchine ci passano sopra, non mi faccio molti scrupoli ad affrontarlo. Man mano che salgo l'aria si fa più fresca e gli alberi si chiudono sul percorso, fino a formare una specie di tunnel naturale; nonostante sia mattino inoltrato, diventa quasi buio fin quando, all'improvviso, lo sguardo si apre su di una sconfinata radura. Qua e là si scorgono alcune yurte isolate, ma gli abitanti di questo luogo sono soprattutto cavali e mucche, anche qui animali selvatici, liberi di correre, pascolare, andare dove più gli aggrada. Mi stendo a prendere il sole ma subito una mucca mi scruta con fare sospettoso e all'improvviso comincia a correre verso di me; velocemente raccolgo le mie cose e mi dirigo verso una tenda vicina, dove alcuni pastori stanno cucinando il pranzo. La presenza di altre persone sembra scoraggiare l'animale, che ritorna sui suoi passi, con l'aria però di voler ritornare presto ala carica (eppure non mi pare che le mucche mangino le persone...).

Oltre l'altopiano c'è un nuovo ponte, poi la strada riprende a salire verso un'altra vallata, ma io sono pago. Mi fermo ad osservare un gruppo di cavalli che, in ordinata fila indiana, attraversa il ponte per dirigersi verso qualche pascolo, forse nel tentativo di sfuggire alla presenza dei vacanzieri che si fanno più invadenti ogni minuto che passa. Tra di loro, un piccolo puledro si nasconde tra i compagni più grandi, che quasi sembrano scortarlo a destinazione.

 

E' difficile andarsene da un posto simile, ma io non sono abituato a stare senza far niente, e dopo un po' sento il bisogno di riattivarmi, di fare qualcosa. Un paio d'ore di relax al fresco di una pineta sono state sufficienti per ricaricare le batterie: recupero lo zaino e mi incammino lungo la strada del ritorno. Domani mi aspetta la salita all'Altyn Arashan, la tappa più dura di tutto il viaggio, al cui confronto ciò che ho passato finora mi farà quasi sorridere.

 

Mi sono sempre chiesto perché le montagne russe si chiamino così. Facendo una ricerca, ho scoperto che in effetti il nome non è del tutto campato in aria: l'idea è nata a San Pietroburgo dove, già nel 1500 e con  il non trascurabile aiuto del clima, gli abitanti costruivano artificiali scivoli di ghiaccio su cui far scivolare le slitte. Vorrei spiegarlo a Valentin, che ne sarebbe di certo orgoglioso, ma temo che ne nascerebbe una discussione infinita: infatti è curioso che in russo le "montagne russe" si chiamino "montagne americane", perché i russi credono che siano state inventate sull'altra sponde dell'oceano...

Comunque, nemmeno i rollercoaster (questo è il loro nome anglosassone) più emozionanti possono reggere il paragone con la strada che da Altyn Arashan scende al paese di Karakol. La jeep sobbalza in modo spaventoso mentre precipita nelle buche di mezzo metro, scavalca gli enormi massi, sprofonda nel torrente, affrontando i continui saliscendi, le voragini, i tratti franati che la costringono ad arrampicarsi sulle pendici delle pareti circostanti sfidando la forza di gravità. Sobbalziamo paurosamente, tanto che devo accucciarmi per non picchiare la testa contro il tettuccio, come invece succede regolarmente alla moglie di Valentin, seduta davanti. Gli enormi bagagli accatastati sul sedile accanto al mio sbandano fino a rotolarmi addosso, mentre ho l'impressione che il sedile si sradicherà da un momento all'altro catapultandomi fuori dal trabiccolo. Mi aggrappo tanto forte alla maniglia che, quando cerco di staccare la mano, mi accorgo che non risponde più ai miei comandi e che il sangue ha smesso di circolare. Ma non mi importa più di tanto, perché il mal di mare mi sta facendo "digerire" la colazione e sento che sto per svenire...

 

Ma andiamo con ordine. Altyn Arashan è una ridente località di montagna, situata a duemilacinque-duemilaseicento metri, famosa per le sue vasche termali, pozze di acqua calda che sgorga direttamente dal terreno e dove molti turisti si recano a fare un rilassante bagno. E' quanto di più simile ad una sauna finlandese si possa trovare da queste parti, e in certi giorni bisogna fare la fila per poter godere di queste vasche all'aperto in cui l'acqua supera i trenta gradi; adulti e bambini sguazzano in queste pozze bollenti, per poi uscire e correre a tuffarsi nel fiume, la cui temperatura è di certo molto inferiore: ma russi e nordici sono avvezzi a queste pratiche, il cui sbalzo termico pare essere un toccasana per la salute.

L'unico svantaggio è che, per raggiungere questo villaggio, bisogna percorrere quindici chilometri di una terribile strada soggetta a valanghe, inondazioni, terremoti, e che di sicuro ha visto tempi migliori; i trasporti sono scarsissimi ed imprevedibili, giusto qualche camion di militari, così decido di farmela a piedi, partendo di buon'ora e lasciando il grosso dei bagagli a Karakol, dove tornerò a recuperarli tra qualche giorno. Ermelinda e Pedro, che erano già stati qui prima di me, mi avevano avvisato che "il primo pezzo è tutto al sole", il che mi lascia sperare che, ad un certo punto, comincerà un secondo pezzo più riparato. Decido allora di partire molto presto per evitare le ore più calde; con un minibus raggiungo l'ennesimo sanatorio, da cui parte la pista diretta alle terme. Pensavo che avrei incontrato qualche trekker, invece solo il placido scorrere del fiume mi accompagna lungo il percorso. Dopo un paio d'ore in cui gli unici segni di civiltà sono stati una baracca abbandonata delle guardie forestali ed una baita custodita da un cane piuttosto ringhioso, mi fermo a tirare il fiato. Appoggio gli occhiali su un sasso per spalmarmi la crema solare, mi stiracchio rilassato, allungo le gambe per godermi il bosco e... CRAC! Ho messo un piede sugli occhiali...

Alzo subito il piede, ma ormai il danno è fatto. Per un attimo, il terrore mi scorre nelle vene, perché senza occhiali io divento come l'uomo talpa dei Simpson, e non sarei in grado di distinguere un coniglio da un elefante. Mi chiedo come potrò continuare a cavarmela in questo paese, o anche solo raggiungere la fine del sentiero, ma quando controllo i danni mi accorgo che la montatura di titanio ha resistito abbastanza bene: si è spezzata in un punto vicino alla stanghetta destra, ma non si è frantumata, quindi riesco ancora a tenere gli occhiali sul naso, anche se la lente destra cade in terra ogni volta che abbasso lo sguardo. Beh, almeno ho un motivo per andare a testa alta...

Dopo un altro paio d'ore incontro finalmente qualche trekker che sta scendendo, così mi informo sulla distanza che rimane, anche se ormai non mi fido più tanto delle valutazioni altrui. Infine, dopo sei ore abbondanti di un percorso ripido ed accidentato che è stato tutto al sole, arrivo in cima ad un'altura da cui si scorge il villaggio, dominato sullo sfondo dall'imponente mole degli oltre quattromila metri del monte Palatka.

Qui raggiungo il piccolo ostello gestito da Valentin, una pittoresca guida alpina, che parla solo in russo strettissimo e che sembra essere l'attrazione del posto. C'è anche unpiccolo bar che vende di tutto: vino, birra, vodka, fanta... l'unica cosa che non hanno è l'acqua. Quando gli chiedo spiegazioni, Valentin mi accompagna ad una grande vasca arrugginita, dove un tubo di gomma che penzola dal tetto versa acqua senza sosta. L'uomo mi incoraggia a bere a garganella, vantandosi del fatto che l'acqua "arriva direttamente dalla sorgente in cima alle montagne!" Peccato che il percorso dalla montagna fin qui sia lungo un prato dove centinaia di animali pascolano liberamente... va beh, vuol dire che per questo giro andremo a birra.

 

Intanto faccio amicizia con dei ragazzi parigini che, sfidando l'aria per così dire "frizzante" che comincia a tirare, si tuffano allegramente nel fiume che scorre ai margini del villaggio. Attraverso un traballante ponte di legno per osservarli meglio, e incontro alcuni ragazzini che subito vengono attratti dalla mia macchina fotografica. Incuriositi, me la strappano dalle mani e cominciano subito a giocarci, mettendosi in posa e scattandosi foto a vicenda, per poi correre subito a guardarsi nel piccolo monitor digitale. I bambini ridono, fanno smorfie, assumono buffe pose quasi in una gara a chi fa più il pagliaccio, per poi coinvolgere nell'allegro teatrino anche l'anziano e burbero nonno, che dapprima li rimprovera senza molta convinzione, poi si lascia coinvolgere nel gioco dei nipoti. Anche il fedele cane viene inquadrato, ma non sembra essere molto interessato alla notorietà dato che volge sempre le spalle all'obiettivo nonostante gli sforzi dei padroncini, che cercano in tutti i modi di metterlo nella giusta posa.

Ma è ora di cena. Il nonno richiama i nipoti all'ordine ed il maggiore di questi, nel restituirmi la macchina fotografica non mi chiede né soldi né caramelle, anzi: mi sorride contento e, con un pensiero spontaneo che mi stringe il cuore, mi dice: "Grazie di averci fatto giocare". Credo che non dimenticherò mai questo momento.  

 

Il giorno dopo è ora di ritornare a valle. Valentin si offre di accompagnarmi con la sua macchina, ovviamente dopo aver fatto un bel bagno nella sua pozza privata. L'auto non ha un aspetto molto incoraggiante: è una jeep di stampo militare, risalente a tempi molto vecchi, e non proprio ben tenuta: sono di più i pezzi che le mancano di quelli che restano. Sono un po' dubbioso, ma dal momento che la macchina ogni giorno fa su e giù fino in città, ed è ancora intera, penso che almeno un altro viaggio potrà sopportarlo.

Certo, non bisogna andare troppo per il sottile: i tergicristalli sono attaccati al tettuccio, anziché al cofano, come si usava tantissimi anni fa, e il volante è di quelli enormi, difficile da girare; sotto di esso, i cavi dell'accensione penzolano scoperti. Tutti gli strumenti del cruscotto hanno indicatori vecchissimi, nessuno dei quali funziona. I sedili sono strappati; le portiere non hanno più le maniglie, e si possono aprire solo dall'esterno (ma come faremo quando saremo saliti tutti?); i finestrini sono bloccati; il parabrezza è scheggiato; la ventola è, diciamo così, "belle epoque". Il proprietario, forse per incoraggiarmi, mi mostra orgogliosamente il foglio di immatricolazione, datato 1965; diciamo che forse da noi non passerebbe la revisione... All'alba delle dieci, il brav'uomo comincia a caricare i sedili posteriori di zaini, borsoni e bagagli enormi e pesantissimi, che altri viaggiatori gli hanno "affidato" per non doverli portare a valle sulle spalle. Io dovrò accovacciarmi per trovare un posticino. E quando, finalmente, tutto sembra pronto per partire, comincia il bello: il motore non parte. Dai e dai, Valentin continua a girare freneticamente la chiave nell'accensione (mi stupisco che non usi un piede di porco...), ma il motorino d'avviamento continua a girare a vuoto.

Dopo alcuni minuti di inutili tentativi, l'uomo scende dall'auto e decide di giocare un'altra carta. Si allontana fischiettando verso un piccolo capanno degli attrezzi, dove comincia a rovistare rumorosamente per poi uscirne con un caricabatterie, di quelli che si usano anche da noi per ricaricare le batterie delle auto. Sono stupito che in un posto tanto remoto siano così ben attrezzati, e infatti il mio ottimismo è destinato a durare poco. Valentin collega i fili ai poli della batteria, poi prova ad accendere il motore: niente. Passano altri minuti, altri tentativi a vuoto, ma la macchina non parte: evidentemente, il caricabatterie è scarico.

Si sono fatte le undici, e il cielo comincia a farsi minaccioso. Se si mette a piovere, la "strada" diventerà una fanghiglia impenetrabile, percorribile solo con un carro armato. Ma Valentin non è tipo da perdersi d'animo: "no problem, no problem" mi rassicura allegramente; poi, fischiettando, si dirige nel solito capanno. Altro rovistare, altro rumore di ferraglia; infine l'uomo rispunta armato di un compressore diesel, che collega al caricabatterie. L'idea sembra questa: far partire il compressore, che dovrebbe ricaricare il caricabatterie, che a sua volta ricaricherà la batteria dell'auto. Io dubito che un tale groviglio di cavi elettrici possa funzionare, ma Valentin è ottimista, così mi siedo su una panca a godermi lo spettacolo.

Rimane solo un piccolo dettaglio: far partire il compressore. L'accensione, infatti, avviene per mezzo di una corda che va tirata per far partire il motorino che accenderà il compressore che caricherà il caricabatterie che accumulerà la batteria che farà partire il motore dell'auto (manca solo il fuoco che bruciò il legno, ecc...).

Valentin strattona la corda: niente. L'uomo tira e suda, suda e tira, tira e suda, ma l'aggeggio non vuole saperne di accendersi. Quasi si spella le mani a forza di strattonare la corda, che però ogni volta gira a vuoto. La situazione è evidente: il serbatoio del compressore è vuoto.

Vorrei suggerire di usare il gasolio della jeep per riempire il compressore, ma non vorrei scatenare una nuova serie di problemi: ormai è mezzogiorno passato, la strada è lunga, il cielo è coperto e io comincio a pensare che, se fossi andato a piedi, sarei già arrivato.

Ma Valentin continua ad essere allegro, e scopro che ha una soluzione di riserva: va dal suo vicino di casa e gli chiede di portare la sua macchina vicino alla jeep; quindi collega direttamente le due batterie e... oplà! La jeep si accende subito! Tutti si rallegrano dandosi pacche sulle spalle, mentre io li guardo e mi chiedo: ma... non potevano farlo prima?

Il resto è storia...

 

In Kyrgyzstan c'è l'abitudine di rapire le donne. Funziona così: un uomo vede passare per strada una donna che gli piace; se la carica in spalla, la mette su un'auto con la forza e se la porta a casa. In seguito non le porta violenza, anzi: la sposa deve restare illibata fino alle nozze, quindi il passo successivo consiste nel convocare la famiglia di lei e chiedere che acconsenta al matrimonio. Di solito la risposta è positiva, perché i genitori sono contenti di avere una bocca in meno da sfamare; inoltre, in questo modo la cerimonia si svolge in modo molto più sbrigativo ed economico, con vantaggi per tutti. Beh, tranne che per la donna, naturalmente, che ha comunque il diritto di rifiutare l'accordo e di tornare a casa, dove però sarà probabilmente trattata con distacco ed antipatia. Bisogna anche riconoscere che molti matrimoni cominciati in questo modo si sono poi rivelati duraturi, data l'indole pacifica e accomodante dei kirghisi.

Questa pratica, risalente ai tempi del nomadismo, oggi è ufficialmente fuorilegge, ma Artin mi spiega che è ancora praticata negli sperduti villaggi di montagna, dove le occasioni di "socializzare" sono molto rare, e quando un giovane pastore abituato a stare tutto il tempo con capre e cavalli vede passare una bella ragazza, fa un po' fatica a trattenersi...

Artin ha venticinque anni ed è single, un evento raro da queste parti. I suoi genitori insistono affinché si trovi una ragazza e si sposi, che ormai sarebbe ora, ma lui sembra più interessato a studiare e a divertirsi (nel senso di passare le serate giocando  a ping-pong con suo padre nel cortile di casa). Gli suggerisco che, al limite, può sempre rapire una ragazza e sistemarsi, e lui sorride distraendo lo sguardo. Chissà...

 

Siamo a Talas, città del Kyrgyzstan occidentale, separata dalla capitale Bishkek da una strada infinita che attraversa due passi a oltre tremilacinquecento metri. Qui il Kazakistan è molto più vicino, ed è lì che la gente si reca quando vuole fare pazze spese.

Ma Talas è soprattutto la città in cui è sepolto Manas, l'eroe nazionale kirghiso. Si tratta di una figura mitica, vissuta forse nel decimo o undicesimo secolo, che avrebbe condotto il suo popolo attraverso steppe e deserti asiatici fino ad occupare la loro terra attuale. Mitico condottiero, ritratto sempre a cavallo, le cui statue campeggiano nelle piazze di ogni città, rappresenta un'idea di nazione più che una persona reale. Lo stesso Artin, che mi fa da guida nell'imponente mausoleo ad egli dedicato, non crede che sia esistito veramente ("ma non dirlo in giro", mi sussurra, strizzandomi l'occhio). Qui a Talas l'eroe è venerato come un Dio, perché qui si troverebbe la sua tomba, intorno alla quale è stato costruito un complesso formato da un museo, uno stadio, svariate statue e tombe dei suoi fedeli, un cimitero tradizionale; e anche se il tutto assomiglia più ad un parco giochi che ad un luogo di culto, qui ogni giorno arrivano migliaia e migliaia di pellegrini per venerare questa figura leggendaria.

Entriamo nel museo, per la verità non molto affollato, tanto che non si trova neanche una guida. Artin confabula con la bigliettaia, che poi si allontana di corsa. "E' andata a chiamare una guida - mi spiega -: adesso non ce ne sono perché in questo periodo sono tutte impegnate con la mietitura nei campi." Evidentemente, anche qui la cultura non garantisce un'occupazione stabile...

Arriva la guida: una signora di mezza età che parla solo kirghiso. Mentre si prodiga in spiegazioni delle varie statue, foto e dipinti, Armin traduce ma io capisco poco. Mi mostrano una copia del libro che racconta tutta la storia di Manas, un'epopea dell'eroe e dei suoi figli: pare che sia il libro più lungo del mondo, pari all'Iliade e all'Odissea messe insieme e moltiplicate per venti (ne esiste anche un'edizione italiana, per chi fosse interessato). La vita del grande condottiero è interessante, ma piena di episodi della storia classica; in particolare, mi colpisce l'aneddoto secondo cui, alla nascita del suddetto, una veggente aveva predetto al re di quel tempo che un neonato di nome Manas lo avrebbe spodestato; allora il re aveva ordinato di fare uccidere tutti i bambini nati in quell'anno che portassero quel nome (mi sembra di averla già sentita questa...). Comunque i suoi genitori, alle cui orecchie era giunta la notizia, avevano deciso di cambiargli nome, salvandogli così la vita. Innumerevoli sono poi i racconti e i dipinti delle sue imprese militari, in cui il condottiero, perennemente raffigurato a cavallo di un possente destriero, con indosso una sfavillante armatura, vince innumerevoli battaglie sconfiggendo ad uno ad uno tutti i nemici, e conducendo infine il suo popolo alla terra promessa. Pare anche che alla sua morte la moglie Kanykey, una donna (stranamente) bellissima, per evitare che i nemici di Manas trovassero e distruggessero la tomba, la fece costruire molto in profondità, realizzando sopra di essa altre tombe dedicate invece a delle donne, così da mimetizzare quella originale.

La storia di Manas viene raccontata dai manasci, cantori che si muovono di villaggio in villaggio imbastendo dei veri e propri spettacoli teatrali in cui le imprese del condottiero vengono narrate in modo molto spettacolare. I manasci più famosi, come Togolok Moldo e Sagimbai Orozbakov, sono dei veri e propri VIP, conosciuti e rispettati in tutto il paese, e le loro fotografie autografate risaltano in ogni angolo dei teatri. Ogni loro spettacolo è un vero e proprio evento nazionale e raduna migliaia di spettatori, anche se forse oggi questi personaggi vivono più di fama riflessa che non di vera bravura, aiutati come sono da un esercito di figuranti e di voci fuori campo.

Un tempo, i manasci erano dei personaggi molto più temuti e rispettati, quasi degli sciamani, che incutevano un sentito timore nel pubblico. Quando arrivavano in un villaggio, tutte le attività si fermavano e l'intera popolazione si assiepava intorno al cantore, che cominciava a raccontare le gesta di Manas in un'atmosfera di estrema tensione e di alto spessore narrativo. Il vero manasci interpretava da solo tutti i personaggi, tanto che i suoi racconti potevano durare svariati giorni. Il narratore raccontava in modo molto realistico le battaglie, le sofferenze, le discussioni, le sconfitte, gli amori, le vittorie di Manas, tenendo inchiodati a sé gli spettatori che, col fiato sospeso, soffrivano e si angosciavano al racconto di duelli e scontri cavallereschi, per poi compiaciuti all'immancabile trionfo finale dell'eroe. Si narra addirittura che, quando parlavano i manasci più bravi, succedessero fatti soprannaturali: i cavalli impazzivano, come inseguiti da una forza invisibile, e dal cielo azzurro e privo di nuvole cominciava inspiegabilmente a piovere.

D'altronde fare il manasci non è cosa da tutti, anzi, è un lavoro che solo pochi eletti possono portare avanti. Infatti dev'essere lo stesso Manas ad apparirti in sogno e ordinarti di diventare un suo cantore. A quel punto non puoi più rifiutarti: devi abbandonare la tua vita ordinaria e assumerti l'onore di essere un manasci, altrimenti la sfortuna si abbatterà sul resto della tua misera esistenza.

 

Mentre torniamo in città noto che la nostra auto, come molte altre su cui ho viaggiato, ha il volante a destra. Questa è una vera stranezza dato che la guida è anch'essa a destra, e ciò costringe un guidatore che vuole sorpassare (cosa che succede molto di frequente) a spostarsi con l'intera auto prima di vedere se dall'altra parte arriva qualcuno. Non mi sembra una cosa pratica, così chiedo spiegazioni ad Armin. La risposta, come sempre qui in Kyrgyzstan, è tanto ovvia quanto spiazzante.

"Sono tutte auto giapponesi, - mi spiega - e lì le costruiscono col volante a destra. Le prendiamo in Giappone perché quando ci arrivano sono ancora nuove, hanno solo dieci o dodici anni - e lo dice seriamente -. Le auto tedesche, invece, come le Volkswagen, ci arrivano che hanno venti o più anni, e necessitano di continue riparazioni, quindi non sono tanto convenienti."

Beh, se non altro, quando cambierò la mia, invece di rottamarla avrò qualcuno che me la comprerà, e sarà anche tutto contento...

 

La strada per Osh è lunga, quasi infinita. La salita verso il passo Tor-Ashuu, a quota 3.586, non finisce mai; si incontrano soprattutto TIR stracarichi di merce, che arrancano lenti sulla salita con pendenze superiori al 10%, mentre le poche auto quasi fondono il motore nel tentativo si sorpassarli prima del successivo tornante. Il mio autista, tanto per cambiare, non si tira certo indietro, superando nelle curve cieche, a sinistra come a destra, affrontando in piena marcia tornanti strettissimi sotto i quali si apre un precipizio spaventoso, mentre la strada sotto di noi diventa sempre più piccola, e i tanti camion sembrano diligenti formichine che trasportano ordinate le briciole di pane verso il nido.

Ad un certo punto si presenta una galleria, forse l'unica di tutto il paese, stretta e buia, in cui le auto vanno a passo d'uomo e c'è a mala pena lo spazio per una corsia... mi chiedo cosa accadrebbe se incontrassimo un camion che arriva dall'altra parte, e spero proprio di non scoprirlo. Pare che alcuni fa ci sia stato un grave incidente in questo claustrofobico tunnel del tutto privo di aerazione e di vie di fuga, e che nella coda formatasi in conseguenza decine di persone siano morte asfissiate dai gas di scarico. La cosa non mi lascia molto tranquillo, così tiro un sospiro di sollievo quando alla fine torniamo a vedere la luce del sole e, giunti al passo, cominciamo ad affrontare la discesa. Stranamente, l'autista comincia a rallentare e a guidare in modo molto più prudente rispetto alla salita, quasi avesse paura che i freni non reggano le frenate di tutti i tornanti che ci aspettano. In fondo alla discesa, dove ricomincia la pianura, c'è un grande incrocio dove il conducente, senza troppi complimenti, mi abbandona al mio destino, indicandomi la strada laterale per la valle di Suusamyr (con l'accento sulla a), dove sono diretto. Sono diretto a Kyzyl-Oi, un minuscolo villaggio in fondo alla vallata, nascosto tra ripide montagne in cui un impetuoso torrente ha scavato una stretta e pittoresca gola, e per raggiungerlo non mi rimane che fare l'autostop. Così, sotto il sole di mezzogiorno, mi siedo sul mio borsone e aspetto paziente che qualche tapino imbocchi questa stradina sterrata di cui non si vede la fine... e che si fermi anche a raccogliermi.

 

Dopo un'ora e mezza in cui sono passate tre auto, e tutte nella direzione sbagliata, ne arriva finalmente una che si ferma e mi carica. E' guidata da due fratelli che stanno andando al villaggio di Suusamyr per la mietitura; sono molto simpatici e contenti di avere un passeggero a bordo, anche se parlano un inglese molto limitato, e la conversazione si limita ai soliti "Ti piace il Kyrgyzstan?", "Sei sposato?" e "Perché no? Cosa aspetti?". I due fratelli mi lasciano nel villaggio di Suusamyr, il principale centro della valle (quattro case di lamiera attraversate da una strada sterrata che si perde all'orizzonte). Io però devo proseguire fino a Kyzil-Oi; certo, le possibilità che di qui passi qualche auto diretta ad un villaggio di duecento abitanti nascosto tra montagne sperdute di una valle secondaria, e raggiunto da un'unica strada sterrata piena di tornanti non sono molte... posso solo sperare in qualche camion, i cui autisti di solito apprezzano la compagnia di viaggiatori occasionali nei loro lunghi viaggi solitari. Mi ricordo che da qualche parte mi ero procurato un opuscolo con il numero di cellulare del coordinatore turistico locale; provo a chiamarlo, sperando che possa venire a prendermi, ma non risponde. Pazienza, aspetterò. Il tempo passa, le mezz'ore scorrono lente sotto il sole, finché all'orizzonte spunta... un camion! Come speravo, si ferma a caricarmi; trasporta angurie, è diretto chissà dove, ma l'importante è che vada fino a Kyzyl-Oi. La strada è lunghissima, quasi infinita: attraversiamo prima il villaggio di Kojumkul, luogo di origine dell'omonimo personaggio, vissuto agli inizi del '900 e famoso in tutto il Kyrgyzstan per sua mole: alto due metri e trenta per 165 chili, era in grado di spostare enormi pietre, del peso di svariati quintali, e pare che in una occasione abbia addirittura sollevato un cavallo. Campione nazionale di lotta libera (già a quindici anni aveva vinto un importante torneo della regione, ottenendo come premio 50 pecore), non aveva rivali nello sport, ma anche il suo buon cuore era grande, tanto che distribuiva sempre i premi vinti nei tornei tra i poveri del suo villaggio, di cui divenne anche sindaco. Arrestato dai sovietici per essersi rifiutato di fare la spia contro il sindaco del paese limitrofo, Kojumkul fu molto rispettato anche in prigione, dalle guardie e dagli altri prigionieri (e non poteva essere altrimenti...). Tornato in libertà, utilizzò la sua forza per cacciare e pescare, al solo scopo di aiutare a sfamare i più bisognosi. Morì nel 1955, all'età di 67 anni, forse a causa di un insetto che lo punse causandogli uno shock anafilattico. Sono i casi della vita, per cui uomini tanto grandi e forti possono soccombere di fronte a esseri piccolissimi. Nel villaggio è stato realizzato un piccolo museo a ricordo del gigante buono, in cui si possono ancora osservare alcune delle pietre con cui si allenava (e che sono grandi come vitelli).

 

Dopo Kojumkul la strada, per quanto sembrasse impossibile, si fa ancora più stretta e dissestata, snodandosi parallela all'impetuoso torrente che ha scavato questa stretta gola tra le montagne. Ci vogliono quasi due ore per arrivare a Kyzyl-Oi, che la LP definisce "uno degli angoli più pittoreschi del Kyrgyzstan"; la descrizione mi sembra un po' esagerata, in fondo si tratta di un semplicissimo villaggio dai ritmi ancora contadini, utile però per vedere uno spaccato della vita rurale che qui si ripete immutata da chissà quanti secoli. L'autista mi fa scendere di fronte al CBT, il locale ufficio del turismo, che però è chiuso, anzi mi stupisco che in passato possa essere stato aperto. Provo a richiamare il responsabile al cellulare, ma c'è ancora la segreteria. Nessuno passa, né auto né persone; sono solo e abbandonato in mezzo ad una strada, ho fame, sono stanco, e devo anche trovare un posto per passare la notte. Ma come spesso succede in questi posti, la cosa importante è non perdere la calma: basta aspettare, e le cose si aggiustano da sole. Dopo un po', una contadina che passa di lì per caso mi vede e mi spiega, a gesti, che posso stare da lei, facendomi segno di seguirla. Beh, meglio che niente. Mi conduce in un piccola casetta dove, come sempre, bisogna togliersi le scarpe prima di entrare (era così perfino nelle yurte). Mi porta in una stanza che dev'essere il loro soggiorno: un grande divano, su cui sta dormendo un uomo che immagino essere il marito, e un tavolino con un televisore scassatissimo, sono gli unici arredi di questo grande stanzone, dove non solo il pavimento ma anche le pareti sono rivestite di enormi tappeti di feltro. La signora, dopo aver scacciato il consorte a male parole, mi invita ad accomodarmi e mi porta subito da mangiare, preparando al momento un pasto semplice ma molto gradito. Alla fine, nonostante la casa sia poverissima ma molto dignitosa, sarà l'esperienza migliore di tutto il mio viaggio: la signora è molto gentile e premurosa, continua a chiedermi se ho bisogno di qualcosa, mi mostra foto di lei con altri viaggiatori, mi spiega anche come raggiungere l'unico negozietto del villaggio (è gia bello che ce ne sia uno...), e alla fine sarà il giorno in cui avrò mangiato meglio e pagato meno in assoluto.

Esco a fare una passeggiata lungo il torrente ma il tempo si mette al brutto, ed è meglio tornare a casa prima che cominci a piovere. Scosto le tende dalla finestra della stanza, da cui osservo gli alberi piegarsi per il forte vento, mentre scuri nuvoloni si addensano all'orizzonte. Dopo la pioggia, compare all'orizzonte un timido arcobaleno: vorrei camminare fino alla sua estremità, dove i laboriosi elfi hanno certamente nascosto una pentola piena d'oro, ma sono troppo stanco. Riflettendo, considero la mia situazione: mi trovo in una casa di contadini di un piccolo villaggio sperduto tra le montagne dove non prendono nemmeno i cellulari; nessuno sa dove sono, non posso comunicare col mondo, non ho modo di andarmene: le auto sono così rare che, quando ne passa una, i bambini si affacciano stupiti alle finestre. Sono solo, lontano da tutto e da tutti, senza Internet, senza posta elettronica, senza telefono, in una cascina abitata da persone che non parlano la mia lingua, e il bagno è un buco scavato nel terreno che si raggiunge dopo aver attraversato un prato fangoso battuto dalla pioggia scrosciante...

non potrei stare meglio di così. 

 

E' l'ultima notte in Kyrgyzstan. Sono tornato a Bishkek, dove passerò queste ultime ore a spasso per la città, per poi partire domattina presto per il Kazakistan.

Decido di cenare in un ristorantino del centro, dove ero già stato e sapevo che il servizio è buono e i prezzi abbordabili. Inoltre sono curioso di assistere allo spettacolo di luci e suoni che si svolge nella piazza Ala-Too ogni sera, non appena fa buio; molti mi hanno avvertito di stare attento a Bishkek di notte, perché ci sono molti criminali in giro che prendono di mira i turisti, ma guardandomi attorno vedo solo famigliole che comprano il gelato ai bambini e coppiette di giovani adolescenti che camminano tenendosi per mano; la città mi appare tutt'altro che un posto pericoloso.

Comincia lo spettacolo: un folto gruppo di giovanissimi si raduna nella piazza e comincia a ballare all'unisono, sembra quasi un flash mob in stile europeo. Dura pochi minuti, ma subito dopo inizia un concerto all'aperto, e moltissime persone si radunano di fronte al palco, da cui si diffonde musica pop a tutto volume. Io mi mescolo tra la folla, c'è un po' di eccitazione com'è normale che sia in queste situazioni: qualcuno beve, qualcuno sgomita, ma non percepisco alcun pericolo reale: sono solo giovani che si divertono ad un concerto.

Resto a guardare per un po', poi comincio ad avviarmi verso l'ostello. Non è tardi, sono solo le nove e mezza, così decido di farla a piedi; anche se la strada è lunga, una mezz'oretta buona, non ho mai corso pericoli in questo paese e comincio a pensare che gli avvisi che ho sentito finora siano eccessivi. Ma devo subito ricredermi.

Girato un angolo, un uomo mi prende per un braccio, trattenendomi. Sul momento non capisco, penso che sia solo uno dei tanti kirghisi che vuole salutarmi, così gli stringo le mano e faccio per andarmene, ma lui mi stringe più forte e mi dice di fermarmi.

"Sono un poliziotto - afferma con fare perentorio - fammi vedere il passaporto".

Io sono un po' incerto, tempo di essere finito in una trappola molto simile alle tante di cui ho sentito parlare. L'uomo, sulla quarantina, basso e tarchiato, non indossa né divisa né distintivo; si limita a mostrarmi una specie di badge con delle scritte strane e la sua foto. Io non gli credo, potrei provare a sfuggire alla sua presa e scappare, ma se poi risultasse che è un vero poliziotto sarebbero guai seri; così decido, per il momento, di stare al gioco.

Gli mostro il passaporto, che tengo in una tasca separata dai soldi per non dover tirare fuori tutto assieme. Lui lo ispeziona con molta cura, mi chiede di vedere il timbro dell'aeroporto, vuole sapere quando sono arrivato e da dove, le tipiche domande della polizia vera. Io fingo di non capire il russo, gli rispondo in inglese cercando di confonderlo, ma lui insiste. Vede che ho un marsupio, e mi chiede di svuotare il contenuto.

"Tira fuori tutto!" mi intima, con fare autoritario.

"Perché? Chi sei tu? Cosa vuoi?"

"Sono un poliziotto!" insiste, mostrandomi di nuovo la sua presunta tessera.

"Io non ho niente!" - cerco di dissuaderlo sperando che rinunci, ma l'uomo è molto testardo.

"Io sono un poliziotto! Devi svuotare la borsa o ti arresto!"

Nel frattempo molte persone ci passano accanto; qualcuno si ferma ad osservare la scena, incuriosito, ma nessuno interviene. Io, sapendo di non avere niente di importante nel marsupio, decido di aprirlo e mostrare il contenuto, sperando che sto tizio si scoraggi e mi lasci andare. Così gli mostro l'amuchina, il dizionario di russo, la sveglia, e altro ciarpame inutile. In effetti non sembra molto interessato, così rimetto tutto dentro e faccio per allontanarmi, ma l'uomo mi prende di nuovo per il braccio.

"Svuota le tasche! Cos'hai lì?" e indica le tasche dei miei pantaloni.

"Perché vuoi saperlo? Ti ho già detto che non ho niente!"

"Fammi vedere, ho detto! Se no ti arresto!"

Una tasca è vuota, nell'altra ho la macchina fotografica, e mi secca un po' tirarla fuori, ma non ho scelta; il tizio però la osserva distrattamente, poi me la restituisce. Per fortuna ho lasciato in ostello il cellulare, l'unica cosa apparentemente di valore che ho portato in viaggio. Ma non è ancora finita.

"Fammi vedere i soldi!" mi intima, tutt'altro che scoraggiato.

Adesso mi sono stufato. Può capitare che la polizia ti chieda di mostrare i soldi, perché per legge uno straniero è sempre tenuto a dimostrare di avere con sé abbastanza denaro per mantenersi. Ma questo tizio non mi piace proprio: sono sempre più convinto che non sia un vero agente, e non ho nessuna intenzione di tirare fuori la cintura segreta con i soldi. Purtroppo il tizio è molto insistente, e non so più come venirne fuori... quando all'improvviso mi viene un'idea.

Memore dei racconti che avevo letto su Internet, mi guardo intorno nella speranza che ci sia nei dintorni qualche vero poliziotto. Sono fortunato! Una pattuglia è ferma a un centinaio di metri da noi, forse con lo scopo di mantenere l'ordine durante il concerto. Così mi divincolo dall'uomo che ancora mi tratteneva, e mi dirigo a passi decisi verso l'auto. Non solo, gli faccio anche ampi segni di seguirmi, di venire con me, così potremo chiarire la faccenda con i suoi "colleghi". L' uomo adesso appare incerto, e non si muove. Raggiungo l'auto, dentro la quale ci sono due agenti in divisa; purtroppo non parlano inglese, ma all'improvviso il mio russo è ritornato fluente. Gli spiego in fretta la mia situazione, dicendogli che un sedicente poliziotto mi ha chiesto di mostragli i miei documenti ed i soldi. Gli agenti scendono dall'auto e mi chiedono di indicarlo, ed io punto il dito chiaramente verso l'uomo che, vista la mala parata, corre via e si dilegua nel buio. Gli agenti provano ad inseguirlo, ma il tizio è scomparso. Fermano per errore un altro passante, vestito in modo simile, e mi chiedono se era lui, ma io nego.

Mi trattengo un po' con i veri poliziotti, che mi spiegano che l'uomo non era un vero poliziotto, ma un criminale (ma va?), e che devo stare molto attento ad andare in giro di notte. Purtroppo i turisti, specialmente quelli soli, rappresentano un bersaglio molto invitante per i tanti poveracci che si improvvisano poliziotti nel tentativo di spillare soldi facili. Gi agenti mi chiedono quale sia il mio ostello, quindi mi consigliano di tornare in autobus, aiutandomi anche a prendere quello giusto. Loro sono stati molto utili e gentili, nonostante le brutte storie che avevo sentito anche riguardo alla polizia vera.

Quando faccio ritorno in ostello racconto l'accaduto a Zahir, che mi invita a sporgere denuncia. Non ho problemi in proposito, così compilo e firmo un documento in inglese, che poi lui tradurrà in russo e porterà al commissariato. Quando glielo consegno, scopro che c'è già una pila una pila alta così di denunce simili da parte di altri turisti... la prossima volta, ascolterò attentamente i consigli di chi è del posto.

 

Alla fine però non permetto a questo singolo e, tutto considerato, innocuo episodio di rovinare la reputazione che il Kyrgyzstan si è costruito con me. In questi diciotto giorno ho sempre incontrato persone gentili e disponibili, quasi tutte di una gentilezza e di un'accoglienza che in Italia non sono nemmeno concepibili. Magari, qualche volta, qualche tassista ha tirato un po' sul prezzo, e la cortesia di alcuni alla fine si è rivelata non proprio disinteressata, ma sono situazioni normalissime che accadono in qualunque parte del mondo. Tirando le somme, sono contento di essere venuto fin qui, in un paese che non ha affatto deluso le mie aspettative anzi, si è rivelato una meta ancora autentica e non rovinata dal turismo di massa, con incredibili bellezze naturali e una popolazione davvero ospitale.

Ma è ora di ripartire, di affrontare un nuovo stato senza più guardarsi indietro. E' l'ora del Kazakistan, dove mi aspettano altre sorprese.

 

 

Katja è russa, Gulnara è uyghura, ma non è difficile capire qual è una e qual è l'altra. Una ha la pelle chiara, la corporatura snella e due occhi verdissimi, che quando ti guardano ti passano da parte a parte. L'altra ha la pelle molto più scura, capelli lunghi nerissimi e tratti marcatamente orientali. Sono sedute accanto a me sull'aereo Milano-Kiev, e quando vedo che impugnano passaporti kakaki non esito a fare amicizia. Scopro che vivono ad Almaty, dove stanno tornando dopo una vacanza in Italia, così durante il volo ci confrontiamo sulla loro gita, appena conclusa, e sulla mia che sta cominciando in questo momento. Parliamo delle cose da vedere, dei posti dove mangiare, del costo della vita. Gulnara non si sente molto bene, così prende un sonnifero e cerca di dormire; rimane solo Katja con cui chiacchierare, ma ogni volta che si gira verso di me e mi fissa con quei suoi occhioni cristallini, sorridendo amabilmente, mi lascia senza niente da dire...

Ci salutiamo a Kiev, dove le due ragazze mi lasciano il loro numero di telefono, così potrò chiamarle quando ci andrò.

Così puntualmente faccio, e ci troviamo una domenica in un bar. Entrambe, come me, sono insegnanti, e mangiamo qualcosa insieme a delle loro colleghe molto simpatiche. Ci voleva questa uscita per rallegrare una città che ho trovato veramente triste e grigia, una città enorme, due milioni di abitanti, ma priva di carattere, di anima. E' formata da grandi strade a quattro o sei corsie, percorse da auto di lusso che sfrecciano a forte velocità accanto a marciapiedi deserti. Vetrine di famosi marchi occidentali si alternano a ristoranti di lusso, soprattutto italiani, frequentati dall'alta società. Non si può dire che gli abitanti di Almaty siano poveri, anzi: la ricchezza, o quantomeno il benessere, è palpabile: in una realtà ben lontana dalla semplicità kirghisa i marchi occidentali di vestiti, cellulari, automobili, arredamenti, fanno lampeggiare le loro insegne luminose, attirando giovani ragazze in minigonna ed eleganti uomini d'affari accompagnati da bellissime donne rifatte. Tutti arrivano su auto lussuose, parcheggiano di fronte all'ingresso, e spariscono, mentre i marciapiedi restano desolatamente vuoti.

Gulnara si rivela una donna molto intelligente e spigliata. Ha 34 anni, è single, e sprizza energia da tutti i porti. E' una persona molto allegra e solare, ride, scherza con le amiche/colleghe, e racconta della sua esperienza di insegnante. Lavora in una scuola per stranieri, ed insegna inglese a giovani ragazzi che arrivano da tutte le parti del mondo, figli di consulenti, scienziati, politici. E' contenta di vivere in una città giovane e cosmopolita, dove ci sono molte occasioni di svago, bar, ristoranti, discoteche, senza contare le montagne circostanti dove si può fare trekking in estate e sciare in inverno. Gulnara mi parla anche di una funivia che porta su una collina di fronte alla città, che pare offra un panorama bellissimo. Il biglietto però costa venti euro per la sola andata (nemmeno dieci minuti). Ma è solo un indicatore: qui tutto costa molto caro. Nei ristoranti si possono gustare specialità asiatiche ed europee, dalle lasagne alla haute cuisine; peccato solo che un pasto costi come tre giorni di vitto e alloggio nel vicino Kyrgyzstan. Eppure, i ristoranti italiani che vendono pasta fresca con cento sughi diversi sono presi d'assalto sia dalle nuove, sia dalle vecchie generazioni.

La città non ha un centro vero e proprio: è formata da tanti quartieri diversi, cuciti insieme con una strategia non molto chiara. Si può uscire da un ristorante alla moda, circondato da parchi e università, per poi ritrovarsi, due isolati più avanti, in una zona squallida e degradata, con edifici cadenti e prati ricoperti di erbacce; ma poi, continuando a camminare lungo questa infinita scacchiera di strade orizzontali e verticali, si raggiunge una via pedonale dove artisti di strada espongono le proprie opere, attorniati da una folla più interessata ai fast-food e alle vetrine alla moda che alle loro esibizioni. C'è anche un super-mega-maxi centro commerciale al cui interno ci sono soltanto negozi di telefonia: fissa, cellulare, smartphone, chiavette USB per navigare... decine e decine di negozi tutti identici, alle cui vetrine sono esposti gli stessi prodotti, e ai cui banconi siedono ragazze truccatissime e scollatissime che sciorinano le ultime offerte in fatto di telefonia in tutte le lingue conosciute. Anche ai tre piani superiori i negozi vendono solo cellulari, accessori per cellulari e offerte per cellulari... forse nemmeno in Giappone esiste un posto simile. Ma di nuovo, basta camminare per un altro paio di isolati per trovarsi in una piazza enorme, circondata da maestosi edifici bianchi che ospitano il parlamento, il governo, le sedi del potere insomma, con vari monumenti ala memoria di questa o di quella rivoluzione, tutti splendidi ma senza nessuno che passeggi lungo i vialetti dei parchi tenuti alla perfezione. Almaty è una città molto triste, dove i soldi hanno tolto l'anima agli abitanti, peraltro quasi tutti russi, che pensano soprattutto a spendere e a divertirsi, grazie ai ricavati del petrolio, del gas naturale, dei diamanti, dei minerali, e di ogni altro ben di Dio di cui il sottosuolo di questo paese è ricchissimo. Non importa nemmeno che il clima sia orribile, la gente non sembra farci caso.

"D'estate fa molto caldo - mi spiega Gulnara, che vive qui da sempre - e la gente si rifugia sulle montagne. Invece d'inverno non fa freddo, al massimo venti, venticinque gradi sotto zero" e lo dice seriamente. "Ad Astana invece fa molto più freddo, si arriva anche a quaranta sotto zero, perché là c'è molto vento gelido, non sono protetti dalle montagne come noi". Già, Astana, la nuova capitale del Kazakistan, di cui ho sentito parlare dai pochi turisti che ci sono passati, scappando via di corsa. Almaty era diventata troppo piccola, forse anche troppo periferica e lontana dalla Russia, per continuare ad essere la capitale di questo nuovo parco dei divertimenti che è diventato il Kazakistan; quindi il governo (cioè il presidente ed i suoi amici) decisero di costruirne una nuova: una metropoli di vetrocemento creata dal nulla in pieno deserto, con alberghi megagalattici, casinò all'ultima moda, grattacieli di oltre cento piani, e dove pare che la vita sia molto più cara che qui ad Almaty (!), con cui è collegata tramite un super-treno costruito in Spagna e capace di superare i trecento chilometri orari.

 

Basta, è ora di tornare a casa. Il vero Kazakistan è ben altro, fatto di piccoli villaggi di montagna dove le moschee di ceramica blu sono ancora maestose e venerate, e considerate perfino più importanti di banche e alberghi. Ma non ho tempo di andarci, per questo viaggio ho visto abbastanza. Saluto Gulnara e le sue amiche e torno in albergo con la metropolitana, modernissima e appena inaugurata, tanto che gli stessi abitanti si divertono un mondo a scattarsi fotografie a vicenda nelle stazioni, sui vagoni, sulle scale mobili, come se fosse l'attrazione principale della città. Arrivo alla mia fermata, scendo, salgo le scale mobili, faccio per uscire quando...

 

...un poliziotto mi ferma, mi chiede i documenti e mi invita a seguirlo in una guardiola, dove c'è un suo collega che chiude la porta a chiave. Sono entrambi in uniforme e sono chiaramente dei poliziotti veri, ma io ne ho abbastanza. Come sempre, devo svuotare le tasche, il marsupio, mostrare soldi e documenti, senza via di uscita. Ma stavolta non ho voglia di lottare; ormai sono rassegnato, stanco, non ho più niente da perdere: il volo per l'Italia è stanotte, prendano pure quello che vogliono, e poi mi lascino andare. Invece si dimostrano gentili ed educati; alla fine invece di chiedermi una mazzetta, si mettono a parlare degli argomenti con cui un italiano all'estero si salva sempre: la Piovra, Celentano, Toto Cutugno. Esco dalla guardiola a braccetto con uno dei due agenti, cantando "Lasciatemi cantaaaare" a squarciagola, ma è solo una finzione. Sono stanco della polizia, come dei criminali; sono stanco del cibo, che mi procura sfoghi cutanei, sono stanco di camminare, di trascinarmi dietro la valigia contrattando prezzi assurdi con i tassisti; sono stanco del caldo e della sabbia. Sono stanco.

E' ora di tornare a casa.

 

 

 

Massimiliano

massi.gallina@gmail.com

 

 

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