Kyrgyzstan
Diario di viaggio 2012
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- Dove vai in vacanza
quest'anno?
- In Kyrgyzstan
- Doveeeeee??????
- IN KIR-GHI-ZI-STAN
- Cos'è, una cosa che si mangia?
- No, è un paese dell'Asia centrale.
- E che ci vai a fare?
Già, che ci vado a fare? Ma è così che
cominciano i dialoghi di luglio, prima delle vacanze estive.
Quando tutti si
preparano per andare al mare... come faccio a spiegare alla gente perchè vado
in vacanza in uno dei tanti "Stan" nati dopo la caduta dell'Unione
Sovietica, dove la gente parla come unica lingua un russo quasi incomprensibile,
mangiandosi molte lettere; dove non esiste l'illuminazione pubblica, e anzi
camminare per strada di sera non è una buona idea; dove il primo giorno, quando
arrivo all'ostello, incontro molti viaggiatori che hanno passato la notte sul
cesso in preda a spasmi intestinali...
Ci vado perchè in Kirghisia (questo è il nome italianizzato) posso fare e
vedere cose che non ho mai fatto prima. Posso fare trekking a quote così alte
da mancarmi il fiato, mentre di fronte a me si stagliano vette di settemila
metri; posso dormire nelle tende dei nomadi, sulle rive di un lago a tremila
metri di quota, mentre cavalli selvatici brucano l'erba liberi da qualsiasi
padrone; posso aiutare i pastori a mungere le cavalle, per poi lasciarne il
latte a fermentare sotto il sole per giorni a giorni, fino ad ottenere una
bevanda frizzante e fermentata, la cosa più nauseabonda che si possa immaginare
di bere; posso vedere i cacciatori con le aquile togliere il cappuccio ai loro
rapaci, per poi lanciarli all'inseguimento di volpi e conigli destinati a fare
una brutta fine; posso salire su un autobus in cui tutti i passeggeri volgiono
stringermi la mano, chiedermi incuriositi da dove vengo e sgranare gli occhi
quando scoprono che non sono ancora sposato, pur avendo da tempo superato i
vent'anni; ma, soprattutto, posso incontrare bambini che si divertono come matti
a farsi foto a vicenda con la mia macchinetta, per poi restituirmela e, invece
di chiedermi soldi, dirmi "grazie per averci fatto giocare".
Ci vado perchè posso fare, e ho fatto, queste e molte altre cose.
E anche la conclusione del dialogo è sempre la stessa:
- Ma non hai paura? Da solo, poi, in un paese sconosciuto...
- Certo che ho paura. Ma dobbiamo fare le cose che ci fanno paura, altrimenti
non potremo mai crescere.
Bishkek
è la capitale del Kyrgyzstan, ed il suo nome significa zangola, a testimoniare
quanto i Kirghisi siano legati alle tradizioni della pastorizia. Essi, infatti,
sono sempre stati nomadi: pastori legati alla transumanza, che in estate
accompagnavano le greggi di pecore e mucche nei pascoli di alta montagna, detti jailoo,
vivendo nelle loro grandi tende smontabili, il cui "tetto", il tunduk,
compare anche sulla bandiera nazionale; per poi ritornare a valle prima delle
nevicate invernali. Fu solo con l'arrivo dei bolscevichi che i Kirghisi furono
costretti a diventare stanziali, e ad andare a vivere nelle città coloniali
dalle tipiche casette di legno fondate dai primi coloni russi.
Ed
è proprio con la zangola che si prepara ancora il kymys, la bevanda
nazionale russa: si munge una cavalla (meglio ancora una giumenta), poi si mette
il latte a macerare al sole per diversi giorni, finché non fermenta come di
deve. Poi si travasa in sacche di pelle che vengono appese alla tenda che fa da
casa, sempre sul lato esposto al sole, ed è tradizione che i visitatori che
passano di lì la agitino prima di entrare, in modo che non si fermi il burro.
Quando è pronto, il kymys diventa una specie di latte ma gassato, leggermente
alcolico, e dal sapore acidissimo, decisamente nauseabondo; ricorda un frullato
di gorgonzola marcio con l'aggiunta di sciroppo per la tosse. Eppure le gente
qui ne va matta: gli scaffali dei negozi sono ricolmi di bottiglie di kymys, e
la gente ne beve dalla mattina a tarda sera. Di diverso parere sono gli ospiti
dell'ostello, che incontro nel mio primo giorno di viaggio:
"Se
lo bevi, ti viene subito la diarrea", mi dice Enrique, un catalano doc.
Allora mi viene il dubbio:
"Ma
se invece hai già la diarrea, te la fa passare?"
"No
no, te ne viene il doppio..."
In
effetti Enrique non ha una bella cera. E' arrivato fin qui da Barcellona con la
sua bici, ma la cosa non mi sorprende: la Via della Seta è un percorso molto
frequentato dai ciclisti, e in estate non è raro vederne intere carovane che
pedalano dall'Europa fino a Kashgar, in Cina, o anche oltre, stando via un paio
di mesi. Enrique, però, ha deciso di fermarsi qui perché è malato da oltre
una settimana.
"Sono
già andato da tre dottori diversi, - mi spiega un po' affaticato - e ognuno mi
ha dato una medicina diversa, dicendomi che quella precedente era sbagliata, e
assicurandomi che la sua invece era infallibile. Ma ogni volta stavo sempre
peggio. Per fortuna, tra due giorni torno a casa". Quest'ultima è una
frase che sento dire da molti, e non mi rincuora affatto.
Con
lui c'è Denis, uno scozzese dai capelli rasta e la faccia molto espressiva che
ricorda tantissimo Telespalla Bob, il fallito comico che cerca sempre di
uccidere Bart Simpson. E' fermo a Bishkek da due settimane in attesa di un visto
cinese, che continuano a negargli per via del suo aspetto "poco
raccomandabile" (come dice lui stesso). All'ambasciata gli hanno detto che
se vuole il visto deve tagliarsi i capelli, ma lui non ne vuole sapere, così si
limita a raccoglierli in una lunga coda, sperando che gli dia un aspetto
abbastanza serio.
Poi
c'è Olga, una bella polacca dagli occhi azzurrissimi e la scollatura generosa;
vorrei fare amicizia, ma è bloccata tutto al giorno a letto tranne per le pause
in cui corre difilato in bagno... credo che sarà un lungo viaggio...
"Non
andare in giro di notte, è pericoloso: ci sono molti ubriachi molesti, e alcuni
turisti sono già stati aggrediti". Così mi avverte Zahir, il gestore
della guesthouse dove alloggio. In realtà la "guesthouse" non è
altro che un appartamento le cui stanze sono state riempite di letti, per
stipare più viaggiatori possibile. Io ho prenotato un posto nel
"dormitorio", uno stanzone con sei brandine accatastate una in parte
all'altra con pochissimo spazio vitale; ogni "letto" è formato da un
sottile materassino tipo campeggio, appoggiato su una rete sfondata, al punto
che praticamente si dorme con il culo per terra. Ammesso di riuscire a dormire,
cosa non facile tra ragazzi che russano, altri che tornano ubriachi alle due di
notte, altri ancora che si alzano continuamente per correre in bagno, ed il
tizio che occupa la branda opposta alla mia, con cui continuiamo a scontrarci
con i piedi. Ma a me è andata ancora bene: alcuni backpackers che non avevano
prenotato vengono sistemati alla bell'e meglio sul terrazzo, mentre Marco, un
italiano che viaggia con la fidanzata tedesca, trova un posticino su una
brandina stesa in cucina, tra il tavolo ed il lavandino.
In
compenso la "guesthouse" è pulitissima, gestita da uzbeki che mi
fanno togliere le scarpe ogni volta che entro, e che continuano a passare
l'aspirapolvere ogni mezz'ora. Zahir è musulmano e rispetta il Ramadan: non
beve e non mangia per tutto il giorno, e certo per lui non dev'essere facile
sopportare i chiassosi ospiti occidentali che si preparano da mangiare nel
piccolo cucinino ad ogni ora del giorno e della notte; ma forse c'è abituato,
gestendo un ostello. Di sicuro è meno abituato a vedere ragazze come Petra, una
biondissima ceca di un metro e novanta che gira per casa con una scollatura
vertiginosa e dei pantaloncini microscopici che scoprono delle gambe infinite;
in confronto a lei Zahir, con la sua barbetta a punta ed il lungo caftano,
sembra venire da un altro pianeta...
Prima
di avvertirmi sui pericoli della città, il buon uzbeko mi ha spiegato come
funziona il bagno: se voglio l'acqua calda, devo avvisarlo per tempo, in modo
che lui possa preparare il necessario. Nell'ordine, le operazioni da svolgere
sono le seguenti: staccare la corrente; smontare il coperchio del boiler;
prendere un boccione di acqua (sul genere di quelli portati dall'instancabile
Wanda di camera cafè), salire su uno sgabello e versarlo nel boiler;
riattaccare la corrente; accendere il boiler; aspettare che l'acqua si scaldi;
lavarsi. Ciò va fatto quando lo scaldabagno è vuoto, il che succede ogni volta
che Petra si fa la doccia, ed è per questo che la mattina tutti noi cerchiamo
di svegliarci presto, facendo a gara per riuscire ad andare in bagno prima di
lei...
Ma
in fondo Zahir è molto paziente; lui e i suoi fratelli vengono da Osh, città
del sud a maggioranza uzbeka, e come quelli della sua gente è tranquillo,
taciturno, religioso, astemio, e col senso degli affari. Molto diverso dai
russificati kirghisi, molto più caciaroni e con la tendenza al bere ad ogni
occasione: basti pensare che, fin dal mattino, ad ogni angolo di strada si
possono incontrare matrone di mezza età, sedute su una scatola di frutta
rovesciata, che vendono bicchieri di vodka ad un prezzo equivalente ad otto
centesimi di euro. In effetti i conflitti etnici sono il principale problema di
questo paese: il nord kirghiso ed il sud uzbeko sono divisi, oltre che dalla
religione, dal massiccio di Fergana, una catena montuosa con passi ad oltre
quattromila metri, le cui strade d'inverno sono spesso chiuse per neve tagliando
in due il paese. Tensioni e scontri tra le due etnie sono all'ordine del giorno,
e ogni tanto sfociano in una vera guerra civile, tanto che dall'indipendenza
sono già saltati due presidenti, evento rarissimo nei paesi centro-asiatici,
governati da dittature molto repressive.
Ed
è proprio la tendenza al bere che rende la città pericolosa, specie di notte,
quando gruppi di giovani fannulloni non hanno un modo migliore di riempire il
tempo che tracannare vodka di seconda scelta fino a stordirsi. Da qui l'avviso
di Zahir: "E stai lontano dai parchi", aggiunge, ma questo
avvertimento è più difficile da rispettare. Come tutte le città dell'ex
Unione Sovietica, anche Bishkek è piena di verde: è impossibile camminare più
di dieci minuti senza imbattersi in un parco alberato, con fontane, vialetti,
panchine, statue dedicate a qualche scrittore o letterato famoso. E col caldo
agostano, i parchi sono pieni di famiglie alla ricerca di un po' di ombra, di
bambini che corrono sotto lo sguardo vigile di mamme operose, di ragazzi che
fanno la corte alle ragazze con minigonna e cellulare, di anziani che fanno
confronti tra il presente ed il passato... sembra proprio una città tranquilla
e ospitale Bishkek, almeno finché non cala la notte; ma poi... lo scoprirò a
mie spese.
Sulla
Lonely Planet è quotato come uno dei migliori ristoranti del paese, e infatti
sono molti i turisti occidentali che entrano alla ricerca di un tavolo, armati
della fedele guida. Certo, il foglio di carta moschicida ricoperto di insetti
morti appoggiato in bella mostra sul tavolo non stimola l'appetito, ma almeno
significa che le mosche non sono finite in pentola...
Sono
a Kochkor, un piccolo villaggio del Kyrgyzstan centrale usato dagli
escursionisti come base per esplorare le montagne circostanti, per le cui strade
si possono incontrare uomini con il kolpak, il tipico copricapo bianco,
stretto e altissimo, portato con fierezza da chi non dimentica le proprie
origini. Per l'indomani ho prenotato un trekking di due giorni, così stasera mi
sono voluto concedere una cena al ristorante, in compagna di Thomas, uno
svizzero che dorme nella mia stessa guesthouse; sulla quarantina, ha lasciato il
lavoro, si è preso un anno sabbatico, e adesso gira per l'Asia senza un
itinerario vero e proprio, più che altro bighellonando decidendo di volta in
volta come riempire le giornate. A noi si è aggiunto Mathias, un tedesco che
dopo essere stato lasciato dalla morosa è partito alla ricerca di qualcosa, o
forse di se stesso. Entrambi sono arrivati fin qui in bicicletta, ognuno per
conto proprio, e adesso raccontano le loro storie davanti ad una specie di
spezzatino sfrigolante in un piatto che trasuda olio bollente, ed un bel boccale
di Baltika 9, la birra russa triplo malto che scioglie la lingua in fretta.
Thomas sfodera una cartina dettagliata dei dintorni, che consultiamo a turno
cercando di immaginare il nostro prossimo itinerario: da domani comincia il vero
viaggio, verso montagne, passi a quattromila metri e laghi alpini. Nel
frattempo, parlando del più e del meno, si è svuotato anche il secondo
boccale, e lo svizzero comincia a dare segnali di cedimento: sguardo perso nel
vuoto, busto piegato in avanti, gesticola molto accompagnando le sue frasi,
sempre più sconnesse, con ampi gesti delle braccia e strane smorfie del volto.
Quando finalmente riusciamo a trascinarlo fuori dal ristorante e cerchiamo di
ritrovare la strada di casa aiutati dall'unica luce della mia torcia elettrica,
il buon ginevrino vede un locale ancora aperto, con tanto di luminarie appese
intorno alla porta, e ci si fionda a capofitto. Io e Mathias ci guardiamo
interdetti, ma non ci resta altro fare che seguirlo; entriamo così in un enorme
salone, in cui tavoli, sedie e pareti sono decorate da grandi nastri colorati e
infiocchettati, come se si fosse appena celebrato un matrimonio. Peccato che il
locale sia completamente deserto, e le svogliate cameriere sono quasi stupite di
veder entrare dei clienti. Thomas ordina subito una vodka; la cameriera, vedendo
le sue condizioni, gli chiede se vuole anche qualcosa da mangiare, ma lui
insiste: "Solo vodka, per favore!" Mathias si adegua e i due, convinti
che gli verrà servito un bicchierino, restano perplessi quando si vedono
portare un vassoio su cui poggia una bottiglia intera, e di prima qualità! Ma
per i due nordici sarà un gioco da ragazzi scolarsela tutta, mentre io mi
accontento di un semplice thè; la bevanda purtroppo si rivelerà una pessima
scelta, poiché non è bollente, ma solo scaldata, e il giorno dopo pagherò
cara questa decisione... la prossima volta, solo vodka anche per me!
Preoccupati
da quanto possa essere esorbitante il conto, Thomas appare più sollevato quando
legge che il totale ammonta a circa 3 euro... qui gli alcolici sono decisamente
a buon mercato! Passata la serata, ci alziamo e ognuno va per la sua strada:
domani, almeno per me, sarà un giorno molto impegnativo.
La
mattina dopo incontro Ermelinda, di Latina, e Pedro, il suo fidanzato spagnolo.
Hanno prenotato il mio stesso trekking, con la differenza che loro andranno a
cavallo mentre io procederò a piedi: sono bergamasco, sono nato in salita, e
preferisco irti ma solidi sentieri al continuo su e giù degli equini, che mi
procura solo il mal di mare. Una macchina ci porta al villaggio da cui partirà
il trekking; ma quando l'autista si ferma in prossimità di alcune tende nomadi
per comprare la sua razione giornaliera di kymys, comincio a sentire la pancia
agitarsi in modo sempre più irrefrenabile... cerco di resistere, ma è
difficile, e quando arriviamo al campo base devo correre dal gestore chiedendo
del bagno. Mi indica una piccola capanna sul retro di una fattoria, ma io nella
foga entro nel locale sbagliato, una specie di doccia comune senza l'ombra di un
gabinetto... preso dal panico mi guardo intorno alla disperata ricerca di
qualcosa di utile... alla fine dovrò usare un cestino dei rifiuti, sperando di
ripartire prima che qualcuno si accorga del misfatto...
E
adesso mi aspettano sei ore di trekking: spero che non mancheranno i cespugli.
La
famiglia che ci ospita a Kilenche è una tipica famiglia nomade kirghisa: papà,
mamma, zio, e figli piccoli. Vivono in una delle due tende; l'altra è per me,
Ermelinda, Pedro e le nostre guide. E' tutto qui, il "villaggio" di
Kilenche: due yurte tirate su in mezzo a verdi pascoli, ad oltre duemila
cinquecento metri di quota, raggiungibili in cinque ore di cammino tra valli,
pascoli, boschi che si fanno sempre più radi man mano che si sale di quota,
incontrando molte più pecore che persone. Per me, le cinque ore sono diventate
quasi sette, dopo aver camminato sotto il sole a picco, con lo zaino carico e
con lo squaraus che non mi da tregua. Le pastiglie che ho preso impiegano tempo
a fare effetto, e il trekking si rivela molto impegnativo... anche perché la
mia guida sembra indifferente al mio malessere. Si chiama Artin, ha una ventina
d'anni, e come molti ragazzi della sua età in inverno vive a Bishkek, dove
studia all'università, mentre in estate torna al paesello per raggranellare un
po' di soldi come guida turistica. Lui, che percorre queste montagne quasi ogni
giorno, parte subito a razzo, lasciandomi presto indietro sotto il sole e con lo
zaino che si fa sempre più pesante. Dopo un paio d'ore di cammino abbastanza
pianeggiante, lo raggiungo e gli chiedo quanto manca. "Un'ora" mi
risponde allegro senza neanche pensarci. Bene, penso io, siamo a buon punto. Non
vedo l'ora di arrivare! La strada però, poco dopo comincia a farsi erta e la
fatica si fa sentire. Risaliamo un pendio quasi infinito, dopo il quale c'è
un'altra valle da percorrere in tutta la sua lunghezza; poi un altro pendio, poi
un'altra valle... un pendio, e una valle... non si arriva mai. Dopo altre due
ore di cammino nel nulla più totale stramazzo al suolo, disidratato dallo
squaraus, che espelle subito l'acqua che bevo; è come camminare a digiuno.
"Quanto manca?" gli richiedo, un po' meno fiducioso delle sue
valutazioni. Artin ci pensa su, poi: "Mezz'ora", sentenzia
allegramente. Dunque fin'ora abbiamo percorso metà della sua "ora",
che corrispondono a due ore reali, quindi la "mezz'ora" rimanente non
promette niente di buono. Riprendiamo: un altro pendio, poi una valle, poi un
pendio, poi ancora una valle... e così per altre due ore. Sto seriamente
valutando l'ipotesi di fermarmi in mezzo al nulla e dormire all'addiaccio,
quando Artin mi guarda e, senza che io gli abbia chiesto niente, mi dice
"dieci minuti!" come se questo dovesse farmi sentire meglio...
Ed
è dopo la settima ora di cammino che arriviamo finalmente a Kilenche, ma la
fatica è ripagata da un paesaggio solenne. Intorno a noi solo montagne e
pascoli, con i rumori tipici dell'alpeggio: le pecore belano mentre vengono
riportate nel recinto spronate dal capofamiglia a cavallo, mentre suo fratello
si occupa dei cavalli che nitriscono allegramente al profumo del pasto serale.
Il sole sta per tramontare, e la moglie sta già armeggiando nel piccolo
cucinino per preparare la cena. La figlia più grande, che avrà otto-nove anni,
ha già fatto amicizia con Ermelinda, che la sta aiutando a colorare un album da
disegno. La ragazzina è vivacissima, curiosissima, e quando mi vede arrivare,
trafelato e sfinito, viene subito a fare amicizia. Ma è comprensibile: passa
tutta l'estate qui, in tenda, con la sola compagnia della sua famiglia, e
l'arrivo di un estraneo dev'essere una gran festa per lei, così piena di
vitalità. Le mostro la mia macchina fotografica, spiegandole come funziona lo
zoom, ma dopo trenta secondi ha già imparato tutto, mi ha strappato la
macchinetta dalle mani ed è corsa a fotografare tutto e tutti, entusiasta del
suo nuovo giocattolo (suo, insomma...). Il suo sorriso è contagioso, illumina
quel suo viso dai lineamenti orientali nascosto sotto una frangia di capelli
nerissimi, e non posso resistere quando mi stuzzica per giocare a rimpiattino.
Ermelinda fa da base, e io la rincorro intorno all'accampamento, senza quasi
sentire la stanchezza della lunga giornata, mntre la bambina ride, grida e si
diverte come una pazza. Non posso fare a meno di chiedermi quanti bambini
italiani della sua età si divertirebbero allo stesso modo con un gioco così
semplice...
Finalmente
la cena è pronta; non è molto, ma con la fame che ho qualsiasi cosa mi sembra
squisita, anche la zuppa di cipolle e patate che sarà per me l'unico pasto
della giornata. Per fortuna, sulla tavola non mancano pane e marmellata, che
accompagnano ogni pasto kirghiso, con la padrona di casa che ci chiede con
solerzia "altro tè?" ogni volta che svuotiamo le nostre scodelle. Si
mangia seduti per terra, il tavolo è alto una ventina di centimetri e l'unica
luce arriva dalla porticina della yurta che presto verrà chiusa con una
tenda di saggina. E' la prima volta che entro in una yurta, la tipica abitazione
kirghisa, formata da un'impalcatura di legno, pieghevole, ricoperta da candidi
tappeti di feltro e chiusa in alto dal tunduk, una specie di ruota
rappresentata anche sulla bandiera nazionale. Nella yurta si vive, si cucina si
mangia, si chiacchiera, si dorme... è incredibile come tutto ciò possa
avvenire con semplicità in uno spazio tanto limitato. Ermelinda mi spiega che
la prosperità della famiglia si deduce dalle decorazioni della tenda: più
questa è addobbata e colorata, infatti, più la famiglia è ricca; e questa,
sorprendentemente, deve esserlo molto, perché questa sarà la yurta più
fastosa che ho visitato. Dopo cena, i piatti vengono portati via, la tavola
smontata, e da chissà dove saltano fuori materassini e trapunte per passare le
notte, prontamente allestiti dalla padrona di casa. Intanto la ragazzina vuole
giocare ancora, ma io casco dal sonno e, quando mimo il gesto di dormire, lei si
allunga dietro una piega della yurta e ne estrae un cuscino che mi porge
sorridendo... che tenera! E' per queste emozioni che sono venuto fin qui.
Alle
nove è buio, e non rimane altro da fare che mettersi a dormire, anche perché
domani sarà un'altra lunga giornata, con il superamento di un passo a
tremilaseicento metri. Indosso tutti i maglioni che ho con me, compresa la
giacca a vento, poi mi infilo nel sacco a pelo su cui poggio tre coperte di
lana: a duemilaesei fa molto freddo di notte. Spero solo che non mi torni lo
squaraus; oltre a disfarmi di tutti gli strati, dovrei uscire fuori con cinque
sotto zero, attraversare al buio il prato evitando il recinto delle pecore nella
speranza di raggiungere il bagno, una buca scavata a due metri di profondità e
indicata da un gabbiotto di legno costruito al livello del terreno, evitare di
finirci dentro e fare i miei bisogni, il tutto correndo nella speranza di
arrivare in tempo...
La
vita da nomade sicuramente richiede una dieta molto calorica: la giornata è
lunga, si lavora dall'alba al tramonto e ci sono mille cose da fare: portare le
pecore al pascolo, mungere le cavalle, pulire le tende, raccogliere le verdure
dall'orto, aggiustare lo steccato, andare al fiume a prendere l'acqua... e
infatti la colazione che la signora ci ha preparato è bella tosta: un semolino
come lo faceva mia nonna, bello pastoso e denso, che avrà un bel diecimila
calorie... per fortuna oggi sto meglio, e non ho problemi a divorarlo. Oggi il
trekking sarà particolarmente impegnativo, e ci vuole una bella scorta di
energia! Dato che stasera reincontrerò Ermelinda e Pedro al lago, Artin mi
chiede se voglio mettere lo zaino sul loro cavallo, per poi recuperarlo in
serata. Non ci metto molto ad accettare: per me tengo solo l'acqua e la giacca a
vento, così affrontare la lunga salita verso il passo sarà molto più
semplice. Nel frattempo, la signora mi insegna a mungere una cavalla: è
un'operazione molto più faticosa di quanto immaginavo, anche perché l'animale
non ne vuole sapere di stare fermo, e bisogna continuamente smettere di mungerlo
per tirare le redini e riportarlo in posizione.
Io
ho finito le mie scorte d'acqua, quindi chiedo poi alla signora se può
bollirmene un po' e poi versarmela nella borraccia; mi dice che non ci sono
problemi, anche se non ho ancora capito dove trovi l'energia per far funzionare
il bollitore elettrico: la risposta è allo stesso tempo semplice e disarmante:
una piccolo pannello solare appoggiato alla yurta fornice alla famiglia la
corrente necessaria; allora la modernità è arrivata anche qui!
Salutata
l'allegra famigliola ripartiamo, e ovviamente Artin sparisce subito
all'orizzonte. Ermelinda e Pedro, con i loro cavalli, seguono un percorso
diverso, più adatto ai quattrozampe, e li rivedrò soltanto alla sera. Così
resto solo in compagnia di Artin; compagnia per modo di dire, perché col suo
passo velocissimo mi ha già seminato; ogni tanto si volta indietro per vedere
se sono ancora vivo, poi riparte a spron battuto mentre io arranco sotto il
sole. Il problema è che lui porta anche la mia acqua, quindi quando ho sete
devo sbracciarmi e fargli segno di fermarsi ad aspettarmi, per poi farmi passare
l'agognata borraccia. Lo squaraus oggi è passato, ma in compenso ha cominciato
a farmi male una caviglia, quindi la salita non è proprio agevole...
Dopo
un'ora e mezza arriviamo in cima al passo: siamo intorno ai tremilacinquecento
metri e l'aria è bella fresca, anche se il sole splende sopra di noi. Ma la
cosa più importante è il lago, meta tanto desiderata di questo trekking. Sotto
di noi, in fondo ad una lunga vallata, brillano le acque cristalline del lago
Song-Kol, a tremilacento metri di quota, uno dei luoghi più incantevoli
dell'Asia centrale. Dopo aver recuperato lo zaino, che gli altri hanno lasciato
qui, procediamo senza esitazione (soprattutto Artin) lungo la vallata, che
richiede altre due ore di cammino per poter raggiungere le sponde del lago. Qui
ci fermiamo per un pranzo in una delle tante yurte accampate nei dintorni, dove
faccio amiciza con degli alpinisti francesi, che hanno passato un mese su e giù
per queste montagne. Quando arriva l'ora di ripartire comincio a sentirmi
piuttosto stanco, e il sole si è fatto davvero caldo, quindi è con un po' di
timore che chiedo alla mia guida: "Quante ore mancano?"
Lui
ci pensa su per un po', poi sentenzia: "due ore". Questa volta, dato
che ci ha pensato bene prima di rispondere, ho l'impressione che la sua risposta
sia realistica, e mi sento abbastanza ottimista. Riprendiamo a camminare
attraverso una sconfinata prateria bruciata dal sole, ed essendo l'una del
pomeriggio decido di coprirmi braccia e spalle per non bruciarmi la pelle, anche
se so che così faticherò ancora di più. Artin procede pimpante, e di nuovo mi
lascia indietro, voltandosi ogni tanto per vedere se ci sono ancora. Camminiamo
camminiamo, ma di yurte nemmeno l'ombra finché, giunti in cima ad una piccola
altura, vedo delle tende all'orizzonte, piccolissime per la distanza. Artin
questa volta si è fermato ad aspettarmi, così gli chiedo se la nostra
destinazione è quella, ma non so se essere contento alla sua risposta
affermativa. Le tende sono ancora così lontane!
Il
paesaggio, però, è eccezionale. Procediamo su un altipiano in riva al lago, le
cui acque azzurrissime richiamano moltissimi animali ad abbeverarsi. Pecore,
mucche, montoni vagano liberi nella prateria, mentre mandrie di cavalli selvaggi
galoppano liberi, senza alcun padrone, sulla sponda del lago, sotto il sole che
fa luccicare la schiuma delle onde... io ho un po' di timore a muovermi, da
solo, in mezzo a tutti questi animali selvatici, che ogni tanto partono al
galoppo imbizzarriti verso il lago o le montagne circostanti. Per fortuna non mi
trovo mai sulla loro traiettoria, ma se la mia guida mi stesse un po' più
vicina mi sentirei più tranquillo. Dopo un po', rivedo i francesi che, muniti
di cavallo, ci hanno raggiunti e superati; le tende sono ancora lontane...
finalmente, due ore e mezza dopo il pranzo, arriviamo al nostro accampamento
(stavolta Artin è stato buon profeta...), dove ritrovo i miei compagni
italo-spagnoli intenti a godersi la quiete del lago. Il villaggio qui è molto
più grande che a Kilenche: ci saranno una cinquantina di tende. Dato che il
sito è raggiungibile anche in macchina, nel week-end si riempie di turisti
sfaticati che non sanno apprezzare la fatica necessaria ad arrivarci...
Io sono distrutto, ho la caviglia che sembra un'anguria e non sento più
le spalle, ma mi siedo con un buon libro, la schiena appoggiata alla yurta, il
sole che mi scalda viso e braccia, osservando i cavalli che pascolano sulla riva
di un lago cristallino e puro, mentre gli unici rumori sono i belati delle
pecore ricondotte al pascolo dai nomadi, mentre la matrona di turno prepara il
thè...
...e
non sento più la stanchezza.
In
Kyrgyzstan l'ospitalità è sacra. Capita spesso, camminando per strada, di
incontrare persone che ti sorridono, ti tendono la mano e ti chiedono:
"Come va?". Oppure ci si può imbattere in vere e proprie sale per
banchetti, con tavolate imbandite di ogni ben di Dio, dove i viandanti vengono
invitati ad entrare e a rifocillarsi. Nessuno lo fa per soldi, anzi: offrire del
denaro in queste situazioni è un'offesa grave, perché è come dire: "Il
tuo cibo faceva schifo; prendi questi soldi e comprati qualcosa di buono".
Questi banchetti sono organizzati per puro spirito di ospitalità: i kirghisi, popolo per tradizione nomade e
quindi sempre in movimento, sono abituati a chiedere e a dare ospitalità a
chiunque, senza aspettarsi in cambio nient'altro che un sorriso.
Tutto
ciò può sembrare molto bello a noi che siamo abituati a dover pagare anche
l'aria che respiriamo; ma come per ogni cosa, c'è un rovescio della medaglia:
l'ospitalità non si può rifiutare. Respingere un invito rappresenta per un
kirghiso il peggior insulto possibile, e potrebbe reagire in malo modo, tanto
violento quanto gentile era stato il suo invito. Se per strada un ubriaco
puzzolente e vestito di stracci ti tende la mano, tu gliela DEVI stringere. Se
alle otto del mattino qualcuno stappa una bottiglia di vodka e te la porge, tu
DEVI bere. Se ti invitano ad un banchetto in un posto lurido, con stoviglie
sporche e topi che corrono lungo i muri, tu DEVI entrare e DEVI mangiare. Un
"no" non è accettabile come risposta, per quanto tu possa dirlo in
modo gentile ed educato, cercando di non offendere chi hai davanti: il rifiuto
è di per sé una grave offesa, quindi bisogna sempre e comunque accettare gli
inviti, anche se possono portare a spiacevoli conseguenze.
Questi
banchetti pubblici vengono organizzati spesso nelle vicinanze di monumenti
importanti, o di siti di pellegrinaggio, luoghi in cui passa moltissima gente e
quindi gli organizzatori possono essere orgogliosi di accogliere e sfamare molte
persone. Per esempio se ne trova uno vicino alla torre di Burana, un minareto
costruito nell'XI secolo come simbolo della città di Balasagun, capitale di un
vasto regno poi distrutto da Gengis Khan; oppure presso il caravanseraj
di Tash Rabat, un luogo sperduto tra le montagne ma dotato di un fascino
indefinibile.
Un
caravanserraglio è una specie di albergo medioevale, un luogo in cui le
carovane di principi, di mercanti, o anche di semplici pellegrini sostavano
lungo i loro infiniti andirivieni lungo la Via della Seta, trovando ristoro e
riparo dalle intemperie. Quello di Tash Rabat è uno dei meglio conservati,
tanto che non dimostra i mille anni di storia di cui è stato spettatore. La
leggenda narra che un khan locale, ormai avanti con gli anni, dovesse decidere
quale, tra i suoi due figli, fosse più meritevole di ereditare il trono. Decise
allora di sottoporli ad un test: li lasciò governare per un anno ciascuno,
osservando come si comportavano. Il figlio più saggio introdusse delle tecniche
per migliorare l'agricoltura e per diffondere l'istruzione; l'altro, più
guerrafondaio, fece forgiare armi e costruire fortezze, tra cui Tash Rabat, che
significa proprio "fortezza di pietra". Il padre, infine, optò per il
primo figlio e l'altro, disperato, si buttò da una scarpata, lasciando ai
mute testimonianze delle sue ambizioni espansionistiche.
Sono
vicinissimo al confine cinese, e dalla strada posso ammirare le vette del Tien
Shan, un'imponente catena montuosa la cui altezza media supera i cinquemila
metri. Estrema propaggine occidentale dell'Himalaya, Tien Shan in cinese
significa appunto "montagne celesti" perché qui, accanto a questo
nastro d'asfalto che per centinaia di chilometri percorre il nulla più
assoluto, queste vette perennemente innevate sembrano davvero toccarsi con il
cielo azzurrissimo, con cui formano un tutt'uno. Certo, riuscirei a godermi
meglio lo spettacolo se il mio autista, perennemente impegnato al cellulare, non
corresse a centocinquanta all'ora su una strada sconnessa, piena di buche e,
soprattutto, di dossi non segnalati che appaiono all'improvviso, costringendo il
brav'uomo a frenate improvvise e brusche che mettono a dura prova un'auto che già
alla partenza non sembrava molto ben messa.
Ma
non importa: Tash Rabat è un luogo magico, impregnato di misticismo. A prima
vista non sembra niente di speciale, solo quattro mura e un tetto a forma di
cupola. Ma basta percorrere pochi passi tra i suoi freddi corridoi che subito la
mente rievoca immagini del passato, quando le lunghissime carovane di mercanti
cinesi si fermavano qui per ripararsi dalle piogge e dai predoni, lungo la
strada verso la Battriana, la Sogdiana, la Transoxiana: nomi di antichi regni
che oggi esistono solo più sui libri di storia. A quei tempi le carovane erano
chilometriche, formate da centinaia di carri carichi di spezie, seta, pietre
preziose, che instancabili cammelli, o cavalli per i più ricchi, trainavano
lentamente per migliaia di chilometri sotto la pioggia, la neve, il vento gelido
che qui, a oltre tremila metri di quota, non smette mai di sferzare i viandanti.
Dopo viaggi che duravano settimane, gli emissari del Celeste Impero sostavano
qui, a Tash Rabat, per riposarsi, comprare cibo dai nomadi del posto, pregare
(il caravanserraglio comprende anche una moschea) e incontrare i viandanti che
andavano nell'altra direzione: il grande prato di fronte al sito si trasformava
allora in un enorme mercato, dove cinesi, arabi, uyguri, kirghisi, turcomanni,
mongoli, persiani, si incontravano in un caleidoscopio di costumi, di lingue, di
religioni, di usanze, comprando e vendendo di tutto, per poi spesso fare
direttamente ritorno a casa, senza bisogno di proseguire oltre.
Ed
è sempre qui, a Tash Rabat, che l'ospitalità kirghisa mi costringe ad una
sosta forzata. Dopo aver visitato il sito, cerco il mio autista che nel
frattempo si è insediato in un vecchissimo rimorchio per camion, ormai
inutilizzabile come tale e trasformato in abitazione dagli abitanti del posto.
Qui trovo la solita tavola imbandita, dove sono costretto a rifornirmi, bevendo
thè e mangiando pane e marmellata. Il posto è lercissimo, le stoviglie nere e
lavate chissà quando e con chissà quale acqua, ma non mi è possibile
rifiutare. Finché non avrò mangiato e bevuto qualcosa, il mio autista si
rifiuterà di ripartire, a costo di restare qui tutto il giorno. Così devo, a
malincuore, accettare; la mattina dopo però, come previsto, pagherò la
decisione a caro prezzo, ed un forte mal di pancia mi accompagnerà per i
successivi due giorni senza darmi tregua. E pensare che ero appena guarito...
Di
tutto il mondo, il Kyrgyzstan è il paese in assoluto più lontano dal mare.
Questa lontananza però non si fa sentire grazie alla presenza del lago
Issyk-Kol, uno dei più grandi dell'Asia. Si trova a duemila metri di quota, ma
le sue acque sono calde, e in estate sulle spiagge è possibile prendere il
sole; per questo negli ultimi anni sulle sue rive sono sorti molti resort
turistici, che tra luglio e agosto vengono presi d'assalto da facoltosi turisti
russi e kazaki che qui trovano un ideale ambiente vacanziero, con spiagge
attrezzate, locali all'aperto, discoteche in stile riviera romagnola, e un mare
cristallino, quasi incontaminato (prima che arrivino loro). Grande diciotto
volte il lago di Garda, questo bacino mitiga molto il clima della regione: non
per niente il suo nome significa "lago caldo", poiché non ghiaccia
nemmeno in inverno. Io ho fatto sosta a Bokonbaevo, una polverosa cittadina a
pochi chilometri da una piccola spiaggia sulla riva meridionale, molto più
pulita ed incontaminata di quella settentrionale, e sono curioso di ammirare
questo grande lago.
Ma
non sono arrivato fin qui solo per questo. So che da queste parti, ogni anno, in
agosto, si tiene il festival della falconeria, e sono molto curioso di
assistervi.
La
falconeria è molto diffusa in Kyrgyzstan, tanto che se fosse una disciplina
olimpica questo paese farebbe certamente incetta di medaglie. I cacciatori con
l'aquila sono persone molto rispettate, perché portano avanti una tradizione
nomade vecchia di secoli, che riescono ancora a trasmettere ai figli. I possenti
rapaci, una volta catturati, vengono incappucciati e fatti dondolare su di un
trespolo, mentre il padrone intona una nenia lenta e ipnotizzante, in modo da
creare un legame tra sé e l'animale. In seguito il cacciatore risveglia lo
spirito selvatico dell'aquila, salendo a cavallo e trascinando delle pelli di
animale che fungono da esca, incitando il rapace ad afferarli. Dopo questo
periodo di addestramento, padre e figlio partono per le battute di caccia, che
si svolgono soprattutto in inverno, quando i piccoli mammiferi scendono dalle
montagne tornando alle valli a bassa quota. Si lavora in coppia: il figlio fa da
battitore e, correndo e urlando, spinge gli animali fuori dai loro ripari verso
uno spazio aperto; a quel punto il padre toglie il cappuccio dall'aquila, che
subito spicca il volo: identificata la preda, di solito una volpe o un tasso, si
cala dall'alto e la ghermisce con gli artigli, sollevandola da terra per poi
farla ricadere. Tramortita, la preda non è più in grado di difendersi dal
becco e dagli artigli del rapace, che la fa a pezzi in pochi secondi. Può
sembrare una pratica crudele e insensibile, ma per i pastori di queste terre è
l'unico modo di procurarsi del cibo fresco, per poter superare il lungo inverno.
Un cacciatore non uccide mai più prede di quelle necessarie a sfamare la sua
famiglia, né cerca di trarne un profitto economico. Anche l'aquila viene
trattata bene, e dopo un anno o due viene lasciata libera di tornare sulle
montagne. "Sappiamo che anch'esse hanno la loro casa e la una famiglia che
le aspetta, così all'arrivo della primavea le lasciamo andare in mezzo alla
natura selvaggia, dove possono tornare libere" - mi dice Ashtnikan, figlio
di un cacciatore.
Io
non ho mai visto qualcuno cacciare con l'aquila, e sono arrivato fin qui
sperando di poter assistere al festival nazionale. In questo evento, i
cacciatori di tutto il paese si ritrovano per sfidarsi in gare di bravura,
ognuno esponendo orgoglioso il proprio animale. Spero di essere in tempo, e
l'addetta del locale ufficio del turismo mi da risposte incoraggianti:
"Sapete
quando si tiene il festival della falconeria?"
"Sì,
è domani, in un villaggio qui vicino"
"Ah,
bene, allora sono arrivato proprio al momento giusto!"
"E'
vero: dura un giorno solo"
"Bene;
allora oggi vado al lago, e domani torno qui, così mi date informazioni precise
su come arrivarci"
"Certo! You're welcome!"
Così
passo una giornata in riva al lago, prendendo il sole su una spiaggia piccola ma
molto affollata di gente fin dalla mattina presto. Non sembra davvero di essere
in alta quota: ragazzi e ragazze si tuffano, giocano nell'acqua, tornano sulla
sabbia a prendere il sole, poi scartano cartocci di cibo fritto per pranzare in
compagnia... pare proprio di essere su una spiaggia nostrana, e finalmente
riesco a godermi un pomeriggio di riposo, libero dal pensiero di zaini e di
squaraus vari.
Alla
sera la padrona della guesthouse che mi ospita porta la cena a me e ai due
ragazzi ginevrini che già avevo incontrato a Kochkor, e che ritrovo qui. Tutti
i turisti bene o male dormono nelle stesse case, quindi è facile reincontrare
viaggiatori che magari ho già visto alcuni giorni prima, poi ho salutato per
andare dalla parte opposta del paese, e adesso ritrovo per caso, a tavola. Loro
domani hanno in programma l'ennesimo trekking, anche se la ragazza non è molto
convinta: da alcuni giorni sta passando più tempo sul cesso che tra le
montagne...
L'indomani,
finalmente, mi aspetta il tanto pregustato festival. Sono davvero emozionato
all'idea, perché è una delle poche cose che non ho ancora visto, così torno
all'ufficio turistico per avere maggiori dettagli. Ritrovo la ragazza di ieri,
ma scoprirò che purtroppo, i kirghisi, per quanto gentili e disponibili, sono
piuttosto incompetenti.
"Buongiorno,
sono qui per sapere come raggiungere il festival"
"Ah...
credo di essermi sbagliata. Il festival era ieri..."
"Come
ieri? E non c'è anche oggi?"
"No:
dura un giorno solo..."
"In
Kyrgyzstan, quando due giovani si sposano, lo stato regala loro una casa"
mi spiega Artyun, un russo con cui ho appena fatto amicizia. "Così il
marito può lavorare tranquillamente, mentre la moglie resta a casa a crescere i
figli. Se no come fanno?" e lo chiede allargando le braccia, come se fosse
la domanda più ovvia del mondo. Vorrei spiegargli che in Italia non funziona
esattamente così, anzi; e che, sinceramente, non lo so proprio come fanno da
noi. Ma non importa, forse lo sa già: Artyun lavora all'ambasciata americana di
Bishkek, dove si occupa di consulenze economiche per aziende che vogliono fare
affari nel paese, e di sicuro conosce bene il mondo occidentale. Però si
ricorda ancora di quando qui era Unione Sovietica, ed ogni famiglia aveva
diritto ad una casa, gentilmente fornita dallo stato. Le giovani coppie non
dovevano accendere mutui né bruciarsi metà dello stipendio per procurarsi
un'abitazione: lo stato provvedeva a tutto, restando ovviamente proprietario
dell'immobile, da cui l'allegra famigliola poteva essere cacciata in qualsiasi
momento per far spazio a chiunque altro venisse considerato più bisognoso.
Dopo
l'indipendenza il governo kirghiso propose alle famiglie di riscattare la
proprietà delle proprie case, pagando una cifra simbolica: all'epoca, un
appartamento di tre stanze in centro a Bishkek non costava più di due o tremila
euro. "I miei genitori - continua Artyun - erano indecisi se comprarsi una
casa o un computer; ho dovuto insistere parecchio per convincerli a scegliere la
casa, e adesso che vale venti volte tanto non smettono di ringraziarmi".
Oggi
la pratica di regalare case è stata abolita ufficialmente, ma in molti villaggi
è ancora usanza che il municipio locale assegni gratuitamente delle abitazioni
a giovani coppie con la promessa (che qui vale più di qualsiasi contratto
firmato) che ne avranno l'usufrutto a vita; in cambio, gli sposini si impegnano
a prendersi cura della dimora, sollevando così il comune dai gravosi oneri di
manutenzione.
Artyun
è in compagnia di alcune sue amiche: una dolce e timida kirghisa, un'allegra
kazaka che non smette mai di parlare, ed una uighura, dalla pelle scura e gli
occhi penetranti, che definire "di lineamenti orientali" è dire poco.
Comunicare non è un problema: il russo è lingua franca qui, quasi un esperanto
per il mosaico di popoli ed etnie che abita l'Asia centrale. Artyun e le sue
amiche, come molti altri kirghisi, sono arrivati fin qui, nella zvetov dolina,
la valle dei fiori, per passare il week-end al riparo dall'opprimente calura
delle città. Oggi infatti è sabato, e intere comitive di gitanti arrivano in
macchina o in pullman fino a questo incantevole luogo di villeggiatura a
duemiladuecento metri di quota per accendere un barbecue, montare un tavolino
all'ombra dei pini e rilassarsi, giocare a carte, ascoltare musica, e godersi
l'aria fresca e la natura (quasi) incontaminata. Io, naturalmente, ci sono
venuto a piedi, con una camminata di un paio d'ore per nulla impegnativa (una
volta tanto), giusto un allenamento per le dure salite che ancora mi aspettano.
E' stato facile seguire il sentiero che parte da un vecchio sanatorio presso il
villaggio di Jeti-Oghuz, cioè "sette tori". I "tori" in
realtà sono delle sporgenze rocciose che formano la cima di una collina di
arenaria, di cui la zona circostante è molto ricca. Il nome deriva dalla
leggenda di sette grossi tori che, cresciuti liberi e forti grazie ai floridi
pascoli della vallata, vagavano indisturbati per la zona attaccando i contadini
e distruggendo le coltivazioni. Gli abitanti del villaggio pregarono il loro dio
di fermarli, ed Egli decise di accontentarli congelando i tori e trasformandoli
in montagne.
Questa
leggenda mi fa tornare alla mente la Norvegia: anche in quella terra per ogni
masso, albero o lago dalla forma un po' strana esiste qualche antico racconto
risalente alla notte dei tempi, che pretende di spiegarne l'origine ed il nome
fiabesco. La differenza principale sta nei protagonisti dei suddetti racconti:
in Scandinavia, le fiabe narrano storie di elfi, gnomi e orchi; in Kyrgyzstan
invece, i protagonisti sono meno prosaici: pastorelle, cacciatori, cavallerizzi,
al limite uno sciamano. Puntualmente, la collina successiva è oggetto di
un'altra di queste leggende. C'era una volta una ragazza bellissima, che viveva
in un villaggio vicino. Due giovani del posto, perdutamente innamorati di lei,
fanno a gara nel corteggiarla ma la pulzella, attratta da entrambi, non sa quale
scegliere. I due decidono allora di sfidarsi a duello: il vincitore otterrà il
cuore (e non solo quello) dell'amata. Il finale è piuttosto scontato: i
duellanti, accecati dalla brama della vittoria, si uccidono a vicenda; la
ragazza, rimasta sola e distrutta dal dolore, muore di crepacuore. Sulla sua
tomba crescerà poi una collina che ancora oggi porta il nome evocativo di razbitoye
serdze, cuore spezzato.
Da
Jeti Oghuz una pista sterrata risale la valle del fiume omonimo, una stretta
gola in cui il sole penetra a malapena, fino a raggiungere un grande pianoro.
Questa volta il cammino è facile: mi sono procurato una cartina per ogni
evenienza, ma non serve perché la pista sale dolcemente e ben segnalata, e
posso camminare da solo, in tutta tranquillità, senza dover correre dietro a
qualche guida forsennata. Ogni tanto un traballante ponticello dall'aria non
troppo rassicurante scavalca il torrente, ma dato che anche le macchine ci
passano sopra, non mi faccio molti scrupoli ad affrontarlo. Man mano che salgo
l'aria si fa più fresca e gli alberi si chiudono sul percorso, fino a formare
una specie di tunnel naturale; nonostante sia mattino inoltrato, diventa quasi
buio fin quando, all'improvviso, lo sguardo si apre su di una sconfinata radura.
Qua e là si scorgono alcune yurte isolate, ma gli abitanti di questo luogo sono
soprattutto cavali e mucche, anche qui animali selvatici, liberi di correre,
pascolare, andare dove più gli aggrada. Mi stendo a prendere il sole ma subito
una mucca mi scruta con fare sospettoso e all'improvviso comincia a correre
verso di me; velocemente raccolgo le mie cose e mi dirigo verso una tenda
vicina, dove alcuni pastori stanno cucinando il pranzo. La presenza di altre
persone sembra scoraggiare l'animale, che ritorna sui suoi passi, con l'aria però
di voler ritornare presto ala carica (eppure non mi pare che le mucche mangino
le persone...).
Oltre
l'altopiano c'è un nuovo ponte, poi la strada riprende a salire verso un'altra
vallata, ma io sono pago. Mi fermo ad osservare un gruppo di cavalli che, in
ordinata fila indiana, attraversa il ponte per dirigersi verso qualche pascolo,
forse nel tentativo di sfuggire alla presenza dei vacanzieri che si fanno più
invadenti ogni minuto che passa. Tra di loro, un piccolo puledro si nasconde tra
i compagni più grandi, che quasi sembrano scortarlo a destinazione.
E'
difficile andarsene da un posto simile, ma io non sono abituato a stare senza
far niente, e dopo un po' sento il bisogno di riattivarmi, di fare qualcosa. Un
paio d'ore di relax al fresco di una pineta sono state sufficienti per
ricaricare le batterie: recupero lo zaino e mi incammino lungo la strada del
ritorno. Domani mi aspetta la salita all'Altyn Arashan, la tappa più dura di
tutto il viaggio, al cui confronto ciò che ho passato finora mi farà quasi
sorridere.
Mi
sono sempre chiesto perché le montagne russe si chiamino così. Facendo una
ricerca, ho scoperto che in effetti il nome non è del tutto campato in aria:
l'idea è nata a San Pietroburgo dove, già nel 1500 e con
il non trascurabile aiuto del clima, gli abitanti costruivano artificiali
scivoli di ghiaccio su cui far scivolare le slitte. Vorrei spiegarlo a Valentin,
che ne sarebbe di certo orgoglioso, ma temo che ne nascerebbe una discussione
infinita: infatti è curioso che in russo le "montagne russe" si
chiamino "montagne americane", perché i russi credono che siano state
inventate sull'altra sponde dell'oceano...
Comunque,
nemmeno i rollercoaster (questo è il loro nome anglosassone) più emozionanti
possono reggere il paragone con la strada che da Altyn Arashan scende al paese
di Karakol. La jeep sobbalza in modo spaventoso mentre precipita nelle buche di
mezzo metro, scavalca gli enormi massi, sprofonda nel torrente, affrontando i
continui saliscendi, le voragini, i tratti franati che la costringono ad
arrampicarsi sulle pendici delle pareti circostanti sfidando la forza di gravità.
Sobbalziamo paurosamente, tanto che devo accucciarmi per non picchiare la testa
contro il tettuccio, come invece succede regolarmente alla moglie di Valentin,
seduta davanti. Gli enormi bagagli accatastati sul sedile accanto al mio
sbandano fino a rotolarmi addosso, mentre ho l'impressione che il sedile si
sradicherà da un momento all'altro catapultandomi fuori dal trabiccolo. Mi
aggrappo tanto forte alla maniglia che, quando cerco di staccare la mano, mi
accorgo che non risponde più ai miei comandi e che il sangue ha smesso di
circolare. Ma non mi importa più di tanto, perché il mal di mare mi sta
facendo "digerire" la colazione e sento che sto per svenire...
Ma
andiamo con ordine. Altyn Arashan è una ridente località di montagna, situata
a duemilacinque-duemilaseicento metri, famosa per le sue vasche termali, pozze
di acqua calda che sgorga direttamente dal terreno e dove molti turisti si
recano a fare un rilassante bagno. E' quanto di più simile ad una sauna
finlandese si possa trovare da queste parti, e in certi giorni bisogna fare la
fila per poter godere di queste vasche all'aperto in cui l'acqua supera i trenta
gradi; adulti e bambini sguazzano in queste pozze bollenti, per poi uscire e
correre a tuffarsi nel fiume, la cui temperatura è di certo molto inferiore: ma
russi e nordici sono avvezzi a queste pratiche, il cui sbalzo termico pare
essere un toccasana per la salute.
L'unico
svantaggio è che, per raggiungere questo villaggio, bisogna percorrere quindici
chilometri di una terribile strada soggetta a valanghe, inondazioni, terremoti,
e che di sicuro ha visto tempi migliori; i trasporti sono scarsissimi ed
imprevedibili, giusto qualche camion di militari, così decido di farmela a
piedi, partendo di buon'ora e lasciando il grosso dei bagagli a Karakol, dove
tornerò a recuperarli tra qualche giorno. Ermelinda e Pedro, che erano già
stati qui prima di me, mi avevano avvisato che "il primo pezzo è tutto al
sole", il che mi lascia sperare che, ad un certo punto, comincerà un
secondo pezzo più riparato. Decido allora di partire molto presto per evitare
le ore più calde; con un minibus raggiungo l'ennesimo sanatorio, da cui parte
la pista diretta alle terme. Pensavo che avrei incontrato qualche trekker,
invece solo il placido scorrere del fiume mi accompagna lungo il percorso. Dopo
un paio d'ore in cui gli unici segni di civiltà sono stati una baracca
abbandonata delle guardie forestali ed una baita custodita da un cane piuttosto
ringhioso, mi fermo a tirare il fiato. Appoggio gli occhiali su un sasso per
spalmarmi la crema solare, mi stiracchio rilassato, allungo le gambe per godermi
il bosco e... CRAC! Ho messo un piede sugli occhiali...
Alzo
subito il piede, ma ormai il danno è fatto. Per un attimo, il terrore mi scorre
nelle vene, perché senza occhiali io divento come l'uomo talpa dei Simpson, e
non sarei in grado di distinguere un coniglio da un elefante. Mi chiedo come
potrò continuare a cavarmela in questo paese, o anche solo raggiungere la fine
del sentiero, ma quando controllo i danni mi accorgo che la montatura di titanio
ha resistito abbastanza bene: si è spezzata in un punto vicino alla stanghetta
destra, ma non si è frantumata, quindi riesco ancora a tenere gli occhiali sul
naso, anche se la lente destra cade in terra ogni volta che abbasso lo sguardo.
Beh, almeno ho un motivo per andare a testa alta...
Dopo
un altro paio d'ore incontro finalmente qualche trekker che sta scendendo, così
mi informo sulla distanza che rimane, anche se ormai non mi fido più tanto
delle valutazioni altrui. Infine, dopo sei ore abbondanti di un percorso ripido
ed accidentato che è stato tutto al sole, arrivo in cima ad
un'altura da cui si scorge il villaggio, dominato sullo sfondo dall'imponente
mole degli oltre quattromila metri del monte Palatka.
Qui
raggiungo il piccolo ostello gestito da Valentin, una pittoresca guida alpina,
che parla solo in russo strettissimo e che sembra essere l'attrazione del posto.
C'è anche unpiccolo bar che vende di tutto: vino, birra, vodka, fanta...
l'unica cosa che non hanno è l'acqua. Quando gli chiedo spiegazioni, Valentin
mi accompagna ad una grande vasca arrugginita, dove un tubo di gomma che penzola
dal tetto versa acqua senza sosta. L'uomo mi incoraggia a bere a garganella,
vantandosi del fatto che l'acqua "arriva direttamente dalla sorgente in
cima alle montagne!" Peccato che il percorso dalla montagna fin qui sia
lungo un prato dove centinaia di animali pascolano liberamente... va beh, vuol
dire che per questo giro andremo a birra.
Intanto
faccio amicizia con dei ragazzi parigini che, sfidando l'aria per così dire
"frizzante" che comincia a tirare, si tuffano allegramente nel fiume
che scorre ai margini del villaggio. Attraverso un traballante ponte di legno
per osservarli meglio, e incontro alcuni ragazzini che subito vengono attratti
dalla mia macchina fotografica. Incuriositi, me la strappano dalle mani e
cominciano subito a giocarci, mettendosi in posa e scattandosi foto a vicenda,
per poi correre subito a guardarsi nel piccolo monitor digitale. I bambini
ridono, fanno smorfie, assumono buffe pose quasi in una gara a chi fa più il
pagliaccio, per poi coinvolgere nell'allegro teatrino anche l'anziano e burbero
nonno, che dapprima li rimprovera senza molta convinzione, poi si lascia
coinvolgere nel gioco dei nipoti. Anche il fedele cane viene inquadrato, ma non
sembra essere molto interessato alla notorietà dato che volge sempre le spalle
all'obiettivo nonostante gli sforzi dei padroncini, che cercano in tutti i modi
di metterlo nella giusta posa.
Ma
è ora di cena. Il nonno richiama i nipoti all'ordine ed il maggiore di questi,
nel restituirmi la macchina fotografica non mi chiede né soldi né caramelle,
anzi: mi sorride contento e, con un pensiero spontaneo che mi stringe il cuore,
mi dice: "Grazie di averci fatto giocare". Credo che non dimenticherò
mai questo momento.
Il
giorno dopo è ora di ritornare a valle. Valentin si offre di accompagnarmi con
la sua macchina, ovviamente dopo aver fatto un bel bagno nella sua pozza
privata. L'auto non ha un aspetto molto incoraggiante: è una jeep di stampo
militare, risalente a tempi molto vecchi, e non proprio ben tenuta: sono di più
i pezzi che le mancano di quelli che restano. Sono un po' dubbioso, ma dal
momento che la macchina ogni giorno fa su e giù fino in città, ed è ancora
intera, penso che almeno un altro viaggio potrà sopportarlo.
Certo,
non bisogna andare troppo per il sottile: i tergicristalli sono attaccati al
tettuccio, anziché al cofano, come si usava tantissimi anni fa, e il volante è
di quelli enormi, difficile da girare; sotto di esso, i cavi dell'accensione
penzolano scoperti. Tutti gli strumenti del cruscotto hanno indicatori
vecchissimi, nessuno dei quali funziona. I sedili sono strappati; le portiere
non hanno più le maniglie, e si possono aprire solo dall'esterno (ma come
faremo quando saremo saliti tutti?); i finestrini sono bloccati; il parabrezza
è scheggiato; la ventola è, diciamo così, "belle epoque". Il
proprietario, forse per incoraggiarmi, mi mostra orgogliosamente il foglio di
immatricolazione, datato 1965; diciamo che forse da noi non passerebbe la
revisione... All'alba delle dieci, il brav'uomo comincia a caricare i sedili
posteriori di zaini, borsoni e bagagli enormi e pesantissimi, che altri
viaggiatori gli hanno "affidato" per non doverli portare a valle sulle
spalle. Io dovrò accovacciarmi per trovare un posticino. E quando, finalmente,
tutto sembra pronto per partire, comincia il bello: il motore non parte. Dai e
dai, Valentin continua a girare freneticamente la chiave nell'accensione (mi
stupisco che non usi un piede di porco...), ma il motorino d'avviamento continua
a girare a vuoto.
Dopo
alcuni minuti di inutili tentativi, l'uomo scende dall'auto e decide di giocare
un'altra carta. Si allontana fischiettando verso un piccolo capanno degli
attrezzi, dove comincia a rovistare rumorosamente per poi uscirne con un
caricabatterie, di quelli che si usano anche da noi per ricaricare le batterie
delle auto. Sono stupito che in un posto tanto remoto siano così ben
attrezzati, e infatti il mio ottimismo è destinato a durare poco. Valentin
collega i fili ai poli della batteria, poi prova ad accendere il motore: niente.
Passano altri minuti, altri tentativi a vuoto, ma la macchina non parte:
evidentemente, il caricabatterie è scarico.
Si
sono fatte le undici, e il cielo comincia a farsi minaccioso. Se si mette a
piovere, la "strada" diventerà una fanghiglia impenetrabile,
percorribile solo con un carro armato. Ma Valentin non è tipo da perdersi
d'animo: "no problem, no problem" mi rassicura allegramente; poi,
fischiettando, si dirige nel solito capanno. Altro rovistare, altro rumore di
ferraglia; infine l'uomo rispunta armato di un compressore diesel, che collega
al caricabatterie. L'idea sembra questa: far partire il compressore, che
dovrebbe ricaricare il caricabatterie, che a sua volta ricaricherà la batteria
dell'auto. Io dubito che un tale groviglio di cavi elettrici possa funzionare,
ma Valentin è ottimista, così mi siedo su una panca a godermi lo spettacolo.
Rimane
solo un piccolo dettaglio: far partire il compressore. L'accensione, infatti,
avviene per mezzo di una corda che va tirata per far partire il motorino che
accenderà il compressore che caricherà il caricabatterie che accumulerà la
batteria che farà partire il motore dell'auto (manca solo il fuoco che bruciò
il legno, ecc...).
Valentin
strattona la corda: niente. L'uomo tira e suda, suda e tira, tira e suda, ma
l'aggeggio non vuole saperne di accendersi. Quasi si spella le mani a forza di
strattonare la corda, che però ogni volta gira a vuoto. La situazione è
evidente: il serbatoio del compressore è vuoto.
Vorrei
suggerire di usare il gasolio della jeep per riempire il compressore, ma non
vorrei scatenare una nuova serie di problemi: ormai è mezzogiorno passato, la
strada è lunga, il cielo è coperto e io comincio a pensare che, se fossi
andato a piedi, sarei già arrivato.
Ma
Valentin continua ad essere allegro, e scopro che ha una soluzione di riserva:
va dal suo vicino di casa e gli chiede di portare la sua macchina vicino alla
jeep; quindi collega direttamente le due batterie e... oplà! La jeep si accende
subito! Tutti si rallegrano dandosi pacche sulle spalle, mentre io li guardo e
mi chiedo: ma... non potevano farlo prima?
Il
resto è storia...
In
Kyrgyzstan c'è l'abitudine di rapire le donne. Funziona così: un uomo vede
passare per strada una donna che gli piace; se la carica in spalla, la mette su
un'auto con la forza e se la porta a casa. In seguito non le porta violenza,
anzi: la sposa deve restare illibata fino alle nozze, quindi il passo successivo
consiste nel convocare la famiglia di lei e chiedere che acconsenta al
matrimonio. Di solito la risposta è positiva, perché i genitori sono contenti
di avere una bocca in meno da sfamare; inoltre, in questo modo la cerimonia si
svolge in modo molto più sbrigativo ed economico, con vantaggi per tutti. Beh,
tranne che per la donna, naturalmente, che ha comunque il diritto di rifiutare
l'accordo e di tornare a casa, dove però sarà probabilmente trattata con
distacco ed antipatia. Bisogna anche riconoscere che molti matrimoni cominciati
in questo modo si sono poi rivelati duraturi, data l'indole pacifica e
accomodante dei kirghisi.
Questa
pratica, risalente ai tempi del nomadismo, oggi è ufficialmente fuorilegge, ma
Artin mi spiega che è ancora praticata negli sperduti villaggi di montagna,
dove le occasioni di "socializzare" sono molto rare, e quando un
giovane pastore abituato a stare tutto il tempo con capre e cavalli vede passare
una bella ragazza, fa un po' fatica a trattenersi...
Artin
ha venticinque anni ed è single, un evento raro da queste parti. I suoi
genitori insistono affinché si trovi una ragazza e si sposi, che ormai sarebbe
ora, ma lui sembra più interessato a studiare e a divertirsi (nel senso di
passare le serate giocando a
ping-pong con suo padre nel cortile di casa). Gli suggerisco che, al limite, può
sempre rapire una ragazza e sistemarsi, e lui sorride distraendo lo sguardo.
Chissà...
Siamo
a Talas, città del Kyrgyzstan occidentale, separata dalla capitale Bishkek da
una strada infinita che attraversa due passi a oltre tremilacinquecento metri.
Qui il Kazakistan è molto più vicino, ed è lì che la gente si reca quando
vuole fare pazze spese.
Ma
Talas è soprattutto la città in cui è sepolto Manas, l'eroe nazionale
kirghiso. Si tratta di una figura mitica, vissuta forse nel decimo o undicesimo
secolo, che avrebbe condotto il suo popolo attraverso steppe e deserti asiatici
fino ad occupare la loro terra attuale. Mitico condottiero, ritratto sempre a
cavallo, le cui statue campeggiano nelle piazze di ogni città, rappresenta
un'idea di nazione più che una persona reale. Lo stesso Artin, che mi fa da
guida nell'imponente mausoleo ad egli dedicato, non crede che sia esistito
veramente ("ma non dirlo in giro", mi sussurra, strizzandomi
l'occhio). Qui a Talas l'eroe è venerato come un Dio, perché qui si troverebbe
la sua tomba, intorno alla quale è stato costruito un complesso formato da un
museo, uno stadio, svariate statue e tombe dei suoi fedeli, un cimitero
tradizionale; e anche se il tutto assomiglia più ad un parco giochi che ad un
luogo di culto, qui ogni giorno arrivano migliaia e migliaia di pellegrini per
venerare questa figura leggendaria.
Entriamo
nel museo, per la verità non molto affollato, tanto che non si trova neanche
una guida. Artin confabula con la bigliettaia, che poi si allontana di corsa.
"E' andata a chiamare una guida - mi spiega -: adesso non ce ne sono perché
in questo periodo sono tutte impegnate con la mietitura nei campi."
Evidentemente, anche qui la cultura non garantisce un'occupazione stabile...
Arriva
la guida: una signora di mezza età che parla solo kirghiso. Mentre si prodiga
in spiegazioni delle varie statue, foto e dipinti, Armin traduce ma io capisco
poco. Mi mostrano una copia del libro che racconta tutta la storia di Manas,
un'epopea dell'eroe e dei suoi figli: pare che sia il libro più lungo del
mondo, pari all'Iliade e all'Odissea messe insieme e moltiplicate per venti (ne
esiste anche un'edizione italiana, per chi fosse interessato). La vita del
grande condottiero è interessante, ma piena di episodi della storia classica;
in particolare, mi colpisce l'aneddoto secondo cui, alla nascita del suddetto,
una veggente aveva predetto al re di quel tempo che un neonato di nome Manas lo
avrebbe spodestato; allora il re aveva ordinato di fare uccidere tutti i bambini
nati in quell'anno che portassero quel nome (mi sembra di averla già sentita
questa...). Comunque i suoi genitori, alle cui orecchie era giunta la notizia,
avevano deciso di cambiargli nome, salvandogli così la vita. Innumerevoli sono
poi i racconti e i dipinti delle sue imprese militari, in cui il condottiero,
perennemente raffigurato a cavallo di un possente destriero, con indosso una
sfavillante armatura, vince innumerevoli battaglie sconfiggendo ad uno ad uno
tutti i nemici, e conducendo infine il suo popolo alla terra promessa. Pare
anche che alla sua morte la moglie Kanykey, una donna (stranamente) bellissima,
per evitare che i nemici di Manas trovassero e distruggessero la tomba, la fece
costruire molto in profondità, realizzando sopra di essa altre tombe dedicate
invece a delle donne, così da mimetizzare quella originale.
La
storia di Manas viene raccontata dai manasci, cantori che si muovono di
villaggio in villaggio imbastendo dei veri e propri spettacoli teatrali in cui
le imprese del condottiero vengono narrate in modo molto spettacolare. I manasci
più famosi, come Togolok Moldo e Sagimbai Orozbakov, sono dei veri e propri
VIP, conosciuti e rispettati in tutto il paese, e le loro fotografie autografate
risaltano in ogni angolo dei teatri. Ogni loro spettacolo è un vero e proprio
evento nazionale e raduna migliaia di spettatori, anche se forse oggi questi
personaggi vivono più di fama riflessa che non di vera bravura, aiutati come
sono da un esercito di figuranti e di voci fuori campo.
Un
tempo, i manasci erano dei personaggi molto più temuti e rispettati,
quasi degli sciamani, che incutevano un sentito timore nel pubblico. Quando
arrivavano in un villaggio, tutte le attività si fermavano e l'intera
popolazione si assiepava intorno al cantore, che cominciava a raccontare le
gesta di Manas in un'atmosfera di estrema tensione e di alto spessore narrativo.
Il vero manasci interpretava da solo tutti i personaggi, tanto che i suoi
racconti potevano durare svariati giorni. Il narratore raccontava in modo molto
realistico le battaglie, le sofferenze, le discussioni, le sconfitte, gli amori,
le vittorie di Manas, tenendo inchiodati a sé gli spettatori che, col fiato
sospeso, soffrivano e si angosciavano al racconto di duelli e scontri
cavallereschi, per poi compiaciuti all'immancabile trionfo finale dell'eroe. Si
narra addirittura che, quando parlavano i manasci più bravi,
succedessero fatti soprannaturali: i cavalli impazzivano, come inseguiti da una
forza invisibile, e dal cielo azzurro e privo di nuvole cominciava
inspiegabilmente a piovere.
D'altronde
fare il manasci non è cosa da tutti, anzi, è un lavoro che solo pochi
eletti possono portare avanti. Infatti dev'essere lo stesso Manas ad apparirti
in sogno e ordinarti di diventare un suo cantore. A quel punto non puoi più
rifiutarti: devi abbandonare la tua vita ordinaria e assumerti l'onore di essere
un manasci, altrimenti la sfortuna si abbatterà sul resto della tua
misera esistenza.
Mentre
torniamo in città noto che la nostra auto, come molte altre su cui ho
viaggiato, ha il volante a destra. Questa è una vera stranezza dato che la
guida è anch'essa a destra, e ciò costringe un guidatore che vuole sorpassare
(cosa che succede molto di frequente) a spostarsi con l'intera auto prima di
vedere se dall'altra parte arriva qualcuno. Non mi sembra una cosa pratica, così
chiedo spiegazioni ad Armin. La risposta, come sempre qui in Kyrgyzstan, è
tanto ovvia quanto spiazzante.
"Sono
tutte auto giapponesi, - mi spiega - e lì le costruiscono col volante a destra.
Le prendiamo in Giappone perché quando ci arrivano sono ancora nuove, hanno
solo dieci o dodici anni - e lo dice seriamente -. Le auto tedesche, invece,
come le Volkswagen, ci arrivano che hanno venti o più anni, e necessitano di
continue riparazioni, quindi non sono tanto convenienti."
Beh,
se non altro, quando cambierò la mia, invece di rottamarla avrò qualcuno che
me la comprerà, e sarà anche tutto contento...
La
strada per Osh è lunga, quasi infinita. La salita verso il passo Tor-Ashuu, a
quota 3.586, non finisce mai; si incontrano soprattutto TIR stracarichi di
merce, che arrancano lenti sulla salita con pendenze superiori al 10%, mentre le
poche auto quasi fondono il motore nel tentativo si sorpassarli prima del
successivo tornante. Il mio autista, tanto per cambiare, non si tira certo
indietro, superando nelle curve cieche, a sinistra come a destra, affrontando in
piena marcia tornanti strettissimi sotto i quali si apre un precipizio
spaventoso, mentre la strada sotto di noi diventa sempre più piccola, e i tanti
camion sembrano diligenti formichine che trasportano ordinate le briciole di
pane verso il nido.
Ad
un certo punto si presenta una galleria, forse l'unica di tutto il paese,
stretta e buia, in cui le auto vanno a passo d'uomo e c'è a mala pena lo spazio
per una corsia... mi chiedo cosa accadrebbe se incontrassimo un camion che
arriva dall'altra parte, e spero proprio di non scoprirlo. Pare che alcuni fa ci
sia stato un grave incidente in questo claustrofobico tunnel del tutto privo di
aerazione e di vie di fuga, e che nella coda formatasi in conseguenza decine di
persone siano morte asfissiate dai gas di scarico. La cosa non mi lascia molto
tranquillo, così tiro un sospiro di sollievo quando alla fine torniamo a vedere
la luce del sole e, giunti al passo, cominciamo ad affrontare la discesa.
Stranamente, l'autista comincia a rallentare e a guidare in modo molto più
prudente rispetto alla salita, quasi avesse paura che i freni non reggano le
frenate di tutti i tornanti che ci aspettano. In fondo alla discesa, dove
ricomincia la pianura, c'è un grande incrocio dove il conducente, senza troppi
complimenti, mi abbandona al mio destino, indicandomi la strada laterale per la
valle di Suusamyr (con l'accento sulla a), dove sono diretto. Sono diretto a
Kyzyl-Oi, un minuscolo villaggio in fondo alla vallata, nascosto tra ripide
montagne in cui un impetuoso torrente ha scavato una stretta e pittoresca gola,
e per raggiungerlo non mi rimane che fare l'autostop. Così, sotto il sole di
mezzogiorno, mi siedo sul mio borsone e aspetto paziente che qualche tapino
imbocchi questa stradina sterrata di cui non si vede la fine... e che si fermi
anche a raccogliermi.
Dopo
un'ora e mezza in cui sono passate tre auto, e tutte nella direzione sbagliata,
ne arriva finalmente una che si ferma e mi carica. E' guidata da due fratelli
che stanno andando al villaggio di Suusamyr per la mietitura; sono molto
simpatici e contenti di avere un passeggero a bordo, anche se parlano un inglese
molto limitato, e la conversazione si limita ai soliti "Ti piace il
Kyrgyzstan?", "Sei sposato?" e "Perché no? Cosa
aspetti?". I due fratelli mi lasciano nel villaggio di Suusamyr, il
principale centro della valle (quattro case di lamiera attraversate da una
strada sterrata che si perde all'orizzonte). Io però devo proseguire fino a
Kyzil-Oi; certo, le possibilità che di qui passi qualche auto diretta ad un
villaggio di duecento abitanti nascosto tra montagne sperdute di una valle
secondaria, e raggiunto da un'unica strada sterrata piena di tornanti non sono
molte... posso solo sperare in qualche camion, i cui autisti di solito
apprezzano la compagnia di viaggiatori occasionali nei loro lunghi viaggi
solitari. Mi ricordo che da qualche parte mi ero procurato un opuscolo con il
numero di cellulare del coordinatore turistico locale; provo a chiamarlo,
sperando che possa venire a prendermi, ma non risponde. Pazienza, aspetterò. Il
tempo passa, le mezz'ore scorrono lente sotto il sole, finché all'orizzonte
spunta... un camion! Come speravo, si ferma a caricarmi; trasporta angurie, è
diretto chissà dove, ma l'importante è che vada fino a Kyzyl-Oi. La strada è
lunghissima, quasi infinita: attraversiamo prima il villaggio di Kojumkul, luogo
di origine dell'omonimo personaggio, vissuto agli inizi del '900 e famoso in
tutto il Kyrgyzstan per sua mole: alto due metri e trenta per 165 chili, era in
grado di spostare enormi pietre, del peso di svariati quintali, e pare che in
una occasione abbia addirittura sollevato un cavallo. Campione nazionale di
lotta libera (già a quindici anni aveva vinto un importante torneo della
regione, ottenendo come premio 50 pecore), non aveva rivali nello sport, ma
anche il suo buon cuore era grande, tanto che distribuiva sempre i premi vinti
nei tornei tra i poveri del suo villaggio, di cui divenne anche sindaco.
Arrestato dai sovietici per essersi rifiutato di fare la spia contro il sindaco
del paese limitrofo, Kojumkul fu molto rispettato anche in prigione, dalle
guardie e dagli altri prigionieri (e non poteva essere altrimenti...). Tornato
in libertà, utilizzò la sua forza per cacciare e pescare, al solo scopo di
aiutare a sfamare i più bisognosi. Morì nel 1955, all'età di 67 anni, forse a
causa di un insetto che lo punse causandogli uno shock anafilattico. Sono i casi
della vita, per cui uomini tanto grandi e forti possono soccombere di fronte a
esseri piccolissimi. Nel villaggio è stato realizzato un piccolo museo a
ricordo del gigante buono, in cui si possono ancora osservare alcune delle
pietre con cui si allenava (e che sono grandi come vitelli).
Dopo
Kojumkul la strada, per quanto sembrasse impossibile, si fa ancora più stretta
e dissestata, snodandosi parallela all'impetuoso torrente che ha scavato questa
stretta gola tra le montagne. Ci vogliono quasi due ore per arrivare a Kyzyl-Oi,
che la LP definisce "uno degli angoli più pittoreschi del Kyrgyzstan";
la descrizione mi sembra un po' esagerata, in fondo si tratta di un
semplicissimo villaggio dai ritmi ancora contadini, utile però per vedere uno
spaccato della vita rurale che qui si ripete immutata da chissà quanti secoli.
L'autista mi fa scendere di fronte al CBT, il locale ufficio del turismo, che
però è chiuso, anzi mi stupisco che in passato possa essere stato aperto.
Provo a richiamare il responsabile al cellulare, ma c'è ancora la segreteria.
Nessuno passa, né auto né persone; sono solo e abbandonato in mezzo ad una
strada, ho fame, sono stanco, e devo anche trovare un posto per passare la
notte. Ma come spesso succede in questi posti, la cosa importante è non perdere
la calma: basta aspettare, e le cose si aggiustano da sole. Dopo un po', una
contadina che passa di lì per caso mi vede e mi spiega, a gesti, che posso
stare da lei, facendomi segno di seguirla. Beh, meglio che niente. Mi conduce in
un piccola casetta dove, come sempre, bisogna togliersi le scarpe prima di
entrare (era così perfino nelle yurte). Mi porta in una stanza che dev'essere
il loro soggiorno: un grande divano, su cui sta dormendo un uomo che immagino
essere il marito, e un tavolino con un televisore scassatissimo, sono gli unici
arredi di questo grande stanzone, dove non solo il pavimento ma anche le pareti
sono rivestite di enormi tappeti di feltro. La signora, dopo aver scacciato il
consorte a male parole, mi invita ad accomodarmi e mi porta subito da mangiare,
preparando al momento un pasto semplice ma molto gradito. Alla fine, nonostante
la casa sia poverissima ma molto dignitosa, sarà l'esperienza migliore di tutto
il mio viaggio: la signora è molto gentile e premurosa, continua a chiedermi se
ho bisogno di qualcosa, mi mostra foto di lei con altri viaggiatori, mi spiega
anche come raggiungere l'unico negozietto del villaggio (è gia bello che ce ne
sia uno...), e alla fine sarà il giorno in cui avrò mangiato meglio e pagato
meno in assoluto.
Esco
a fare una passeggiata lungo il torrente ma il tempo si mette al brutto, ed è
meglio tornare a casa prima che cominci a piovere. Scosto le tende dalla
finestra della stanza, da cui osservo gli alberi piegarsi per il forte vento,
mentre scuri nuvoloni si addensano all'orizzonte. Dopo la pioggia, compare
all'orizzonte un timido arcobaleno: vorrei camminare fino alla sua estremità,
dove i laboriosi elfi hanno certamente nascosto una pentola piena d'oro, ma sono
troppo stanco. Riflettendo, considero la mia situazione: mi trovo in una casa di
contadini di un piccolo villaggio sperduto tra le montagne dove non prendono
nemmeno i cellulari; nessuno sa dove sono, non posso comunicare col mondo, non
ho modo di andarmene: le auto sono così rare che, quando ne passa una, i
bambini si affacciano stupiti alle finestre. Sono solo, lontano da tutto e da
tutti, senza Internet, senza posta elettronica, senza telefono, in una cascina
abitata da persone che non parlano la mia lingua, e il bagno è un buco scavato
nel terreno che si raggiunge dopo aver attraversato un prato fangoso battuto
dalla pioggia scrosciante...
non
potrei stare meglio di così.
E'
l'ultima notte in Kyrgyzstan. Sono tornato a Bishkek, dove passerò queste
ultime ore a spasso per la città, per poi partire domattina presto per il
Kazakistan.
Decido
di cenare in un ristorantino del centro, dove ero già stato e sapevo che il
servizio è buono e i prezzi abbordabili. Inoltre sono curioso di assistere allo
spettacolo di luci e suoni che si svolge nella piazza Ala-Too ogni sera, non
appena fa buio; molti mi hanno avvertito di stare attento a Bishkek di notte,
perché ci sono molti criminali in giro che prendono di mira i turisti, ma
guardandomi attorno vedo solo famigliole che comprano il gelato ai bambini e
coppiette di giovani adolescenti che camminano tenendosi per mano; la città mi
appare tutt'altro che un posto pericoloso.
Comincia
lo spettacolo: un folto gruppo di giovanissimi si raduna nella piazza e comincia
a ballare all'unisono, sembra quasi un flash mob in stile europeo. Dura
pochi minuti, ma subito dopo inizia un concerto all'aperto, e moltissime persone
si radunano di fronte al palco, da cui si diffonde musica pop a tutto volume. Io
mi mescolo tra la folla, c'è un po' di eccitazione com'è normale che sia in
queste situazioni: qualcuno beve, qualcuno sgomita, ma non percepisco alcun
pericolo reale: sono solo giovani che si divertono ad un concerto.
Resto
a guardare per un po', poi comincio ad avviarmi verso l'ostello. Non è tardi,
sono solo le nove e mezza, così decido di farla a piedi; anche se la strada è
lunga, una mezz'oretta buona, non ho mai corso pericoli in questo paese e
comincio a pensare che gli avvisi che ho sentito finora siano eccessivi. Ma devo
subito ricredermi.
Girato
un angolo, un uomo mi prende per un braccio, trattenendomi. Sul momento non
capisco, penso che sia solo uno dei tanti kirghisi che vuole salutarmi, così
gli stringo le mano e faccio per andarmene, ma lui mi stringe più forte e mi
dice di fermarmi.
"Sono
un poliziotto - afferma con fare perentorio - fammi vedere il passaporto".
Io
sono un po' incerto, tempo di essere finito in una trappola molto simile alle
tante di cui ho sentito parlare. L'uomo, sulla quarantina, basso e tarchiato,
non indossa né divisa né distintivo; si limita a mostrarmi una specie di badge
con delle scritte strane e la sua foto. Io non gli credo, potrei provare a
sfuggire alla sua presa e scappare, ma se poi risultasse che è un vero
poliziotto sarebbero guai seri; così decido, per il momento, di stare al gioco.
Gli
mostro il passaporto, che tengo in una tasca separata dai soldi per non dover
tirare fuori tutto assieme. Lui lo ispeziona con molta cura, mi chiede di vedere
il timbro dell'aeroporto, vuole sapere quando sono arrivato e da dove, le
tipiche domande della polizia vera. Io fingo di non capire il russo, gli
rispondo in inglese cercando di confonderlo, ma lui insiste. Vede che ho un
marsupio, e mi chiede di svuotare il contenuto.
"Tira
fuori tutto!" mi intima, con fare autoritario.
"Perché?
Chi sei tu? Cosa vuoi?"
"Sono
un poliziotto!" insiste, mostrandomi di nuovo la sua presunta tessera.
"Io
non ho niente!" - cerco di dissuaderlo sperando che rinunci, ma l'uomo è
molto testardo.
"Io
sono un poliziotto! Devi svuotare la borsa o ti arresto!"
Nel
frattempo molte persone ci passano accanto; qualcuno si ferma ad osservare la
scena, incuriosito, ma nessuno interviene. Io, sapendo di non avere niente di
importante nel marsupio, decido di aprirlo e mostrare il contenuto, sperando che
sto tizio si scoraggi e mi lasci andare. Così gli mostro l'amuchina, il
dizionario di russo, la sveglia, e altro ciarpame inutile. In effetti non sembra
molto interessato, così rimetto tutto dentro e faccio per allontanarmi, ma
l'uomo mi prende di nuovo per il braccio.
"Svuota
le tasche! Cos'hai lì?" e indica le tasche dei miei pantaloni.
"Perché
vuoi saperlo? Ti ho già detto che non ho niente!"
"Fammi
vedere, ho detto! Se no ti arresto!"
Una
tasca è vuota, nell'altra ho la macchina fotografica, e mi secca un po' tirarla
fuori, ma non ho scelta; il tizio però la osserva distrattamente, poi me la
restituisce. Per fortuna ho lasciato in ostello il cellulare, l'unica cosa
apparentemente di valore che ho portato in viaggio. Ma non è ancora finita.
"Fammi
vedere i soldi!" mi intima, tutt'altro che scoraggiato.
Adesso
mi sono stufato. Può capitare che la polizia ti chieda di mostrare i soldi,
perché per legge uno straniero è sempre tenuto a dimostrare di avere con sé
abbastanza denaro per mantenersi. Ma questo tizio non mi piace proprio: sono
sempre più convinto che non sia un vero agente, e non ho nessuna intenzione di
tirare fuori la cintura segreta con i soldi. Purtroppo il tizio è molto
insistente, e non so più come venirne fuori... quando all'improvviso mi viene
un'idea.
Memore
dei racconti che avevo letto su Internet, mi guardo intorno nella speranza che
ci sia nei dintorni qualche vero poliziotto. Sono fortunato! Una pattuglia è
ferma a un centinaio di metri da noi, forse con lo scopo di mantenere l'ordine
durante il concerto. Così mi divincolo dall'uomo che ancora mi tratteneva, e mi
dirigo a passi decisi verso l'auto. Non solo, gli faccio anche ampi segni di
seguirmi, di venire con me, così potremo chiarire la faccenda con i suoi
"colleghi". L' uomo adesso appare incerto, e non si muove. Raggiungo
l'auto, dentro la quale ci sono due agenti in divisa; purtroppo non parlano
inglese, ma all'improvviso il mio russo è ritornato fluente. Gli spiego in
fretta la mia situazione, dicendogli che un sedicente poliziotto mi ha chiesto
di mostragli i miei documenti ed i soldi. Gli agenti scendono dall'auto e mi
chiedono di indicarlo, ed io punto il dito chiaramente verso l'uomo che, vista
la mala parata, corre via e si dilegua nel buio. Gli agenti provano ad
inseguirlo, ma il tizio è scomparso. Fermano per errore un altro passante,
vestito in modo simile, e mi chiedono se era lui, ma io nego.
Mi
trattengo un po' con i veri poliziotti, che mi spiegano che l'uomo non era un
vero poliziotto, ma un criminale (ma va?), e che devo stare molto attento ad
andare in giro di notte. Purtroppo i turisti, specialmente quelli soli,
rappresentano un bersaglio molto invitante per i tanti poveracci che si
improvvisano poliziotti nel tentativo di spillare soldi facili. Gi agenti mi
chiedono quale sia il mio ostello, quindi mi consigliano di tornare in autobus,
aiutandomi anche a prendere quello giusto. Loro sono stati molto utili e
gentili, nonostante le brutte storie che avevo sentito anche riguardo alla
polizia vera.
Quando
faccio ritorno in ostello racconto l'accaduto a Zahir, che mi invita a sporgere
denuncia. Non ho problemi in proposito, così compilo e firmo un documento in
inglese, che poi lui tradurrà in russo e porterà al commissariato. Quando
glielo consegno, scopro che c'è già una pila una pila alta così di denunce
simili da parte di altri turisti... la prossima volta, ascolterò attentamente i
consigli di chi è del posto.
Alla
fine però non permetto a questo singolo e, tutto considerato, innocuo episodio
di rovinare la reputazione che il Kyrgyzstan si è costruito con me. In questi
diciotto giorno ho sempre incontrato persone gentili e disponibili, quasi tutte
di una gentilezza e di un'accoglienza che in Italia non sono nemmeno
concepibili. Magari, qualche volta, qualche tassista ha tirato un po' sul
prezzo, e la cortesia di alcuni alla fine si è rivelata non proprio
disinteressata, ma sono situazioni normalissime che accadono in qualunque parte
del mondo. Tirando le somme, sono contento di essere venuto fin qui, in un paese
che non ha affatto deluso le mie aspettative anzi, si è rivelato una meta
ancora autentica e non rovinata dal turismo di massa, con incredibili bellezze
naturali e una popolazione davvero ospitale.
Ma
è ora di ripartire, di affrontare un nuovo stato senza più guardarsi indietro.
E' l'ora del Kazakistan, dove mi aspettano altre sorprese.
Katja
è russa, Gulnara è uyghura, ma non è difficile capire qual è una e qual è
l'altra. Una ha la pelle chiara, la corporatura snella e due occhi verdissimi,
che quando ti guardano ti passano da parte a parte. L'altra ha la pelle molto più
scura, capelli lunghi nerissimi e tratti marcatamente orientali. Sono sedute
accanto a me sull'aereo Milano-Kiev, e quando vedo che impugnano passaporti
kakaki non esito a fare amicizia. Scopro che vivono ad Almaty, dove stanno
tornando dopo una vacanza in Italia, così durante il volo ci confrontiamo sulla
loro gita, appena conclusa, e sulla mia che sta cominciando in questo momento.
Parliamo delle cose da vedere, dei posti dove mangiare, del costo della vita.
Gulnara non si sente molto bene, così prende un sonnifero e cerca di dormire;
rimane solo Katja con cui chiacchierare, ma ogni volta che si gira verso di me e
mi fissa con quei suoi occhioni cristallini, sorridendo amabilmente, mi lascia
senza niente da dire...
Ci
salutiamo a Kiev, dove le due ragazze mi lasciano il loro numero di telefono,
così potrò chiamarle quando ci andrò.
Così
puntualmente faccio, e ci troviamo una domenica in un bar. Entrambe, come me,
sono insegnanti, e mangiamo qualcosa insieme a delle loro colleghe molto
simpatiche. Ci voleva questa uscita per rallegrare una città che ho trovato
veramente triste e grigia, una città enorme, due milioni di abitanti, ma priva
di carattere, di anima. E' formata da grandi strade a quattro o sei corsie,
percorse da auto di lusso che sfrecciano a forte velocità accanto a marciapiedi
deserti. Vetrine di famosi marchi occidentali si alternano a ristoranti di
lusso, soprattutto italiani, frequentati dall'alta società. Non si può dire
che gli abitanti di Almaty siano poveri, anzi: la ricchezza, o quantomeno il
benessere, è palpabile: in una realtà ben lontana dalla semplicità kirghisa i
marchi occidentali di vestiti, cellulari, automobili, arredamenti, fanno
lampeggiare le loro insegne luminose, attirando giovani ragazze in minigonna ed
eleganti uomini d'affari accompagnati da bellissime donne rifatte. Tutti
arrivano su auto lussuose, parcheggiano di fronte all'ingresso, e spariscono,
mentre i marciapiedi restano desolatamente vuoti.
Gulnara
si rivela una donna molto intelligente e spigliata. Ha 34 anni, è single, e
sprizza energia da tutti i porti. E' una persona molto allegra e solare, ride,
scherza con le amiche/colleghe, e racconta della sua esperienza di insegnante.
Lavora in una scuola per stranieri, ed insegna inglese a giovani ragazzi che
arrivano da tutte le parti del mondo, figli di consulenti, scienziati, politici.
E' contenta di vivere in una città giovane e cosmopolita, dove ci sono molte
occasioni di svago, bar, ristoranti, discoteche, senza contare le montagne
circostanti dove si può fare trekking in estate e sciare in inverno. Gulnara mi
parla anche di una funivia che porta su una collina di fronte alla città, che
pare offra un panorama bellissimo. Il biglietto però costa venti euro per la
sola andata (nemmeno dieci minuti). Ma è solo un indicatore: qui tutto costa
molto caro. Nei ristoranti si possono gustare specialità asiatiche ed europee,
dalle lasagne alla haute cuisine; peccato solo che un pasto costi come
tre giorni di vitto e alloggio nel vicino Kyrgyzstan. Eppure, i ristoranti
italiani che vendono pasta fresca con cento sughi diversi sono presi d'assalto
sia dalle nuove, sia dalle vecchie generazioni.
La
città non ha un centro vero e proprio: è formata da tanti quartieri diversi,
cuciti insieme con una strategia non molto chiara. Si può uscire da un
ristorante alla moda, circondato da parchi e università, per poi ritrovarsi,
due isolati più avanti, in una zona squallida e degradata, con edifici cadenti
e prati ricoperti di erbacce; ma poi, continuando a camminare lungo questa
infinita scacchiera di strade orizzontali e verticali, si raggiunge una via
pedonale dove artisti di strada espongono le proprie opere, attorniati da una
folla più interessata ai fast-food e alle vetrine alla moda che alle loro
esibizioni. C'è anche un super-mega-maxi centro commerciale al cui interno ci
sono soltanto negozi di telefonia: fissa, cellulare, smartphone, chiavette USB
per navigare... decine e decine di negozi tutti identici, alle cui vetrine sono
esposti gli stessi prodotti, e ai cui banconi siedono ragazze truccatissime e
scollatissime che sciorinano le ultime offerte in fatto di telefonia in tutte le
lingue conosciute. Anche ai tre piani superiori i negozi vendono solo cellulari,
accessori per cellulari e offerte per cellulari... forse nemmeno in Giappone
esiste un posto simile. Ma di nuovo, basta camminare per un altro paio di
isolati per trovarsi in una piazza enorme, circondata da maestosi edifici
bianchi che ospitano il parlamento, il governo, le sedi del potere insomma, con
vari monumenti ala memoria di questa o di quella rivoluzione, tutti splendidi ma
senza nessuno che passeggi lungo i vialetti dei parchi tenuti alla perfezione.
Almaty è una città molto triste, dove i soldi hanno tolto l'anima agli
abitanti, peraltro quasi tutti russi, che pensano soprattutto a spendere e a
divertirsi, grazie ai ricavati del petrolio, del gas naturale, dei diamanti, dei
minerali, e di ogni altro ben di Dio di cui il sottosuolo di questo paese è
ricchissimo. Non importa nemmeno che il clima sia orribile, la gente non sembra
farci caso.
"D'estate
fa molto caldo - mi spiega Gulnara, che vive qui da sempre - e la gente si
rifugia sulle montagne. Invece d'inverno non fa freddo, al massimo venti,
venticinque gradi sotto zero" e lo dice seriamente. "Ad Astana invece
fa molto più freddo, si arriva anche a quaranta sotto zero, perché là c'è
molto vento gelido, non sono protetti dalle montagne come noi". Già,
Astana, la nuova capitale del Kazakistan, di cui ho sentito parlare dai pochi
turisti che ci sono passati, scappando via di corsa. Almaty era diventata troppo
piccola, forse anche troppo periferica e lontana dalla Russia, per continuare ad
essere la capitale di questo nuovo parco dei divertimenti che è diventato il
Kazakistan; quindi il governo (cioè il presidente ed i suoi amici) decisero di
costruirne una nuova: una metropoli di vetrocemento creata dal nulla in pieno
deserto, con alberghi megagalattici, casinò all'ultima moda, grattacieli di
oltre cento piani, e dove pare che la vita sia molto più cara che qui ad Almaty
(!), con cui è collegata tramite un super-treno costruito in Spagna e capace di
superare i trecento chilometri orari.
Basta,
è ora di tornare a casa. Il vero Kazakistan è ben altro, fatto di piccoli
villaggi di montagna dove le moschee di ceramica blu sono ancora maestose e
venerate, e considerate perfino più importanti di banche e alberghi. Ma non ho
tempo di andarci, per questo viaggio ho visto abbastanza. Saluto Gulnara e le
sue amiche e torno in albergo con la metropolitana, modernissima e appena
inaugurata, tanto che gli stessi abitanti si divertono un mondo a scattarsi
fotografie a vicenda nelle stazioni, sui vagoni, sulle scale mobili, come se
fosse l'attrazione principale della città. Arrivo alla mia fermata, scendo,
salgo le scale mobili, faccio per uscire quando...
...un
poliziotto mi ferma, mi chiede i documenti e mi invita a seguirlo in una
guardiola, dove c'è un suo collega che chiude la porta a chiave. Sono entrambi
in uniforme e sono chiaramente dei poliziotti veri, ma io ne ho abbastanza. Come
sempre, devo svuotare le tasche, il marsupio, mostrare soldi e documenti, senza
via di uscita. Ma stavolta non ho voglia di lottare; ormai sono rassegnato,
stanco, non ho più niente da perdere: il volo per l'Italia è stanotte,
prendano pure quello che vogliono, e poi mi lascino andare. Invece si dimostrano
gentili ed educati; alla fine invece di chiedermi una mazzetta, si mettono a
parlare degli argomenti con cui un italiano all'estero si salva sempre: la
Piovra, Celentano, Toto Cutugno. Esco dalla guardiola a braccetto con uno dei
due agenti, cantando "Lasciatemi cantaaaare" a squarciagola, ma è
solo una finzione. Sono stanco della polizia, come dei criminali; sono stanco
del cibo, che mi procura sfoghi cutanei, sono stanco di camminare, di
trascinarmi dietro la valigia contrattando prezzi assurdi con i tassisti; sono
stanco del caldo e della sabbia. Sono stanco.
E'
ora di tornare a casa.
Massimiliano
Galleria fotografica:
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