Islanda
Diario di viaggio 2005 o 2006 ?
Quando sono salito sull’aereo per l’Islanda, alcuni anni fa, non avevo idea di cosa mi aspettasse.
Ma proprio questa incognita, questo mistero legato ad una terra misteriosa, pur vicina a noi, ma anche molto lontana, mi riempiva il cuore di emozione, di voglia di partire, di quella attrazione magnetica verso tutto ciò che non conosco. Una sensazione che mi sopraffa già al momento di preparare lo zaino, quando mille domande bussano alla soglia della mente: meglio portare vestiti caldi o leggeri? Chi saranno i miei compagni di viaggio? Cosa mangeremo? Cosa ci aspetta?
Tutte queste domande hanno avuto la loro risposta. Una risposta molto forte, estrema, ma anche sensazionale così come forte, estrema, sensazionale è la terra che ho visitato. Una landa decisamente inospitale, con un clima avverso, un suolo incredibilmente spugnoso, un paesaggio dai colori impossibili che ti colpisce allo stomaco, alla bocca di quell’anima che sta appena imparando ad orientarsi, a guardarsi intorno, ad ambientarsi in un luogo tanto desolato.
Pur non avendo tenuto alcun diario di viaggio, a distanza di anni riesco ancora a ricordare, anche solo chiudendo gli occhi, le tappe, le emozioni, le difficoltà che ho dovuto affrontare ogni giorno insieme a dei compagni molto forti, e con un capogruppo che non aveva niente da invidiare agli antichi esploratori in quanto a spirito di ricerca, di avventura, di non-poter-stare–fermo, tanto che ci ha guidati lungo piste mai battute prima da viaggiatori di Avventure.
Mentre scrivo, le sensazioni tornano alla luce come bolle d’aria costrette troppo a lungo a stare sotto il pelo dell’acqua… come l’arrivo a Reykjavik, in piena notte, con un vento gelido che spazzava l’uscita dall’aeroporto, e mentre la strada correva sotto il pullmann che ci portava in città, il paesaggio buio mi spingeva a domandarmi… come sarà la fuori? Cosa vedrò domani, alla luce del sole? Mentre gli altri sonnecchiavano, non potevo smettere di tenere il naso incollato al finestrino, vedendo solo oscurità, finchè, volgendomi verso occidente, ho visto un pallido rosso illuminare fiocamente la brughiera, a mezzanotte passata, ed allora mi sono detto: ho fatto bene a giungere sin qui.
La prima mattina, uscendo dall’ostello, ho subito voluto fare un giro, sapendo di avere pochissimo tempo a disposizione per visitare la capitale, piccola cittadina per noi italiani, grande centro politico ed amministrativo per gli islandesi. L’aria tersa, ma non fredda come mi aspettavo, gli allegri bambini dai giacconi imbottiti, il mare così azzurro da bruciare gli occhi, mi hanno dato il benvenuto, accogliendomi sereni nel loro mondo, nel loro ambiente, in cui ho sempre cercato di muovermi senza far rumore, senza infastidire, quasi timoroso di rompere l’equilibrio di un luogo così all’apparenza delicato. Ma ciò che ricordo maggiormente sono le foto appese presso l’ufficio di noleggio auto, che io ho visto subito dopo essermi offerto di guidare. Mezzi insabbiati, autobus ribaltati, jeep abbandonate in mezzo a paludi, mi hanno subito fatto capire che condurre un veicolo per quelle terre non sarebbe stato come guidare in città… ma il mezzo era da città, un pulmino con le ruote basse e senza marce ridotte, nato per il pochissimo asfalto presente sull’isola, che io invece avrei dovuto portare sano e salvo per duemila chilometri di lande desolate, con la responsabilità di sette persone la cui incolumità poggiava anche sulle mie spalle, tanto che per un attimo mi venne voglia di rinunciare; ma poi mi ricordai che dobbiamo sempre fare le cose che ci fanno paura, altrimenti non potremo mai crescere, né migliorarci…
… e così via, verso il sito di Thingvellir, sede del primo parlamento islandese, che fin dall’anno del signore 930 per quasi ottocento anni si tenne all’aperto, e in cui le lotte, le rivalità tra le varie tribù, le faide ancestrali diedero vita a storie di rapimenti, guerre, gesta di eroi romantici, epopee che ancora oggi sono narrate nella mitologia isolana, le cui radici si perdono davvero nella leggenda più sfocata. E mentre i viaggiatori si sentono piccoli piccoli, schiacciati nella faglia tra la placca europea e quella nordamericana, le cui pareti qui emergono dalla terra imponenti e millenarie, il cielo perde quel pallido sole che ci aveva sorriso fin lì per lasciare spazio al vento, alla pioggia, alle intemperie che ci accompagneranno per tutti i quindici giorni successivi, ricordandoci che qui è la natura a comandare, e che i viandanti possono solo restarne passivamente in balìa.
E di nuovo partiamo, destinazione Geyser, eponimo per tutte le sorgenti calde del mondo che eruttano con getti d’acqua bollente. Ce ne sono dovunque, e bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi, perchè le pozze si aprono e si chiudono all’improvviso, a seconda di dove Madre Natura decide di aprirsi la strada nel terreno soffice e spugnoso. Il getto principale si alza per una quindicina di metri, e bisogna stare lontani per non essere schizzati dall’acqua caldissima che si disperde a metri di distanza. Alcuni tra i miei compagni, che hanno visitato Yellowstone , restano delusi, sostenendo che laggiù i geyser sono molto più belli e potenti. Io non so, non mi piace paragonare i posti, dire “questo è più bello di quell’altro”. Penso che ogni luogo sia unico, e che bisogna sempre apprezzare ciò che la natura ci offre nelle sue mille manifestazioni. In realtà, anticamente questo era il Geyser più alto del mondo, capace di spingere l’acqua fino ad ottanta metri di altezza; in seguito, però, i turisti (che solo qui, in tutta l’Islanda, si possono ammirare a frotte) presero l’abitudine di buttare del sapone nella sorgente, per ammirarne l’effetto schiuma, rovinando irrimediabilmente un altro pezzo di natura. Mentre mi perdo in questi pensieri, la sirena che annuncia il prossimo getto ci avvisa di spostarci (il geyser è molto regolare nelle sue eruzioni), e mi posiziono a debita distanza, cercando di evitare i getti di calore che sbuffano improvvisi dalle altre pozze, quasi a mettermi in guardia, ad avvertirmi che quello non è un luogo per gli uomini ma per la Terra e l’Acqua, che qui possono ciò che vogliono.
Si prosegue. Ecco le cascate di Gullfoss, che ci appaiono in tutta la loro possanza mentre, spaesati, cerchiamo di orientarci tra la fitta pioggia e la nebbia, che fanno a gara per dominare sulla brulla terra. All’improvviso si apre davanti a noi la cascata, più larga che alta, che butta acqua da trentadue metri in un canyon lungo e stretto, un’altra ferita in questa terra martoriata, in cui la Creazione non è ancora completa. Ci stringiamo nei nostri impermeabili, non sapendo se temere di più gli schizzi della cascata o la pioggia sempre più copiosa…
Ma la giornata non è ancora finita. Si riparte, finalmente via dalla strada asfaltata, lungo la pista di Kjolur, che procede verso nord in mezzo ad un paesaggio desolato, da cui spariscono un po’ alla volta le case, le persone, le auto… tutto intorno a noi c’è il nulla, non un nulla piatto, desolato, ma fatto di colline, che si ergono improvvise nel paesaggio, costringendo la pista a varianti, tornanti, curve e controcurve, per decine di chilometri, e intanto il sole cala, la pista si fa buia, ma noi andiamo sempre avanti, non arriviamo mai… le donne, dietro, preparano panini improvvisati mentre i miei occhi si devono sforzare sempre più per scorgere i paletti posti dove comincia il prato, per indicare la strada, e intanto le ore passano…
… e solo a mezzanotte raggiungiamo la nostra meta, uno sperduto rifugio di lamiera in mezzo al nulla, dove dobbiamo dormire in due per letto, senza cena, ma il riposo è dolce dopo una simile giornata, e siamo solo all’inizio…
“Il fiordo di Olaf”. Quale nome potrebbe evocare, meglio di questo, la nostra destinazione odierna? Quali parole riportano alla nostra mente il freddo Nord, le storie di Vichinghi, le coste lambite dal gelido mare, più di queste? Olafsfiordur è la nostra meta, una metropoli di milleventi abitanti costruita nell’estremo nord dell’isola, dove il Mar Glaciale Artico si infrange contro la dura terra costruendo nella sua millenaria opera gole, insenature, strapiombi.
Ma prima di arrivarci dobbiamo uscire dal deserto centrale, dobbiamo terminare questo primo “coast-to-coast” in cui ci siamo immersi ieri, e quindi via lungo strade sterrate in mezzo ad una piatta brughiera, dove la pista scorre tranquilla fino ad un bivio imprevisto. E ora? Da che parte andare? Nessun cartello, nessun passante a cui chiedere, gli stessi identici prati che si perdono a vista d’occhio da ogni parte… ci resta solo Dino, il nostro grande capogruppo, che messa da parte la carta stradale in cui il bivio non compare, esce dall’auto, si guarda intorno, e guidato da quel misterioso senso dell’orientamento tipico dei grandi viaggiatori ci indica la direzione da seguire. E così ogni volta, ad ogni incrocio con altre piste prive di ogni passaggio umano, fin quando, incredibilmente, ritroviamo l’asfalto…
Giungiamo a Glaumbaer, un villaggio/museo dove esistono ancora fattorie gestite come cinquecento anni fa, con gli attrezzi dell’epoca, gli utensili da cucina, gli strumenti musicali… tutto è rimasto come allora, e visitare queste casette bianche col tetto di frasche fa davvero impressione, sembra di rivivere le favole sui vichinghi che ti raccontavano da bambino… ci sono anche la chiesa ed il cimitero, dove pare sia sepolto il primo europeo nato in Nordamerica nel lontano 1003… in questi luoghi storia e leggenda si intrecciano continuamente, e non è possibile separarle.
E finalmente raggiungiamo il mare. E’ molto tranquillo e placido, diverso da come uno si immagina i mari del nord. La strada corre tra l’acqua e le colline, con curve, salite, discese che assecondano il terreno, mentre davanti a noi si aprono lagune, fiordi, cascate, panorami inimmaginabili. I colori, pur sbiaditi, si alternano tra verde, giallo, marrone, ma sono tonalità stinte, quasi innaturali. In Islanda non esistono alberi, ci sono solo brulli prati e colline vulcaniche, e tutto rende l’atmosfera strana, quasi eccentrica per noi che siamo abituati a colori più decisi, più tranquillizzanti. I miei compagni mi chedono in continuazione di fermarmi per fare foto… scendiamo dall’auto, e scopriamo che il suolo non è duro come ci aspettavamo, ma soffice, spugnoso, abbiamo quasi timore ad appoggiare i piedi sul terreno per paura di sprofondare… questo è un luogo unico, indescrivibile. Dietro ogni curva, oltre ogni collina, si aprono paesaggi che ci tolgono la parola, sempre diversi pur nella loro somiglianza, così speciali…
… e alla fine della giornata, quando raggiungiamo i bellissimi cottage in legno del “Fiordo di Olaf”, dove passeremo la notte, cominciamo a chiederci quali altre meraviglie ci aspettano nei giorni successivi. E non resteremo delusi.
L’entrata dell’inferno. Queste sono le parole che mi vengono in mente osservando dall’alto le Hljodakettlar, alte colonne basaltiche circostanti il canyon di Asbyrgi. Qui, nel parco nazionale dello Jokulsargljufur, il fiume Jokulsa a Fjollum ha scavato una gola impressionante, dove il marrone scuro del basalto si confonde col verde del muschio, il giallo dell’erba, il grigio delle rocce. Già dall’alto lo spettacolo è incredibile, ma scendendo sulla riva del fiume non abbiamo parole per descrivere lo scenario: le acque del fiume sono grigie, cariche di polvere e di detriti che dovranno percorrere altri centro chilometri prima di essere scaricati nell’oceano. Il paesaggio è spettrale, le pareti della gola sembrano essere state martoriate dal fiume, spogliate e scrostate fino a mostrare la loro anima più segreta; altrove spirali di terra svettano contro il cielo come costruite da un architetto invisibile. Camminiamo fino alle Karl og Kerling, due enormi dita di roccia che affiorano dall’acqua come se una mano gigante cercasse di liberarsi dalla prigionia cui è stata costretta secoli indietro. Più oltre, il fiume scompare in una gola profondissima, dalle nere pareti laviche, e non mi stupirei affatto se dovesse comparire Caronte con la sua barca carica di anime dannate, col rumore del fiume a coprirne i lamenti mentre si dirigono verso l’ingresso della loro ultima destinazione
Gli altri scherzano, si mettono in posa, fanno foto, io invece sento il bisogno di sedermi ed ascoltare, captare ciò che la natura sembra volermi trasmettere. E’ come se ci fosse un’energia impalpabile, una forza superiore che aleggia nell’aria, generata dalle montagne, dal fiume, dalla terra, dalla Natura stessa che qui ha ancora molto da fare; e io la sento, cerco di accoglierla, di farla mia per quanto posso.
Riprendiamo a camminare. Superiamo delle alture, raggiungiamo una grotta nascosta tra le colline, e mentre siamo lì le cateratte del cielo si aprono, e il diluvio universale si riversa su di noi. Forse è ancora la natura che ci informa che il nostro tempo lì è scaduto, che dobbiamo andarcene. C’è più di un’ora di cammino fino alle auto, un’ora di pioggia ininterrotta, flagellante, impietosa. L’Islanda non è posto per chi ama il mare e il sole.
Ma la giornata non è certo finita. Andiamo di nuovo verso sud. La strada è fangosa: l’altra auto, oggi davanti a noi, solleva nuvole di polvere che, sul parabrezza, si impastano alla pioggia formando una poltiglia impenetrabile. Andrea, il mio copilota, deve mettere la testa fuori dal finestrino per indicarmi la strada, per non finire nel pantano, e si ripara come può usando un impermeabile a mò di ombrello. Procediamo così per più di un’ora, fin quando non raggiungiamo la tappa successiva: l’ingresso alle cascate di Dettifoss. Lasciamo le auto nel parcheggio (gratuito come tutte le attrattive islandesi, per vedere le quali non abbiamo mai pagato una sola corona), e ci incamminiamo nuovamente sotto l’acqua, lungo un sentiero di pietre scivolosissime. Sotto di noi, Lo Jokulsà ruggisce nelle profondità della terra. E finalmente eccole, le cascate più grandi d’Europa: qui il fiume non si nasconde più, anzi scatena i suoi 300 metri cubi d’acqua al secondo con una potenza indicibile. Il sentiero arriva fino al margine della cascata: qualcuno ha il coraggio di addentrarsi nell’acqua, altri si guardano intorno timorosi, attenti a non scivolare nel baratro. Il frastuono è assordante. La pioggia ci sferza, il fiume ci romba tutto intorno, siamo fradici, siamo stanchi, siamo storditi, eppure appagati, soddisfatti.
Ed eccoci, infine raggiungiamo la nostra meta, la fattoria di Grimsstunga, accogliente come tutte quelle islandesi. Amo molto le attività serali, il cameratismo che si crea nel gruppo dopo una giornata tanto faticosa. Alcune donne cucinano, preparando enormi pentoloni di zuppe confezionate portate dall’Italia; altre fanno a gara ad accaparrarsi i caloriferi (accesi anche in agosto), per cercare di far asciugare i vestiti zuppi. Alcuni contrattano con la padrona di casa il prezzo di coloratissimi prodotti artigianali: sciarpe avvolgenti, coloratissimi maglioni, pesanti berretti dall’aria delicata ma molto caldi e protettivi, tutti fatti a mano dai locali. E’ pronta la cena: Alessia, la simpatica ragazza romana, gira lungo il tavolo versando mestolate di sbobba ai commensali affamati; qualcuno intona canzoni popolari, altri abbozzano stentate battute con le ragazze del gruppo, qualcuno già pensa al percorso dell’indomani e srotola carte stradali…
Dopo cena esco; un pallido sole ha ritrovato la sua strada tra le nubi; intorno a noi tanto verde, tanto silenzio, e alcune lontane fattorie dove gli uomini si spostano a cavallo, il mezzo di locomozione più usato nella bella stagione. Usciti dall’inferno, siamo in un paesaggio bucolico, eppure abbiamo fatto pochi chilometri. Un gallo canta, i conigli zigano… è l’ora del sonno dei giusti.
Myvatn significa “Lago dei moscerini”. Così si chiama il principale lago islandese, e mai nome potrebbe essere più appropriato, tanto che l’articolo più venduto nel piccolo negozio di souvenir è una retina da indossare intorno alla testa per proteggersi. Io, some sempre scettico di ciò che riportano le guide, non la compro, anche perché quando arriviamo sta diluviando e degli insetti non c’è nemmeno l’ombra. Ma la mattina seguente avrò modo di pentirmi di questa scelta; come esco dall’albergo, infatti, vengo subito assalito da sciami di insetti che attaccano al viso senza pietà; i moscerini, infatti, sono attratti dall’anidride carbonica prodotta dalla respirazione, e non esitano a tuffarsi nella bocca, nel naso, nei polmoni di chiunque capiti a tiro. Insieme agli altri corriamo subito a rifugiarci sui pulmini, cercando di coprirci il volto con la giacca a vento in modo da lasciare scoperto il meno possibile. Dino ha deciso di fare un giro panoramico del lago, e un paio di volte ci fermiamo ad osservare il panorama. Ma c’è ben poco da vedere: imbacuccati come siamo, col colletto del piumone tirato fino agli occhi, riusciamo a scorgere ben poco del lago. Solo quelli tra noi che, previdenti, portano la retìna se la cavano, e fanno grasse risate di noi che continuiamo a mulinare le braccia cercando di scacciare le fastidiose creature, ma è uno sforzo vano: davanti a ognuno si forma una nebbia fitta di insetti che non lasciano scampo, un muro impenetrabile che ci aggredisce senza tregua da ogni direzione. Solo il riparo del pulmino ci dà sollievo, ma mentre il portellone è aperto per far salire a bordo i ritardatari, gli insetti sciamano all’interno e subito riprendono a tormentarci senza pietà.
Così sfrecciamo coi finestrini aperti verso lo Hverarond, una zona sulfurea dove immense pozze di fango giallastro esalano vapori mefitici. Qui la lava scorre poco sotto il terreno, e in questa zona lo zolfo riesce a bucare il suolo spugnoso e risale in superficie, creando un paesaggio spettrale in cui continui getti di vapore caldo e puzzolente escono all’improvviso da tutte le direzioni. Bisogna camminare sui sentieri tracciati e mai abbandonare le zone sicure, perché è altro il rischio di cadere in una pozza di fango bollente, o di essere bolliti da un’improvvisa fumarola. L’odore di zolfo è insopportabile, almeno per me che dopo poco ritorno al caldo rifugio della macchina, mentre a certi miei compagni, avvezzi a cure termali, questo posto dimenticato da Dio sembra quasi piacevole. D’altra parte l’Islanda è zolfo per antonomasia, tanto che anche l’acqua del rubinetto (unica nostra bevanda per due settimane) ne è pregna all’inverosimile.
Se non altro qui non ci sono i moscerini.
Islanda significa vulcani. In questo paese ogni giorno ci sono decine di eruzioni grandi e piccole, e migliaia di scosse sismiche. Nessuno si sorprende quando,in seguito ad un’esplosione, nell’oceano compare qualche nuova isola, oppure scompare, inghiottita dalle acque. Qui i vulcani non si contano, e nessuno può essere definito “spento”. Da un anno all’altro il paesaggio cambia in seguito a eruzioni, colate laviche, scioglimento di ghiacciai, e l’incontro/scontro di questi fenomeni provoca a volte mutamenti tellurici assolutamente imprevedibili. Non a caso la metà del suolo è formata da lava solidificata.
Me ne accorgo visitando il Krafla, un cratere lavico formato da più eruzioni successive, di cui l’ultima (importante) risalente al 1984. Il sentiero si inerpica fino alla cima, passando prima per pozze sulfuree che si aprono tutto intorno a me, poi tra i vari strati di lava che qui si è depositata a più riprese, creando formazioni inverosimile: scalinate, archi, fori, colonne che sembrato forgiate dagli uomini e invece sono solo opera della natura. Risalendo, tutto intorno a noi diventa nero. Il nero della lava e della cenere è l’unico colore esistente qui, non c’è altro. Ondate di vapore escono dal suolo, formando una nebbiolina calda e avvolgente in cui procedo quasi a tentoni, sperando che chi sta davanti a me sappia dove mette i piedi. Di nuovo, mi sembra di capire verso le porte dell’inferno. Quando arrivo alla sommità, il paesaggio intorno a me si apre, ma non c’è molto da vedere, o forse c’è tutto, tutta l’essenza di questa terra. Il nero. Fin dove l’occhio riesce a spaziare non si vede altro che magma solidificato, per chilometri e chilometri tutto intorno a noi. Quante eruzioni hanno provocato questo? Quante decine di volte, nei secoli, la lava è fuoriuscita da queste bocche infernali per distruggere tutto ciò che pochi uomini avevano faticosamente cercato di costruire, seppellendo tutto quanto e riportando la terra al suo aspetto originale? Nessuno lo sa, nessuno è mai riuscito a contare le eruzioni, le colate, le esplosioni che si sono susseguite nel tempo e che ancora verranno, senza alcun dubbio. Tutto intorno a me non vedo altro che campi bruciati, anneriti dalla lava.
Mi informo su come si chiami questa zona, e scopro senza sorpresa che anche in questo caso il nome è assolutamente appropriato.
Lava di fuoco.
“La pista è praticabile soltanto con automezzi a trazione intergale, ma non è comunque esente da rischi: talvolta infatti basta sfiorare il pedale dell’acceleratore per sprofondare nella sabbia. Perfino ai veicoli dell’agenzia specializzata Askja Lunar è capitato di restare impantanati, e qualche anno fa l’autobus di un’escursione è stato portato via dalla corrente mentre cercava di guadare un fiume in piena”. Questo riporta la Lonely Planet riguardo all’Oskjuleid, la pista che punta verso l’interno più selvaggio e incontaminato dell’Islanda. Io ed Andrea ci guardiamo preoccupati, ma in fondo è per questo che siamo venuti qui, che abbiamo deciso di guidare; per metterci alla prova.
La destinazione di oggi è l’Askja, una caldera situata nel pieno centro dell’isola, creatasi nel 1875 quando un vulcano esplose sparando in aria un miliardo di metri cubi di detriti, che impiegarono anni per depositarsi nuovamente sul terreno. Oggi il cratere è spento, e contiene un enorme lago in cui si narra accadano fenomeni inspiegabili; in ogni caso l’Askja emana un fascino notevole e rappresenta un luogo impedibile dell’Islanda.
Quasi subito lasciamo l’asfalto e imbocchiamo una pista che si perde nel nulla. Intorno a noi ci sono solo prati di un verde innaturale e colline dall’aspetto poco tranquillizzante. Non vediamo né case, né altre auto e per ore proseguiamo in un vero deserto, con il muschio al posto della sabbia ma che non ha nulla da invidiare alle distese sahariane. Siamo nel bel mezzo del niente.
Raggiungiamo il nostro primo guado. Il problema è che non sappiamo quanto l’acqua sia profonda, così non ci fidiamo ad attraversare coi nostri pulmini da città, stracarichi di bagagli e bassissimi sulla strada. Sulla carta di Dino, dove i guadi sono contrassegnati in base alla profondità, questo è indicato con un sola onda, quindi in teoria facile, comunque decidiamo di aspettare che passi un altro mezzo per saperne di più. In Islanda possono trascorrere ora prima di incrociare un’altra auto; ma per nostra fortuna dopo pochi minuti vediamo comparire all’orizzonte un veicolo leggermente più appropriato dei nostri. E’ una macchina enorme, con route alte più di un metro e cerchioni da almeno cinquanta pollici; sembra il fuoristrada di Big Jim con cui giocavamo da piccoli, ma con persone vere dentro. Questo mostro su ruote, grande come tre pick-up di DA messi insieme, si avvicina al guado senza nemmeno rallentare e lo passa volando letteralmente sull’acqua, e dopo pochi istanti è gia scomparso dall’altra parte. Qualcuno si scoraggia, decide di scendere e attraversare a piedi; due o tre invece restano sul pulmino, perché comunque non esistono ponti e bisogna per forza guadare. Così ingrano la prima e punto il cofano del mezzo nell’acqua. Il motore romba, le ruote si immergono, e dopo pochi secondi sono dall’altra parte. La truppa risale, qualcuno scatta foto, e subito ripartiamo. Ma dopo il primo guado ne arriva subito un altro, e poi un altro, e un altro ancora, e dopo un po’ tutti si abituano e nessuno si spaventa più. Ogni volta io e Andrea puntiamo diritti all’acqua dopo esserci fermati e aver messo la prima. L’altro pulmino ha le ridotte, il nostro no, quindi dobbiamo fare tutto in prima, per tenere i giri altissimi. Il pericolo maggiore, quando si guada un fiume, è che il motore si spenga in mezzo all’acqua. Se le candele si bagnano non è più possibile riaccenderlo e siamo perduti. Così è meglio essere incoscienti e “attaccare”, piuttosto che timorosi e poi farsi trascinare via dalla corrente.
Le ore passano, il deserto rimane immutabile. La pista peggiora, ci sono buche, pozze, sassi così grossi che qualcuno deve scendere a spostarli, il rischio di rompere la coppa dell’olio è troppo grande. Il tachimetro supera di rado i 20 all’ora. Poi, all’improvviso, ecco spuntare dal nulla dei cartelli stradali, che ci indicano direzione e distanza. Qualcuno li ha posizionati qui nella notte dei tempi, speriamo che nessuno si sia divertito a girarli o per noi sarà la fine. Per l’Askja mancano ancora ottanta chilometri, come dire altre tre ore. Proseguiamo senza incontrare niente e nessuno finché, verso sera, raggiungiamo l’ingresso.
Bisogna fare un pezzo a piedi. Comincia a piovere, mentre arranchiamo sul solito terreno spugnoso. Poi, raggiunto un altopiano, vedo comparire tutto intorno a me un arcobaleno enorme, un semicerchio perfetto le cui estremità si perdono lontanissime. Vorrei fotografarlo, ma è troppo grande e nemmeno allontanandomi riesco a prenderlo tutto nell’obiettivo. E’ uno spettacolo fantastico, mai visto un arcobaleno simile. E’ tutto intorno a noi, sembra quasi avvolgerci coi suoi colori cristallini. Vorrei andare a cercare la pentola d’oro che i laboriosi elfi hanno di certo sistemato ai suoi piedi, ma credo ci vorrebbe troppo tempo; così proseguiamo. Ed infine, ecco comparire improvvisa la caldera dell’Askja. Sotto di noi si apre un lago di cinquanta chilometri quadrati immerso in un cratere vulcanico; uno spettacolo incredibile, di cui non si vede la fine. Restiamo senza parole, ma dobbiamo stare attenti a non scivolare perché il terreno è molto friabile ed è facile rotolare giù. In passato a qualcuno è successo, e non è più stato ripescato. Non posso descrivere le emozioni che questo lago crea dentro di me. So soltanto che non avevo mai visto niente del genere, pur essendo un esperto di laghi di montagna. Servirebbe un grandangolare da otto per inquadrarlo tutto, ma a me va bene così. Come sempre, di fronte a questi spettacoli mi siedo a contemplare, ad assorbire l’energia e le emozioni che questo luogo riesce a trasmettermi.
Ma la giornata non è finita; il rifugio dove abbiamo prenotato è ancora lontano, e dobbiamo ripartire. Il cielo si fa buio, e mancano ancora cinquanta chilometri di pista sempre più terribile. Per un tratto anche Dino si mette alla guida, la pista sembra non finire mai, sempre buche, sassi, dossi naturali, non si arriva mai, e ormai è buio, ma bisogna essere sempre concentrati. Gli abbaglianti illuminano quei pochi metri di strada davanti a me, su cui bisogna tenere sempre gli occhi sbarrati ad analizzare ogni metro, per evitare altri sassi, altre buche, e altri ostacoli che potrebbero essere letali per il nostro mezzo.
Alla fine arriviamo a destinazione, un rifugio di lamiera costruito nel nulla più assoluto. E’ gestito da una ragazza, il marito porta in giro i turisti. Vivono praticamente isolati per i cinque mesi di apertura annuale; il cibo e le medicine arrivano in elicottero da chissà dove.
Sono le dieci passate, per fortuna la cucina è ancora aperta. Le donne si danno subito da fare, ma io sono così stanco che non ho nemmeno la forza di mangiare. Nel sottotetto che ci fa da stanza non c’è la luce elettrica; dobbiamo usare le torce per illuminare i sacchi a pelo che apriamo su dei materassi buttati in terra. Qualcuno ha ancora la forza di ridere, di scherzare. Poi tutto diventa buio.
Di nuovo in marcia. Dal nostro rifugio partiamo per una facile trekking in cima ad una montagna, da cui si può ammirare la piana del Kverkfjoll, ma bisogna essere veloci a salire perché alle nove del mattino la nebbia ha già coperto tutto.
E poi ripartiamo, altra pista, altro deserto, non ci si abitua mai a questo luogo desolato, che pure sa offrire ad ogni angolo nuove vedute, nuove emozioni, nuove tonalità. Si narra che in questa zona la NASA abbia testato i robot prima di mandarli su Marte, essendo questo il posto più simile alla destinazione che esistesse sul nostro pianeta, e non ho motivo di dubitarne. Altro sterrato, altri pranzi improvvisati in mezzo al deserto, altri sassi, buche, dissesti… Quando, dopo molte altre ore, ritroviamo l’asfalto, vorrei scendere dall’auto e baciarlo.
Seguono un paio di gironi lungo i fiordi del sud, se possibile ancora più spettacolari di quelli al nord. La strada serpeggia tra il mare a destra e le colline a sinistra; ogni tanto troviamo un villaggio, possiamo giusto fare rifornimento e riempire le preziose taniche, senza le quali ci avrebbero già dato per dispersi. Dopo molti giorni finalmente anche il cellulare riprende a funzionare, sembra di essere tornati nel mondo “normale”. Ma basta guardarsi intorno per capire che non è affatto così: i fiordi, le insenature, il mare azzurro, le onde che si infrangono sulla battigia, uno spettacolo fantastico, almeno quando la nebbia non lo nasconde. Mi piace camminare sulla spiaggia, guardare le onde schiumare, pensare che oltre questa distesa d’acqua, da qualche parte, c’è un’altra terra… penso ai navigatori che hanno raggiunto questi luoghi centinaia di anni fa, a cosa devono aver provato quando sono sbarcati su questa isola così magica ma anche selvaggia, inospitale, dove non cresce niente e dove metri di neve ricoprono tutto per sei mesi l’anno…
Qualcuno osa addirittura mettere i piedi a bagno, io mi accontento di osservare lo spettacolo con cui mi sento sempre più in sintonia, che non si ripete mai uguale ma mostra nuove visioni inimmaginabili ad ogni angolo, dietro ogni roccia, sopra ogni rilievo.
Ed eccola, infine, la laguna di Jokulsarlon. Qui il ghiacciaio si getta direttamente in mare, e grossi iceberg galleggiano in questa grande laguna, spostandosi con le correnti. Saliamo su di un mezzo anfibio, che ci porta in giro tra gli iceberg, sono così vicini che potremmo quasi toccarli. Sul mezzo scoperto il freddo è tagliente, la pioggia ci frusta con insistenza, qualcuno dopo un po’ cede e si rannicchia sulle panchine; qualcun altro cerca di ascoltare le indicazioni della guida, che deve quasi urlare per farsi sentire tra le intemperie. Ma lo spettacolo è incredibile, enormi blocchi di giaccio multicolore sono tutto intorno a noi, e mutano nel colore e nelle tonalità a seconda dell’angolazione, della distanza. Sembrano cose vive, senzienti, organismi razionali in un mondo che di razionale ha ben poco, almeno per i nostri standard.
Quando ritorniamo a terra abbiamo i piedi congelati e i vestiti fradici, ma io potrei risalire subito e fare un altro giro.
Ma anche oggi non è ancora finita. Raggiungiamo l’ennesimo rifugio, da cui un sentiero ci conduce in un paio d’ore sul ciglio del Ghiacciaio. Vatnajokull si chiama, non è un insulto, ma una distesa di ghiaccio enorme, occupa una buona parte di tutta l’isola, ed è lì, a pochissima distanza da noi. Potremmo toccarlo, potremmo camminarci sopra… è incredibile. Sembra un gigante buono, che ti osserva dall’alto di quella sicurezza di chi sa di essere immutabile, un Grande di fronte a piccoli, insignificanti esseri umani. Per la prima volta nessuno parla, nessuno scherza, nessuno cerca pose per fotografare. Tutti restiamo seduti ad ammirarlo, cercando di capire cosa sia veramente la Natura e quanto sappia fare per tutti noi.
Kirkjubaejarklaustur è forse la località dal nome più impronunciabile dell’Islanda, ma significa semplicemente “chiesa, fattoria, convento”. Il paese, infatti, è composto soltanto da questi tre elementi, più una stazione di servizio dove Dino si fa dare una mappa dettagliata del luogo. Da questo paesino, infatti parte la pista che porta verso il più incredibile parco islandese, il Landmannalaugar. Tutto ciò che abbiamo visto, sentito, vissuto finora su quest’isola è niente rispetto a quanto troveremo nei tre giorni che passeremo in un luogo fantastico, indescrivibile, assolutamente fuori dal tempo. Il Landmannalugar è imperdibile, senza dubbio una delle meraviglie del mondo, ma anche un luogo pieno di insidie, che non tardano a pararcisi di fronte. In uno dei primi guadi, che Andrea giustamente affronta di petto, sentiamo un botto sordo e il pulmino si inclina, si ferma, per fortuna senza che il motore si spenga. In qualche modo riusciamo a portarlo fuori dall’acqua, e scopriamo di avere spaccato un cerchione. Evidentemente sul fondo del torrente, all’apparenza innocuo, si nascondeva una grossa buca che non ha avuto pietà del nostro pulmino stracarico. Questo è un altro problema dei guadi: non sai mai cosa ci può essere sul fondo. Ci mettiamo subito al lavoro, e non senza fatica riusciamo a cambiare la ruota; sul terreno spugnoso, infatti, il cric tende a sprofondare e l’auto si inclina paurosamente.
Ripartiamo mentre un brivido freddo ci corre lungo la schiena: ci siamo giocati il nostro bonus, e se dovessimo avere un altro incidente in questa landa desolata, non avremmo nessuna possibilità di venire fuori.
La pista prosegue fino a finire in una laguna, dove perdiamo completamente il senso della direzione. Nella stagione calda, quando i ghiacciai si sciolgono, mille fiumiciattoli si formano inondando il terreno con percorsi sempre diversi, e cancellando le piste che così perdono di ogni significato. Per fortuna gli islandesi hanno piantato nel terreno dei pali di legno, alti circa un metro, per indicare la direzione da seguire; ad ogni palo ci fermiamo a cercare il successivo, e così via di palo in palo, mentre l’acqua diventa così alta da entrare perfino dentro l’auto. Andiamo avanti a passo d’uomo, fino a quando un altro ostacolo vuole impedirci di proseguire: i pali sono finiti. Scendiamo dal pulmino, ci guardiamo intorno in tutte le direzioni, strizziamo gli occhi alla ricerca del prossimo segno che ci faccia proseguire, ma niente. Ci sentiamo scoraggiati e dispersi ma Dino, perenne ottimista, estrae la pianta topografica, e cerca di orientarsi in base ai rilievi intorno a noi. Dopo aver studiato il paesaggio ci dice di aver capito dove siamo, e ci indica fiducioso la direzione. Lo seguiamo, sperando nelle sua capacità: i nostri destini sono nelle sue mani.
Ritroviamo la pista. Altri sassi, altre buche, altri guadi finché ne raggiungiamo uno impressionante, segnato sulla mappa con tre onde: “big river”. Il fiume è così largo che a stento vediamo l’altra sponda, e la corrente è forte, impetuosa, non come i tranquilli torrenti che abbiamo affrontato finora. C’è perfino un cartello di pericolo (come se ce ne fosse bisogno). Non abbiamo idea di come sia il fondale, ma grossi macigni spuntano pericolosamente qua e là, la corrente è fortissima e c’è anche il rischio di piene improvvise. Comunque non si torna indietro, c’è una sola direzione da seguire. I passeggeri scendono e attraversano sul ponte pedonale, l’unico che abbiamo trovato in tutta l’Islanda (!); io non me la sento di guadare, è una responsabilità troppo grande. Così lascio il compito a Dino che prima attraversa con un pulmino, poi torna indietro sul ponte e riguada con l’altro. Forse sono un codardo, ma faccio l’insegnante, non il pilota di fuoristrada. L’immagine, da terra, è impressionante: l’acqua arriva quasi ai finestrini, il veicolo si immerge letteralmente nel fiume per poi rispuntare sull’altro lato.
Raggiungiamo il rifugio. Anche il gestore è impressionato dal fatto che siamo arrivati fino a lì con due pulmini da città.
Dino ci propone di fare un trekking sulle colline circostanti. Lui è come Maurizio, con lui le giornate non sono mai finite, c’è sempre qualcosa da fare, da vedere. Un po’ di malavoglia mi incammino anch’io: saliamo in cima ad una collina, poi su un’altra ancora più alta, infine un’altra ancora, e lo spettacolo che si apre davanti a me mi toglie letteralmente il fiato.
Io non sono uno che si impressiona facilmente, e nei quarantaquattro paesi che ho visitato ne ho viste davvero tante, ma i campi di tefrite di Alftavatn sono qualcosa che va al di là di ogni immaginazione.
La tefrite è un insieme di materiali compositi che si genera durante un’eruzione, così leggeri da essere sparati a chilometri di distanza. In qualche epoca remota, nelle valli circostanti ci sono state molte eruzioni violente, e i laghi vulcanici che costellano il paesaggio ne sono la testimonianza. La tefrite, una volta depositata, è stata col tempo ricoperta da muschio e licheni, dando origine a rilievi di colori innaturali. La vallata che si apre sotto di me è indescrivibile, è lo spettacolo più maestoso che abbia mai visto. Non c’è alcun segno dell’uomo. Mi tornano alla mente i cartoni animati che guardavo da piccolo, quelli ambientati nella preistoria, quando poveri cavernicoli scappavano inseguiti da un tirannosauro o un triceratopo, e davvero non sarei sorpreso di vederne spuntare qualche esemplare da dietro una collina.
Non ho parole per descrivere ciò che vedo. Posso solo sedermi a contemplare il paesaggio, immerso nell’aura magnetismo che circonda tutto quanto; e quando arriva l’ora di scendere, non ho la forza di togliere lo sguardo dal mondo che mi circonda.
Il giorno più lungo è quello che impieghiamo per andare dal rifugio di Alftavatn a quello delle pozze del Landmannalaurgar. Si tratta di pozze di acqua calda che sgorga direttamente dal terreno, dove molti vanno a fare il bagno nonostante che l’aria, fuori dalla pozza, sia molto fredda.
Esiste una strada che collega i due rifugi, ma è attraversata da un guado molto grande, e Dino non si fida ad affrontarlo con i nostri pulmini. Anche il gestore del rifugio ce lo sconsiglia, così decidiamo di seguire una via alternativa, che sulla mappa è segnata con una sottile linea tratteggiata (quando le linee spesse indicano sentieri sterrati…). Nessuno di AnM ha mai seguito quella pista prima d’ora, che è più o meno come dire che nessun essere umano ci ha messo piede… ma almeno lì il fiume sembra più semplice da attraversare, così partiamo.
Il vento è terribile, facciamo perfino fatica ad aprire le porte dei nostri mezzi per salirci. Per tutta notte ha soffiato impetuoso, tanto da far tremare le pareti con cupi rimbombi, al punto che mi sveglio in piena notte temendo che il rifugio stesso possa volare via. Ma non bisogna mai fermarsi, dobbiamo sempre guardare avanti. Imbocchiamo la variante, e presto ce ne pentiamo perché la strada finisce e davanti a noi c’è solo una distesa di sabbia. Qua e là partono tracce che vanno chissà dove, lasciate da qualche fuoristrada che è passato da qui nella notte dei tempi, con chissà quale destinazione. Seguirle? Non seguirle? Non abbiamo altra scelta, senza navigatore satellitare. Presto ci perdiamo. Dino inverte la marcia, torniamo indietro per un pezzo, poi ci fermiamo. Ci siamo persi in un posto spettrale. Abbasso il finestrino per parlare con Dino, che guida l’altro mezzo, ma il vento è così forte che le nostre voci vengono spazzate via. Cerchiamo di consultare la mappa topografica, dove ogni rilievo è segnato con precisione. Ci guardiamo intorno, cercando di capire dove siamo, di trovare riferimenti su quel foglio spiegazzato, lacerato dal vento, che rappresenta la nostra unica speranza di venir fuori da quell’inferno. Mi sembra di capire, quella vallata tra due picchi sembra corrispondere ad una segnata sulla carta. Propongo a Dino di imboccare quella strada, lui è d’accordo. Procediamo. Ci ritroviamo in una specie di tunnel, un posto davvero infernale. Le alture intorno a noi sono nere, nere come il petrolio appena estratto, mai visto un posto così. Alcuni grossi sassi ci chiudono la strada: bisognerebbe scendere a spostarli, ma il vento è così forte che non riusciamo nemmeno ad aprire lo sportello, ce lo ribatte contro, così dobbiamo aggirarli. La strada comincia a salire paurosamente verso una collina, il furgone davanti a noi si impenna paurosamente su un dislivello impossibile, temiamo che si ribalti, per fortuna arriva in cima. Noi, con tutti i bagagli caricati dietro, non ci fidiamo. Faccio scendere tutti, che seguiranno a piedi il pulmino vuoto.
Una discesa, poi un’altra salita, e così via, per ore, senza mai trovare un cartello, un sentiero, una casa. Non siamo nemmeno sicuri che questa sia la direzione giusta, ma tornare indietro sarebbe peggio, ormai siamo andati troppo avanti. Nessuno parla. Abbiamo tutti timore di questo posto, che ci incute una profonda soggezione, ci avverte che siamo fuori dal nostro habitat, che è lui a comandare.
Proseguiamo nella sabbia, non c’è né pista né sentiero, solo il nostro senso dell’orientamento ci guida. Dopo una breve sosta per il pranzo in mezzo al nulla, senza poter nemmeno uscire dal veicolo, riprendiamo la marcia. Commettiamo il grosso errore di passare davanti noi, lasciando dietro l’altro veicolo che è l’unico dotato di gancio. E, puntualmente, il peggio succede: Andrea rimane insabbiato in un punto all’apparenza innocuo. Scendiamo, spingiamo, niente da fare, non si va più né aventi né indietro. Siamo bloccati nel deserto. Qualche ragazza comincia a piangere, io le capisco, ma non possiamo perderci d’animo, dobbiamo trovare una soluzione. Proviamo a mettere dei sassi sotto la ruota, ma è inutile, schizzano via veloci rischiando di colpirci mentre la gomma continua a girare a vuoto. L’unica soluzione è quella di far passare davanti l’altro pulmino, per poi agganciarci e trainarci fuori. Ma come si fa? Tutto intorno a noi ci sono massi e buche, la nostra auto ottura un passaggio obbligato. Riproviamo a spingere tutti insieme, niente da fare, non bastano dodici persone a smuovere il furgone. Dobbiamo rischiare ed aggirare.
Dino sale sull’altro mezzo, comincia a manovrare molto delicatamente mentre gli altri gli indicano come girare, quando sterzare, a che punto fermarsi. Bisogna assolutamente evitare le buche, se anche lui rimane insabbiato siamo persi, in un luogo dove i cellulari non prendono e non abbiamo mai visto un'altra macchina in tutto il giorno. Ma bisogna anche rimuovere dei grossi massi, tanto pesanti che servono tre persone per sollevarli, mentre il vento incessante ci fa oscillare in ogni direzione, ci tira la sabbia in faccia, in bocca mentre le nostre giacche a vento sbuffano quasi strappate via dai nostri corpi inermi.
Per una volta siamo fortunati. Dino riesce a portare il pulmino davanti a noi, così leghiamo la corda e dando di acceleratore veniamo strappati via dalla nostra buca. Possiamo ripartire. Stavolta seguiamo ligi, casomai ci fossero altri incidenti. L’umore del gruppo migliora, qualcuno timidamente intona “Io, vagabondo” per risollevare gli animi, molto provati.
Finalmente ritroviamo la strada principale, se così si può chiamare. Beh, almeno sappiamo dove siamo, e poi incrociare altre auto ci rincuora. Procediamo fino a incrociare un pullman di linea che va nell’altro senso, e per evitare il quale dobbiamo uscire di strada in una enorme pozzanghera, dove per poco non restiamo bloccati di nuovo. Sarebbe davvero il colmo.
Arriviamo fino al rifugio, ma subito prima c’è un altro guado, sembra molto grande. Cerchiamo di salire a piedi su una collina per valutarne la profondità, ma il vento è così forte che ci respinge indietro. Non possiamo fare altro che aspettare che passi un’altra macchina, per capire la situazione. Arriva un’auto, passa senza problemi. Bene, è meno profondo di quanto sembrasse, passiamo anche noi. Finalmente siamo al rifugio.
Mentre scarichiamo i bagagli riprende a piovere, orami non ci facciamo neanche più caso. In serata le ragazze si tuffano nelle pozze bollenti, incuranti del freddo e della pioggia. Sembra che si divertano un mondo… tutto sommato è stata una giornata costruttiva. Una giornata che non dimenticheremo facilmente.
L’ultimo giorno è quello dedicato al trekking. Sopra le pozze di Landmannalurgar si estendono i campi di lava del Laugahraun, dove saliamo fino alla sommità, evitando le bocche di fuoco, per osservare il panorama. La fitta pioggerellina si mischia alle fumarole, creando una nebbiolina che dà un senso di mistero a tutto il paesaggio. Ormai sono cose già viste, ma non ci si può abituare a queste lande e riusciamo ancora a stupirci di quello che vediamo. Di fronte a noi ecco, imponenti, i monti chiamati Brennisteinsalda, “cresta delle rocce ardenti”, e come sempre il nome già rende l’idea di cosa ci aspetti. La roccia, molto friabile, è costituita in buona parte da zolfo, ricoperto dal solito muschio dall’aspetto pallido e poco rassicurante.
Ripartiamo, mezz’oretta di auto e poi di nuovo trekking. Destinazione, la conca del monte Tjorvafell, passando prima per i numerosi laghi vulcanici che costellano il paesaggio. E’ un continuo saliscendi, in questo paesaggio circondato di rilievi di riolite e di tefrite, con colori che colpiscono al cuore, tolgono il fiato, ti impediscono quasi di camminare mentre, non sapendo più dove girarti, sei costretto a sederti e guardarti intorno, immerso nel tutto che ti circonda. Non ci sono parole per descrivere ciò che mi circonda, e tutto è silenzio, calma, quiete dopo che le forze sismiche primordiali hanno creato questo ambiente dall’aspetto preistorico. Non sarei affatto sorpreso di veder sbucare un brontosauro da dietro la collina, perché tutto qui appare stranissimo se non assurdo, quasi impossibile da credere.
Solo le immagini, forse, possono rendere bene l’idea del luogo dove mi trovo. Voglio precisare che le foto non sono mai state ritoccate al computer, ma sono state scattate con una macchina usa e getta, stampate su carta normale e scannerizzate per metterle sul PC. Se sembrano scure è solo per la cronica mancanza di luce solare che caratterizza l’Islanda, terra dalle nubi perenni.
Voglio anche ringraziare tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggermi; e, se con questo mio racconto vi ho invogliato a raggiungere quest’isola fantastica, beh, allora questa dolce fatica non sarà andata del tutto perduta.
FINE
Massimiliano