In diretta da Haiti
Haiti
e gli aiuti selettivi – 5 febbraio 2010
“Tutte
le persone che ne hanno bisogno possono ricaricare il telefono gratis”,
“Tutti i responsabili sindacali, le Ong e le organizzazioni umanitarie che
vengono possono usare Internet gratis e possono fare anche delle riunioni”.
Dopo
due giorni di viaggio tra aerei ed autobus da Città del Messico a Santo Domingo
e poi a Port-au-Prince,
Haiti, mi accoglie così il cartello scritto in creolo affisso sulla porta
d’entrata dell’Aumohd,
l’associazione di avvocati dedicati alla difesa dei diritti umani che operano
nei quartieri disagiati di Porto Principe e che mi ospiteranno per una ventina
di giorni nella zona Delmas, una delle tante città dentro la città che
compongono la disastrata capitale haitiana. Il centro operativo
dell’associazione funziona perfettamente grazie ad un generatore di corrente a
benzina che alimenta alcuni computer portatili, dei cellulari e un paio di
stampanti, strumenti indispensabili per ricominciare le attività di supporto
alla popolazione e cercare la maniera migliore di ottenere i famosi “aiuti
umanitari internazionali” che si vedono più alla televisione e nelle notizie
che nella difficile realtà quotidiana.
Tutta
la zona è senza elettricità e non si sa quando sarà ripristinata. Si vendono
per la strada candele e pile per supplire alla mancanza di luce pubblica. Il
generatore dell’Aumohd è a disposizione di tutti quelli che ne hanno bisogno
e presto verrà istallato un piccolo centro medico per le cure d’emergenza e
l’assistenza sanitaria se si riusciranno a recuperare dei fondi. Un amico
compagno di viaggio, Diego Lucifreddi, e io abbiamo fatto la nostra piccola
parte portando dal Messico un centinaio di scatole e flaconcini di antibiotici,
antiematici, paracetamol, aspirine, d’alcol, oltre a garze sterili, vitamine e
termometri ma i bisogni eccedono la capacità di due viaggiatori e richiedono un
contributo di massa.
Il
conteggio ufficiale delle vittime del terremoto del 12 gennaio scorso ha ormai
superato la cifra di 200mila anche se molte abitazioni, uffici, chiese, negozi e
strade non sono ancora state esplorate e sgomberate, quindi restano migliaia di
vittime intrappolate nelle macerie di una metropoli trasformatasi rapidamente in
un accampamento gigante e brulicante.
Lo
shock post terremoto è uno dei fantasmi che si aggirano per le vie, per i
parchi e le piazze di Porto Principe, occupate da accampamenti, tendopoli e
rifugi d’emergenza che ormai sono una dimora per migliaia di senza tetto (il
numero degli sfollati sembra aver superato il milione) e per le persone che non
vogliono ritornare a casa perché gli spazi chiusi e le crepe enormi sulle
pareti fanno troppa paura.
Le
notti infestate dalle zanzare e dal calore asfissiante passano nella speranza di
poter trovare un pasto per il giorno dopo o di poter inviare qualche soldo ai
membri della famiglia che se sono andati a vivere in luoghi più sicuri fuori
città. Quindi il secondo fantasma che minaccia la sopravvivenza della capitale
è la fame dato che la massa enorme di viveri e medicine arrivati da tutto il
mondo non filtrano verso i quartieri disagiati e alle associazioni veramente
bisognose. Basta camminare dieci minuti sulla lunghissima e trafficata via
Delmas per rendersi conto che la distruzione provocata dalle scosse del 7°
grado della scala Richter è stata massiccia e ha cancellato interi condomini e
palazzi sconvolgendo la struttura e l’anima delle strade, ma non ha abbattuto
la volontà di sopravvivenza della gente comune e la vitalità del popolo
haitiano. Forse una casa su quattro è crollata o minaccia di farlo presto se ci
saranno nuove repliche del sisma o se l’incuria e l’impotenza dello Stato
continueranno. L’unico palazzo governativo rimasto in piedi è quello del
ministero degli interni nel cui giardino sono attualmente accampate centinaia di
persone. In certi quartieri i politici non sono ben visti dato che appaiono
magicamente durante la campagna elettorale e nei momenti d'estrema emergenza
(molto frequenti ad Haiti), ma poi scompaiono nella polvere di strade mai
asfaltate e nel silenzio di promesse non mantenute.
Inoltre
l’offerta di cibo per la strada scarseggia, sono pochissimi i supermercati
aperti e, solo per fare un esempio, una pizza da Domino’s costa da 10 a 20
dollari USA che è un prezzo assolutamente proibitivo. Stanno anche iniziando a
proliferare i venditori di medicine e prodotti per l’igiene personale che
alimentano il mercato nero della rivendita o “riciclaggio” degli aiuti
umanitari selettivamente distribuiti. E’ urgente promuovere l’attivazione di
canali alternativi di finanziamento
e d’aiuto (vedi raccolta fondi: http://prohaiti2010.blogspot.com
) per la popolazione che si trova ai margini. Sembra che il problema
dell’acqua sia stato parzialmente risolto e che il suo prezzo sia
relativamente sotto controllo ma in alcuni casi supera il dollaro e mezzo
al litro e quando non si hanno più entrate di nessun tipo, direi che il
problema resta aperto e drammatico.
Haiti,
i vicini e la violenza immaginata – 7 febbraio 2010
L’unico
stato confinante con Haiti è la Repubblica Dominicana che è un paese
ispanofono ed è più ricco e sviluppato del suo vicino francofono, anche grazie
al turismo e a una relativa stabilità politica (ma il discorso è molto più
complicato). Quindi due stati si spartiscono l’isola in cui sbarcò Colombo il
14 ottobre 1492 e che venne chiamata La Hispaniola. Due popoli apparentemente
diversi ma in realtà più simili tra loro rispetto a quanto si pensi, date le
mescolanze secolari e i rapporti necessari però non sempre cordiali tra questi
vicini di casa. Mentre nel secolo XIX il vicino potente e fiero era Haiti, nel
secolo scorso i ruoli si sono lentamente invertiti e, magari forzando un po’
un paragone valido in molte terre di confine dell’America Latina, la
Repubblica Dominicana rappresenta oggi quello che è la Costa Rica per il
Nicaragua, l’Argentina per la Bolivia o gli Stati Uniti per il Messico, cioè
un paese confinante e prospero verso cui emigrare, con più lavoro e migliori
salari ma anche tanto risentimento, discriminazione ed esclusione nei confronti
di una popolazione percepita come “etnicamente differente” rispetto
all’identità nazionale predominante.
Per
le strade di Santo Domingo e persino nelle colonne dei principali quotidiani
nazionali non è difficile sentire commenti razzisti sui vicini haitiani cui
vengono attribuite spesso le colpe degli incidenti, dei furti e in generale dei
problemi del paese che “sarebbe più ricco se avesse altri vicini, se potesse
avere un’immigrazione migliore”. Alcuni tassisti ci hanno detto di avere
pura dei contagi e le malattie provenienti da Haiti senza però specificare di
che si tratta. Una nuova epidemia di suina? C’è chi ancora ricorda la
conquista di Santo Domingo da parte delle truppe insorte dal presidente haitiano
Jean-Pierre Boyer nel 1822. Infatti la Repubblica Dominicana divenne
indipendente solo nel 1844, 40 anni dopo Haiti che invece lottò e vinse contro
la Francia di Napoleone nel 1804, diventando la prima Repubblica indipendente in
America dopo gli USA. Storia a parte, si sentono commenti simili a quelli dei
tassiti e della gente comune di Santo Domingo anche nella “bianca” Costa
Rica quando si parla dei Nicas, cioè i nicaraguensi, che costituiscono ormai
oltre il 10% della popolazione del Costa Rica e svolgono i lavori più umili. In
tema di migrazione ho avuto occasione di pensare anche al mio paese dato che a
freddo una ragazza haitiana dell’università mi ha chiesto ieri se in Italia
è vero che siamo razzisti, come rispondereste?
Un
ammonimento datomi da alcuni albergatori dominicani riguardava il pericolo della
violenza e del sequestro che mi avrebbe dovuto scoraggiare dal partire per Port
au Prince, ancor di più adesso che, a detta loro, l’anarchia e la
disperazione si stanno impossessando di quella città incivile e inospitale.
Ciononostante il sequestro, l’omicidio e la violenza in generale sono una
caratteristica ricorrente delle grandi metropoli latino americane e di Città
del Messico, capitale in cui risiedo da 8 anni e in cui il cosiddetto sequestro
express (una modalità di rapimento che dura poche ore, quanto basta per
costringerti a prelevare il massimo disponibile dallo sportello Bancomat un paio
di volte), lo scippo e il furto sono il pane di tutti i giorni per migliaia di
cittadini.
Chiaramente
ci si può aspettare un tasso di criminalità più alto nei quartieri e nelle
città più povere, disuguali e disagiate ma non si tratta né di un’equazione
matematica né di un teorema automaticamente verificato. All’università ci
insegnavano che i migliori economisti sono quelli che non ti dicono mai “sì”
o “no”, ma rispondono sempre “dipende” a qualsiasi domanda riguardante
l’economia o le scienze sociali e volevano farci capire che spesso la realtà
è più complicata della teoria accademica o della speculazione mediatica.
In
questo senso mi interessava conoscere l’opinione degli abitanti di Port au
Prince su quanto all’estero viene raccontato e mostrato riguardo al tema della
violenza per le strade della capitale haitiana e dell’immagine selvaggia e
drammatica che viene inoltrata dai mass media verso tutte le TV e i PC
globalmente interconnessi. Ragazzi che sparano a ragazzi, repressioni da parte
delle forze dell’ordine e degli eserciti occupanti, scene di disperazione e di
lotta da strada per accaparrarsi aiuti lanciati da aerei timorosi d’atterrare,
un popolo sull’orlo di una crisi non di nervi ma “pre-rivoluzionaria” e
infine la notizia dei fanatici americani arrestati mentre trafugavano alcuni
bambini alla frontiera che rimbalza più forte del terremoto del 12 gennaio:
l’idea della violenza immaginata si trasforma in una verità che può arrivare
a giustificare pubblicamente la presenza delle armi, delle portaerei, dei
soldati e degli elicotteri militari, gli unici mezzi che sorvolano tutto il
giorno i cieli di Porto Principe.
Bene.
Senza negare che vi siano stati alcuni importanti disordini e delle scene di
disperazione atroci, dovute anche all’incuria e alla disorganizzazione nella
distribuzione degli aiuti, la gente spaventata e stipata negli accampamenti, i
venditori di strada e le organizzazioni della società civile ci tengono a
comunicare che, malgrado la tragedia sia appena cominciata e sia una delle
peggiori della storia, loro sono solidali e tristi ma non distrutti, bisognosi e
arrabbiati ma non violenti. Negli accampamenti approntati in queste settimane
nelle vie secondarie, nei parchi e nei giardini, la vita comunitaria s’è
riattivata coi meccanismi della solidarietà e della distribuzione delle poche
risorse disponibili. Esistono anche le speculazioni ma non sono l’unico
sistema. Esiste la violenza ma non è la regola, almeno non molto di più di
quanto lo sia a Bogotà o a Caracas. Camminando per le strade delle zone
dell’hinterland l’impressione è che la gente sia abituata alle catastrofi e
che quasi si potesse percepire l’arrivo del terremoto. In tanti hanno perso
tutto, casa cose amici parenti speranze arti, ma in tanti stanno recuperando
qualcosa, a poco a poco. Mentre ci si addentra nei vicoli e ci si orienta
lentamente nel dedalo di tende, ci si sente stranamente sicuri, forse
ingenuamente ammaliati da tante persone che cercano di aiutare, chiedono di
essere ascoltate o si offrono per svolgere dei piccoli lavori come traduttori,
aiutanti, cuochi improvvisati o guide. Tutto serve insomma.
Su
Facebook in molti mi hanno chiesto a chi o come fare donazioni veramente utili
che non finiscano nella spirale burocratica, quindi segnalo QUESTO
LINK.
Vi allego un articolo-diario un po' piu' lungo e completo rispetto ai primi due brevi gia' inviati. Lo vorrei diffondere. Fatemi sapere, grazie mille. Scusate l'inconveniente della mail precedente non era mia intenzione generare SPAM!
A quasi un mese dal disastroso terremoto di 7,3 gradi della scala Richter che ha colpito la capitale di Haiti, Port au Prince (o all’occorrenza Porto Principe), causando oltre 200mila morti e un milione di sfollati, il paese si trova in un costante stato d’emergenza ed è praticamente isolato dal resto del mondo dato che gli scali aerei e navali internazionali sono controllati dall’esercito americano, dalla Minustah (United Nations Stabilization Mission in Haiti) e dai contingenti militari inviati da tutto il mondo. Quindi per raggiungere Port au Prince, si deve passare dalla vicina Repubblica Dominicana. Partiamo in due da Città del Messico a Santo Domingo in aereo e poi da lì via terra si dovrà attraversare tutta l’isola da est a ovest lungo una strada precaria e trafficata, l’unica. Al nostro arrivo a Santo Domingo ci accoglie Narciso, un anziano giornalista e uomo politico dominicano, militante del Partito Comunista, combattente durante la rivoluzione dominicana del 1965 e nella resistenza contro l’invasione statunitense fu più volte esiliato a partire dall’inizio degli anni sessanta da quando lottava contro la tirannia del dittatore Rafael Leonidas Trujillo.
A Santo Domingo
Narciso è un idealista generoso e combattivo che non esita a offrirci la sua
ospitalità e i suoi scritti praticamente senza nemmeno conoscerci e decide di
pagar lui un hotel nella zona coloniale della capitale dominicana solo per il
fatto che stiamo andando ad Haiti per provare a dare una mano. Al check in
della Copa Air in Messico constatiamo il raggiungimento del limite massimo di
peso consentito, 46 kg a testa in totale: siamo strapieni di medicinali,
tende, filtri per l’acqua, vitamine, bottiglie d’alcol, apparecchi vari
come cellulari, macchine digitali e batterie, guanti da lavoro e perfino
cancelleria, tutti beni che non si trovano ad Haiti oppure sono carissimi.
Verso sera io e Diego, il mio compagno d’avventure, restiamo soli con
l’albergatore e questi, cercando di creare una maldestra complicità, ci
spiega ridacchiando che Narciso è una “specie di comunista” e che sta
sempre contro tutti i governi e che purtroppo, insomma, è stato sempre
osteggiato perché non scende mai a patti e aderisce ai circoli di attivisti
bolivariani promossi dal presidente venezuelano Hugo Chavez. Il nostro non ha
cattive intenzioni ma si accorge subito che forse è stato un po’ troppo
spontaneo con due sconosciuti e quindi sente il dovere di una rettifica
“beh, però è una gran persona oltre ad essere un cliente fisso!”. Notte,
zanzare, pensieri. Sappiamo che dobbiamo prepararci a guardare in faccia
persone che hanno perso tutto, che non hanno più una casa, una famiglia, un
lavoro né uno Stato di riferimento dato che quasi tutti i ministeri e gli
uffici pubblici sono crollati e il presidente Rene Preval prova a “gestire
la cosa pubblica” tramite dei messaggi televisivi serali trasmessi da una
tendopoli che è protetta dai mezzi blindati USA, dalla polizia locale e dai
caschi blu dell’ONU. Gli autobus per Porto Principe partono uno dietro
l’altro non appena si riempiono di persone da una stazione relativamente
moderna dove bisogna fare la fila dal mattino presto per sperare d’ottenere
l’agognato biglietto.
La calca dentro e fuori dall’ufficio vendite è impressionante e i più
agguerriti sono i gruppi di haitiani che confondono gli agenti della sicurezza
usando un mix linguistico franco-creolo-spagnolo davvero ammirevole mentre io
cerco di inserirmi in una curiosa fila circolare che degenera in bolgia ogni
quattro minuti. Il Caribe Bus è per i ricchi: quaranta dollari USA di viaggio
più altri trenta per tasse alla frontiera, varie ed eventuali. Verso le 9
salutiamo Narciso che ci ha pazientemente accompagnato anche in questa
occasione e montiamo sull’autobus coi posti da conquistare e la fame già
sedata da alcune tortine burrose consumate in caffetteria.
Storia e razzismo
Da oltre duecento anni due stati decidono le sorti dell’isola in cui sbarcò
Colombo il 14 ottobre 1492 e che poi si chiamò La Hispaniola. La Repubblica
Dominicana è un paese ispanofono più ricco e sviluppato del suo vicino
francofono, anche grazie al turismo e a una certa stabilità politica. Nel
secolo XIX il paese più potente e fiero era invece Haiti mentre oggi,
forzando un po’ una comparazione valida per molte terre di confine
dell’America Latina, la Repubblica Dominicana arriva a rappresentare quello
che sono la Costa Rica per il Nicaragua, l’Argentina per la Bolivia o gli
Stati Uniti per il Messico, cioè dei paesi confinanti e prosperi verso cui
emigrare, con più lavoro e migliori stipendi ma anche tanto risentimento,
discriminazione ed esclusione nei confronti di una popolazione percepita come
“etnicamente differente” (nera in questo caso) rispetto all’identità
nazionale predominante (per esempio meticcia, europea o WASP). Per le strade
di Santo Domingo e persino nelle colonne dei principali quotidiani nazionali
non è difficile sentire commenti razzisti sui vicini haitiani cui vengono
attribuite spesso le colpe degli incidenti, dei furti e in generale dei
problemi del paese che “sarebbe più ricco se avesse altri vicini, se
potesse avere un’immigrazione migliore”. Frasi spesso ripetute anche in
casa nostra, mi pare. Alcuni tassisti ci hanno detto di avere paura dei
contagi e le malattie provenienti da Haiti senza però specificare di che si
tratta. Una nuova epidemia di suina o la fobia del terromoto? Attenzione, dico
io, noi veniamo dal Messico, culla della vendetta di Montezuma e del virus A
H1N1, non avete paura?
Risentimenti
Per opera della stampa, del discorso politico, dell’ideologia nazionale e
dei libri di storia di stampo revanscista è ancora vivissimo il ricordo della
“vergognosa” conquista di Santo Domingo da parte delle truppe insorte dal
presidente haitiano Jean-Pierre Boyer nel 1822. Infatti la Repubblica
Dominicana divenne indipendente solo nel 1844, quarant’anni dopo Haiti, la
quale seppe invece lottare e vincere contro la Francia di Napoleone già nel
1804, diventando la prima Repubblica indipendente in America dopo gli USA e la
primissima che abolì la schiavitù e volle sposare i principi della
Rivoluzione francese. Dal canto loro gli haitiani hanno di che lamentarsi dei
vicini dominicani che nel 1937, durante la lunghissima dittatura (1930 –
1961) del generale Trujillo e per ordine di quest’ultimo, si sono resi
protagonisti di un vero e proprio olocausto, una persecuzione di haitiani che
fece oltre 20mila vittime con il tragico pretesto di “ripulire la frontiera
e la razza”.
Frontiera e polvere
La frontiera di Jimanì è un caos totale che ci fa perdere ore e ore in mezzo
alla polvere delle strade sterrate e agli autobus parcheggiati col motore
acceso in transito verso Porto Principe. Alcuni chilometri prima abbiamo
superato i convogli e le ruspe dell’esercito italiano che stazionavano in
alcune spianate ai bordi della strada principale, probabilmente in attesa di
ripartire di notte per non creare ingorghi apocalittici ed evitare il caldo, e
che pare abbiano dovuto fare un giro assurdo per i mari dei pirati prima di
poter approdare nelle acque dominicane e proseguire via terra. Un po’ come
noi insomma, ma forse meno motivati. Verso sera il traffico nei pressi della
congestionata capitale haitiana completa l’opera e un viaggio di 6 ore
teoriche si allunga fino a quasi 12 ore totali. Gli ultimi 30 chilometri prima
dell’arrivo sono solo un’anteprima rispetto a quanto vedremo in città: un
brulicare di gente per strada comprando, vendendo, cercando, trasportando e
parlando; file di tende, materassi, coperte e dimore improvvisate sul ciglio
della strada e sui marciapiedi distrutti, case crollate con oggetti,
elettrodomestici e utensili che emergono dalla polvere come testimonianza di
una vita che non c’è più, sparita nel nulla sotto le macerie o dispersa in
una strada qualunque della metropoli senza legge. O meglio, senza Stato, che
forse a volte è meglio se si riattivano le forme di vita comunitaria e
autonoma ma non mi spingerei oltre. Qui la situazione è un’altra.
Port au Prince
Quando Evel e il suo amico poliglotta Paulo ci vengono a prendere in jeep alla
stazione degli autobus è ormai notte ma la città continua a restare sveglia
e a muoversi in cerca di cibo, acqua, giacigli, aiuti. L’odore acre e
intenso che entra dai finestrini è la morte, ci dicono. E’ la puzza dei
cadaveri che ancora sono sotto le macerie e non si possono portare via perché
non ci sono le ruspe e nessuno osa più addentrarsi nel cemento in frantumi. O
forse è l’umore dei vivi che richiama i soccorritori sempre più
scoraggiati ma con un filo di speranza, com’è successo oggi con il
ritrovamento di un uomo ancora vivo dopo tre settimane di vita negli inferi. I
nostri anfitrioni ci raccontano i primi momenti drammatici in cui sono
riusciti a scampare il pericolo per pura fortuna e la fase seguente di
normalizzazione che in realtà continua tuttora e andrà avanti per mesi, dato
che la cultura della sopravvivenza a Porto Principe coincide con quella
dell’emergenza permanente, basti pensare che meno di due anni fa furono gli
uragani a sconvolgere la nazione più povera dell’emisfero occidentale. Le
strade asfaltate sono solo quelle grandi e transitate, le arterie principali
dell’ingarbugliato tessuto urbano. Invece le altre vie languiscono ai
margini della tanto sognata e discussa modernità, prive di luce e servizi,
incomplete e bucate a causa della corruzione politica che colloca il paese
agli ultimi posti di tutte le classifiche stilate in materia e che da sempre
ha mangiato le sue risorse e defraudato la sua gente come quando, per esempio,
il figlio del dittatore François Duvalier, Jean-Claude, detto Baby Doc, che
governò tirannicamente Haiti, la rovinò economicamente e poi fu accolto a
Parigi in un esilio dorato nel 1986.
L’Aumohd
Arrivati. Evel Fanfan, l’amico haitiano che ci ha permesso di venire qui e
che ci ospiterà nelle strutture della sua associazione, è
il presidente dell’Aumohd, un gruppo locale di avvocati per la difesa
dei diritti umani che spesso hanno dovuto conciliare le loro attività in
campo giuridico con i compiti umanitari e di protezione della popolazione del
quartiere in seguito a terremoti e uragani. Sfruttando la loro esperienza nel
lavoro in favore delle persone condannate ingiustamente e gli abitanti dei
quartieri disagiati, gli avvocati e i collaboratori dell’Aumohd stanno
cercando sia di riprendere in parte le loro attività “ordinarie” sia di
aiutare la gente del quartiere Delmas, la zona della periferia cittadina in
cui ci troviamo, con dei progetti di cucina comunitaria, con la distribuzione
di medicine, la fornitura di servizi di base come Internet ed elettricità per
ricaricare i telefonini oltre alla ricerca dei famosi aiuti internazionali che
ancora non hanno lambito né questo gruppo né la maggior parte della
popolazione di Delmas che dorme per la strada e negli accampamenti. In questo
senso stiamo promuovendo una raccolta fondi mirata a supplire la mancanza
attuale di altre fonti di reddito per i membri dell’associazione e della
comunità del quartiere che possono avere un impatto molto più diretto: vi
invito a sottoscrivere QUI.
Il Diario continua…
Foto da Haiti: http://picasaweb.google.com/FabrizioLorussoMex/Haiti
Port au Prince e la notte di
pioggia a un mese dal terremoto
Ad
Haiti non è ancora ufficialmente iniziata la stagione delle piogge, per fortuna
manca ancora qualche mese come nel resto dei Caraibi, ma anche qui ci sono i
mesi pazzi e alle 4 del mattino dell’11 gennaio, la capitale ha vissuto ore di
disagio e paura per le piogge intense cadute durante alcune ore. Rispetto agli
uragani che periodicamente sconvolgono il paese o alle piogge torrenziali di
maggio e giugno quello dell’altra sera poteva considerarsi solo uno “sfogo
temporalesco” notevole ma non eccessivo. Purtroppo anche un po’ d’acqua può
far notizia.
Circa
un milione e duecentomila sfollati si sono infatti ritrovati ai bordi di fiumi
di fango e detriti, con le loro tende e i giacigli invasi dall’acqua, secondo
un copione che potrebbe ripetersi ogni giorno se nelle prossime settimane non
verrà risolto il problema delle abitazioni. Gli accampamenti ufficiali e
spontanei che sono stati allestiti nei parchi, nelle piazze e per le strade non
sono pronti per drenare i flussi d’acqua piovana e quindi gli interventi
previsti dalla comunità internazionale, dalle autorità e dagli stessi campi
autogestiti dovranno presto cercare di risolvere questo problema.
Ormai
le cifre relative alle vittime hanno superato ogni stima iniziale e si parla di
220mila morti mentre dal punto di vista degli aiuti ricevuti i giornali locali
(segnalo “Le
Nouveliste”) riportano un altro dato allarmante fornito dal Bureau de
coordination des affaires humanitaires (Ocha) che segnala che solo 50mila
famiglie (cioè 272mila persone) hanno ottenuto “materiali d’emergenza”
come tende e materassi. Per chi non ha un tetto proprio questi beni elementari
si trasformano in preziose ancore di salvataggio e, sebbene non costituiscano
una dimora stabile e dignitosa, sono pur sempre un appiglio utile e, direi,
quasi un privilegio. Per questo motivo Evel Fanfan, il presidente
dell’associazione (Aumohd) che ci ospita nel quartiere Delmas, ci aveva
chiesto di portare tende e materiali da campeggio come le pile elettriche e i
sacchi a pelo oltre alle sempre necessarie medicine. Anche qui nel parcheggio
dove abbiamo piantato un paio di canadesi ci siamo dovuti svegliare
all’improvviso per cercare protezione dallo scrosciare della pioggia che non
dava segni di cedimento e soprattutto per evitare che i computer e le stampanti,
protette solamente da un telone di plastica, non venissero danneggiati.
In
una conferenza stampa l’ambasciatore americano a Porto Principe, Kenneth H.
Merten, ha dichiarato che le tende non rappresentano l’unica priorità e che
è meglio pensare già da ora a soluzioni più stabili come per esempio i
prefabbricati di legno e plastica che sono più resistenti. Inoltre –
sintetizzo le sue parole – l’idea è quella di evitare che la gente si
abitui alle tendopoli che potrebbero trasformarsi in città permanenti che
ostacolerebbero l’opera di ricostruzione generale e i piani di ricollocamento
della popolazione in zone più sicure. Intanto però la gente se la deve cavare
con quello che c’è o con i teloni di plastica che in città sono diventati
carissimi e ricercatissimi tanto che alcune persone che ci hanno visto per la
strada ci hanno chiesto di procuraglieli pensando che siamo americani.
L’ambasciatore
ha anche risposto a una domanda di un giornalista haitiano su una questione poco
nota: una percentuale (intorno al 3%) dei soldi raccolti negli USA viene
incamerata come contributo direttamente dall’esercito americano anziché
venire usata per l’acquisto di ulteriori beni per gli haitiani e a questo Mr.
Merten ha affermato che per ora gli Stati Uniti hanno stanziato ufficialmente
537 milioni di dollari e che quindi si giustifica un piccolo prelievo sulla
raccolta fondi. E’ vero che ogni paese gestisce le proprie missioni umanitarie
in modi differenti però possiamo dire che i cittadini americani che hanno
donato per Haiti lo stanno effettivamente facendo col 97% del loro denaro e con
il restante 3% stanno anche pagando la missione dell’esercito, cosa che forse
non era chiarissima e che può assimilarsi a una tassa nascosta. E’ stato
anche annunciato un relativo allentamento delle norme migratorie riguardanti gli
haitiani che si trovavano negli USA prima del 12 gennaio e che potranno rimanere
legalmente nel paese per altri 18 mesi.
Il
12 gennaio tutto il paese si ferma per ricordare le vittime del terremoto a un
mese dalla catastrofe. Si pregherà dalle 7 del mattino alla sera tardi. Sarà
un giorno di calma e di riflessione per cercare di intravedere la speranza, gli
aiuti, la ricostruzione e il futuro.
Continuo
a segnalare QUESTO LINK .
per le donazioni dato che sto lavorando con loro qui a Port au Prince e stanno
cercando in varti modi di aiutare la popolazione del quartiere esclusa dalla
solidarietà internazionale ufficiale.
A
questo link invece c’è un album fotografico sulla capitale haitiana che spero
possa interessarvi e da cui si può attingere citando la fonte (!):
Video associabile al post: http://www.youtube.com/watch?v=voEzs4vKWfU&feature=player_embedded
Port au Prince e Haiti tremano ancora. Dopo due notti di scosse ondulatorie intorno ai 5 gradi della scala Richter abbiamo saggiamente deciso di spostare le nostre tende dal primo piano della casa alla zona giardino-parcheggio. La rivisitazione del piano “notti sicure”, che prima prevedeva solamente un generale e indefinito stato di allerta mentale e l’opzione di dormire in tenda sul balcone dell’ufficio dell’Aumohd (Association des Unité Motivé pour une Haiti des Droits), implica ora un ripensamento della strategia generale. Verso mezzanotte la prima scossa che ci ha svegliato non era eccessivamente minacciosa ma qualche ora dopo la seconda ci ha fatto letteralmente sobbalzare e imprecare.
La tenda era chiusa e la cerniera introvabile, il pavimento scivolava sotto i piedi da destra e sinistra come un tapis roulant e quando sono riuscito a uccidere il dormiveglia, ad alzarmi, ad orientarmi e a uscire era ormai tutto finito, i cani abbaiavano mentre amici e vicini erano già in piedi per la strada e nei cortili. Niente di grave, solo pochi secondi, ma questa volta non posponiamo più la decisione di traslocare giù in giardino per cercare di riprendere un sonno turbato però lì almeno non ci può crollare niente in testa. Sarà la nostra nuova stanza per quest’ultima settimana, è finita l’epoca del coraggio. Mentre facciamo i bagagli un’altra bottarella di terremoto preceduta da un tuono grave e fragoroso ci riconferma la bontà della nostra scelta e ci mette addosso una leggerissima fretta.
La più grande catastrofe della storia moderna. Bilancio provvisorio dei danni del terremoto del 12 gennaio 2010, del 7,3 grado della scala Richter, su Port au Prince, capitale d’Haiti e città limitrofe, al 22 febbraio 2010 secondo la protezione civile haitiana: valutazione danni in 14 miliardi di dollari USA, morti accertati (ma molti sono ancora sotto le macerie, 222 500, il 90% dei quali nella zona cittadina; 310 928 feriti; 559 dispersi; 1 milione e mezzo di persone colpite; 1 milione duecentotrentasettemila senza tetto; 509 202 sfollati; 105 369 case distrutte; 208 164 abitazioni danneggiate. Non si segnalano ancora pericoli epidemiologici nel paese anche se una trentina di ospedali della capitale non sono operativi e la stagione delle piogge è una minaccia per le precarie tendopoli installate un po’ dappertutto a Porto Principe e dintorni. Cuba è il paese che ha fornito più medici: sono oltre 1700 i dottori presenti ad Haiti, 1300 arrivati dopo il sisma. Si segnala anche la scarsità di latrine e servizi igienici nei campi di accoglienza degli sfollati dato che è ancora lontano l’obiettivo di avere una latrina ogni 20 abitanti.
Ronda di visite di capi di Stato. Intanto il presidente haitiano Renè Preval si trova in Messico per assistere ai meeting della OSA (Organizzazione Stati Americani) e per incontrarsi col presidente messicano Calderon. Si avvicina la data del 31 marzo in cui l’ONU discuetrà i piani per la ricostruzione del paese mentre l’Unione Europea annuncia un “piano Marshall” per Haiti, secondo le parole del ministro degli esteri dell’Unione, Catherine Ashton che visiterà l’isola la settimana prossima. Per ora il totale degli aiuti europei ammonta a 609 milioni di euro di cui 309 di aiuti umanitari e 300 per la ricostruzione.
Dopo Nicolas Sarkozy, presidente della Francia, anche Michelle Bachelet, sua omologa cilena, è venuta in visita ad Haiti ma senza offrire milioni come Sarkozy. Ha sfoderato più che altro discorsi di solidarietà e promesse di aiuti futuri per la fase di ricostruzione, frasi diplomatiche di cortesia e di elogio al coraggio del popolo haitiano che resiste. Anche a lei Preval ha chiesto più tende mentre al summit dei leader latino americani ha chiesto più investimenti per la riattivazione dell’industria in loco e la riduzione della dipendenza economica dagli aiuti esteri. Ha anche sottolineato come lo sviluppo futuro del paese non dovrà più centrarsi sulla capitale dove vive oltre il 20% della popolazione totale quanto sul decentramento.
Non mi stanco di segnalarvi un blog utile per le donazioni per Haiti e per l’Aumohd, dove stiamo lavorando come volontari: http://prohaiti2010.blogspot.com/
Ah
scusatemi, tra l'altro i giornali come repubblica e corriere stan facendo una
confusione grande, pare....l'epicentro di questo terremoto di questa sera, notte
tra lunedi' e martedi' e' stato a 35 km a sud ovest di port au prince e del 4,7
grado scala richter, non del settimo come dicono. E' durato circa 2 secondi. Ce
n'e' stato un altro analogo anche nella notte tra domenica e lunedi'.
ANSA e i giornali locali riportano 4,7 gradi, non 7 !!
http://www.ansa.it/ansalatina/notizie/notiziari/amcentr/20100223114435033340.html
Le proporzioni del disastroSebbene la gente in qualche modo fosse già abituata alle periodiche catastrofi naturali che la colpivano a queste latitudini caraibiche, non ci si aspettava proprio quel minuto di scosse tremende, ondulatorie, pervicaci e fatali che hanno provocato 230mila vittime, un milione e duecentomila sfollati, danni economici stimati in 14 miliardi di dollari oltre alle decine di migliaia di sepolti vivi che non verranno mai trovati e di cui spesso ci si dimentica. Una città vivissima e simile a un immenso formicaio ma ancora piena di fantasmi è quella che ci accoglie i primi giorni con la luce del sole che nel pomeriggio scalda l’aria oltre i 35 gradi. Le strade della zona si chiamano Delmas, sono contraddistinte solamente da un numero progressivo dispari per le vie che escono verso sud, e pari per quelle a nord, e tutte portano alla principale, anch’essa chiamata Delmas, ma senza numeri. E’ la via maestra che dopo 5 chilometri di discesa verso il mare sfocia nel centro di Porto Principe. La Banca Interamericana per lo Sviluppo ha recentemente pubblicato le prime stime economiche sulle dimensioni della catastrofe, indicata come la più grande della storia in relazione alla popolazione haitiana di 10 milioni di abitanti. Si parla di 14 miliardi di dollari per la ricostruzione e una previsione del futuro dalle evidenti tinte catastrofiste, di quelle che piacciono tanto agli economisti econometristi ortodossi e statisticamente ferrati, che condanna il paese a rincorrere il suo passato per decenni e decenni dato che recupererà il suo prodotto interno lordo previo al terremoto solo nel 2040. Per ora meglio restare coi piedi e le cifre e per terra, abbandonare il disfattismo della vulgata economica imperante e tornare a Delmas.
Bombardamenti della terra
L’esplorazione parte da qui, dalla 49 in su e in giù, evitando mattoni,
colonne, sbarre di metallo, immensi buchi nell’asfalto e occhi disperati e
imploranti di gente disposta a lavorare, aiutarci, chiedere e sapere che non
siamo lì per salvare nessuno, che cerchiamo di salvarci noi dal rumore e
dall’ansia dell’impotenza materiale di vincere la mala sorte, il
sottosviluppo e la povertà che hanno congiurato per distruggere tutto e
sottomettere un popolo già prostrato da uragani, corruzione e disuguaglianze
sociali. Alcuni scorci dei palazzi crollati e le sensazioni mi riportano ai
racconti, alle vecchie foto e alle letture dell’epoca postbellica nella
Milano e nella Roma straziate dai bombardamenti e dalla fame. La seconda
immagine è quella delle città irachene, afgane e palestinesi che sin da
piccoli siamo stati abituati a conoscere passivamente in televisione,
incappando nella loro disperazione durante i routinari e distratti zapping tra
i Jeffersons, il Pranzo è servito e la ruota della fortuna. Villaggi e case
sempre uguali, sempre grigi, polverosi di macerie e deserto, sempre torturati,
occupati e sorvolati da elicotteri stranieri e gruppi ribelli non
identificati. Sarà retorico o scontato ma sono le prime impressioni, quelle
che non si scordano. Le mura del cimitero del quartiere Delmas sono crollate
completamente in modo tale che dalla strada, passeggiando, si scorgono le
tombe di marmo, spuntano imperiose le croci di ferro, si notano i fiori e i
paramenti colorati in quell’angolo surreale dell’altro mondo, in quel
pezzo sfortunato dell’isola de La Hispaniola, dove i morti sembrano aprire
le porte di casa per accogliere tanti fratelli sofferenti tra le macerie o
agonizzanti negli ospedali da campo per offrire loro un soffio di pace eterna.
Nottate in bianco e nero
I cani randagi e i galli domestici cominciano a cantare nei cortili prima
delle 5 mentre le zanzare ci accompagnano numerose nel mondo dei sogni,
tormentato dai veleni emanati a causa delle loro punture e dal calore intenso
d’afa tropicale. La doccia si fa con l’acqua di un pozzo raccolta in un
secchio gigantee deposto al centro del bagno. Un generatore di corrente a
benzina ci permette di avere l’energia elettrica per qualche ora al giorno
anche se il prezzo da pagare per ogni pieno di serbatoio è molto alto, siamo
oltre l’euro al litro di essence o gasolio, quasi come in Italia. La
moneta locale, la gourde, si cambia a 50 per un euro e 38 per un dollaro USA
tanto per la strada come nelle poche banche aperte o presso gli uffici
onnipresenti della Western Union. Sulla grande rue Delmas c’è
l’ambasciata canadese presidiata dai soldati di quella pacifica repubblica
ghiacciata che viene presa d'assalto dalla gente in attesa fuori, davanti, nei
dintorni, ovunque, per ottenere un visto e scappare via lontano in cerca di
gelo e lavoro.
Dopo un paio di giorni di ambientamento e pratica intensiva di un francese
precario, lingua sempre utile per farsi capire anche se la gente parla di
preferenza il creolo, mettiamo a frutto il lavoro di raccolta dei primi
contatti svolto prima di partire con lo scopo di poter intervistare
cooperanti, attivisti e giornalisti che conoscono bene il paese e che possono
aiutarci nella comprensione della situazione politica e sociale ad Haiti e
nelle fasi di orientamento nella selva delle procedure per l’ottenimento dei
famosi aiuti internazionali. Un progetto di cucina comunitaria e uno di
riabilitazione di una piccola clinica di quartiere sono quelli che l’Aumohd
ha in mente di realizzare. Riusciamo nel nostro intento e prendiamo due
piccioni con una fava. Due incontri in due ore che ci fanno conoscere una
realtà sconosciuta ai più.
Lusso nella polvere
Il giornalista del Corriere con cui chiacchieriamo nel giardino del lussuoso
Hotel Plaza conosce bene la situazione e la storia recente di Haiti e
intervista Evel Fanfan con veemenza alla ricerca di qualcosa che spesso non
c’è, la notizia. Una storia che dovrebbe e potrebbe coincidere
semplicemente con la realtà, o meglio le rifrazioni e i riflessi di essa, ma
che spesso deve diventare qualcosa di più, deve rasentare i confini del morbo
scandalistico o dell’ordinaria verità politicamente corretta per poter
essere raccontata all’estero, in Italia per esempio, sui media mainstream.
Nell’hotel l’ambiente è surreale, estremamente rilassato e tipico dei
non-luoghi alla Marc Augé, cioè di quegli spazi della postmodernità che
sono identici ovunque nel mondo, come ad esempio gli aeroporti o certe note
catene globali di supermercati e fast food. Schiere di giornalisti provenienti
da ogni angolo della terra si scambiano opinioni, guardano partite di
football, navigano su Internet a velocità da sogno e possono scegliere tra
varie marche di birra al bancone del bar mentre a cento metri in linea
d’aria dalla reception s’intravvede il più grande accampamento di
sfollati della città con migliaia di polverosi tendoni di plastica in
successione che invadono piazze, strade e panorami. Siamo a pochi passi dal
Palazzo nazionale, l’edificio sede del potere esecutivo distrutto dal sisma,
simbolo di uno Stato inesistente, corrotto e debole prima e dopo che la terra
tremasse per un minuto il 12 gennaio scorso.
Uno Stato che attende gli aiuti e governa da una tenda allestita dagli oltre
ventimila americani sbarcati in terra haitiana per evitare “problemi di
sicurezza” e garantire il flusso di aiuti in natura che stanno intasando i
magazzini e spesso giacciono abbandonati nei loro anfratti. L’intervista
serve anche a noi per comprendere meglio il dibattito politico haitiano e la
collocazione dell’attuale presidente Renè Preval di fronte all’opinione
pubblica locale ed estera: dopo la cacciata del popolare presidente Jean
Bertrand Aristide nel 2004, oggi in esilio in Sud Africa, in seguito a un
periodo di rivolte, violenza politica e instabilità economica con
un’opposizione che boicottò le elezioni del 2001 e denunciò frodi
elettorali, Preval è stato visto come il suo successore naturale dato che
faceva parte del suo movimento ed era già stato presidente negli anni
novanta. Dal 2004 al 2006 dopo le dimissioni forzate di Aristide, il giudice
della Corte costituzionale gradito agli USA, Boniface Alexandre, ascende alla
presidenza per due anni caratterizzati da un alto livello di repressione
politica e sociale, dopo i quali Preval sembra un’alternativa accettabile
per il popolo haitiano che s’illude di trovare un nuovo “Aristide ma senza
Aristide”. Di nuovo le poche famiglie dell’elite nazionale alleate con gli
interessi stranieri, soprattutto americani, riescono a determinare i processi
politici nazionali in funzione dei loro interessi e a far sì che il movimento
e la popolarità dell’ex prete Aristide vengano neutralizzati da uno dei
suoi ex alleati che garantisce loro maggiore sicurezza e stabilità rispetto
al suo “radicale” predecessore.Il
secondo incontro di questa dinamica serata è invece con alcuni rappresentanti
italiani della rete di ONG riunite sotto il nome di AGIRE che in Italia hanno
raccolto in pochi giorni oltre 10 milioni di euro solo con gli SMS per
finanziare le loro attività umanitarie qui ad Haiti. Anche da queste parti
non se la passano male. Non siamo in centro ma poco importa, siamo comunque in
altro mondo, fuori dal mondo. Evel Fanfan entra insieme a noi, questa volta in
veste di traduttori e “mediatori culturali”, in un altro hotel dorato, il
Palm Inn, una specie di grosso residence con piscina, camere e appartamentini
ben decorati, puliti, con uno stile impeccabile e tutti i servizi, insomma
un’oasi di tranquillità nel bel mezzo della sabbia e le rovine di Delmas
31, una via non asfaltata e non percorribile senza una jeep o un pick-up.
Anche qui il ricordo catodico di Bagdad mi abbaglia ripetutamente, ma quel
flash mi abbandonerà presto per lasciare posto alla visione concreta di un
albergo del tipo “luna di miele a Cancun, Mexico”. Spieghiamo ai
cooperanti i nostri progetti per capire che margini ci sono per ricevere degli
aiuti direttamente da loro oppure da altre organizzazioni della rete, ma
chiaramente non è così facile. Non è che avessimo grandi aspettative ma,
nonostante la gentilezza e cortesia dimostrata dai nostri contatti del Palm
Inn, c’è un po’ di delusione nel constatare come sia difficile collegare
alcuni gruppi locali presenti sul territorio qui a PAP (Port au Prince come la
chiamano qui con affetto) con le grosse realtà italiane del volontariato e
del settore non profit. Comunque siamo solo all’inizio e ogni organizzazione
ha le sue politiche. In questo caso i nostri non si occupano della zona in cui
ci troviamo noi e quindi non se ne fa niente. Ci vengono dati alcuni utili
consigli su come partecipare nei campi allestiti dalle Nazioni Unite alle
riunioni, dette cluster, dove ci si iscrive per ottenere i materiali e beni
come cibo, medicine e della solidarietà internazionale. Ci vengono dati
inoltre degli indirizzi per trovare il centro di distribuzione degli aiuti
italiani che si trova a Tabarre, vicino all’aeroporto. Ma senza nomi e
contatti precisi è dura da quelle parti, dicono. Non è un gran bottino.
La donazione coraggiosa
Rinnovo l’invito a donare qualcosa per le attività dell’Aumohd qui a
Porto Principe. Sento di poter garantire senza esitazioni circa la loro onestà
e integrità nell’uso delle risorse raccolte: http://prohaiti2010.blogspot.com/
. Ringrazio chi ha già contribuito e chi deciderà di farlo saltando i canali
tradizionali per aiutare direttamente questo gruppo presente in loco.
Alla prossima puntata…da http://www.carmillaonline.com
Foto da Haiti: http://picasaweb.google.com/FabrizioLorussoMex/HaitiCanale Video Da Porto Principe YOUTUBE: http://www.youtube.com/user/FabrizioLorussoMex#p/a/u/0/_yFH73PqTS4
Fabrizio
Ciao a tutti,
mandero' dei post riproducibili, delle brevi di commento a dei video di 3-4
minuti con immagini di Port au prince, soprattutto della parte piu' danneggiata
che e' il centro. Questo e' il primo. Si trova qui:
http://lamericalatina.net/2010/02/14/video-port-au-prince-haiti-1-distruzione-dello-stato-centro-citta/
Vi ringrazio per l'attenzione e la diffusione!
Fabrizio
http://lamericalatina.net/2010/02/16/video-port-au-prince-haiti-2/
Quelli dell’ONU non sono i buoni
In città i caschi sono un optional buono per gli eleganti, i timorosi e i
membri delle forze armate dell’ONU (la minacciosa polizia dal casco blu
della Minustah, la United Nations Stabilization Mission in Haiti) quindi
scegliamo un’armatura minimalista con cappellini, occhiali da sole e
bandane. Dal 2004 le Nazioni Unite sono presenti ad Haiti con questa missione
comandata dal Brasile che agglomera nei suoi ranghi truppe di tanti paesi
lontani ed esotici come il Nepal e lo Sri Lanka, gente che dei Caraibi non sa
nulla e nemmeno capisce la lingua locale, ma forse si cerca proprio questo
nelle missioni internazionali per poter avere degli esecutori fedeli e
disinteressati al momento di prendere decisioni controverse o repressive. In
alcuni casi la Minustah ha svolto dei compiti di protezione della popolazione
vessata dalla polizia e dai paramilitari haitiani, ma è altresì tristemente
famosa per le terribili violazioni ai diritti umani perpetrate ai danni della
popolazione di Citè Soleil, uno dei quartieri più poveri della capitale dove
l’ex presidente Aristide, sequestrato dalla CIA e deportato nella Repubblica
Centroafricana il 29 febbraio 2004, è ancora oggi molto popolare. Infatti nel
2006 l’allora neo presidente della Repubblica Renè Preval, successore di
Boniface Alexandre, il giudice costituzionale gradito agli americani che fu
presidente ad interim (2004-2006) dopo la deportazione di Aristide in Africa,
diede esplicitamente il permesso ai militari delle nazioni unite di svolgere
compiti repressivi e d’intelligenza nei quartieri poveri contro delle
presunte bande di delinquenti. Una parte di queste “bande” veniva in realtà
identificata con dei gruppi di cittadini auto organizzati legati all’ex
presidente esiliato e, sebbene fosse innegabile anche la presenza di gruppi
non politici di criminali “veri” o presunti, i metodi repressivi
utilizzati dalla Minustah, consistenti in bombardamenti con cannoni e
sfondamenti con carri armati come in vere e proprie operazioni di guerra,
fecero numerose vittime innocenti e furono palesemente sproporzionati e
crudeli. In generale per la maggior parte degli haitiani si tratta di una
forza esterna ed inutile, una polizia che viene ad aggiungersi alla corrotta
autorità locale e all’endemica presenza degli eserciti stranieri,
soprattutto l’americano e il canadese. Il tutto in un paese poco propenso
alla violenza.
Disagio infrastrutturale
Quindi oggi niente casco, tra l’altro non ce l’abbiamo neanche. Tornando
alle strade della città terremotata, lo stile di guida dell’abitante di
Porto Principe si basa per metà sull’uso criminoso del clacson per passare
sempre e comunque e per metà sulle accelerazioni spericolate e i sorpassi
indiscriminati anche, perché no, sul marciapiede. L’infrastruttura stradale
è precaria, come le vite degli sfollati nelle tende, come le decine di case
puntellate da sbarre di metallo e pronte a cadere non appena vi sarà una
replica del sisma del 12 gennaio. E alcune continuano a crollare davvero,
hanno fatto il loro ultimo sforzo prima di franare del tutto e portarsi via
gli ultimi ricordi di chi ci viveva. Nei viali più trafficati i semafori sono
stati sistemati su dei cavi barcollanti e su degli alti piloni solamente un
paio d’anni or sono e appaiono come degli spaventapasseri inermi di fronte
alla massa veicolare urbana in movimento che non li prende troppo sul serio.
A mio avviso la grande urbe azteca, la Città del Messico da 25 milioni di
abitanti e oltre 5 milioni di veicoli, è quasi tranquilla e ordinata in
confronto. Certo anche lì bisogna schivare buche enormi e taxi arrabbiati ma
l’impressione è che Porto Principe raggiunga comunque impensabili livelli
di anarchia circolatoria. La Rue Delmas sfocia in una rotonda squallida e
caotica al centro della quale è stata posizionata una statua grigia di una
donna che chiede pietà con le mani al cielo e che forse nelle intenzioni del
pianificatore urbano doveva essere un monumento storico, ma i fumi dei camion
e i fischi incessanti di alcuni elementi della polizia stradale, impettiti e
affumicati d’astio nella loro divisa ocra e cinerina, creano intorno a
quella un ambiente ostile e infecondo che ne azzera la funzione simbolica e
celebrativa.
Che fare?
Sono molti i pali della luce e dei semafori che pendono pericolosamente verso
il centro della strada con quell’inclinazione pisana che in questo caso non
promette nulla di buono ma ricorda a tou moun (tutti, tout le monde, in
creolo) che la ricostruzione deve cominciare al più presto e come annuncia
ogni sera in TV il presidente “dobbiamo rifondare la nazione,
decentralizzare, uscire dalla capitale, ottenere più tende e aiuti ma anche
che le imprese straniere vengano a produrre qui per riattivare
l’economia”.
Non è così facile per milioni di persone che hanno perso casa e lavoro ma
alcuni progetti di cooperazione stanno lavorando in questo senso: per esempio
l’organizzazione non-profit statunitense Hurah-Inc, partner di Aumohd
Haiti, gruppo di avvocati per i diritti umani con cui sto lavorando qui a
Port au Prince, oltre a promuovere una raccolta fondi alternativa e sicura
rispetto ai canali tradizionali della multinazionali della solidarietà (LINK
QUI PER CONTRIBUIRE!!), sta implementando un progetto per creare una
cooperativa di lavoratori agricoli e dare lavoro a circa 20mila senza tetto
della capitale haitiana in campi e terreni già pronti per essere sfruttati
vicino al confine dominicano.
Non ti pago
Il dollaro haitiano è un’entità monetaria non ufficiale, anzi è solo un
modo di dire come quando in Italia usavamo il termine “scudo” per indicare
5mila lire. Equivale a 5 Gourdes, il nome della valuta in uso ad Haiti, ma lo
straniero in terra caraibica spesso non lo sa e lo scambia facilmente per il
dollaro americano oppure lo percepisce come uno scherzo linguistico –
economico mirato a confonderlo e frodarlo. Dopo un po’ però si impara come
gestire la questione dei valori e ci si arrangia dignitosamente anche con le
insolite banconote da 25 o da 250 Gds, tagli alquanto bizzarri ed esotici.
Spesso i prezzi praticati dai venditori per i bianchi sono diversi e tendenti
al rialzo ma la selva umana peggiore da attraversare nelle strade principali
sono i cambiamonete, dei rumorosi ragazzini con mazzetti di dollari in mano
pronti a farti vedere sulla calcolatrice che tirano fuori dalla tasca quanto
il loro tasso di cambio sia vantaggioso rispetto agli altri della piazza,
quest’ultima intesa letteralmente, come spazio fisico cittadino, non come
“mercato finanziario”. Le banche sono state le prime istituzioni a
riaprire i battenti dopo il terremoto ma questi cambiavalute gli fanno una
concorrenza spietata. Caricati (ma non troppo!) di moneta locale possiamo
affrontare ogni evenienza nel centro della città dove l’aria che si respira
è di sconforto e distruzione: una casa su due è crollata del tutto o in
parte mentre molte altre sono abbandonate, le strade sono polverose,
soffocanti e trafficatissime, piene di capre e maiali, spazzatura e disperati.
La motocicletta si ferma ogni 500 metri in mezzo a folle curiose, bancarelle
tutte uguali, venditori di canna da zucchero e impazienti tap tap, i piccoli
bus colorati che sfrecciano stipati di anime per le vie di Port au Prince alla
modica cifra di 5 Gds per una corsa. E’ imbarazzante perché tutti ci
parlano, ci gridano, si prendono un po’ gioco di noi, ma magari vogliono
anche aiutare e non lo capiamo ogni volta che ci fermiamo sul ciglio della
strada a spingere la poderosa imprecandole dolcemente di ripartire. Dopo un
paio d’ore di incursioni nei territori della devastazione e del disordine
optiamo per un tranquillo ritorno a casa cullati dal suono dei soliti clacson
e dalla luce pallida del tramonto.
Piano di lavoro
Per un paio di sere consecutive il maestro Evel Fanfan ha spiegato a me e a
Diego la storia dell’Aumohd e i successi ottenuti in questi anni nella
difesa delle persone incarcerate ingiustamente dalla corrotta e abusiva
autorità giudiziaria e dalla polizia di Haiti. Dopo la fondazione avvenuta
nel 2002, con il passare del tempo gli avvocati associati in questo gruppo,
attivo in molti quartieri periferici, si sono occupati sempre più di casi
gravissimi di violazioni dei diritti umani messi in atto da forze paramilitari
che hanno scosso il paese negli ultimi 5-6 anni, come conseguenza delle
macchinazioni della CIA e delle famiglie dell’establishment contrarie al
progetto nazionale dell’ex presidente Jean-Bertrand Aristide. La serie di
massacri di Grand Ravine ad opera della polizia haitiana e di gruppi, armati
dalle forze d’opposizione, rispondevano ad un chiaro obiettivo di
annichilamento politico dei seguaci di Aristide anche se venivano presentati
come lotta alla delinquenza, un ritornello che spesso sentiamo ripetere da
governanti, mezzi d’informazione e gente poco informata un po’ in tutti i
paesi. Allo stesso modo le cosiddette rivolte popolari che hanno portato alla
crisi istituzionale e alla successiva deportazione via sequestro dell’ex
mandatario haitiano sono cominciate dalla frontiera con la Repubblica
Dominicana con il patrocinio e le armi degli agenti segreti statunitensi. L’Aumohd
è riuscita a far condannare e incarcerare 15 poliziotti implicati in quei
fatti di sangue a costo della sicurezza di alcuni dei suoi membri. E’ per
questo che ogni giorno vediamo entrare un losco figuro negli uffici qui a
Delmas 49, si tratta di un poliziotto sornione e depistato che è la scorta
assegnata dallo stato haitiano a Evel per garantire la sua incolumità. Non si
fa vivo quasi mai il tutore della legge, ma ufficialmente esiste, insomma c’è,
e quando si presenta gli si dà anche un piatto di riso e fagioli per
ricordarglielo.
La clinica da ricostruire a un mese dal terremoto
Nuovo giorno e mondo nuovo. Oggi si spala a dovere. Evel organizza un gruppo
di abitanti del quartiere per ripulire un’area di 30 metri quadrati occupata
dalle macerie di un paio di case crollate. Tutta la zona è in realtà una
maceria in movimento, col suo grigiume di polveri e mattoni ma anche con tutta
la sua gente pronta ad ascoltare, a organizzarsi e a lavorare se si riesce a
intravedere una buona idea. Questo pomeriggio Evel ne regala una agli abitanti
di Delmas 40 che si riuniscono e decidono di seguire la sua visione:
riabilitare uno spazio che si sta lentamente trasformando in una fogna a cielo
aperto dove pascolano un paio di suini in un centro d’assistenza medica
provvisorio ma efficace. Infatti il personale medico (sono tutte dottoresse)
di una delle cliniche del quartiere distrutte dal sisma del mese scorso è
disposto a riprendere le attività anche gratuitamente se vengono dati loro
gli strumenti necessari per il lavoro, gli spazi, le medicine e gli aiuti
logistici del caso. Quindi da una parte stiamo lottando per ottenere degli
aiuti materiali dalle agenzie internazionali, obiettivo difficile che ancora
oggi lascia in stand by tutto il progetto, dall’altra servono braccia per
creare lo spazio. I vicini di casa, le donne, i bambini e anche alcuni
passanti si uniscono al nostro sforzo per ripulire la strada e lo spazio
destinato alla clinica che verrà poi coperta da teloni di plastica che
abbiamo già provveduto a reperire. Mentre iniziamo a lavorare con le pale,
con le mani e le carriole alcuni rasta in bicicletta ci salutano calorosamente
e altri personaggi del quartiere all’apparenza minacciosi ci ringraziano in
un inglese maccheronico, in francese o in creolo a seconda dei casi. Alcuni
non muovono un dito, si avvicinano, salutando e ringraziando anche loro come
fossimo io e Diego gli unici responsabili e dirigenti di quell’opera
collettiva e dinamica nata quasi spontaneamente dopo un discorso infervorato
del nostro amico Evel. Presto ci accorgiamo che vogliono solo chiedere se per
caso ci sarà lavoro dopo la riattivazione della clinica e offrono i loro
servizi per il prossimo futuro senza fare nulla nel presente. Non apprezziamo
molto e continuiamo a lavorare.
Piano piano verso la una del pomeriggio raggiungiamo la clamorosa cifra di
venti persone coinvolte nello sgombero, tutti sudatissimi sotto un sole che
sferza frustate calde inverosimili mentre si attiva la solidarietà degli
osservatori compassionevoli, quelli che guardano la fatica dei più ma non
vogliono rimanere inerti e allora comprano bibite fresche ai poveri spalatori.
Un bambino raccoglie tutte le carte da gioco perse da qualche vittima tra le
rovine e riesce quasi a ricomporre un mazzo da poker completo mentre io
dispongo ordinatamente su un muretto tutti gli oggetti ben conservati che
recuperiamo per mantenere in qualche modo la memoria degli antichi padroni di
casa. Ad ogni mattone che lanciamo lontano l’impressione è che le persone
buttino via anche un pezzo della paura e del vivo ricordo del terribile
terremoto per mettere al loro posto un’opera nuova, un pezzo in più di
questa catartica creazione di esistenze e futuri che dovrà essere la
ricostruzione di Haiti.
Carissimi,
interessati e non,
vi mando per uso e consumo, diffusione o cancellazione (a voi la scelta)
l'ultimo diario da Haiti che conclude un po' questa mia esperienza in
quel paese anche se non è mai detta l'ultima e quindi presto si
potrebbe tornare, intanto aspetto vostre notizie e a presto. Può anche
costituire un reportage a parte oppure la continuazione dei precedenti,
comunque sia, spero vi piaccia.
Reportage lungo e completo in 3 parti
(non inviato a queste mail ma che potete scaricare:
http://lamericalatina.net/2010/03/09/le-guerre-dimenticate-di-haiti-prima-e-dopo-il-terremoto-13/
Foto per questo post: http://lamericalatina.net/2010/04/08/diario-da-haiti-ultimo-sopravvivenza-paura-e-rinascita/
grazie. A bientot.
Dafne è bellissima. Dafne è la profondità dell’oceano e l’oro dimenticato dei pirati, è la terra d’Africa emersa in mezzo a uno sciame di isole abbandonate da qualche Dio stanco sull’orizzonte dei Caraibi. Dafne è fisicità assordante e feconda, è l’anima viva e quieta del Pacifico nella violenza dell’Atlantico, col suo sguardo conteso e straziato da mille predoni e dalla natura. Lei è tranquillità e rassegnazione, forza e fede, povertà e dignità, ma le hanno insegnato a dipendere, a piangere, a difendere il suo pezzo di cielo contro gli altri, contro tutti gli altri suoi simili e dissimili. Ama la dignità del suo quartiere e la comunità che l’ha cresciuta, ascolta sempre la sua musica, il suo Dio, la sua lingua che si prende gioco del francese e dei francesi. Ogni sera Dafne prega cantando e scrive su un foglio bianco tutto quello che ricorda di sé stessa, nella speranza di trovare un lavoro qualunque. Dafne è Haiti, luce in mezzo alla morte.
Un giorno vorrebbe ricostruirsi una casa e scampoli di vita qui nel suo paese che adesso è una prigione calda e umida, amata e temuta, dalla quale è impossibile uscire, anche volendo, anche provando. Molti suoi compagni d’infanzia, amici e conoscenti non sono più vivi, mentre a lei e ad altri milioni è venuta meno l’esistenza come cittadini: la loro identità dinnanzi allo Stato è stata cancellata dalla madre terra devastante. I documenti di tutti sono spariti, le identità pubbliche e i passaporti giacciono sotto cumuli di macerie o svolazzano in qualche discarica. La vicina Repubblica Dominicana, gli Stati Uniti, il Messico e l’Europa chiedono visti d’ingresso difficilissimi da ottenere per la maggior parte della popolazione haitiana.
Dafne ha anche un figlio di quattro anni di nome Jean Paul e spera che il suo destino non sia quello di diventare un mansueto schiavo moderno di qualche multinazionale canadese o americana. Intanto sarebbe già un privilegio se tra un paio d’anni ci fosse la possibilità di mandarlo a scuola, almeno alle elementari, dato che l’educazione è un bene caro e preziosissimo ad Haiti, un paese che vanta un sistema scolastico in cui lo Stato s’è dichiarato sconfitto abdicando alle sue funzioni di base e che è da decenni dominato dalle istituzioni religiose e dai piccoli imprenditori dell’istruzione: questi lo hanno reso altamente escludente e tra i più “privatizzati” del mondo. Alla stessa Dafne mancano un paio di quadrimestri per concludere le superiori visto che tra doveri familiari, come per esempio prendersi cura di un figlio trascurato dal padre biologico, costi proibitivi, uragani, terremoti ed emergenze varie la continuità negli studi non è proprio a portata di mano per lei.
A pochi giorni dal terremoto su Porto au Prince,
quando Jean Paul seguiva sua madre tenendola per mano mentre lei si
lanciava alla conquista di uno spazio vitale per piazzare la tenda in
mezzo al prato dell’ex campo da golf dell’esclusivo Petion Ville
Country Club, si vedevano ancora gli aiuti umanitari che venivano
gettati dall’alto, dagli elicotteri verdi degli americani che erano
fonte di aspettative e preoccupazioni. Sopravvivenza e viveri in cambio
di una nuova occupazione militare? Il ricordo dell’invasione dei
marines e delle vittime innocenti del 2004, in seguito al sequestro e
alla deportazione nella Repubblica Sudafricana del presidente Aristide
realizzata dalla CIA, è ancora fresco ad Haiti e sono numerosi i gruppi
che periodicamente manifestano in favore del ritorno di Aristide in
patria di fronte alle ambasciate dei paesi che furono più o meno
direttamente coinvolti nella destabilizzazione del suo governo come
appunto gli USA, la Francia e il Canada.
Dal terremoto son passate alcune settimane ma anche stasera per Dafne e
famiglia l’unica alternativa è dormire sotto un telone di plastica
blu con altre dieci persone, alcuni sconosciuti e altri amici
d’infanzia e parenti, giovani e vecchi, uomini e donne, tutti insieme
in una nuova cellula asfissiante della tendopoli che non ha smesso mai
di crescere e che ora alberga più di 60mila persone.
Cantare e pregare sono pratiche indissolubili ad Haiti e in questi giorni sono forse l’unico palliativo e sfogo collettivi per tutta la sofferenza interiore accumulata dalla gente. Il lutto nazionale del 12 febbraio scorso, decretato dal presidente Preval, s’è di fatto prolungato per tutto il fine settimana successivo con manifestazioni ufficiali e religiose – spesso non si distinguono le une dalle altre – nella spianata centrale di Champs de Mars. Ogni mattina dalle sei in avanti migliaia di haitiani, le donne vestite di bianco e gli uomini coi pantaloni neri e la camicia bianca, si riuniscono nei luoghi di culto e per le strade per partecipare alle messe e ricordare le vittime. Le cerimonie durano alcune ore in un alternanza di lunghe prediche in memoriam e di preghiere spesso accompagnate da chitarre, organi e cori. Il rito cattolico non è l’unico, anzi, sembra molto più diffuso quello battista con alcune reminiscenze del voodoo che è più coinvolgente e prevede ore ed ore di canti e balli frenetici ed estenuanti al ritmo dei tamburi coi credenti che entrano in uno stato di estasi o trance collettivo. Il pianto dei tamburi viene interrotto solamente dal frastuono degli elicotteri stranieri che sorvolano continuamente i cieli della capitale e riportano i suoi abitanti alla realtà quotidiana fatta di espedienti, inquietudini e speranze cantate a squarciagola verso il sole caraibico.
Dopo la catarsi nazionale del week-end di lutto a metà febbraio sembra cominciare una fase di rinascita in città, alcune scuole riaprono, si riaccendono i generatori d’elettricità in alcuni ristoranti e nei piccoli negozi, i ritmi di banche, trasporti e supermercati si normalizzano in qualche modo e le strade principali assumono un aspetto più umano dato che le macerie vengono sgomberate e gli edifici pericolanti sono finalmente protetti da balaustre o nascosti completamente da impalcature e pareti di lamiera. Le notizie sui fondi stanziati dalla comunità internazionale per la ricostruzione e le promesse di rinascita lanciate da preti predicatori e politici messianici puntano a stimolare l’ottimismo laddove la realtà tenderebbe ancora a frenarlo, ma si sa che le idee positive e le ferme convinzioni aiutano a vivere e a creare, dunque speriamo insieme ai nostri anfitrioni.
In TV hanno passato la notizia della visita lampo del presidente francese Sarkozy il quale ha promesso aiuti e solidarietà, ma non ha voluto parlare del risarcimento che la Francia dovrebbe pagare ad Haiti per restituirle il debito storico che il paese caraibico dovette versare per 144 anni alla potenza europea in cambio della sua indipendenza, ottenuta con una vittoria militare ma non riconosciuta dalla ex madre patria nel 1804. Gli Stati Uniti schiavisti e in espansione ci misero invece 60 anni per riconoscere ufficialmente la prima repubblica libera e indipendente dell’America Latina che s’era emancipata abolendo la schiavitù, pratica comune e legale in molti stati del nascente colosso del nord, ed era composta al 99% da popolazione discendente da africani.
Ma torniamo all’attualità. E’ la prima volta nella storia che un presidente francese viene in visita nel paese caraibico e purtroppo l’impressione è che si sia trattato di un tour panoramico farcito con una retorica dai toni post coloniali durante il quale un mandatario europeo preoccupato di non perdere il poco d’influenza che gli resta nella regione non risparmia battute irrispettose quando ringrazia il popolo haitiano, parte del mondo francofono ma orgoglioso anche della propria lingua nazionale detta creolo, per aver permesso alla lingua francese di diventare la seconda per importanza alle Nazioni Unite dopo l’inglese. Non credo che i feriti che Sarkozy ha visto per 5 minuti all’ospedale militare si siano veramente commossi in seguito a queste sue toccanti dichiarazioni.
In una conferenza stampa l’ambasciatore americano a Porto Principe, Kenneth H. Merten, ha dichiarato che le tende non rappresentano l’unica priorità e che è meglio pensare già da ora a soluzioni più stabili come per esempio i prefabbricati di legno e plastica che sono più resistenti. Inoltre – sintetizzo le sue parole – l’idea è quella di evitare che la gente si abitui alle tendopoli che potrebbero trasformarsi in città permanenti che ostacolerebbero l’opera di ricostruzione generale e i piani di ricollocamento della popolazione in zone più sicure. L’idea un po’ cinica espressa dall’ambasciatore USA ha una sua logica però nel frattempo la gente se la deve cavare con quello che c’è o con i teloni di plastica che in città sono diventati carissimi e ricercatissimi, tanto che alcune persone che ci hanno visto per la strada ci hanno chiesto di procuraglieli pensando che fossimo due americani. Il grave problema della ricostruzione fisica delle abitazioni e delle infrastrutture è legato a quello del lavoro e delle attività economiche, un miraggio lontano già prima del terremoto visto che un milione di haitiani residenti all’estero fa girare l’economia più di quanto lo facciano le imprese locali, il turismo o gli investimenti stranieri.
Il settore agricolo fuori dalla capitale ha tenuto ma non costitutiva comunque un gran traino per l’economia già prima della catastrofe e ora è minacciato dalla massiccia quantità di derrate alimentari e prodotti agricoli che stanno invadendo il mercato e cannibalizzando quelli locali. Per fortuna alcune Ong hanno cominciato saggiamente ad acquistare i beni destinati alla donazione umanitaria dai produttori locali anziché farli arrivare costosamente dall’estero ma ancora non basta. Un’altra maniera efficace di ricostruire ed aiutare sarebbe la previsione e realizzazione di progetti di decentramento della popolazione e dei lavoratori che da “senza tetto” e disoccupati potrebbero convertirsi in piccoli proprietari agricoli nelle regioni limitrofe e nelle zone abbandonate del paese secondo gli schemi del cooperativismo e dell’associazionismo che viene però osteggiato da molti settori dell’elite nazionale avversi a tali a forme di impresa. Proprio in questa direzione vanno gli sforzi di Hurah-Inc, una Ong statunitense che collabora con Aumohd (Association des Unité Motivé pour une Haiti des Droits), verso la costituzione di una cooperativa di lavoratori-proprietari a Galette Chambon, località situata a metà strada tra Port au Prince e il confine dominicano (LINK A DETTAGLI SUL PROGETTO).
Qui all’Aumohd vengono ogni giorno ragazze e ragazzi
come Dafne a stampare il loro curriculum sperando prima di tutto di
poterlo consegnare un giorno a qualcuno e poi di poter trovare un
impiego anche grazie ai contatti del presidente dell’associazione Evel
Fanfan. Gli unici che per ora stanno assumendo delle persone sembrano
essere le missioni militari internazionali che negli accampamenti più
grandi hanno bisogno di manodopera, traduttori e aiutanti generali per
la distribuzione degli aiuti e le relazioni con la gente che si
stabilisce lì.
Ogni mattina io e Diego diamo lezioni di spagnolo a un gruppo di ragazzi
della (ex) facoltà d’ingegneria civile dell’Università di Porto
Principe che attendono la ripresa delle lezioni e la ricostruzione di
alcune sedi della loro casa di studi seriamente danneggiata dal
terremoto del 12 gennaio scorso. Nessuno di loro ha perso la casa ma non
hanno comunque più nessuna attività che permetta loro di vivere
degnamente. Alcuni membri delle loro famiglie si sono rifugiati nelle
campagne per non costituire un peso e per cercare qualche piccolo lavoro
o almeno una sussistenza alimentare minima.
Anche la famiglia di Evel, sua moglie con i genitori e i suoi tre figli, sono tornati ad Aquin, loro città d’origine, per cercare condizioni di vita accettabili mentre Evel deve fare la spola tra la capitale e questo paesino di pescatori praticamente tutti i week end. Ci hanno ospitato per un paio di giorni nel giardino di casa e mentre camminavamo per le stradine della cittadina venivamo seguiti da orde di bambini curiosi che ci gridavano senza malizie “blanc! blanc!”, cioè “bianco! bianco!”, immolandosi spasmodicamente davanti agli obiettivi di camere e videocamere per essere immortalati e magari chiederti una monetina. A P.A.P. (abbreviazione per Port au Prince) c’è invece la variante mista inglese-francese per richiamare l’attenzione dello straniero a passeggio, “hey you, hey blanc!”. A volte è meglio non farci caso ma la maggior parte delle volte non ci riesco e mi giro per educazione e per capire se questa volta vogliono dei soldi, delle tende, il cappellino che porto o il sacchettino di uova che ho in mano.
L’ultima settimana ad Haiti scorre lentamente, è turbata dall’insonnia e da un timore latente provocati da quelle che chiamano scosse di assestamento, ma che solo assestano colpi durissimi a un fragile senso di sicurezza e normalità che noi, i compagni dell’associazione e il popolo delle tendopoli avevamo raggiunto e costruito nelle prime settimane di febbraio. A dir la verità gli stranieri e i visitatori dell’ultima ora non temono i terremoti tanto quanto chi li ha vissuti sulla propria pelle, ma ad ogni modo la relativa tregua che la terra concede tende a tranquillizzare le anime e i corpi di tutti. Dopo due notti in cui la terra oscilla e batte botte, come scriveva il poeta Dino Campana, con colpi di alcuni secondi a 5 gradi della scala Richter, abbiamo saggiamente deciso di spostare le nostre tende dal primo piano della costruzione in cui siamo ospitati da quasi un mese alla zona giardino-parcheggio. La revisione del piano “notti sicure”, che prima prevedeva solamente un generale e indefinito stato di allerta mentale e l’opzione di dormire in tenda sul balcone dell’ufficio dell’Aumohd, implica ora un ripensamento della strategia generale. Verso mezzanotte la prima scossa che ci ha svegliato non era eccessivamente minacciosa ma qualche ora dopo la seconda ci ha fatto letteralmente sobbalzare e imprecare come un branco d’indemoniati.
La tenda era chiusa e la cerniera introvabile, il pavimento scivolava sotto i piedi da destra e sinistra come un tapis roulant e quando sono riuscito a uccidere il dormiveglia, ad alzarmi, ad orientarmi e a uscire era ormai tutto finito, i cani abbaiavano mentre amici e vicini erano già in piedi per la strada e nei cortili. Niente di grave, solo pochi secondi, ma questa volta non posponiamo più la decisione di traslocare giù in giardino per cercare di riprendere il nostro sonno turbato, però lì almeno non ci può crollare niente in testa. Sarà la nostra nuova stanza per l’ultima settimana, è finita l’epoca del coraggio ignorante e trasognato. Mentre facciamo i bagagli un’altra bottarella di terremoto preceduta da un boato grave e fragoroso ci riconferma la bontà della nostra scelta e ci mette addosso una leggerissima fretta. La mattina dopo apprendiamo con sgomento che il Corriere e la Repubblica hanno pubblicato un’informazione falsa ed esagerata rispetto a quanto apprendiamo dai media haitiani e dall’ANSA: il terremoto è stato forte ma “solo” del 4,7 grado scala Richter, non del settimo come acclamato in home page dai principali quotidiani italiani con un titolone rosso sangue che non fa altro che spaventare gli apatici internauti, oltre ai nostri amici e parenti, e attirare qualche visita in più sul sito.
Sembra che le emergenze segnalate dalle autorità e dalla stampa nei primi giorni dopo il terremoto come la fame, la sete, il pericolo delle epidemie e l’insicurezza siano parzialmente rientrate verso la fine di febbraio, anche se il problema del cibo e dell’acqua potabile non possono considerarsi mai completamente risolti. Ci sono però nuove inquietudini e possibili pericoli che si fanno avanti e interessano la maggior parte della popolazione. Infatti alla mancanza di tende e alla precarietà dei rifugi temporanei e degli accampamenti allestiti in tutti gli spazi aperti della metropoli come i parchi, le piazze, i viali e i parcheggi, s’aggiunge l’avvicinarsi minaccioso della stagione delle piogge, prevista a partire da aprile, e degli uragani da luglio-agosto. Questi mesi si caratterizzano da sempre per il drammatico incremento della quantità e della forza delle precipitazioni, per il caldo asfissiante e umido e infine per l’endemico proliferare di mosche e zanzare, insetti onnipresenti e accaniti che sono spesso portatori di malattie difficili da curare come dengue e malaria. Inoltre le condizioni igieniche nei campi stanno lentamente degenerando.
Alcuni di questi ospitano decine di migliaia persone che scaricano spazzatura e residui in spazi aperti o in fiumiciattoli maleodoranti in cui sguazzano maiali e capre a volontà. Nell’ultima settimana abbiamo avuto un assaggio di quello che potrebbe succedere quotidianamente tra qualche mese se non si riescono a creare dei servizi di drenaggio dell’acqua piovana sia negli accampamenti ufficiali controllati dal governo e dai militari statunitensi sia in quelli spontanei organizzati dagli abitanti dei quartieri. Non parliamo poi delle strade prive di asfalto o cemento che sono in pratica fatte di polvere e terra battuta durante il giorno e restano imbevute di fanghiglia se solo pioviggina un po’ durante la notte. Verso le 4 del mattino un forte temporale di qualche ora ha trasformato le vie di Port au Prince in fiumi di fango e detriti costringendo tutti gli abitanti a correre ai ripari e a proteggere i pochi beni che restano loro, soprattutto le tende, i materassi, i vestiti e i teloni di plastica che di solito costituiscono l’unica protezione sopra i terreni in cui si dorme e si montano le tende. Anche qui nel parcheggio dell’Aumohd, in cui abbiamo piantato un paio di canadesi, ci siamo dovuti svegliare all’improvviso per cercare riparo dallo scrosciare della pioggia che non dava segni di cedimento e soprattutto per evitare che i computer e le stampanti venissero danneggiati.
Ancora oggi a Porto Principe mancano i servizi pubblici di base come l’acqua corrente e l’energia elettrica e quindi la gente s’arrangia sfruttando i pozzi profondi presenti in alcune case oppure andando a fare la doccia negli accampamenti ufficiali riforniti da grossi camion del governo mentre per avere energia elettrica i più fortunati dispongono di costosi generatori a benzina ma solo per alcune ore al giorno. In compenso la televisione mostra orgogliosamente schiere di tecnici specializzati della compagnia elettrica haitiana che sarebbero al lavoro giorno e notte per stabilire o ripristinare le linee danneggiate dal sisma, cosa che appare agli occhi del telespettatore come una bella fiaba per addormentarsi sereni.
Da marzo sono di nuovo a Città del Messico sistemando memoria e scritti su Haiti. Il terremoto a Concepcion, in Cile, mi ha impressionato profondamente e ha di nuovo scosso la mia coscienza dato che alcuni amici dell’Universidad Nacional Autonoma de Mexico vivono proprio in quella città e hanno perso la casa. Ciononostante non ho dimenticato la gravità estrema della situazione ad Haiti, anzi. I ricordi, le esperienze e le persone di Porto Principe mi accompagneranno sempre e comunque in Messico, in Italia e nelle pagine di articoli e diari come questo.
Di nuovo segnalo un blog utile per le donazioni per Haiti e per l’Aumohd
che è poi un invito a non dimenticare: http://prohaiti2010.blogspot.com/
La fine del diario da Haiti pretende d’essere poesia. Un delicato vaneggiamento bilingue tratto dalla serie “Poeticas mentiras” in italiano e spagnolo.
Haitiana
Sei stata rosso drammatico
luce del porto per disgrazia
principessa, ogni volta, conquistata
bersaglio della polvere e del fuoco
estraneo
vittima delle buone intenzioni
che sempre han turbato il tuo tempo
breve
e il tuo sacrificio di madre buona e
sola.
Ma se si trattasse di ferite mortali,
tutte mute
io non ti starei ringraziando
con la mia insolenza da straniero
perché hai lasciato il mio sguardo
libero
di accarezzare i tuoi occhi d’amara
vita.
Li vedo, profondi d’universo
scintille nere, stelle esiliate dal
cosmo
tremando come terra rotta
e le tue pupille d’oscurità sono
il mio mistero
timide come la schiena della luna.
Abbiamo voluto un giorno di visite
tra tombe incrinate
abbiamo sfiorato gli odori delle
anime di notte
e ci siamo seduti nella solitudine
delle macerie.
Il frastuono delle ossa e dei mattoni
ha sepolto i silenzi monchi
ha affogato il porto dei dolori
invincibili
ha sbattuto l’aria contro l’aria
ha spento il battito della voce
inquinata di grigi canti.
La memoria del mondo ha paralizzato
gli orologi
ci ha ricordato la forza e l’attesa
del bambino vagabondo
ha consolato lo strazio del padrone
con la parola dello schiavo.
Insieme abbiamo pianto l’età senza
futuro dell’orfano
e abbiamo pulito il sangue della
terra tremenda e peccatrice
che è scorso tra quelle due placche
uscite dall’inferno:
ieri, hanno sparato un tuono di
violenza sul tuo viso, haitiana mia
che continui a stare in piedi,
orgogliosa delle tue notti senza tetto.…..
Haitiana
Fuiste rojo dramèatico
luz
del puerto por desgracia
princesa del puerto, marea despojada
blanco de polvos y fuegos ajenos
víctima de las buenas intenciones
que siempre han turbado tu tiempo breve
y tu sacrificio de madre sola.
Pero si se tratara de heridas mortales, todas mudas
no estaría yo dándote las gracias
con mi osadía de extranjero
porque dejaste mi mirada libre
de acariciar tus ojos de vida amarga.
Los veo, profundos de universo
centellas negras, estrellas desterradas del cosmos
temblando como tierra rota
y tus pupilas de oscuridad son mi misterio
tímidas como la espalda de la luna.
Quisimos un día de visitas entre tumbas agrietadas
rozamos los olores de las almas en la noche
y nos sentamos en la soledad de los escombros.
El estruendo de los huesos y los ladrillos
sepultó los silencios mancos
ahogó el puerto de los dolores invencibles
estrelló el aire contra el aire
apagó el latido de la voz contaminada de cantos grises.
La memoria del mundo paralizó los relojes
nos recordó la fuerza y la espera del niño vago
consoló el asolo del amo con la palabra del esclavo.
Juntos lloramos la edad sin futuro del huérfano
y limpiamos la sangre de la tierra tremenda y pecadora
que se escurrió entre esas dos placas salidas del infierno:
ayer, dispararon un trueno de violencia en tu cara, mi haitiana
que sigues de pié, orgullosa de tus noches sin techo.
www.viaggiareliberi.it