Etiopia
Racconto di viaggio
Lucy in the Sky with diamonds
cantavano i Beatles quando gli archeologi Johanson e Gray scoprirono i resti del
più antico ominide mai ritrovato; e, poiché si trattava di una femmina,
decisero di darle il nome della canzone. Oggi lo scheletro di Lucy è esposto
nel museo nazionale di Addis Abeba, e fa impressione pensare che quel mucchietto
di ossa che non arriva al metro di altezza appartenesse ad una persona vissuta
oltre tre milioni di anni fa.
L’ambiente del museo è freddo, asettico,
mentre all’esterno la vita brulica per le strade della terza metropoli
d’Africa per dimensione, ma la prima per accoglienza e simpatia. Molti ragazzi
ci avvicinano, ci stringono la mano: “Hello! Welcome to Ethiopia” ci dicono
sorridendo, poi si allontanano senza chiedere altro che un sorriso. Alcuni
bambini si fanno avanti tentando di venderci caramelle, o accendini, ma il loro
approccio è cauto, timido, quasi avessero paura di disturbare, ben lontano dai
fastidiosi venditori di molti altri luoghi del mondo. Per il resto, la gente ci
passa intorno indifferente: uomini in giacca e cravatta, ragazze con minigonna e
cellulare calpestano i marciapiedi di terra senza voltarsi; non sembra nemmeno
di essere in Africa.
Raggiungiamo la mitica “Piazza”, il centro
pulsante della città moderna, il cui nome è rimasto immutato dagli anni ’30,
quando i colonizzatori italiani occuparono la città e costruirono questo
quartiere sulle colline. Intorno a noi è una giostra di persone, autobus,
carretti, venditori che gridano, lustrascarpe che strofinano, clacson che
suonano, un caos organizzato tipico dell’ombelico del mondo che ci stordisce
mentre noi ci guardiamo intorno, ancora spaesati ma terribilmente attratti da
questo mondo tanto lontano da noi quanto magnetico.
La cattedrale della Santissima Trinità è il
luogo di culto più importante di Addis, una chiesa enorme, interamente
affrescata con scene tratte dai vangeli (anche da quelli apocrifi), tanto da
ospitare le tombe dell’ultimo imperatore d’Africa Hailè Selassiè e della
moglie Menen Asfaw. Ma fuori c’è un funerale: uomini possenti trasportano una
bara verso il retrostante cimitero cantando cupe litanie, mentre donne austere,
elegantissime nei loro vestiti neri, cercano di consolarsi a vicenda. Molti
piangono, alcuni ci guardano storto mentre con i nostri vestiti corti e l’aria
di sufficienza cerchiamo di evitarli passando in mezzo alla folla… i miei
compagni fanno foto a ripetizione; io no, mi sembra proprio fuori luogo.
Scende la sera e qui, a 2326 m.s.l., la
temperatura precipita. Corriamo a riscaldarci in un ristorante, dove ci
preparano la njera, il tipico piatto etiope fatto con bocconcini di carne
accompagnati da salse piccantissime e stesi su di una grande pastasfoglia
preparata col tef, il cereale locale dalla consistenza molliccia e dal
sapore nauseabondo. Si mangia tutti insieme, dallo stesso piatto e usando le
mani: perciò una cameriera ci porta dell’acqua per lavarle… e gli uomini
del gruppo di colpo non sono più interessati al cibo. Mi avevano detto che in
Etiopia avrei trovato le donne più belle del mondo, e devo dire che il primo
giorno non smentisce affatto l’idea…
Ma questa è un’altra storia.
L’Africa è una terra in cammino.
Lungo la strada, peraltro asfaltata, che ci
porta verso il lago Tana, incrociamo pochissimi mezzi: autobus sgangherati,
qualche fuoristrada di altri viaggiatori, rarissimi camion. Per il resto, solo
persone. Uomini, donne, bambini che camminano a piedi nudi sull’asfalto
scottato dal sole, diretti chissà dove. Ognuno va verso il proprio destino:
donne chine sotto ceste piene di sterco seccato si dirigono ai villaggi dove
verrà usato come combustibile; giovani pastori guidano le mandrie portando il
tipico bastone a tracolla dietro la schiena; ragazzi vestiti con colorate divise
percorrono chilometri verso la scuola più vicina. E poi tantissima altra gente
che procede instancabile, sotto il sole, camminando con calma olimpica per
decine di chilometri ogni giorno in terre prive di case, di villaggi, di acqua,
nel nulla più assoluto. Chi sono? Dove vanno? Cosa devono fare? Nessuno lo sa.
Sono così tanti che, ogni volta che attraversiamo un villaggio, il nostro
autista deve suonare il clacson in continuazione per allontanarli. Molti si
voltano stancamente, con pigrizia; poi, quasi sbigottiti di vedere un’auto
lungo la strada, si spostano lentamente quel tanto che basta per farci passare,
riprendendo infine il loro cammino sonnolento. E le mandrie, quasi infinite, di
mucche, di pecore, di agnelli, che dietro ogni curva si parano davanti al nostro
cofano come se la strada fosse loro; certi, in un impeto suicida, paiono
divertirsi ad attendere che il nostro veicolo arrivi a pochi metri da loro per
buttarsi ad attraversare.
E poi ci sono i bambini. Migliaia e migliaia di
bambini che camminano, ci corrono incontro, ci salutano festosi. Ce ne sono di
piccolissimi che conducono le mandrie lungo la strada; molti non hanno più di
quattro o cinque anni. Da noi, sarebbero circondati da uno stuolo di nonni che
gli corrono dietro in continuazione, attenti che non si facciano male, che non
gli succeda niente. In questa terra, invece, camminano da soli per strada,
conducendo mandrie di scheletrici buoi da un villaggio all'altro, armati solo di
un bastone e di tanta, infinita pazienza. Anche quando ci fermiamo a fotografare
un panorama, in luoghi apparentemente disabitati, subito veniamo circondati da
bambini spuntati fuori da chissà dove, che ci sorridono, ci guardano come
fossimo marziani. Ma dove abitano? Che ci fanno qua? Domande senza risposta.
Indossano un vestito logoro, l’unico che
abbiano mai posseduto. Sono scalzi. Si lavano negli stessi fiumi dove le bestie
si abbeverano. A casa loro non c’è la corrente elettrica, mangiano quando
capita, i letti sono pagliericci stesi in terra. Eppure sembrano felici, ci
sorridono, ci tendono la mano per salutarci, ed è impossibile non stringerla,
anche se alcuni si sono appena messi le dita nel naso butterato dalla
leshmaniosi. “Hello! Where you from?” riescono anche a dire, e ti guardano
senza chiederti niente con le parole, ma divorandoti con i loro occhi sporgenti,
ed un sorriso che ti disarma, mentre le mosche gli camminano indisturbate sulla
faccia. Mi vengono in mente i figli dei miei amici, viziati, ricoperti di
giocattoli e di attenzioni, che mangiano quattro volte al giorno eppure si
lamentano sempre di questo e di quello, fanno i capricci di continuo.
Bisognerebbe portarli a vivere qui per un po’ di tempo, di sicuro
cambierebbero atteggiamento.
Ripartiamo. I bambini ci salutano mentre noi,
attraverso i finestrini delle auto, li osserviamo come i turisti in un acquario
osservano i pesci attraverso le vetrate.
In Etiopia metà della popolazione ha meno di
quindici anni. A questo punto la domanda mi viene naturale: “Ma tutti questi
bambini cosa faranno per vivere da grandi?” E Aferà, il simpatico autista
tuttofare, mi dà l’unica risposta prevedibile: “No, qui i bambini non
diventano grandi”.
Quando il Signore diede a Mosè le tavole della legge, gli ordinò di costruire una cassa per trasportarle fino a Gerusalemme. Doveva essere fatta di legno di acacia, ma rivestita d’oro; doveva avere quattro anelli, sempre d’oro, dove inserire i bastoni per trasportarla. Sopra il coperchio d’oro massiccio dovevano stare due cherubini dorati posti uno di fronte all’altro, con le ali spiegate sopra la loro testa. Lunga due cubiti e mezzo (quasi due metri), larga uno e mezzo, e alta altrettanto, veniva trasportata sopra una lettiga e ricoperta da un pesante telo di stoffa perché non poteva mai essere toccata né guardata da nessuno, pena la fulminazione istantanea.
Dove un popolo in fuga, vestito di stracci, che aveva vagabondato nel deserto per quarant’anni senza cibo abbia trovato tanto oro non è spiegato; quello che si sa è che la cassa, che sanciva il patto sacro tra Dio e il popolo ebraico, fu chiamata Arca dell’Alleanza e permetteva a Mosè di comunicare direttamente con il Creatore, che gli appariva seduto su un trono posto tra i due angeli.
L’Arca fu gelosamente custodita presso il Tempio che Salomone aveva fatto costruire a Gerusalemme, finché questo nel 587 a.C. venne distrutto dal re assiro Nabuccodonosor. I discendenti di Salomone, per proteggere l’Arca, riuscirono a trafugarla nella confusione e portarla in Etiopia, dove si trovava una grande comunità ebrea lontana da guerre e da pericoli. La reliquia fu conservata nel monastero di Tana Cherkos, uno dei moltissimi che costellano le rive del lago Tana, dove rimase per ottocento anni, fino a quando fu di nuovo spostata facendone perdere definitivamente le tracce.
E proprio qui, sulle placide acque di uno dei più grandi laghi africani, stiamo navigando alla ricerca di antichi reperti dalla storia millenaria. La peculiarità dell’Etiopia sta nel fatto che qui si fondono due afriche: una è quella della natura incontaminata, degli spazi sconfinati, dei villaggi di capanne dove la vita scorre come nei presepi. L’altra è quella degli antichi monasteri, delle chiese rupestri, dei castelli fiabeschi dove si tessevano trame da mille e una notte: re guerrieri, astute regine, intrighi di corte si succedevano nelle sale dei manieri in epoche in cui Roma era ancora una cittadina di campagna. Grandi imperi si scontravano e si alternavano: la regina di Saba, san Giorgio, il prete Gianni sono tutti personaggi la cui storia si intreccia con questi luoghi; e le testimonianze architettoniche dell’epoca sono ancora perfettamente conservate, ammirabili in tutto il loro splendore mentre riflettiamo sui misteri che le accompagnano.
E per aggiungere fascino ad altro fascino, da questo lago nasce il Nilo Azzurro, grande fiume che per 1.400 chilometri si snoda tra altipiani e gole rocciose fino a Khartoum, dove si unisce col suo fratello Nilo Bianco a portare la vita in tutto il nord-est africano che, senza di esso, sarebbe solo un arido e spopolato deserto. Restiamo in silenzio mentre al tramonto i pescatori, remando sulle loro feluche, ritornano al villaggio, mentre il loro arrivo fa scappare i fenicotteri che si sollevano in volo oscurando la tenute luce del sole che sta tramontando all’orizzonte. I pellicani accorrono con i loro enormi becchi spalancati, nella speranza di raccogliere un po’ di pesce caduto dalle ceste, e la vita appare magica, ancestrale in questo specchio d’acqua che rappresenta, in tutta la sua essenza, lo spirito di questa terra libera, che per millenni è stata testimone degli stessi riti, delle stesse pratiche, della stessa spiritualità.
Questa è Africa.
Se un etiope ti dice “Ci vediamo domani alle due”, tu devi farti trovare pronto per le otto. Qui infatti gli orologi sono regolati sul sole: segnano le dodici quando il sole sorge (per noi occidentali sarebbero le sei di mattina), e ritornano a dodici quando il sole tramonta (le sei di sera). Quindi le loro sei sono le nostre otto e, per quanto gli etiopi possano venirti incontro, quando si fissa un appuntamento è sempre meglio chiarire a quale orario ci si riferisce… Lo stesso vale per la data: in Italia oggi è il 6 gennaio 2009, ma in Etiopia è il 6 Tahesas 2001. Qui, infatti, si usa il calendario lunare che è indietro di sette anni e mezzo rispetto al nostro: ci sono dodici mesi tutti di trenta giorni, più un tredicesimo che raccoglie quei cinque o sei giorni che avanzano; e l’inizio dell’anno cade in una data per noi tristemente famosa: l’undici settembre… (coincidenze astrali?) .
Per complicare ulteriormente le cose in Etiopia, essendo ortodossi, basano le feste religiose sul calendario giuliano: quindi oggi è la vigilia di Natale, chiamato Genna. Gli etiopi sono molto religiosi, e queste ricorrenze sono sentite da tutta la popolazione, così la sera ci avviciniamo ad una chiesa per assistere alla cerimonia. I fedeli, vestiti interamente di bianco, circondano l’edificio mormorando interminabili litanie. Alcuni sono seduti per terra, prostrati verso la chiesa; molti altri seguono attraverso le finestre i riti a cui solo i monaci sono ammessi. Mi avvicino anch’io e provo a sbirciare da una vetrata, ma vengo subito allontanato bruscamente da una vecchia che mi indica il lato opposto. Nelle chiese ortodosse, infatti, vigono regole severe: le donne devono entrare dal lato meridionale, gli uomini da quello settentrionale, e non bisogna mai occupare lo spazio riservato all’altro sesso. Anche le finestre sono separate, quindi, se volete anche solo sbirciare all’interno, mettetevi dal lato giusto!
Dentro la chiesa un gruppo di monaci è intento a scandire la liturgia, che viene recitata ancora in ge’ez, la antica lingua delle scritture. Pochissimi etiopi la conoscono, e solo ad essi è concesso l’ingresso durante le cerimonie sacre. Ci dicono che i monaci continueranno a pregare per tutta la notte, stando sempre in piedi (nelle chiese ortodosse non ci sono panchine!), e infatti osserviamo che molti hanno con sé il dula, il lungo bastone di legno al quale si appoggiano nei momenti di stanchezza. Nell’altra mano portano il sitar, un piccolo strumento a percussione, simile al triangolo, che agitano ritmicamente al ritmo delle preghiere. Grazie ad alcune “conoscenze”, ci viene consentito di entrare per alcuni minuti dopo esserci tolti le scarpe (altra regola fondamentale per entrare in chiesa). Inutile dire che non passiamo inosservati: coi nostri visi pallidi e gli abiti occidentali, stridiamo fortemente sia con il luogo sia con la solennità della situazione. Tutti si voltano a guardarci, alcuni molto accigliati; restiamo solo pochi minuti, questa è una realtà a cui non apparteniamo e che non possiamo capire.
Mentre i diaconi, disposti lungo le pareti, cominciano ad applaudire ritmicamente, entrano dei sacerdoti più importanti, con vestiti colorati e ombrelli dai colori sgargianti. I sacerdoti formano due file e, guardandosi in faccia, cominciano a ballare allontanandosi ed avvicinandosi. La folla all’esterno comincia a fremere, sembra che stia per succedere qualcosa di speciale, ma la procedura sembra ripetersi all’infinito e i fedeli cominciano a guardarci di traverso…
E’ ora di tornare al nostro mondo.
- Buongiorno, signore, cosa vuole per colazione: tè o caffé?
- Caffé, grazie!
- Mi dispiace, ma non abbiamo il caffé perché manca la corrente e non possiamo macinarlo.
- Allora prenderò il tè.
- Bene. Vuole anche un succo di frutta? Abbiamo arancia o papaia.
- Ah, bene! Prendo la papaia!
- Mi dispiace, ma non abbiamo la papaia perché manca la corrente e non possiamo frullarla.
- Allora prenderò l’arancia…
Questa è una classica conversazione del mattino, con
i camerieri che cercano sempre di apparire gentili e di venirti incontro, anche quando la situazione è difficile. La mancanza di cose che noi diamo per scontate è normale in Etiopia; e, dopo esserti sobbarcato magari otto ore di auto su strade sconnesse, piene di buche, polverose all’inverosimile, ed essere arrivato a destinazione ricoperto di polvere dalla testa ai piedi, con i capelli che stanno in piedi da soli, e i bagagli diventati di un altro colore, è normale scoprire che in albergo manca l’acqua… servono pazienza e spirito di sacrificio in questo paese dove se anche ti dicono che “l’acqua torna a mezzanotte” non ci devi credere, lo fanno solo per farti contento; e, se anche dovesse tornare, sarà fredda perché di sicuro nel frattempo sarà mancata la luce e non potrai accendere il boiler; in ogni caso impari che, se dormi in doppia, è meglio andare al gabinetto per primo…
Siamo a Gondar, quarta città dell’Etiopia e capitale, per oltre duecento anni, di uno dei più grandi imperi africani. Infatti fu qui che, nel 1636, l’imperatore Fasiladas decise di costruire la nuova capitale del regno d’Etiopia, dando inizio ad un’epoca di splendore dopo alcuni secoli bui. Fece realizzare un magnifico palazzo cinto di mura, grandi chiese e un importante mercato. Poi suo figlio, il figlio di suo figlio, e i suoi discendenti fecero aggiungere ognuno un proprio castello, trasformando Gondar in una città ricchissima, dove le arti, i mercati, la politica fiorirono per oltre due secoli. Secondo storici dell’epoca, Gondar era diventata “due volte più grande di Costantinopoli”. L’impero comprendeva non soltanto l’attuale Etiopia, ma anche l’Eritrea, la Somalia e parte del Sudan. Naturalmente non mancarono gli intrighi di corte: complotti ed assassinii erano all’ordine del giorno, tanto che almeno tre imperatori morirono avvelenati.
Anche alcune donne arrivarono al trono, come l’imperatrice Mentewab, che di fatto detenne il potere durante i travgliati regni del figlio e del nipote, entrambi assassinati dai signori rivali. Le lotte fratricide, le rivalità tribali, le guerre tra i signorotti feudali alla fine indebolirono il potere centrale, fino a quando, nel 1885, l’imperatore Tewodros sposto la capitale in un luogo più protetto. Ma ancora oggi l’intero complesso di castelli, fortezze e chiese è rimasto integro e visitabile, grazie anche all’UNESCO che lo ha dichiarato patrimonio dell’umanità.
E alla sera, mentre ci facciamo luce con le torce lungo le strade piene di buche, ci prepariamo ad una nuova cena etnica, di quelle che ti bruciano lo stomaco lasciandoti un senso di stordimento; ma non importa perché anche stasera la cameriera è una di quelle che ti fanno girare la testa, e improvvisamente ti viene voglia di dimenticare tutto il resto…
Siamo su una delle principali catene montuose
africane, formatasi milioni di anni fa in seguito ad eruzioni vulcaniche; poi
l’erosione degli agenti atmosferici ha modellato la lava formando pinnacoli,
gole, altipiani e precipizi vertiginosi. Molte vette superano i 4.000 metri di
altezza, ma noi arriviamo solo fino a 3.500 con la nostra camminata lungo un
facile sentiero che ci permette di osservare dall’alto questa sconfinata
distesa di colline circondate da gole rocciose.
Ci fermiamo su una spianata per fotografare, e
un grosso avvoltoio comincia a volteggiare sulle nostre teste. Forse spera nel
crollo fisico di uno di noi… in effetti fa molto caldo, e il sole picchia
senza pietà, tanto che spesso cerchiamo un angolino all’ombra per poterci
riposare e dissetare. Tutto intorno a noi c’è una distesa affollata da
babbuini gelada, una specie endemica dell’Etiopia in cui le tipiche chiazze
rossastre usate dalle scimmie come richiamo sessuale non si trovano (come per
molti primati) sul deretano, bensì sul petto. Questi animali infatti non vivono
sugli alberi ma per la maggior parte del tempo stanno seduti per terra,
cibandosi di erba che raccolgono con le mani per poi portarsela alla bocca, come
dei bambini. Sono molto pacifici, tanto che riusciamo ad avvicinarci e a
fotografarli senza che loro si allarmino minimamente. Ce ne sono a centinaia
intorno a noi: vivono in gruppi numerosi, e in questa stagione secca si spostano
di continuo alla ricerca del poco cibo che riescono a trovare in queste lande
desolate.
Ma bisogna aspettare il tramonto per godere
appieno del panorama, quando la luce del sole si fa meno accecante e permette di
apprezzare meglio le proporzioni e la prospettiva degli altipiani sotto di noi.
Le ambe, le tipiche colline della cima piatta, proiettano le loro ombre
sulle gole sottostanti, scavate da fiumi ormai scomparsi.
Ridiscendiamo verso valle; all’uscita del
parco salutiamo le nostre guardie armate, la cui utilità non ci è ancora
chiara: non abbiamo corso il minimo pericolo, come del resto in tutto il
viaggio. Eppure all’entrata di ogni villaggio, all’ingresso di ogni
monastero, abbiamo sempre trovato guardie (o meglio, anziani rugosi e sdentati)
che ci esibivano fieri il loro mitra, con lo stesso orgoglio di un bambino che
mostra agli amichetti la sua collezione di macchinine.
“Ma da chi vi dovete difendere?” ho provato
un giorno a chiedere a una delle “guardie”, perplesso poiché per strada si
incontrano solo bambini malaticci e smagriti pastori.
“In giro ci sono molti ladri” mi risponde
il guardiano con fare solenne. “Possono rubarci i tesori del monastero”.
Sarà. Secondo me, invece, la scorta armata è
obbligatoria solo perché si paga ben salata…
“Venti milioni
di uomini, un cuore solo, una sola volontà di combattere.” Con questa frase,
il 2 ottobre 1935, Benito Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, dava il via
alla campagna di occupazione dell’Etiopia. Centomila uomini, agli ordini del
generale Emilio de Bono, partirono dalla base di Massaua per invadere
l’altopiano e raggiungere Addis Abeba. Lo scopo era duplice: primo, vendicare
la bruciante sconfitta che quarant’anni prima aveva visto gli stessi italiani
sbaragliati dalle truppe di Menelik, cosa che aveva fatto molto scalpore poiché
raramente un popolo africano era riuscito ad avere la meglio contro un invasore
europeo; secondo, creare un corridoio che collegasse via terra le colonie
dell’Eritrea e della Somalia italiana. L’imperatore Hailè Selassiè schierò
ben 300.000 soldati per contrastare il nemico, il quale però era molto meglio
equipaggiato e, soprattutto, disponeva di aerei, un mezzo che gli etiopi non
avevano mai visto prima di allora. I ripetuti bombardamenti, non solo sulle
linee nemiche, ma anche su città e ospedali, e l’uso di bombe all’iprite,
un gas velenoso vietato dalla convenzione di Ginevra, fiaccarono la resistenza
del nemico. Nonostante le ripetute controffensive degli africani e i
rallentamenti dovuti al terreno impervio, il 5 maggio 1936 il generale Pietro
Badoglio, che nel frattempo aveva sostituito De Bono, entrò ad Addis Abeba
piantando la bandiera italiana. Nacque così la provincia dell’Africa
Orientale Italiana, al cui comando fu posto il vicegovernatore Rodolfo Graziani,
uomo crudele e senza scrupoli, che governò il paese con un tale pugno di ferro
da attirarsi la antipatie degli etiopi. Questi infatti non accettarono mai la
sudditanza dall’Italia e portarono avanti un’opera di guerriglia e di
attentati che culminò con quello, tristemente famoso, del 19 febbraio 1937, in
cui morirono sette alti generali e lo stesso Graziani rimase gravemente ferito.
La rappresaglia fu terribile: nei tre giorni successivi il vicegovernatore fece
rastrellare e fucilare 5.000 etiopi, presi a caso tra la popolazione civile
(anche se fonti etiopi parlano di 30.000 vittime). Non solo, ma le violenze
continuarono fino al 20 maggio, data di un’importante festività religiosa, in
cui Graziani fece giustiziare tutti i monaci del monastero di Debre Libanos,
sapendo che per gli etiopi un attacco al clero avrebbe costituito un terribile
affronto. Il regime instaurato da Graziani generò un tale livello di odio e di
terrore che lo stesso Duce decise di rimuoverlo, sostituendolo col duca Amedeo
d’Aosta.
Questi fatti, fortunatamente, appartengono al
passato e oggi gli italiani sono bene accolti in tutte le località d’Etiopia.
Anche perché non furono tutti sanguinari: per la maggior parte si trattava di
ragazzi costretti dalla leva obbligatoria a lasciare le loro famiglie per andare
a combattere su montagne bruciate dal sole, con uniformi di panno, scarpe di
cartone e scatolette di cibo avariato. Quelli di noi che hanno un nonno o un
parente che ha combattuto nella Campagna d’Africa, conoscono bene quali
fossero le condizioni dei nostri soldati mandati a combattere in un paese
lontano con armi antiquate quando avrebbero preferito stare a casa con la loro
fidanzata.
E gli italiani furono anche costruttori,
soprattutto di strade: quella che arriva a Gondar dall’Eritrea è tuttora
chiamata “strada degli italiani”, poiché furono essi a progettarla e a
realizzarla. Pur essendo sterrata, è un capolavoro di ingegneria: attraversa
centinaia di chilometri di un terreno montagnoso, per la maggior parte sopra i
tremila metri di quota, senza una sola galleria. Ogni montagna è scavalcata
dalla strada in terra battuta che sale, sale, sale senza fine, tornante dopo
tornante, fino alla cima per poi ridiscendere, con altri mille tornanti fino
alla vallata sottostante; da lì parte un’altra salita, fino alla vetta
successiva, e poi la discesa, e ancora così per centinaia di chilometri e
decine di vette martellate e spianate con la sola forza delle braccia. Oggi
alcuni tratti della strada sono stati asfaltati da una cooperativa etiope-cinese,
ma per la maggior parte percorriamo ancora questo nastro di terra rossa che
serpeggia tra le rocce scomparendo alla vista, per poi ricomparire sotto forma
di tornante qualche centinaio di metri più in basso (o più in alto). Con i
nostri fuoristrada, impieghiamo otto ore per coprire i 250 chilometri che ci
separano da Axum, la famosa città delle steli. Arriviamo sporchi e sudati, ma
l’albergo che abbiamo prenotato (e pagato in anticipo) non ci ha tenuto le
camere così dobbiamo trascinare i nostri bagagli resi irriconoscibili dalla
polvere (e stavano chiusi nel bagagliaio) fino a trovare un posto dove passare
la notte. E dove, naturalmente, non c’è acqua…
Ma penso che i nostri soldati ci avrebbero
comunque invidiati.
- Certo che sì!
- Che bello! Ma ci possono andare tutti?
- Nessun problema!
- Che bello! E a che ora comincia?
- Alle quattro del mattino
- … ehm ehm… che bello…
I fedeli qui sono messi a dura prova, ma forse
è per questo che durante le celebrazioni si vedono persone veramente coinvolte.
La religione più diffusa in Etiopia è quella copta, la variante africana del
cristianesimo ortodosso. Si tratta di una chiesa monofisita e autocefala, ma la
cosa importante è che i fedeli, qui, sono davvero praticanti. La messa si tiene
solo due volte a settimana, il venerdì e la domenica, ma in compenso dura
cinque ore durante le quali non è consentito sedersi (nelle chiese non ci sono
panchine…). Il rito consiste principalmente in una liturgia che i monaci
recitano a memoria nell’antica lingua ge’ez (che quasi nessuno oggi è in
grado di capire). Non c’è la classica predica del prete, e nemmeno i canti
corali; si tratta piuttosto di un colloquio silenzioso e privato tra ogni fedele
e Dio, alternato con preghiere collettive e battiti di mani al ritmo di una
musica solenne. Tutti i partecipanti, dai bambini ai più anziani, indossano un
vestito bianco che li copre dalla testa ai piedi, con tanto di cappuccio; e
quando escono di chiesa, le strade si riempiono di persone che fanno ritorno a
casa, formando una processione continua che noi dobbiamo attraversare per
raggiungere il parco delle Steli. Siamo infatti ad Axum, una delle città più
importanti di tutta l’Africa orientale, che per quasi mille anni fu capitale
di un grande impero che comprendeva Etiopia, Eritrea, Sudan e anche l’attuale
Yemen. La civiltà aksumita nacque intorno al IV secolo a.C., ma fu intorno al
II-III secolo d.C. che l’impero raggiunse il suo apice. Controllando il Mar
Rosso, gli aksumiti erano al centro degli scambi economici e culturali tra
Mediterraneo, Arabia ed India; furono costruiti grandi bacini e canali di
irrigamento, e vennero coniate monete d’oro e d’argento che ancora oggi
rappresentano un’importante testimonianza di quell’epoca. Fu durante il
regno del loro monarca più famoso, il re Ezana (330 – 356), che gli axumiti
si convertirono al Cristianesimo. Questo re fu tanto illuminato da far
realizzare un pilastro con un’iscrizione incisa in tre lingue: ge’ez, sabeo
(la lingua della regina di Saba, che viveva appunto nello Yemen) e greco,
creando così un manufatto prezioso quanto la Stele di Rosetta.
Ed è proprio per le steli che Axum è così
famosa: si tratta di enormi monoliti che, sul genere delle piramidi egizie,
furono eretti sopra le tombe delle famiglie reali per testimoniarne l’autorità
ed il potere. Le più importanti sono incise con ritratti dei rispettivi re e
immagini della vita dell’impero. In città ce ne sono centinaia, ed è
incredibile riflettere su come gli abitanti dell’epoca abbiano potuto staccare
dalle montagne circostanti pietre singole di tali dimensioni e peso,
trasportarle fino in città, scolpirle ed infine innalzarle come enormi torri
svettanti sulla collina. Nel parco ad esse dedicato, svetta maestosa quella del
re Ezana: alta 24 metri, sta in piedi da millesettecento anni, anche se
ultimamente le fondamenta hanno ceduto, ed è stato necessario ancorarla a
grossi cavi metallici che rovinano un po’ l’atmosfera. Ancora più alta è
la famosa Stele di Roma, così chiamata perché Mussolini nel 1937, per
celebrare la conquista dell’Etiopia, la fece trasferire a Roma, dove rimase
fino al 2005. A terra, spezzata in diversi tronconi, si trovano i resti della
Grande Stele, la più imponente mai realizzata. Alta trentatrè metri e pesante
cinquecento tonnellate, la pietra si schiantò a terra subito dopo essere stata
innalzata, distruggendo la stessa tomba sottostante e tutto ciò che si trovava
nei dintorni. Come una torre di Babele africana, questo crollo segnò la fine
del tempo delle steli e l’inizio del declino axumita.
Mentre ci aggiriamo a testa in su tra questi
incredibili reperti, vediamo un matrimonio venire celebrato nel parco
antistante. Anzi, due matrimoni: una coppia in abiti occidentali si mette in
posa per essere ammirata e fotografata; segue una seconda con i vestiti
tradizionali, molto più schiva e riservata. In entrambi i casi le cerimonie
sono seguite da una grande festa, dove le damigelle, i famigliari, tutti gli
invitati si mettono in cerchio e cominciano a ballare, a cantare, e presto
l’atmosfera diventa così coinvolgente che anche noi ci buttiamo nella
mischia, cercando di imitare i passi dei ballerini che ci guardano divertiti,
dopo averci accolti con calore e ampi sorrisi. I vestiti multicolori, la musica
trascinante, il calore della terra stessa sono davvero coinvolgenti e vorremmo
restare di più, ma le cose da vedere sono tante e il sole sta diventando
davvero molto caldo…
Axum è una città che mi piace proprio: anche se è piccola, c’è un’atmosfera vivace, quasi elettrizzante, e per un po’ non mi sembra nemmeno di stare in Africa. Saranno i 2.100 metri di quota, o forse l’aria vagamente bohemienne che si respira, ma io non me ne andrei più.
Alcuni dei miei compagni di viaggio sono andati a visitare la antica Chiesa di Santa Maria di Tsion, dove, secondo alcune fonti, si trova la vera Arca dell’Alleanza, proprio quella originale, che però non è possibile vedere. Solo il suo custode può entrare nella sala dell’Arca, e la sua intera vita è dedicata alla protezione della reliquia. Si narra che chi abbia tentato di vedere l’Arca di nascosto sia rimasto pietrificato…
Io invece preferisco fare un giro in centro, approfittando del raro tempo libero che abbiamo a disposizione. Gli aksumiti, molti dei quali vestiti bene, scherzano e bevono birra seduti ai tavolini dei numerosi locali all’aperto, e non mi degnano nemmeno di uno sguardo mentre cammino lungo la strada principale (che è perfino asfaltata!) godendomi l’atmosfera del posto. Oltre ai bar ci sono tantissimi negozi, e non solo per turisti: fotografi, negozi di informatica, perfino atelier di moda con eleganti abiti esposti in vetrina. Qui tutto è diverso dall’Etiopia che abbiamo visto finora: nessuno mi importuna cercando di vendermi qualcosa; i ragazzi camminano quasi di fretta, parlando al cellulare, mentre le ragazze si voltano incuriosite al passaggio di un bianco, alcune abbozzando anche un sorriso malizioso. Nonostante la città si trovi molto vicina al confine con l’Eritrea, paese con cui l’Etiopia è tuttora in guerra, nell’aria si respira un benessere che si riflette anche nel costo della vita: due cartoline mi costano dieci birr, mentre pochi giorni fa, a Gondar, ne avevo comprate quattro per la metà dei soldi!
Nel frattempo si è fatto buio, ma non è un problema: qui c’è perfino l’illuminazione pubblica! Torno in albergo e mi siedo ad un tavolino all’aperto, osservando la vita scorrere lungo la strada principale. Mi raggiunge Simone, il mio compagno di stanza fiorentino, con due hoha hola, come le chiama lui; e mentre le sorseggiamo domandandoci come saranno finite le partite di campionato (…), mi godo a pieni polmoni l’atmosfera vibrante ma allo stesso tempo rilassata di questa città che mi strega ogni minuto di più.
Mi ricordo che,
quando ero bambino, avevo studiato sui libri di storia nomi come “Adua” e
“Amba Alagi”; ma allora mi erano sembrati posti così lontani nello spazio e
nel tempo da sembrare quasi luoghi immaginari, di fantasia. Oggi, camminando per
le strade di Adua, quei ricordi mi tornano alla mente, e mi rendo conto di
quanto sia affascinante trovarsi in luoghi dove, moltissimi anni prima, sia
stata fatta la storia. Certo, basta recarsi a Roma per provare una simile
sensazione, e molto più in grande; ma trovarsi in questa sperduta cittadina in
mezzo al nulla, così difficile da raggiungere e così apparentemente anonima,
mi aiuta a dare un senso a quanto avevo letto, a dare un aspetto ai luoghi, un
volto ai nomi. Qui infatti si svolse nel 1896 un episodio del nostro recente
passato tanto importante quanto dimenticato.
L’esercito italiano, dopo aver occupato
l’Eritrea, era avanzato per invadere l’Etiopia. Ventimila soldati, agli
ordini del generale Oreste Baratieri, dopo aver occupato Axum e Makallè, erano
avanzati verso la città di Adua, dove però l’imperatore etiope Menelik II,
bene informato dalle sue spie, aveva già schierato centomila uomini. Gli
italiani avevano armi inadeguate, cartine sbagliate, pochi rifornimenti e il
morale a terra: pochi mesi prima infatti, sulla vicina collina dell’Amba Alagi,
il maggiore Pietro Toselli e i suoi 2.500 uomini erano stati tutti uccisi da
un’offensiva nemica. Baratieri, sapendo di essere in inferiorità numerica,
esitava nell'attesa di rinforzi; i suoi subordinati invece erano molto più
ottimisti e insistevano per attaccare: è rimasta famosa una frase del generale
piemontese Giuseppe Arimondi: "Ai butoma quatr' granate e l'è faita!"
Ma il primo ministro Crispi aveva ordinato
un’avanzata decisa, minacciando anche di sostituire lo stesso Baratieri in
caso di esitazione. Il comandante infine decise di attaccare, ma il nemico era
pronto: schierato, organizzato, e bene informato.
La battaglia fu senza storia: gli etiopi erano
troppo numerosi, organizzati e bene armati per poterli minimamente impensierire.
I reparti italiani, attaccati da ogni lato, cominciarono subito a disperdersi
muovendosi alla cieca. I messaggi di collegamento erano scritti su pezzi di
carta affidati a volontari che spesso venivano intercettati e uccisi. Le brigate
si perdevano tra le gole, affidandosi a cartine imprecise e a guide che spesso
erano spie del nemico. Convinte di andare nella direzione giusta, in aiuto dei
compagni in difficoltà, le truppe finivano invece nelle bocche di fuoco dei
nemici appostati. Chiamata anche "la Teutoburgo d'Italia", a
mezzogiorno la battaglia di Adua era già finita.
Sul campo rimasero seimila italiani, tra cui i
generali Arimondi e Dabormida, e il soldato Luigi Bocconi, a cui il padre
intitolerà il famoso ateneo; gli altri fuggirono in Eritrea, abbandonando al
nemico armi e artiglieria, e si affrettarono a firmare la pace.
L’episodio, oltre a fare cadere il governo
Crispi, suscitò enorme scalpore in tutto il mondo, poiché si trattò di uno
dei rarissimi casi in cui un esercito africano era riuscito a sconfiggere
l’invasore europeo; e ancora oggi viene ricordato come simbolo del coraggio e
della forza del popolo etiope.
Ad Adua c’è ancora un piccolo monumento, a
ricordo dei caduti in quella battaglia assurda; e la data del 1 marzo 1896,
oltre a essere una delle (tante, a dire il vero) feste nazionali, è studiata a
memoria dai bambini nelle scuole.
O almeno da quelli che ci vanno.
Chi ha visto il
film “L’esorcista 2 – l’eretico”, forse si ricorderà di una scena in
cui alcuni uomini si arrampicano su una montagna fino a raggiungere una grotta,
da dove però vengono spinti nel burrone sottostante precipitando nel vuoto. La
scena non è stata girata in un teatro di posa, ma presso la chiesa di Abuna
Yemata, nell’Etiopia settentrionale, in un paesaggio davvero senza eguali. Ci
troviamo nella regione del Tigrai, vicino all’Eritrea, e nessuno di noi,
onestamente, si aspettava di ritrovarsi in un posto tanto selvaggio quanto
spettacolare. La pianura arsa dal sole è costellata di pinnacoli rocciosi,
altissimi e dalle forme più svariate, che si ergono tutto intorno a noi dando
vita ad uno spettacolo impressionante. A molti ricorda la Monument Valley, lo
scenario degli Stati Uniti occidentali forse più incredibile che si possa
incontrare. Qui è certamente riprodotta più in piccolo, ma comunque non
troviamo le parole per descrivere questo luogo fantastico, e possiamo solo
restare in silenzio ad assaporare l’energia che qui sembra scaturire dalla
terra stessa.
Non finisce qui. In questa zona, infatti sono
state costruite delle spettacolari chiese rupestri, che cioè non sono state
realizzate con mattoni, legno o altri materiali, ma semplicemente sono state
scavate nella nuda roccia, creando delle caverne poi consacrate e trasformate in
luoghi di culto. Sono, ovviamente, strutture molto semplici, ma la loro
spettacolarità sta nel raggiungerle: nella fatica, nel sudore, negli ostacoli
che bisogna superare per arrivarci.
Cominciamo dal monastero di Debre Damo,
risalente al sesto secolo. Pare che sia stato fondato da Abuna Aregawi, uno dei
famosi “nove santi” che diffusero il Cristianesimo nella regione. Per
raggiungerlo bisogna camminare una mezz’ora buona, finché si arriva ad una
stretta cengia; da lì, ci dobbiamo arrampicare su una parete verticale di
quindici metri, infilando mani e piedi nelle fessure scavate da chi è passato
prima di noi. L’unico aiuto è una corda di canapa che i monaci, dietro
ricompensa, ci lanciano dall’alto e che ci leghiamo in vita. Non è chiaro,
però, a cosa sia agganciata l’altra estremità, quindi abbiamo seri dubbi sul
fatto che possa esserci di aiuto in caso di scivolata. Il capogruppo si
arrampica prontamente seguito dagli uomini più coraggiosi, mentre quelli più
codardi (me compreso) restano giù ad aspettarne il ritorno, limitandosi a
scattare qualche foto al panorama. Ho parlato solo di uomini perché
l’ingresso al monastero è vietato alle donne, che devono accontentarsi di
guardare a testa in su. Questa regola, che vige in moltissimi monasteri
ortodossi (non solo in Etiopia), è talmente ferrea che persino gli animali da
cortile allevati dai religiosi sono tutti maschi. La cosa comunque ha anche un
lato positivo, perché mi permette di fare amicizia con le turiste che arrivano
fino a qui…
Dopo una mezz’ora i nostri fanno ritorno, e
come sempre la discesa è peggiore della salita: mentre guardiamo Carmelo,
l’amico siciliano, oscillare paurosamente sul precipizio dimenandosi per
riprendere contatto con la parete, non ci pentiamo più di tanto di essere
rimasti in basso. Ma come avrà fatto il primo fondatore a salire in cima? Per
lui è stato facile: pare che un serpente si sia allungato dalla sommità e lo
abbia issato sulla vetta. Tutto sommato è ancora meglio usare la corda…
Proseguiamo fino alla già citata chiesa di Abuna Yemata Guh, scolpita in cima ad una roccia a forma di dito proteso verso il cielo. E’ stata costruita in un luogo tanto irraggiungibile in un periodo in cui i monaci, oppressi dalle persecuzioni, cercavano un luogo sicuro dove dimorare. Il paesaggio intorno a noi è veramente eccezionale, e anche solo arrivare alla base della salita appaga a pieno i nostri sensi; ma alcuni di noi (questa volta anche le donne possono farlo) osano arrischiare la scalata. Prima di tutto bisogna camminare in salita per quasi un’ora, facendosi largo tra gli arbusti spinosi e le torme di bambini che ti circondano col pretesto di aiutarti, ma che invece rischiano di farti cadere ad ogni passo. Lungo il percorso incontriamo alcuni escursionisti che stanno scendendo, e alla nostra domanda “How was it?” la risposta è “The best experience of my life!”. Considerando che il tizio avrà una sessantina d’anni, la cosa sembra farsi interessante.
Sotto il sole di mezzogiorno arriviamo esausti ad una prima cengia, da dove dobbiamo arrampicarci su una semplice parete. Poi il sentiero prosegue a picco sul precipizio, dove si arriva ad una seconda parete, che di per sè non sarebbe tanto difficile da scalare: il dislivello sarà di tre o quattro metri al massimo, ma qui non ci sono né corde né catene, e bisogna salire col solo aiuto delle mani e dei piedi, da infilare in fessure scavate nel tempo dalle mani e dai piedi di chi è salito prima di noi. Pagando è possibile farsi aiutare dagli onnipresenti bambini, che ti tirano e ti spingono fino ad infilare di persona i tuoi piedi negli appigli, ma a me danno più fastidio che altro. O meglio, darebbero fastidio, perché io naturalmente non sono
salito: ma forse ho dimenticato di accennare al trascurabile dettaglio che il precipizio sotto di noi è di trecento metri trecento…
Non è finita; arrivati in cima alla seconda scalata, bisogna ancora percorrere un accidentato sentiero (esposto sul burrone, naturalmente) fino a raggiungere la chiesa, che altro non è che una caverna scavata direttamente nella nuda roccia. L’interno, però, è stupefacente: le pareti e il soffitto sono interamente affrescate, e si rimane quasi storditi dai colori, dalle figure, dalla lucentezza delle immagini che ti circondano da ogni parte, facendoti letteralmente girare la testa. I nove santi sono rappresentati in tutta l’intensità della loro missione, certamente disegnati da mani molto devote. La grotta di Abuna Yemata è davvero un posto fantastico, uno dei siti più incredibili del mondo, e i pochi che hanno il coraggio di arrivarci vengono ripagati di tutte le fatiche, accumulando un’esperienza che potranno raccontare con orgoglio ai loro discendenti.
Ma la giornata non è ancora finita. Abbiamo saltato il pranzo e le scorte d’acqua sono finite da un pezzo, ma niente sembra fermare il nostro capogruppo che ci conduce verso la chiesa di Maryam Korkor. Altra salita, su per uno stretto canalone sassoso (ma almeno siamo all’ombra…); riposo in una grotta, quindi nuova salita lungo un’interminabile parete esposta al sole africano. Anche qui non c’è alcun sentiero, bisogna mettere i piedi, e qualche volta anche le mani, là dove li ha messi chi è passato prima di noi. I tornanti sembrano infiniti, e dopo quasi due ore di salita alcuni stanno per rinunciare quando, finalmente, arriviamo in cima. La chiesa nella roccia è davanti a noi; questa in realtà è semi-monolitica, cioè in parte è stata edificata all’esterno della montagna. E’ molto grande, con un colonnato all’ingresso e un minimo di arredamento. E, soprattutto, l’entrata non è sul precipizio…
Anche qui le pitture all’interno sono stupefacenti; questi luoghi emettono un’aurea di magia che ci lascia senza parole. Maryam Korkor, a differenza dell’Abuna Yemata, è abitata stabilmente e vi si celebra anche la messa; certo, i fedeli che arrivano fino a qui dimostrano un vero attaccamento alla propria fede. Da qui un facile sentiero porta alla più piccola Daniel Korkor, ancora più remota e meno interessante della chiesa vicina. Il sentiero è facile nel senso che è pianeggiante, ma è largo non più di mezzo metro e naturalmente è esposto sul precipizio la cui verticale, questa volta, è di quasi mille metri… e sul burrone si affaccia anche l’entrata della chiesa, tanto che alcuni decidono di rinunciare alla visita. Solo pochi coraggiosi camminano sugli stretti sassi traballanti che conducono all’ingresso; ma la cosa più importante da tenere a mente è che all’uscita, quando si passa di colpo dal buio della grotta al cielo azzurro, e la luce del sole può essere accecante, bisogna tenere la DESTRA del sagrato, altrimenti ti raccolgono col cucchiaino…
- Ma questo è un femore o una tibia?
- Acc… sono inciampato in un teschio!
- Venite! Venite! Qui c’è un morto intero!
Queste sono alcune tipiche frasi pronunciate dai visitatori della chiesa di Yemerehanna Kristos, non lontano da Lalibela, l’ultima tappa del nostro viaggio. La chiesa è già di per sé spettacolare, costruita all’interno di una caverna, dove la luce è molto fioca e chi è senza torcia deve farsi aiutare dai compagni più attrezzati. Ma la principale attrattiva è il giardino interno, dove si trovano i cadaveri mummificati dei pellegrini che sono giunti fin qui per morire. Questo luogo è infatti sacro per i copti, e rappresenta il luogo ideale dove abbandonare la vita terrena. I cadaveri non vengono sepolti, e l’umidità della grotta ne provoca la mummificazione in pochi giorni. Quindi, sparsi per il prato, è facile imbattersi in resti umani perfettamente conservati: teschi, ossa varie del corpo e perfino scheletri interi, stesi a riposare per sempre in bella mostra quasi avessero voluto mettersi in posa per i visitatori. Alcuni sono sdraiati, altri accovacciati: ce ne sono così tanti che bisogna veramente impegnarsi per evitarli; molti “turisti” sono attratti da quello che per loro è l’ennesimo divertimento da fotografare, io invece preferisco defilarmi.
Lungo la interminabile strada che bisogna percorrere per raggiungere questo posto in mezzo al nulla, ci imbattiamo in un grande mercato. Già alcuni chilometri prima del paese incrociamo le colonne di persone ivi dirette: sono migliaia, e occupano l’intera carreggiata con i loro animali, i carretti, le ceste; restiamo davvero impressionati dal campionario di varia umanità che si sta radunando in questo luogo. Anche le altre strade che incrociamo straripano di persone che si stanno avvicinando al paese, non se ne vede davvero la fine: sono migliaia, uomini, donne e bambini, tutti carichi di merci e tutti rigorosamente a piedi. Ma quanto avranno camminato? A che ora saranno partiti dai loro villaggi, e a che ora vi faranno ritorno stasera? Le domande che ci poniamo sono tutte inutili: ci stiamo dimenticando del fatto che qui il tempo non ha alcun valore, poiché tutti ne hanno in grande quantità. Noi, invece, dobbiamo sempre guardare l’orologio; visitiamo rapidamente il mercato e subito ripartiamo. E’ fondamentale essere a Lalibela prima di sera, perché quando diventa buio (cioè alle sei, ora dei bianchi) diventa impossibile guidare su queste strade sterrate piene di buche, curve cieche e tornanti quanto sprovviste di ogni segnaletica. E, dato che per coprire cento chilometri ci vogliono almeno tre ore, dobbiamo muoverci.
Lungo il percorso troviamo una grossa scuola, e decidiamo di fermarci a visitarla. Come sempre accade all’arrivo di stranieri, le lezioni si interrompono e tutti, studenti e maestri, ci corrono incontro per salutarci, per conoscerci, per mostrarci le aule, il refettorio, i dormitori. E’ davvero coinvolgente visitare le scuole, parlare con gli studenti, sfogliare i libri di testo, per comprendere meglio questa realtà così profondamente diversa dalla nostra. Cerchiamo di capire cosa studino i ragazzi qui, quale visione abbiano del mondo, della storia, della politica, della religione. Solo gli insegnanti parlano inglese, ma mentre ci conducono nei vari locali spiegandoci le cose, intorno a noi c’è sempre un codazzo di ragazzi che ci guardano, ci sorridono, ci tendono la mano… e anche se non capiscono una parola di ciò che diciamo, sono comunque contenti di stare con noi, di vedere che ci interessiamo alla loro vita. Le pareti dell’aula magna sono tappezzate di grandi dipinti, che sicuramente aiutano i ragazzi molto più dei libri. Su di un lato sono raffigurati tutti i regnanti d’Etiopia; su un altro si vedono scene della rivoluzione comunista, o immagini di vita nei campi. Un grande dipinto spiega la pericolosità di oggetti come forbici, aghi per cucire o cocci di vetro, e mostra il modo corretto di maneggiarli. Ci troviamo in un microcosmo che rappresenta in un colpo solo l’intera società di questo affascinante paese: l’ignoranza, il calore umano, la miseria, la voglia di migliorare. Quanti studenti, alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” ci hanno dato risposte come: “Voglio diventare un medico, per poter curare la mia gente”, oppure “Essere ingegnere, per costruire strade e ponti per il mio paese”. In questi contesti, donare quaderni e penne è un gesto doveroso, piccolo per noi ma molto importante per questi ragazzi, che col nostro aiuto possono cambiare il loro paese senza venire fino da noi in cerca di un futuro che non troverebbero.
Ma è gia ora di ripartire. Ci aspetta Lalibela, il luogo più sacro d’Etiopia, dove parteciperemo al Timkat, la festa religiosa più sacra degli ortodossi. E scopriremo che, per quanto sembri impossibile, il meglio del viaggio deve ancora arrivare.
Ras Tafari Makonnen è il vero nome che l’ultimo imperatore etiope, Hailè Selassiè, aveva prima di salire al trono. In lui, sovrano dell’unico paese libero di tutta l’Africa, molte persone videro il messia nero annunciato da antiche profezie, secondo le quali egli avrebbe dato il via ad una riunificazione di tutti i popoli africani sotto una libera bandiera. Queste persone si riunirono sotto un movimento religioso di derivazione cristiana chiamato appunto rastafarianesimo che, sotto la guida di tale Marcus Garvey, si espanse ben oltre i confini dell’Etiopia e dell’Africa.
Oggi i rastafariani vivono soprattutto in Giamaica, ma non hanno mai dimenticato le loro origini, e infatti la bandiera etiope è rappresentata con orgoglio su tutti i loro vestiti. Un’altra delle mille storie, dei mille segreti di questa terra magica… Tornando ai rasta, essi fanno libero uso, sia come medicinale sia come ausilio durante le preghiere, di una particolare erba, la Ganja, da noi conosciuta anche col nome di marijuana. Forse è proprio l’uso liberalizzato di questa droga che ha fatto dei rasta una comunità malvista da molti governi, quando non apertamente combattuta, tanto che essi preferiscono vivere isolati dalla gente comune. I ragazzi coi capelli dalle spesse trecce e la musica reggae a tutto volume che si incontrano in Italia sono solo delle tristi imitazioni dei veri rastafariani, che non amano affatto farsi pubblicità; anzi, essi vivono in comunità isolate e autosufficienti, e non gradiscono gli estranei che vanno a ficcanasare nei loro villaggi.
Ma è qui in Etiopia che, naturalmente, se ne incontra la maggiore quantità, soprattutto in alcuni locali “particolari”. Ed è proprio in uno di questi che ci dirigiamo io e Simone, in una delle ultime sere del nostro viaggio, per provare il tej, un particolare liquore etiope preparato a partire dal miele, che viene lasciato fermentare insieme ad un erba chiamata gesho. Si beve a canna, da particolari fiaschette dal collo allungato chiamate birille, talmente sudice che ti scivolano dalle mani. Dopo tutte le precauzioni salutiste prese fino ad ora, è un vero suicidio bere da questi contenitori, ma ormai siamo quasi alla fine del viaggio, e vogliamo provare tutto. E poi, intorno a noi vediamo altri ragazzi tracannare senza problemi e, anche se il loro sguardo non è esattamente lucido, pensiamo che se lo fanno loro possiamo farlo anche noi. La musica per fortuna ci stordisce, perché il liquore è veramente nauseabondo: ha un vago sapore di sciroppo per la tosse, ed un forte retrogusto che ricorda molto l’acqua dei piatti. E menomale che l’avevamo chiesto di gradazione “medium”; chissà quello strong! Comunque siamo fieri di aver fatto questa esperienza, anche se nessuno di noi è riuscito a finire la bottiglia; e il giorno successivo saremo ripagati da lunghe ore passate sull’unico water che abbiamo a disposizione per sei stanze d’albergo finchè, naturalmente, non finirà con l’intasarsi creando al gruppo qualche piccolo problemino. Ma per fortuna nel giardino retrostante ci sono molti alberi…
“Sono stanco di scrivere di questi edifici, perché mi pare di non esser creduto se scrivo ancora… ma giuro su Dio, nelle cui mani mi rimetto, che quanto ho scritto è verità, e che c’è molto di più di quanto ho scritto, che ho tralasciato per non essere accusato di dire falsità”. Così scriveva nel 1540 l’esploratore portoghese Francisco Alvares al ritorno da un viaggio a Lalibela, la città più sacra e incredibile di tutta l’Etiopia.
Chiamarla città in effetti può essere eccessivo, visto che conta poche migliaia di abitanti; ma d’altra parte è l’unico luogo abitato di queste montagne, dista parecchie ore di macchina da qualsiasi altro villaggio e rappresenta il centro religioso in assoluto più importante per i copti. Qui si trovano undici chiese rupestri, cioè scavate interamente nella roccia, che risalgono al XII secolo, perfettamente conservate nonostante le guerre, le alluvioni, i terremoti. Furono erette dal re Lalibela che, fuggito a Gerusalemme per evitare le persecuzioni del fratello, ne fu talmente meravigliato da decidere di ritornare in patria e costruire una città che le somigliasse, scegliendo un luogo sperduto sugli altipiani e lontano da qualsiasi guerra.
Le chiese rupestri di Lalibela sono tutelate dall’UNESCO, e costituiscono senza dubbio un luogo spettacolare e imperdibile per chi si reca in Africa. Purtroppo molte di esse sono state ricoperte da ponteggi con lo scopo di proteggerle dalle intemperie; forse non era un lavoro così necessario, dato che sono rimaste intatte per novecento anni senza problemi, e purtroppo queste coperture ne rovinano decisamente la visuale, togliendo alle chiese molto del loro fascino. Bisogna quindi lavorare di fantasia, cercando di immaginare come apparissero agli occhi di chi le ammirava prima della “ristrutturazione”. Aggirarsi tra questi edifici magnifici rappresenta comunque una forte emozione, anche se il rituale dopo un po’ diventa seccante. Prima di entrare in ogni chiesa, infatti, bisogna: primo: informarsi se le donne possono entrare (cosa vietata in alcune); secondo: togliersi le scarpe; terzo: cacciarle a forza negli zaini per non affidarle a sedicenti “custodi delle scarpe”, che pretendono cifre assurde per sorvegliarle (ma da chi, poi?); quarto: indossare dei copricalze di plastica e spruzzarli con generosi dosi di antipulci (i pavimenti delle chiese sono ricoperti da tappeti che nessuno sembra aver pulito dai tempi del re Lalibela, e che pare ospitino intere legioni di allegri insetti saltellanti); quinto: accendere la torcia, possibilmente frontale, per vedere dove camminiamo, poichè l’interno delle chiese è buio e ci sono tanti gradini… quindi è d’obbligo fare le foto col sacerdote di turno che, in cambio di una mancia, ci mostra antichi manoscritti e l’immancabile croce dorata. In effetti la visita è un po’ pacchiana, sia per l’altissimo numero di turisti, sia per il fatto che tutti ci chiedono soldi per qualsiasi cosa, ma prendendola con lo spirito giusto la si può veramente apprezzare. Bet Mediane Alem, per esempio, è un vero spettacolo: scavata interamente nel sottosuolo, è circondata da trentaquattro colonne alte undici metri; Bet Golgotha, con le sue quattro finestre ad arco, è molto pittoresca, soprattutto osservata dall’alto; Bet Meskel, piccolissima, è una vera esperienza, dove dobbiamo stare, pigiati, a testa in su per ammirare il soffitto riccamente decorato. Un altro gruppo di chiese si trova a sud-est, e forma nell’insieme una specie di fortezza rocciosa. Bet Gabriel è circondata da un fossato, che bisogna risalire su una stretta rampa che porta ad una magnifica porta ad archi multipli; da qui un lungo tunnel sotterraneo, completamente buio, ci porta a Bet Amanuel, un vero spettacolo: sembra quasi sorgere dalla terra sotto i nostri piedi, occupando maestosa il centro di un grande piazzale sotterraneo. Altri tunnel, altre gallerie labirintiche ci conducono a Bet Abba Libanos, una chiesa ipogea, cioè collegata alla roccia solo con tetto e pavimento. Avere una guida è indispensabile, per non perdersi tra le gallerie ma anche per capire e apprezzare al meglio tutto ciò che vediamo. Oltre a ciò, il mestiere di guida turistica permette a molti di campare, e incoraggia i ragazzi a studiare piuttosto che marinare la scuola per importunare i turisti.
Ma non è finita: quando il re Lalibela aveva completato le dieci chiese che aveva in mente, dedicate ognuna ad un santo diverso, ricevette la visita di San Giorgio in persona, patrono dell’Etiopia, che dal suo cavallo bianco inveì contro il re poiché nessuna delle chiese gli era stata dedicata. Lalibela, prostrandosi e scusandosi a non finire, decise allora di aggiungere un’undicesima chiesa, che divenne la più spettacolare in assoluto. Risparmiata dalle obbrobriose coperture, ancora oggi la Chiesa di Bet Giyorgis lascia tutti senza parole: scavata anch’essa nel sottosuolo, è alta (o meglio, profonda) quindici metri e il tetto compare sotto i nostri piedi all’improvviso, lasciandoci sbigottiti. Girando intorno al burrone che la circonda, si può ammirare in tutto il suo splendore questa costruzione dalla pianta a croce greca, piccola nelle dimensioni effettive ma grandissima nella realizzazione e nella spettacolarità. Scendendo le scale che ne raggiungono l’entrata, la guida ci mostra la pietra dove il cavallo di San Giorgio lasciò le impronte degli zoccoli; ma noi, restii a credere in queste cose, andiamo invece a curiosare dentro le cavità scavate nella roccia intorno alla chiesa… e il nostro scetticismo sarà punito con l’incontro fin troppo ravvicinato con altri teschi, ossa e mummie di pellegrini sepolti. Tanto va la gatta al lardo…
- Dobbiamo fare benzina al più presto, altrimenti non potremo tornare ad Addis in tempo.
- Cosa? Ma noi dobbiamo prendere l’aereo! Perché non l’avete fatta prima?
- Sono due settimane che non si trova benzina in giro; abbiamo esaurito le taniche di scorta e siamo quasi a secco. Speriamo di trovarne lungo la strada, altrimenti resteremo bloccati qui.
Questo dialogo ben poco rassicurante avviene tra noi ed i nostri autisti due giorni prima di tornare ad Addis Abeba e prendere l’aereo del ritorno. Il problema è che il costo della benzina è fissato dal governo il quale, il primo giorno di ogni mese, ne annuncia il prezzo, uguale per tutti i distributori del paese. Questo gennaio è stato deciso un prezzo basso, così i benzinai si rifiutano di vendere, e preferiscono conservare il carburante per febbraio, quando sperano che il prezzo salirà consentendogli guadagni più elevati. Molti benzinai ci fanno subito cenno di andarcene non appena ci avviciniamo, e solo pochissimi accettano di venderci a malapena dieci o quindici litri, che per i nostri fuoristrada sono inutili. Da noi un simile atteggiamento sarebbe impensabile; ma anche per questo è importante girare il mondo: per entrare in contatto con realtà e modi di fare distanti anni luce dai nostri. Fortunatamente, l’ultimo giorno riusciremo a fare il pieno, mentre alcuni turisti tedeschi non saranno altrettanto fortunati, e resteranno bloccati nel sud perdendo il volo di ritorno.
Siamo sempre a Lalibela, e oggi è giorno di mercato. I miei compagni sono andati a visitare altre chiese nei dintorni, ma io sono rimasto; sia perché penso di averne viste abbastanza, sia perché gli effetti del tej non sono ancora passati del tutto. Così mi tuffo in questo mercato enorme, sconfinato, in compagnia di due ragazzi che si sono autodefiniti guide cercando di estorcermi in cambio la promessa di acquistare per loro un dizionario. Cosa che mi guarderò bene dal fare: per quanto sembri crudele, non bisogna dare niente ai ragazzi, perché se guadagnano con i turisti smetteranno sicuramente di andare a scuola.
Ci si perde davvero tra la folla multicolore, che vende di tutto: cibo di ogni tipo, spezie, tessuti, animali, polveri magiche e qualsiasi cosa possa essere comprata; si possono trovare suole di scarpe, scheletri di ombrelli, bottiglie vuote… una miriade di cose che da noi sarebbero classificate come “cianfrusaglie” e che invece qui vengono rivendute per essere riutilizzate in qualsiasi modo. Il riciclo in Etiopia è una vera arte, e niente viene mai buttato via. Lo abbiamo notato anche lungo i bordi delle strade, che in molti paesi del terzo mondo sono cosparsi di rifiuti, di immondizia, di bottiglie abbandonate che scoppiano sotto le ruote delle auto. Qui, invece, non esiste immondizia proprio perché non esistono rifiuti. Qui non si butta via niente, anzi: tutto viene riutilizzato, o quanto meno rivenduto. Perfino le bottiglie di plastica vuote rappresentano un tesoro, e noi non le buttiamo via, perché nei villaggi i ragazzini fanno letteralmente a botte per accaparrarsele: riempite nei fiumi, saranno usate per portare l’acqua fino alle capanne. Allo stesso modo nei ristoranti troviamo sempre bottiglie di birra fatte di vetro riciclato così tante volte da risultare graffiato, quasi sfregiato, al punto che da noi sarebbe considerato inutilizzabile.
Il mercato rappresenta l’apice di questo riutilizzo, dove tutto è in vendita, dalle materie prime ai prodotti finiti, e i compratori non mancano di certo. Ci sono persino donne che lavorano alle macchine da cucire (quelle a pedale, si intende), e che confezionano al momento vestiti per clienti che hanno portato la stoffa grezza. E’ davvero un’emozione per me vagare tra tutta queste gente così stipata che devo stare attento a non calpestare qualcuno mentre cammino, evitando gli animali che vagano, gli uomini che contrattano i prezzi dei vestiti appesi sulle bancarelle, mentre giovani donne scaricano dai cammelli le barre di sale che instancabili carovane hanno portato fin qui dai cocenti deserti della Dancalia. Il cibo è presentato sopra dei teli stesi direttamente sulla terra, in un modo che da noi farebbe rabbrividire gli ispettori dell’ufficio di igiene… ci sono mucchi di spezie, di peperoncino, di caffè (quello etiope è particolarmente ricercato), di tef che sarà usato per la njera, c’è addirittura l’orzo, venduto sfuso ai fabbricanti di birra che lo misurano su bilance a stadera per poi pagarlo a peso. C’è un microcosmo incredibile intorno a me: un parossismo di colori, di odori, di grida che mi stordiscono mentre mi faccio largo a spintoni tra animali che defecano, gente che tossisce, che sputa, che si soffia il naso direttamente in terra… sarà meglio farmi una bella doccia quando torno in albergo… sperando che oggi ci sia l’acqua.
Domenica 18 gennaio, primo dei tre giorni del Timkat. L’Epifania rappresenta la festa religiosa più importante in assoluto per i copti, e non c’è città, paese o villaggio dove le persone non comincino a fremere già diversi giorni prima, e l’eccitazione nell’aria dia luogo a vibrazioni quasi palpabili. A differenza dei cattolici, che con l’Epifania ricordano l’adorazione dei magi, i copti onorano il battesimo di Gesù, e proprio questo sarà il nucleo centrale della festa: domattina all’alba, il gran sacerdote benedirà l’acqua di una grande pozza, con la quale eseguirà poi un grande battesimo collettivo.
Ma intanto oggi è il primo giorno, quello dedicato alla grande processione, in cui i preti portano fuori dalle chiese i tabot, le copie dell’originale Arca dell’Alleanza. Ogni singola chiesa etiope, e sono migliaia, ne conserva una, gelosamente nascosta agli occhi di tutti, fedeli e curiosi. Solo in occasione del Timkat le tabot vengono tolte dai tabernacoli e, pur rimanendo coperte da panni colorati, vengono portate in una lenta e sacra processione lungo la via principale della città, fino ad un grande tendone dove rimarranno tutta la notte, custodite dai sacerdoti in preghiera. E naturalmente, qui a Lalibela, la città più sacra d’Etiopia, avviene la processione più sentita. Da ognuna delle undici chiese escono i sacerdoti, adorni con tutti i paramenti sacri e protetti dal sole cocente grazie a coloratissimi ombrelli portati dai diaconi. Essendo le chiese sparse sulla collina, all’inizio si creano tanti piccoli rivoli di persone che poi, man mano, convergono nella strada principale creando un fiume di persone vestite a festa che accompagnano il corteo in una calca dove tutti si confondono: sacerdoti, diaconi, semplici fedeli e i tanti, troppi turisti che cercano di scattare foto da tutte le angolature possibili. Ma la processione è anche una festa: gruppi di donne cantano a squarciagola, battendo la mani a tempo col ritmo dei tamburi; un gruppo di ragazzi balla in modo frenetico, innalzando orgogliosamente bandiere dell’Etiopia; bambini corrono nella ressa, zigzagando tra la folla, inseguiti da genitori trafelati; le braccia si toccano, i piedi si pestano, le mani asciugano il sudore che sgorga copioso sotto il sole cocente. I preti, quasi estranei alla ressa che li circonda, procedono lentamente, portando imperterriti le proprie tabot e recitando litanie la cui origine si perde nella notte dei tempi. Io, piacevolmente immerso nella calca, cerco di tenere il passo dei primi sacerdoti, ma è difficile quando tutti ti spingono, ti tirano, ti spostano, cantando, ballando, in un vortice umano di genuina spiritualità. Nonostante le facce bianche siano quasi più numerose di quelle nere, il Timkat non è affatto una cosa turistica: si capisce subito che le persone, i vecchi come i bambini, i ragazzi come le donne con i pargoli al seno, siano realmente coinvolti da questo rito ancestrale tanto antico che già la regina di Saba aveva potuto assistervi.
Dopo un percorso interminabile arriviamo in un grande prato, in fondo al quale è stato allestito un tendone bianco. I sacerdoti, tenendo alte le sacre croci delle chiese, si dispongono formando un quadrato, al cui interno i preti dei vari villaggi iniziano una tipica danza in cui, formate delle file parallele, si avvicinano e si allontanano a più riprese. I sacerdoti cantano, i diaconi battono le mani, alcuni agitando ritmicamente il sitar, il piccolo strumento a percussione simile al nostro triangolo. Tutto intorno, fedeli e turisti sgomitano per accaparrarsi i posti migliori, per osservare ciò che succede allungando il più possibile gli obiettivi delle fotocamere sopra le teste dei piccoli africani; alcuni ti guardano seccati, molti altri invece sembrano divertiti dalle buffe espressioni facciali dei faranji. Un grassone dalla pancia enorme, strabordante, con la fotocamera che sobbalza a più riprese sopra una maglietta dalla scritta “I love Australia” fradicia di sudore, cerca di farsi largo tra la calca per raggiungere la prima fila, abbattendo come fuscelli gli smilzi etiopi che gli ostacolano il cammino.
Alla fine, anche la litania pomeridiana finisce. I tabot vengono portati sotto il tendone, dove solo i sacerdoti possono entrare; questi passeranno tutta la notte svegli a pregare e a custodire le sacre reliquie, fino a quando, domattina, la folla riceverà il tanto agognato battesimo.
Sono le cinque del mattino, ma la calca è già pressante intorno alla vasca battesimale; per questo ho voluto arrivare presto. I sacerdoti stanno tenendo messa poco distante, fuori dal tendone con le tabot. Molti fedeli ascoltano in silenzio: sono qui da chissà quando, forse non sono nemmeno tornati a casa. Alcuni cominciano ad avvicinarsi alla vasca, cercando di avere i posti migliori per quando comincerà il battesimo. Lo spazio circostante è stato transennato, per evitare che i fedeli si accalchino troppo. Dall’altro lato dello spiazzo è stato costruito un palco sopraelevato per i tanti turisti che, pagando l’equivalente di sei euro, potranno godere di una posizione privilegiata.
La messa sembra interminabile, ma lentamente la folla aumenta dietro di me, che mi sono piazzato in primissima fila per non perdermi niente. Sono le sette passate quando finalmente qualcosa sembra muoversi: i sacerdoti entrano nello spazio riservato, e cominciano a disporsi intorno alla vasca. Sono centinaia, contando anche i preti, i diaconi, gli aiutanti, è una folla coloratissima ma al tempo stesso molto seria quella che si dispone a celebrare il battesimo. Il palco per i turisti è gremito, ma la procedura ufficiale è lenta, sembra davvero interminabile. I preti ricominciano la loro danza fatta di allontanamenti e avvicinamenti, al suono dei sitar. Il sole è sorto, ed è incredibile come la temperatura si alzi velocemente qui, a 2.700 metri di altitudine. La calca aumenta sempre di più, comincia a fare caldo per davvero.
I religiosi percorrono alcuni giri sopra il bordo della vasca; quindi il vescovo comincia a celebrare una nuova messa, inquadrato anche dalla televisione locale. La cerimonia è interminabile: io sono in piedi, immobile, da più di tre ore; il sole è già diventato rovente e sto colando sotto la giacca a vento e i tre maglioni che avevo indossato per proteggermi dal freddo notturno; la calca intorno e dietro a me è diventata un muro di persone che respirano, pregano, mi alitano sul collo, sudano, tossiscono, e cominciano anche a spingermi contro le transenne. Alcuni le hanno già scavalcate, e io decido di fare lo stesso perché prevedo già che, quando arriverà il momento clou, la calca si butterà avanti a rotta di collo e ho paura di inciampare ed essere travolto. Impossibile muoversi, impossibile girarsi. E intanto il prete parla, parla, parla…
Cominciano a mancarmi le forze; fa un caldo terrificante, le gambe stanno per cedermi, ma sedersi a terra significa non potersi più alzare. Devo resistere… a un certo punto, i bambini si muovono, la gente comincia ad agitarsi, a gridare parole che non capisco, ma sento che ci siamo. Ecco, quando il primo raggio di sole bagna l’acqua della sacra vasca (fino a quel momento rimasta all’ombra), il Gran Sacerdote vi immerge la croce. Questo gesto ripete quello di Giovanni Battista, che si era bagnato nel Giordano per battezzare Gesù. L’acqua, ora consacrata, può essere usata per rinnovare i voti battesimali dei credenti che, come le moto GP al semaforo verde, si precipitano in una calca senza regole, calpestando tutto e tutti. Il sacerdote riempie grandi secchi di acqua per poi rovesciarli sulla folla urlante, dove ognuno sgomita per avvicinarsi e riceverne il più possibile. E’ impossibile resistere alla calca, e posso solo assecondare il movimento di una folla umana che si è fatta un tutt’uno, che sbraita, alza le braccia al cielo, spinge, tira, oscilla paurosamente, devo aggrapparmi per non cadere, qualcuno cade a terra e viene calpestato dalla ressa, dal pigia-pigia senza regole, dove l’unica cosa che conta è essere bagnati da più acqua consacrata possibile. Anch’io ricevo la mia buona dose di docce, un vero sollievo sotto la calura africana. Per me, che non sono battezzato in origine, il sacramento non vale; ma per niente al mondo cambierei posto con i turisti che scattano foto a ripetizione dall’alto della loro torre d’avorio. E’ un’emozione indescrivibile con le parole essere partecipe di questo rito che è anche una festa, è una liturgia ma anche un divertimento; è bellissimo essere schiacciati da questa calca umana, migliaia di neri avvolti di vestiti bianchissimi, ormai presi dal raptus dell’esaltazione, che spingono, sudano, cantano, ridono, si divertono, si sbracciano verso il prete gridando “A me! A me!” e sono davvero felici, quasi estasiati nella loro genuina, sentita sete di partecipazione a questa festa che fa di mille persone una sola.
Non resisto più alla ressa, le ultime forze mi stanno abbandonando, ma non posso certo cedere alla tentazione di lasciarmi cadere; anche voltarsi e andare nella direzione opposta è impossibile. Quasi per miracolo, accanto a me si materializza un prete che sta riportando la sua tabot verso il tendone. Intorno a lui, un gruppo di diaconi gli apre la strada a forza nel muro umano; senza esitare, afferro il lembo di un vestito e mi faccio trascinare oltre la folla impazzita.
Il viaggio è finito.
Massimiliano