A Yaupi, nell’Amazzonia ecuatoriana

Racconto marzo – aprile 2005

di Stefano e Donatella

Il 12 gennaio 2005, giorno di viaggio 1167, lasciamo la Colombia e entriamo in Ecuador, attraversando la frontiera a nord, a Rumichaca. È il primo giorno dei sei mesi che trascorreremo in questo paese che, a osservarlo sulla mappa, sembra proprio piccolo, soprattutto se paragonato a giganti come Brasile, Argentina o Perù, eppure … eppure, almeno con il senno di poi, l’Ecuador si rivelerà un concentrato di tutto quello che un viaggiatore può aspettarsi di incontrare in Sud America. Le vette innevate della Cordillera Andina, che corre tra nord e sud, nel centro del paese, i vulcani attivi, le lagune, la marcata presenza indigena quechua della sierra (montagna), dove ancora si conservano tradizioni e forte identità, i ricchissimi mercati agricoli, il bel centro storico di Cuenca e quello ancora più ricco e spettacolare di Quito, la capitale. E poi, attraverso le grandi coltivazioni di banane della zona di Machala, verso la costa, alla ricerca di sole e spiagge bagnate dal Pacifico … la moderna e produttiva Guayaquil, più a nord Puerto Lòpez, dove, fra giugno e settembre, tutti attendono il passaggio delle balene jorobadas, le spiagge di sabbia bianca di Canoa, patria dei surfisti da onda, fino a raggiungere la provincia di Esmeraldas, dove è più forte la presenza delle comunità afro-ecuatoriane. Ci fermiamo, fuori stagione, nella rilassante Muisne, dove le forti escursioni di marea cambiano più volte al giorno l’aspetto e i colori dell’immensa spiaggia. A est, oltre la Cordillera, si apre un altro scenario, El Oriente, come qui chiamano il vasto territorio della selva che, più in profondità, insieme ai territori di Brasile, Colombia, Perù, Venezuela, Bolivia, Guyana Francese, Suriname e Guyana, origina il grande bacino amazzonico.

mappa generale dell’Ecuador

mappa della zona di Yaupi

 

Nel mese di marzo, dopo una lunga e piacevole permanenza, lasciamo Baños, porta di accesso alla grande foresta tropicale. L’idea è, passando per Puyo, raggiungere Macas, città principale della provincia Morona-Santiago. Perchè Macas? Quando ancora eravamo a Quito, sul quotidiano “El Comercio”, abbiamo letto un interessante articolo sulla comunità indigena shuar di Yaupi, un piccolo villaggio nella zona sud orientale del paese, a circa 500 chilometri dalla capitale. Ci incuriosiscono le foto: capanne, fiumi, vegetazione rigogliosa e soprattutto l’immagine di due opulenti turisti, di indiscussa razza caucasica, attorniati dagli abitanti del villaggio in abbigliamento tradizionale. Tutto bello, però le indicazioni su come raggiungere la comunità sono vaghe, tra le righe sembra di capire che ci si possa arrivare solo a bordo di piccoli aerei, che partono da Macas. Escludiamo da subito la possibilità di andarci in aereo, soluzione sicuramente costosa per le nostre tasche. Al tempo stesso, mettiamo in moto un processo mentale che, in anni di viaggio, si è adeguato alla realtà che ci circonda. Non crediamo che gli Shuar abbordino aerei tutti i giorni, se loro si spostano con canoe o a piedi … boh, lo faremo anche noi. Decidiamo così di andare a Macas e lì cercare soluzioni alternative per raggiungere Yaupi. I casi della vita: siamo a Macas da qualche giorno e mentre bazzichiamo per il terminal terrestre, ci troviamo di fronte a un bus con un grande cartello sul parabrezza, sul quale c’è scritto “Santiago, Yaupi, Puerto Morona”. Ma … allora c’è la strada!! Chiediamo subito chiarimenti (chiarimenti??) alle due compagnie di trasporti che coprono la rotta. È così: due volte al giorno da Macas partono i bus diretti a Puerto Morona, vicinissimo al confine con il Perù, passando per Santiago e Yaupi. Quanto dura il viaggio? La strada non è asfaltata, dunque dipende dalla pioggia, dal fango, dal numero dei passeggeri, dalle fermate, dal carico … fra le sette e le dieci ore, però arriva, almeno così dicono. Le informazioni sono nebulose, però ci incoraggiano a tentare anche questa … decidiamo di partire.

 

Macas, lunedì, 28 marzo

È ancora buio quando ci svegliamo, ma dal ristorante al piano di sotto già arrivano forti odori di frittura e sopa de gallina. Prima delle 6.30 siamo al terminal e all’ultimo momento decidiamo di fare il biglietto (5.75 dollari, in Ecuador il dollaro americano è, da diversi anni, la moneta corrente) fino a Santiago, e non fino a Yaupi, che dovrebbe trovarsi a circa un’ora di distanza. Di Santiago sappiamo qualcosa, mentre Yaupi risulta ancora avvolta in un alone di mistero. Solo il propietario dell’hotel dove abbiamo alloggiato a Macas ha detto di esserci stato (lavorava per una istituzione del governo, in campo sanitario) e, secondo lui, il villaggio è piuttosto sguarnito, nelle poche tiendas (negozi), non si trova altro se non beni di primissima necessità, forse si può alloggiare nella Casa Comunale, ci si arriva in canoa e non via terra … è tutto ancora piuttosto confuso. Comunque ormai ci siamo, zaini in spalla e un piccolo carico di provviste. Saliamo sul bus e alle 7.00 partiamo. La prima parte del viaggio già la conosciamo, passiamo per Sucùa, attraversiamo varie comunità. Di alcune, come Ituambi, Logroño, Tayuza, è possibile leggere il nome sul cartello all’ingresso, ma la maggior parte rimarranno luoghi senza nome. Verso le 10.00 raggiungiamo Santiago  de Mendez, dove ci fermiamo per una sosta in un orribile bar, nel quale tutti si riempiono la pancia di riso, fagioli, carne e così via. Visto l’orario, noi non andiamo oltre un pessimo e caro caffè. Un’altra sosta al distributore per fare gasolina, e alle 10.30 lasciamo Mendez. Da Puyo in poi il nostro viaggio si è snodato lungo strade non asfaltate e qui la situazione non cambia, ma per fortuna non piove, quindi il percorso non è in pessime condizioni. Viaggiamo tranquilli, tra un sobbalzo e l’altro. La vegetazione diventa sempre più folta e anche il caldo aumenta, ma ancora la temperatura non è tanto alta, almeno finchè il bus è in movimento. Quando facciamo fermate, invece, si sente l’aria umida e pesante … e fermate ne facciamo in continuazione, per scaricare o far salire intere famiglie, gruppi che coprono tre o quattro generazioni, a partire dagli abuelos (nonni) per arrivare a bellissimi bambini dai visi tondi e dai capelli lisci, passando per le donne, che in spalla portano gli ultimi nati e tra le mani tengono bustoni e zampe di bovino, spesso crude, ma a volte già cotte, pronte per essere mangiate. Lungo il tragitto torrenti, fiumi, ponti dall’aspetto incerto, coltivazioni di yuca, platano (banana) e papaya, capanne circolari in legno con il tetto di foglie di palma. Tra un continuo sali e scendi di passeggeri, arriviamo finalmente all’ingresso di Santiago. Siamo abbastanza vicini alla frontiera peruviana e nel paese c’è un grande quartel militare. Non molto lontano da qui, nel 1995, ripresero corpo vecchi screzi tra Ecuador e Perù. La disputa diede origine a un conflitto armato, conosciuto come Guerra del Cenepa, dal nome del fiume che attraversa la zona. Prima di entrare in paese veniamo tutti sottoposti a un controllo dei documenti … cioè, si fa per dire “tutti”, nel senso che i nostri passaporti sono in regola, ma la maggior parte dei passeggeri viaggia senza documenti e, alla richiesta di esibirli da parte del militare, le risposte sono le più varie, tipo “sono il fratello di Juan, sono la sobrina (nipote) di Hernando, mio zio è quello seduto lì in fondo”. Il povero militare ricorda a tutti che “esta es la ultima vez” (questa è l’ultima volta) e che ha disposizioni, per cui da ora in poi nessuno potrà passare senza documento di identificazione. Sicuramente questa scena si ripete tutti i giorni, almeno a giudicare dal tono di voce rassegnato del giovane militare e dalle risatine dei passeggeri. Si alza la sbarra, il bus si rimette in moto e finalmente, tra  caldo infernale e polvere, alle 14.30 siamo a Santiago.

Santiago

rio Santiago

Intorno al terminal, che è solo un punto indefinito nella via principale del paese, si concentrano le attività di ristorazione. Scarichiamo i bagagli e ci facciamo servire una Coca-Cola gelata. Conosciamo così Gladys, una rotonda e sorridente signora, molto gentile, che gestisce il suo affollatissimo bar-bazar-ristorante. Trovandoci in un posto di frontiera non esattamente turistico, la presenza di stranieri dà subito nell’occhio, e, come spesso ci capita in queste circostanze, anche Gladys ci sottopone a un fuoco di fila di domande. La conversazione diventa divertente quando Gladys, incuriosita dalla nostra cartina dell’Ecuador poggiata sul tavolino, comincia a raccontare di alcune persone, tra cui il “famoso” fratello del Sindaco di Limòn, che hanno raggiunto gli Stati Uniti viaggiando “con mapa”, il tutto con un tono di voce tra il misterioso e il “anche io so come si viaggia”. Il ristorante non è un esempio di pulizia, ma lei compensa con la grande simpatia, e poi nella tienda si trova di tutto. Ci racconta di essersi sposata “grande”, a 23 anni, senza sapere nulla di quanto potesse avvenire fra un uomo e una donna. Quando è rimasta incinta del primo figlio non aveva idea di cosa le stesse succedendo, il suo pensiero era solo nascondere la pancia che cresceva di giorno in giorno. Nè la madre nè il marito si sono preoccupati di spiegarle qualcosa, e solo quando è rimasta incinta per la seconda volta ha avuto il coraggio da fare qualche domanda … e finalmente qualcuno le ha raccontato come stavano le cose, incredibile, no? Di fronte alla fermata del bus c’è un alloggio, dove però nessuno riesce a darci informazioni su quanto costi una camera. Ci riproviamo anche più tardi, ma la risposta di una sgarbata signorina, senza nemmeno sollevare lo sguardo dallo schermo del disturbatissimo televisore è “ahorita no hay cupo” (non c’è posto). Sulla stessa via, un pò più avanti, tentiamo con il secondo hotel. Seduta di fronte alla porta di ingresso, una anziana signora in attesa di una brezza che mai arriverà, ci dice di non avere una stanza pronta e “quien sabe, mas tarde” (chissà, più tardi). Cominciamo a pensare che gli stranieri non siano proprio ben visti da queste parti. Vabbè, non ci rimane che il terzo e ultimo albergo del paese. Il nome altisonante, Hotel Interoceanico, farebbe ben sperare, ma aspetto e accoglienza ci riportano immediatamente alla realtà. Ci vengono mostrate due camere, entrambe poco degne di nota. Quella che scegliamo (4 dollari per persona) è arredata “sobriamente”: due letti e nulla più. La risposta alle nostre successive domande è un secco “no hay”: non c’è ventilatore, non danno asciugamani, non forniscono carta igienica. Ah, naturalmente la stanza non ha bagno. L’unico vantaggio è che, avendo due finestre, si riesce a creare un minimo di corrente per tentare di alleviare il calore opprimente. Una delle finestre, quella che dà sulle scale, non ha la serratura per poterla chiudere. Memori di esperienze passate, decidiamo di garantirci un minimo di sicurezza, smontiamo la serratura della finestra inaccessibile e la rimontiamo su quella che potrebbe risultare invitante per un eventuale ladruncolo. Errore, da tempo la chiave della porta di ingresso è stata persa, e da allora tutti i clienti entrano nella camera scavalcando la finestra … proprio quella che noi abbiamo pensato bene di “sigillare”. Deve intervenire un baldo giovane munito di scala che, entrando attraverso la seconda finestra, ci apre la porta e finalmente possiamo rientrare. Tutto bene, ma gli albegatori di Santiago continuano a sembrarci un pò particolari. La sera in paese non c’è tanto da fare, e così ripassiamo da Gladys a bere una birra (1 dollaro la bottiglia da 600ml). Le riferiamo la strana sensazione di non essere tanto ben accetti, ma lei ci rassicura con un allegro “a mi sì, me gustan los gringos” (a me piacciono gli stranieri). Bene. Siamo un pò più tranquilli. Giusto per dare un  certo dinamismo alla serata, ci spostiamo qualche metro più in là, al Restaurante Nayaly, una grande capanna fatta con guadua (canna di bamboo), dove la Señora Rosa serve pollo arrosto, girando tra i tavoli, mentre tranquillamente continua a allattare al seno la figlia. Scorpacciata di pollo e bistecca per gli onnivori (Stefano) e di patate, riso e insalata per i vegetariani (Donatella), 4 dollari il tutto.

la simpatica Gladys

insegne a Santiago

 

martedì, 29 marzo e mercoledì, 30 marzo

Santiago è un paese decisamente tranquillo, dove si può girare senza problemi e ancora la gente conserva la piacevole abitudine di salutarsi per strada. È chiaro che qua tutti si conoscono, ma la cosa avviene anche fra sconosciuti, come nel nostro caso. In realtà, gli unici personaggi non proprio simpatici sembrano essere i proprietari degli hotel, incluso il nostro. Per il resto, tutto bene, a parte il gran caldo, i maledetti galli che ci svegliano la mattina all’alba e l’ancor peggiore odore di sopa che, prima ancora che faccia luce, invade la stanza dove dormiamo e tutto il circondario. Nel ristorante annesso all’albergo le manovre in cucina iniziano prestissimo, con il buio. Tra l’altro bisogna dire che in tutto il paese la luce viene staccata alle 23.00 (con conseguenti attacchi da parte delle zanzare, che fino a quell’ora possiamo tenere a bada con il fornellino elettrico, ma noi mettiamo le zanzariere alle finestre) e ritorna alle 6 del mattino. Le tenebre non bloccano però l’attività di chi lavora in cucina e, alla luce delle candele, nei pentoloni vengono adagiate grasse zampe di gallina, le cui unghie rosse sembrano appena uscite da un salone di bellezza. A proposito di odori, la sera, intorno alle 18.00, in vari punti del paese fanno la loro comparsa le churrasqueras (griglie per arrosti). Difficile dire se sia più drammatico il momento dell’accensione o quello in cui iniziano ad arrostire. Il primo scatena pesanti nuvoloni di fumo che invadono case e locali, nei cui interni diventa impossibile respirare. Ma la gente non si preoccupa affatto. La seconda fase, quella della asadura (cottura alla griglia), è ugualmente “fumosa” e ha come protagonisti petti e cosce di pollo, invitanti bistecche di maiale o le più misere alitas de pollo (ali di pollo). Ancora una volta, colpisce la presenza femminile sul lavoro e, anche quando si vedono gruppi familiari seduti ai tavoli dei ristoranti, la donna, probabilmente distrutta dal lavoro di tutta la giornata in campagna, a casa, con i figli, in cucina, con il marito … alla fine sembra tanto stanca da non avere la forza di mangiare, forse l’unico desiderio è andare a dormire, mentre i mariti sembrano in piena forma, affamati e carichi di energie. Apparentemente il tema della salute femminile e della gravidanza viene affrontato con grande serietà dal governo dell’Ecuador e dappertutto si vedono foglietti informativi, nei quali la donna viene invitata a presentarsi nei centri di salute, dove godrà di assistenza gratuita. L’idea è buona, e probabilmente anche le intenzioni, ma le cose assumono un aspetto diverso quando andiamo a visitare il Subcentro de Salud. Come prima cosa è chiuso, ben chiuso, tutto intorno dominano erbacce, cartacce e perdite d’acqua, ma ancora più sconcertante è vedere gli ambulatori: bottiglie di disinfettante aperte, polvere e sporcizia dappartutto, lenzuola appallottolate sui letti, sporche di sangue, insetti morti … forse è meglio che le donne continuino a partorire in casa. In paese non mancano le farmacie, gestite da “dottoresse” certamente più esperte in tinture per capelli che non in medicinali. Comunque i farmaci, almeno quelli di prima necessità si possono comprare anche nelle ferretterie. Ci sono negozi dove si trova di tutto, davvero di tutto e le attività commerciali sono quasi esclusivamente gestite dai “coloni”, cioè i bianchi che si sono trasferiti a Santiago da varie zone del paese. L’atteggiamento dei bianchi ha sempre quel tono di sufficienza nei confronti degli indigeni, e sono soprattutto alcune frasi a far riflettere, tipo “lì c’è una comunità shuar, ma non sono cattivi”. Il distacco è piuttosto netto, tendendo a specificare che “mica siamo tutti indigeni”. Guardando i bambini che escono da scuola, i bianchi vanno da una parte e gli altri prendono un’altra direzione, questi ultimi magari dovranno camminare parecchio prima di raggiungere il proprio villaggio. Facciamo la conoscenza di un gruppo di simpatici ragazzini. Solo una femmina fa parte della compagnia, per il resto sono tutti maschi, impegnati a prendersi in giro l’uno con l’altro, chi perchè è basso, chi per il colore dei capelli, chi perchè è un ciccione (il soprannome di uno di loro è Chancho, cioe maiale), con la crudeltà che solo i bambini riescono ad avere. Il capobranco si chiama Braian (qui lo scrivono così), biondino, magro, con lo sguardo vispo. Ovviamente, come spesso capita, non è il primo della classe, però è simpatico. Speriamo che, crescendo, non diventi come il tipo che vediamo la sera in ristorante: mocassino nero sulla gamba tozza, bermuda largo fino al ginocchio, orrenda maglietta traforata con il disegno della tela dell’Uomo Ragno, attraverso la quale si può ammirare lo stomaco “modello anguria”. Tra le caratteristiche curiose di Santiago c’è anche il fatto che, avendo poche persone il telefono in casa, la gente riceve le chiamate nell’hotel di fronte al Restaurante Nayaly e l’interessato viene avvisato a tutto volume, attraverso un altoparlante. Questo viene usato spesso anche per allietare tutto il paese con assordanti musichette … per fortuna l’hotel non aveva stanze disponibili per noi.

ponte sospeso sul rio Santiago

Santiago può vantare la sua imponente missione salesiana, che si trova poco fuori dal paese e che ormai è chiusa. Peccato, c’è un sacco di spazio inutilizzato, grandi costruzioni in legno che, se nessuno le cura, finiranno per diventare rovine. Perchè si saranno presi la briga di montare strutture così grandi per poi abbandonarle? In paese ci dicono che prima (può essere un mese come vent’anni fa) la missione funzionava bene, aveva la scuola, un laboratorio per la lavorazione del legno e altre attività, ma adesso è tutto chiuso. Superata la missione, sulla sinistra c’è la scuola e sulla destra un lungo ponte sospeso su cavi metallici, che permette di superare l’ampio rio Santiago, dalle acque fangose e turbolente. La gente del posto ha abbastanza timore del ponte, dicono che balla molto a causa del vento, ma non hanno scelta, chi vive dall’altra parte del fiume deve per forza passarci, e allora si fanno coraggio, si mettono in fila e, camminando lentamente, raggiungono l’altra sponda, cercando di non guardare in basso. Passiamo anche noi e, quando arriviamo sull’altra riva, ci troviamo in mezzo alla foresta. Ci sono alcune case in legno, ben sollevate da terra, circondate da galline, maiali e anatre. Procediamo senza meta, seguendo alcuni sentieri, fino a dove le nostre scarpe inappropriate ce lo consentono. Cerchiamo di raggiungere un punto del fiume dove, secondo Gladys, si può attraversare e da lì raggiungere una comunità shuar poco distante. Per lei, romantica, la principale attrattiva è il mirador (belvedere) dal quale è possibile vedere un banco di sabbia a forma di cuore. Per noi sarebbe più interessante visitare la comunità. In ogni caso non riusciamo a trovare nè l’uno nè l’altro, cosicchè sulla via del ritorno ripieghiamo su una grande choza (capanna) che ha tutto l’aspetto di un bar-ristorante. Così è, anche se alle prime armi e senza corrente elettrica. L’unico refrigerio è offerto da una Coca-Cola a temperatura ambiente.

 

Nonostante i tentativi, nessuno sembra in grado di chiarire i nostri dubbi su come raggiungere Yaupi e soprattutto di dirci se lì ci sia possibilità di alloggio, una tienda ... almeno per comprare acqua e generi basici. Decidiamo così di raggiungere il tanto menzionato puente de Yaupi, sulla strada tra Santiago e Puerto Morona. L’unica cosa che sappiamo è che dal ponte partono le canoe che risalgono il fiume. Il problema di fondo che ancora non riusciamo a chiarire è capire cosa effettivamente sia Yaupi: il fiume su cui navigano le canoe si chiama Yaupi, il ponte che lo attraversa si chiama puente de Yaupi, la zona si chiama Yaupi, ma noi siamo alla ricerca del villaggio shuar di cui abbiamo letto sul giornale, si chiamerà Yaupi anche questo? Partiamo da Santiago a piedi, intorno a mezzogiorno, l’ora migliore per muoversi nelle zone tropicali, no? Iniziamo a camminare sapendo che, intorno alle 14.00 potremo salire sul bus diretto a Puerto Morona, verso il confine peruviano, e che passerà per il puente. Nonostante il caldo, camminiamo per oltre due ore, approfittando ogni tanto delle scarse zone di ombra, per riprendere fiato. Il panorama è quello della selva tropicale, anche se la presenza umana ha fatto si che molte aree siano state disboscate e utilizzate per le coltivazioni che, per quanto possiamo vedere, si riducono a yuca, mais e qualche albero di papaya. A differenza della selva brasiliana, dove la mancanza di rilievi non permette di avere una visione ampia, qua possiamo ammirare la foresta in maniera più spaziosa, con belle viste sulle verdissime vallate e più in là, all’orizzonte, il profilo della Cordillera del Condor, che marca il confine con il Perù. Dopo un’ora e mezza di strada polverosa raggiungiamo la comunità Chichis, uno sparuto gruppo di case, intorno alle quali gironzolano solo alcuni bambini, ancora mezz’ora di cammino e siamo a San Miguel, altra comunità shuar, più spopolata della prima. Ormai il bus dovrebbe essere in arrivo ... chissà. Dopo tre ore di cammino ci fermiamo per attendere il turno (termine usato per definire il bus) che finalmente, avvolto da un nuvolone di polvere, fa la sua strombettante comparsa verso le 16.00. Siamo ancora a mezz’ora di bus dal ponte e a chissà quante ore a piedi. A bordo, un paio di persone ci domandano dove andiamo, un mezzo ubriaco ci racconta avventure mirabolanti con turisti stranieri, dice che bisogna stare attenti con i prezzi “porque a los gringos les cobran mas” (perchè agli stranieri fanno pagare di più), concludendo con “fidatevi di me che io non vi imbroglio”. Un altro, un pò più tranquillo e attendibile, ci dice che la canoa che  raggiunge Yaupi costa 5 dollari. Continua il mistero su Yaupi, sicuri però che, una volta raggiunto il ponte, riusciremo a chiarire qualcosa. Intanto, il ponte effettivamente c’è e da qui si gode di un bel panorama: qualche casa ai lati della strada, un piccolo chiosco che però non vende assolutamente nulla, tutto qui, poi la strada prosegue per Puerto Morona. Sotto il ponte, accostate sulla riva fangosa, lunghe canoe in legno e qualche zattera improvvisata, con la quale i bambini giocano, in una zona del fiume dove la corrente è quasi inesistente. Scendiamo lungo un sentiero accidentato, fresco di pioggia e dunque fangoso, ci vorrebbero gli stivali di gomma! Solo pochi minuti e raggiungiamo una costruzione in legno che sorge a pochi metri dalla riva. Alcune casse di bibite all’esterno ci invitano a entrare, con il miraggio di un refresco (bibita gassata), ma concludiamo come al solito con una bevanda caliente. All’interno, nella zona vicino al banco, si raccolgono gli uomini, ciascuno con la sua bottiglietta di gaseosa (bevanda gassata) fra le mani, mentre il resto dello spazio è occupato da donne indigene, diligentemente sedute per terra ... ognuna con la sua prole. Rispettiamo rigorosamente la divisione degli spazi in base ai sessi, trangugiamo il liquido, paghiamo e usciamo, tra l’indifferenza dei presenti, alla ricerca di quelli delle canoe. Mettiamo subito in chiaro che non vogliamo noleggiare l’imbarcazione, ma solo pagare il passaggio normale. Ci confermano che il viaggio costa 4/5 dollari e che la canoa parte all’alba, intorno alle 5/6 del mattino. Chiariamo anche un altro dubbio: Yaupi è il nome della zona, noi dovremmo arrivare, al termine della navigazione, a Parada, e da qui camminare, per un tempo che non riusciamo a farci definire, fino a Parroquia, la comunità più grande. Insomma, non è tutto chiaro, ma sappiamo qualcosa in più. Conosciamo due peruviani, babbo e figlio, stracarichi di bagagli, appena arrivati dal Perù, dopo una lunga navigazione in canoa lungo il rio Santiago. Dal ponte dove ci troviamo, con la corrente del fiume a favore, il confine peruviano si raggiunge in 15 minuti. Il ragazzo avrà più o meno 16 anni, ha tra le mani una edizione Bignami della storia del Perù, parla con animosità del suo paese, dei problemi della scuola e della salute concludendo che, secondo lui, qui in Ecuador la situazione è molto più seria. Il babbo sembra meno impegnato e più selvaggio, almeno a giudicare dai piedi scalzi, dal lungo machete sguainato che tiene in mano e da una malcelata doppietta avvolta in una coperta. Portano con sè un tucano, un pappagallino verde e un altro paio di uccelli dal piumaggio azzurro, questi ultimi chiusi in una gabbietta di legno. Dicono che li daranno a un signore per metterli in un giardino zoologico, sarà così? Tempo e spazio sono concetti davvero relativi in America Latina e così l’attesa del bus che ci riporterà a Santiago si fa lunga. L’orario previsto sarebbe le 17.00 ma, nella calma più totale, scivoliamo, superando abbondantemente le 18.00. Nessun problema, tutti a bordo, per un’ora di viaggio che trascorre tra il sali e scendi continuo dei passeggeri. Qualche sedile più avanti del nostro, anche i due peruviani con i loro volatili. Qualcuno gli domanda se sono in vendita e la risposta, naturalmente è “si” ... altro che zoologico!

 

giovedì, 31 marzo

È la notte tra mercoledì e giovedì, ci svegliamo a mezzanotte e mezza. Naturalmente dobbiamo prepararci al lume di candela perchè, come sempre, l’energia elettrica viene staccata in tutto il paese alle 23.00. Indossiamo il nostro “abbigliamento da foresta”, che include gli splendidi stivaloni di gomma, acquistati ieri (4.80 dollari quelli di Stefano, 4.20 dollari quelli di Donatella). Il nostro bagaglio: zaino da 35lt, due zainetti, un bottiglione di acqua da 5lt e un bustone pieno di viveri (riso, aglio, cipolle, zucchero, caffè, marmellata, uova sode, tonno, fagioli in latta, carote, frutta, caramelle). Ci accompagnano anche una pentola di alluminio e vari rotoli di carta igienica … un vero e proprio set da sopravvivenza. Il bus che ci porterà al puente de Yaupi non ha (devo dirlo?) un orario preciso, diciamo che a partire dall’una dobbiamo tenerci pronti, con la speranza di non dover attendere per ore. Andiamo giù e, con pazienza, aspettiamo. Siamo fortunati: arriva intorno alla 1.30. È semivuoto, qualcuno dorme ma, appena usciamo dal paese, il chofer (autista) pensa bene di aumentare il volume della musica. Come spesso accade, solo a noi pare strano che alle due del mattino un bus viaggi con la musica alta. In realtà, chi dormiva continua a dormire placidamente. Il viaggio è abbastanza rapido e qualche minuto dopo le 2.00 siamo al puente, con una lunghissima attesa da affrontare. La notte è limpida, c’è un bel cielo, animato dalla confortante luna e dalla visibilissima Croce del Sud. A un certo punto, rapida e inattesa, cala la nebbia e dunque, fra un colpo di sonno e un biscotto, non ci rimane che sopportare la fredda umidità, ascoltare il canto dei galli che, ritmicamente, si rispondono l’uno con l’altro e guardare le fiabesche lucciole, la cui luce appare e scompare. Qualcuno sa spiegarmi da dove arrivi la luce delle lucciole? Il tempo pare non passare mai, e invece passa, alle 3.50 arriva il secondo bus, sempre proveniente da Macas. Ma perchè non abbiamo preso questo? Avremmo potuto dormire un paio di ore in più.

 

zattere sul rio Yaupi

a sinistra, il motore peque,

in mezzo, la nostra canoa

Solo verso le 5.00 cominciamo a vedere qualche movimento nella zona delle canoe. Ancora è buio pesto, ma, nonostante bustoni e zaini, e grazie alla provvidenziale pila, riusciamo a raggiungere la riva del fiume. Tutto avviene con pochi convenevoli, nessuno ci degna di troppo attenzione e anche fra loro non ci sono grandi scambi di parole. Infiliamo zaino e “busta delle delizie” in un sacco di plastica e teniamo con noi gli zainetti, osservando con una certa preoccupazione il fondo della canoa pieno d’acqua e le grandi fessure sul bordo … nemmeno questa volta viaggeremo su un mezzo di lusso. La canoa è di legno, ricavata da un solo tronco (in Brasile le chiamano canoa de um pao), misura circa 9 mt e ha un motore Johnson da 25 HP. Abbiamo visto anche canoe spinte da peke (o peque), lo strano motore con un lungo piede, originario del Perù. Nell’Amazzonia brasiliana abbiamo avuto il piacere di conoscere anche questi, li chiamano rabeta (da rabo, cioè “coda”). Tutti pronti dunque, alle 5.50, quando ormai inizia a scharire, iniziamo la risalita del rio Yaupi. A bordo siamo in quattro: noi due, il motorista Carlos Charupi e un’altra passeggera. Partiamo, e immediatamente  tornano i mente le sensazioni e le immagini del Brasile, anche se in realtà niente può essere paragonato all’enormità del rio Amazonas. Effettivamente qui il panorama è più simile a quello del rio Caura, in Venezuela. Navighiamo abbastanza vicini alla vegetazione rigogliosa, in mezzo alla quale ogni tanto si intravvedono sentieri e rare zone abitate. Ancora c’è un pò di nebbia, ma il sole comincia a sbucare dalle cime degli alberi e dai rilievi, benchè le nuvole basse lo nascondano. La temperatura è piuttosto bassa e l’umidità forte e pungente, ma per fortuna pare che nella barca non entri acqua, e nemmeno arrivano troppi spruzzi dai lati. Dopo circa mezz’ora di navigazione facciamo una fermata sulla riva alla nostra sinistra. È il momento del desayuno (colazione). Lasciata la canoa in una piccola spiaggetta, raggiungiamo una capanna, allietata dal fuoco acceso. Il padrone di casa si siede con Carlos mentre la moglie, in gonna e maglietta e con il bambino legato sulle spalle, imbandisce il tavolaccio con pesci bolliti e pezzi di yuca, tirandoli fuori da un grosso pentolone. Non sarebbe male fare colazione, ma preferiamo lasciar perdere, è troppo presto per attaccarsi a una zuppa di pesce. La nostra compagna di viaggio e il motorista invece non si fanno pregare e, almeno a giudicare dalla voracità con cui mangiano, sembrano gradire, lui in modo particolare, succhiando rumorosamente le spine una per una, totalmente indifferente alla silenziosa richiesta dei due cani che, poco lontani, sperano che rimanga almeno un pezzettino di pesce anche per loro. Ripartiamo verso le 7.00, finalmente si comincia a sentire il tepore del sole sulle spalle, anche se continua a esserci un certo freschetto. La distanza tra una riva e l’altra del fiume è di circa 50 metri, la corrente è piuttosto forte e in alcuni punti dobbiamo superare piccole rapide nelle quali si vede il fondale molto basso. Tutto tranquillo comunque e non imbarchiamo nemmeno tanta acqua. Charupi è un bravo motorista e la ragazza lo aiuta passando da una parte all’altra della canoa, bilanciandola a seconda delle indicazioni. A noi non chiede niente, probabilmente ci considera i soliti “gringos che non sanno fare niente” (il termine “gringo” identifica qualunque straniero non facente parte del continente sudamericano). Superiamo alcune comunità, composte da poche chozas, rimaniamo sorpresi trovandoci di fronte a una tarabita, un cestello, che potrà ospitare non più di due persone, sospeso per aria a un cavo metallico che corre da una sponda all’altra. Con questo sistema, gli indigeni della zona trasportano carichi e si spostano da una parte all’altra del fiume, il tutto tra la folta vegetazione, nella quale spicca l’elegante e altissima guadua. Proseguendo nella navigazione siamo in grado di decodificare alcune delle domande che, quando chiedevamo informazioni si Yaupi, ci venivano fatte e alle quali non sapevamo come rispondere. Quando dicevamo di voler andare a Yaupi, una delle richieste più frequenti era “ma dove volete andare, a Parada, a Bodega, a Parroquia?”, e la nostra risposta era sempre uguale, cioè “noi vogliamo andare a Yaupi”, senza capire che Yaupi è il nome di tutta la zona, all’interno della quale ci sono varie località … si, però bastava dirlo. Passiamo per Bodega, composta di un’unica costruzione in legno, che viene usata per riparare le canoe quando hanno qualche problema … ma perchè avremmo dovuto fermarci qui, se non c’è assolutamente niente? Qualche minuto dopo le 8.00 arriviamo a Parada, paghiamo il nostro passaggio (4 dollari a testa) e scarichiamo le nostre cose. Questo è l’ultimo punto che possiamo raggiungere in canoa, più avanti il basso livello del fiume impedisce la navigazione, e anche qui non c’è praticamente nulla, solo una capanna. La località dove dobbiamo arrivare si chiama Parroquia de Yaupi e Carlos, il motorista, prima di allontanarsi con la sua canoa, dice che ci vorranno circa 45 minuti di cammino. Fin dai primi metri ci rendiamo conto di quanto sia stata sensata la decisione di comprare gli stivali di gomma. Infatti il fango, oltre a essere estremamente viscido e scivoloso, in alcuni punti supera abbondantemente le caviglie. Sarebbe difficilissimo caminare con le scarpe da ginnastica e ancora peggio con le ciabatte di gomma, che si incollerebbero al fango. Andiamo avanti lentamente, appesantiti dagli zaini e soprattutto dal fastidioso bustone delle vettovaglie. Solo in brevi tratti riusciamo a camminare senza fatica, grazie alla presenza dell’empalizado (tronchi e tavoloni di legno appositamente sistemati lungo il sentiero), ma, in generale, il sentiero è in pessime condizioni, con ampie pozzanghere a rischio di “annegamento”. Ogni tanto ci fermiamo, ma le zone d’ombra sono scarsissime e la temperatura alta, abbiamo voluto l’Amazzonia? Il concetto del tempo e delle distanze, man mano che avanziamo, sembra diventare sempre più relativo: alle poche persone che incontriamo chiediamo quanto manca per arrivare a Parroquia … e manca sempre mezz’ora! Tra le varie persone che incrociamo c’è Lorenzo, che ci indica il nome del fratello, Miguel, e del Teniente Politico, dicendo che forse, una volta raggiunta Parroquia,  potrebbero darci alloggio nei locali della Junta Parroquial. Ah, anche lui ci rincuora, affermando che manca poco per arrivare alla meta. Per fortuna il cielo è coperto, cioè, un pò è una fortuna e un pò non lo è, perchè quando esce il sole si può sperare in una leggera brezza, mentre con le nuvole l’aria si ferma, diventando irrespirabile. In ogni caso è meglio che il sole non si faccia vedere perchè la temperatura diventa insopportabile, ripeto, abbiamo voluto l’Amazzonia? Affaticati, continuiamo a camminare, tra il sinistro risucchio del fango che, a ogni passo, sembra volersi appropriare dei nostri stivali.

lungo il sentiero empalizado …

… con gli stivali

Non teniamo più in considerazione le indicazioni che ci vengono date, tipo “mancano 200 metri, da qui in poi la strada è buona, manca solo mezz’ora” … in conclusione, dopo due ore iniziamo a vedere qualche segno di presenza umana e, alle 10.30, siamo a Parroquia. Ormai il caldo si fa sentire pesantemente, siamo stanchi, affamati e assetati … un sorso di acqua, un uovo sodo e un mandarino assumono un sapore davvero delizioso e ristoratore. Ci rendiamo conto di esserci fermati davanti alla scuola e dalle finestre gruppi di bambini ci guardano con curiosità. Anche per loro è il momento del pranzo, che consiste in un semplice piatto di riso, cucinato all’aperto sul fuoco legna, affianco alla scuola. Qualcuno grida “hello, good evening”, e tutti ridono, altri ci chiamano per mangiare un pò del loro riso, e anche in questo caso tutti ridono. Si avvicinano un paio di persone e facciamo così il nostro incontro diretto con gli indigeni Shuar, che abitano le comunità della regione. Il giornale su cui abbiamo letto per la prima volta di Yaupi mostrava foto di indigeni con gonnellini di paglia e copricapi di piume, ma quelle sono accoglienze dedicate ai turisti che arrivano in aereo e accompagnati dalle guide. Noi vediamo solo persone in jeans e maglietta, le donne in gonna e quasi tutti indossano stivali di gomma uguali ai nostri. Fisicamente, non sono minuti come gli indigeni che vivono nella sierra. Hanno un aspetto piuttosto massiccio, con spalle e gambe forti, braccia ben grosse e collo un pò “incassato”. Rispetto agli uomini, le donne sono leggermente più slanciate e hanno bei lineamenti, che a volte ricordano quelli delle donne indonesiane.

bambini shuar a cavallo lungo il sentiero

bambini shuar a Parroquia de Yaupi

Anche i bambini hanno bei visi, con grandi occhi scuri tirati, incorniciati dai classici capelli neri e lisci, tagliati a caschetto quelli dei maschietti, lunghi quelli delle bambine. Devo dire che è gradevole vedere bambini sorridenti e le cui guance non sono bruciate dal sole e dal vento, come quelle dei bambini che vivono nella zona andina. Con loro il contatto è facile, mentre con gli adulti dobbiamo affrontare una lunga serie di domande, fatte a raffica, tipo interrogatorio, che riguardano nome, cognome (anzi, in genere ci chiedono i due cognomi), lavoro, figli, stato civile e anche qualche indagine sul conto in banca, tutto senza che noi possiamo fare una sola domanda. Sono piuttosto sorpresi per il fatto che non siamo arrivati con una guida e non ci siamo rivolti ad alcuna agenzia … “ma allora, come avete fatto?”. Naturalmente, quando diciamo che stiamo cercando un alloggio, si scatena una specie di caccia all’uomo, tutti hanno una stanza da offrirci o conoscono qualcuno che lo possa fare. Stefano ha già tentato di rintracciare il Señor Cingue e il Teniente Politico, ma il primo non è reperibile e il secondo pare sia alle prese con una imprecisata emergencia familiar. Andiamo con la Señora Teresa, che dice di poterci affittare una stanza. Non abbiamo idea di come funzioni la comunità e di dove normalmente vadano i turisti. Yaupi è uno di quei posti dove solo dopo un paio di giorni si riesce a capire qualcosa di come vadano le cose. Questo capita anche a causa della scarsa attitudine delle persone a dare chiarimenti, nel senso che parlano come se tutti dovessimo conoscere il tale signore o la tale casa. E così ci ritroviamo a casa della Señora Teresa ad affrontare la sua concezione di hostal, che risulta abbastanza diversa dalla nostra: secondo lei dovremmo mettere le amache nella cucina, fra tavole e panche di legno, toglierle la mattina all’alba e risistemare tutto la notte, per andare a dormire. Sembra abbastanza scomodo, soprattutto considerando che ci chiede 6 dollari a testa, prezzo decisamente alto, che nel giro di due secondi cala a 4 dollari. Rifiutiamo l’offerta e torniamo nella piazza centrale, che sarebbe il campo di calcio, intorno al quale sorge la scuola. Non è neanche mezzogiorno ma noi, dopo la levataccia, il viaggio e la camminata, siamo stanchi come se fosse mezzanotte … e non abbiamo un posto dove andare a riposare. Ci sediamo all’ombra, appoggiandoci agli zaini, sperando in un filo di brezza. I bambini che escono da scuola ci guardano, sempre più curiosi, un paio si avvicinano, poi un altro paio … fino a che ci ritroviamo circondati da un folto gruppo di ragazzini, sensazione sempre piacevole. Condividiamo con loro qualche caramella, chiediamo della scuola, guardiamo i libri e i quaderni, proviamo a fare qualche domanda su eventuali alloggi, sperando che l’innocenza infantile possa venirci incontro, ma non c’è nulla da fare, siamo proprio dei senzatetto. Che fare? Tra le persone con cui parlavamo prima c’era un tale Señor Pedro, provo ad andare a cercarlo, chiedendo qua e là, tanto nel villaggio si conoscono tutti. Trovo la casa senza difficoltà, ma lui non c’è. Mentre sono sulla via del rientro, una ragazza mi chiama, dicendo di avere un posto per noi e che lei ha già lavorato con turisti. Le spiego che cerchiamo solo uno spazio dove mettere le amache e lasciare i  bagagli. Mi mostra una zona all’aperto, due pali per tendere le amache, sotto una tettoia. Non c’è luce, non c’è acqua, chiedo timidamente se c’è il bagno e lei risponde che non ci sono problemi, basta scegliere uno spazio all’aperto, fra una casa e l’altra. In compenso abbondano bambini e galline, che sbucano da ogni angolo. La ciliegina sulla torta arriva quando le chiedo quale sia il prezzo, e lei risponde candidamente “diez dolares”. Rimango senza parole perchè è una cifra piuttosto alta. Dice che questo è il prezzo normale, ma io credo che sia la prima volta che tratta con un turista. Tentando di non essere sgarbata, le rispondo che 10 dollari sono troppi, soprattutto considerando che si tratterebbe di pagare per non avere niente, se non due travi dove appendere le amache, cosa che posso trovare anche nella foresta. Torno da Stefano, dicendogli che forse dovremmo rassegnarci a dormire per strada, pazienza. Facciamo un ultimo tentativo, recandoci nella scuola e chiedendo ai professori se possiamo passare la notte in una delle aule, almeno per ripararci dalla eventuale e molto probabile pioggia. Anche qui la risposta è “no”, però una delle insegnanti presenti si offre di farci conoscere suo padre, che può farci stare a casa sua. Dove vive? “aquí cerquita” (qui vicino). Io rimango con gli zaini e Stefano va con lei, speriamo bene. Durante l’attesa arrivano un sacco di persone, tutti uomini, e riprende la serie interminabile di domande “cuando llegaron, como llegaron, nombre, appellidos, casada, cuantos hijos, cuanto se van a quedar??” (quando siete arrivati, come siete arrivati, nome, cognomi, sposata, quanti figli, quanto tempo vi fermerete??) … Stefano torna dopo quasi un’ora, quando ormai le domande si avvicinano a livelli pericolosamente privati. Il posto che ha visto va bene, e in ogni caso non ci restano molte alternative. Carichiamo in spalla zaini, buste, acqua e andiamo. Camminiamo per una ventina di minuti, lungo il sentiero percorso all’andata e arriviamo a una isolata costruzione in legno con tetto di paglia, che già avevamo notato arrivando.

casa shuar

ingresso

La capanna, che poi scopriremo essere la tipica casa shuar, sorge a pochi metri dal sentiero che conduce a Parroquia, in un grande terreno accuratamente ripulito dalla incombente e rigogliosa flora, che invece tutto intorno delimita il perimetro. La choza ha un aspetto imponente e si sviluppa in forma ellittica per una lunghezza di circa 31 passi, raggiungendo, nel punto più largo, circa 10 passi. La struttura portante della capanna è realizzata con pali di legno e guadua, per la copertura del tetto invece viene utilizzata la paja toquilla (foglie di palma).

casa shuar di Jimpikit Tsenkush Santiak a Yaupi

L’ingresso principale è orientato verso il sentiero. Il tetto spiovente, che arriva a circa 1,70mt da terra e la palizzata di guadua che chiude tutto il perimetro, rendono la capanna piuttosto buia, offrendo però un ottimo riparo da pioggia e calore. Dall’entrata principale fino a oltre metà della casa, lo spazio è libero, con i soli pali centrali che reggono la struttura del tetto. Più in là, sulla destra, quella che noi potremmo chiamare “zona notte”, riservata ai padroni di casa e costituita da semplici tavoloni, sollevati da terra, usati come letti. Sulla sinistra, un tavolo, una panca in legno e, poco oltre, una piccola porta che conduce all’esterno. Appese alle travi, lunghe collane fatte con semi di piante, conchiglie e piume. Sulle piccole mensole, lampade a kerosene, ricavate da bottiglie. Esattamente sul lato opposto all’ingresso principale, una seconda porta permette di accedere alla cucina. Questa, di forma rettangolare, sorge separata, solo a un paio di metri oltre la capanna. Entrando, a sinistra, un tavolo e due panche in legno. Sulla destra una piccola mensola ospita pentole e piatti, in fondo a sinistra altre pentole appese qua e là, in terra alcuni bidoni con le provviste d’acqua. Più al centro, in terra, lunghi pali di legno alimentano il fuoco, tenuto acceso tutto il giorno. Sapremo poi che questa è l’unica casa shuar della zona, costruita seguendo la tradizione indigena. Tutta la struttura, infatti, è tenuta insieme da legature realizzate con fibre naturali. Abbiamo già avuto occasione, in Brasile e Venezuela, di ammirare la raffinatezza delle tecniche di costruzione delle capanne indigene, ma in questo caso, rimaniamo colpiti anche dalle dimensioni e dalla forma della choza. Vista la bellezza del posto e il prezzo più che onesto (2 dollari a testa al giorno), la decisione è facile: sarà questa la nostra dimora per i prossimi giorni. Di giorno potremo contare sulla luce del sole e di notte su quella di candele e lampade a kerosene, l’acqua sarà quella del piccolo torrente che scorre a pochi metri di distanza, quanto ai servizi igienici … tutto nella selva, sempre con gli stivali di gomma indosso e controllando che non ci siano animali in giro.

Jimpikit Tsenkush Santiak

Proprietari della casa sono Jimpitik Tsenkush Santiak e sua moglie Laura, della quale conosco solo il nome “spagnolo” e non quello originale, in lingua shuar. Lui ha una sessantina di anni (lo scrivo perchè, da quanto ci racconterà più tardi, siamo in grado di calcolare la sua età, ma, a vederlo, potrebbe essere un cinquantenne così come un ottantenne, dipende dalla luce), capelli bianchi che quasi raggiungono la spalla, una curiosa e insolita barbetta, piccolo di statura. I lineamenti del viso, i piccoli occhi vispi e allungati fanno pensare a un orientale più che a un sudamericano. È perfettamente in sintonia con la guadua e la paglia che compongono la casa, e, quando sorride, gli occhi quasi scompaiono, lasciando i posto a due fessure sottilissime. Lei, di aspetto più austero, è seria e silenziosa, caratteristica comune a gran parte delle donne da queste parti. Potrebbe sembrare una indiana nord americana, con i capelli lunghi, un tempo sicuramente nerissimi e oggi illuminati d’argento, raccolti in una treccia sottile. Il fisico è apparentemente minuto e fragile, impressione che viene smentita non appena la si osserva al lavoro (cioè quasi sempre), mentre solleva pesanti cesti carichi di yuca, papaya o tuberi vari dal nome impronunciabile.

le nostre amache, con zanzariere 

Come benvenuto ci viene offerto un piattone di papaya già tagliata a fette, buonissima e rinfrescante Ormai è pomeriggio inoltrato e, considerato che non c’è energia elettrica e che dentro la capanna non arriva tanta luce, dobbiamo sbrigarci a sistemare le amache, operazione che non richiede molto tempo. Una volta finito, ci avviamo al ruscello dove, con un pò di fantasia, riusciamo a darci una lavata che si porta via una parte del calore e della stanchezza accumulati durante la giornata. Adesso la necessità più impellente è mangiare qualcosa. Prepariamo riso, lasciandolo cuocere con la fiamma alta in poca acqua, di modo che questa evapori e non ci sia bisogno di scolarlo. Anche questo è buonissimo, condito con sapore di legno bruciato e aroma di selva amazzonica, o forse è la fame a farcelo apprezzare tanto. Il problema più serio, in campo alimentare, è quello che riguarda l’acqua potabile. Qui nessuno può permettersi di comprare acqua imbottigliata, e in ogni caso questa non viene venduta nelle tiendas del villaggio. Si utilizza l’acqua dei fiumi che, per cucinare, viene fatta bollire. Anche noi ci dobbiamo adeguare, tenendo le dita incrociate e sperando che il nostro intestino non faccia brutti scherzi. Ancora una volta, non abbiamo scelta: l’acqua che abbiamo portato con noi non è tantissima, la useremo solo per bere e non per cucinare.

cucina a legna

 La bevanda preferita dagli Shuar è la chicha, misteriosa bevanda fermentata e alcoolica a base di yuca, insaporita a volte con banana. A quanto pare, non muovono un passo senza il prezioso bidoncino di plastica (giallo o bianco) contenente la chicha, consumata da uomini e donne fin dalle prime ore del mattino e poi per tutta la giornata. In realtà sembra quasi che la chicha sia la più costante, e quasi unica, fonte di sostentamento. La bevono da grandi scodelloni in plastica e, dopo il riso, anche per noi ne arriva una bella dose che sorseggiamo seduti su una panca in cucina, insieme a Tsenkush e Laura, alla luce di una romantica lampada a gasolio, ricavata da una semplice bottiglietta di vetro nella quale viene introdotto uno stoppino. La luce non è tanta, ma sufficiente per vedere enormi esemplari di blatte che passano, a velocità supersonica, sul tavolo e sulla parete. Blatte a parte, l’atmosfera è decisamente piacevole e suggestiva, riempita dallo scoppiettare del fuoco, dai versi delle rane che arrivano dall’esterno e animata dalla voce di Tsenkush che, fra mille pause e mille sorsi di chicha, ci racconta che un tempo aveva intenzione di diventare prete ma non ha resistito alle dure regole della vita all’interno del seminario salesiano, soprattutto perchè lui e gli altri seminaristi facevano praticamente la fame, mentre i preti si abbuffavano di carne, pesce e altro.

 

Gli Shuar sono un gruppo indigeno che vive fra l’Ecuador e il nord del Perù. In Ecuador, la zona occupata dagli Shuar è quella sud-orientale, la regione amazzonica, fra le provincie Pastaza, Zamora Chinchipe e Morona Santiago. Quest’ultima è quella in cui si ha la maggiore concentrazione di Shuar ed è anche la terra che tradizionalmente hanno sempre occupato, prima di essere costretti a cederne una parte, a causa della forte espansione delle compagnie petrolifere e minerarie. La lingua di questo gruppo indigeno è il shuar-chicham, appartenente alla famiglia linguistica Jivaorana. La parola “shuar” significa “popolo”, benchè fino a poco tempo fa fossero conosciuti come Jivaro o Jibaro, definizione da loro sempre rifiutata, perchè imposta dagli spagnoli e perchè associata al concetto di “selvaggi” e “tagliatori di teste”. Gli Shuar sono sempre stati considerati combattenti agguerriti, tanto che nè Incas nè spagnoli sono riusciti a conquistare i loro territori. Con l’aiuto dei missionari salesiani, nel 1964 hanno fondato la prima federazione indigena nell'Amazzonia Ecuatoriana, riconosciuta dal governo. La federazione, tuttora esistente, ha come scopo la difesa della cultura shuar dalle intrusioni esterne. I salesiani, presenti nella zona fin dagli anni ’30, hanno ancora oggi un grande ascendente sugli indigeni shuar, quasi tutti cattolici. L’arrivo dei religiosi ha provocato grandi cambiamenti nella vita del popolo shuar. 

 

tzanza

Una delle pratiche shuar più conosciute, e che continua a fare scalpore, benchè ormai sia in disuso, riguarda la tradizione di tagliare la testa del nemico sconfitto per trasformarla in tzanza. Una volta ucciso, il prigioniero veniva decapitato e, dopo aver cucito occhi e bocca con fibre vegetali (qualcuno dice che questa operazione venisse effettuata quando il nemico era ancora in vita), il cranio veniva praticamente scuoiato, salvando tutta la capigliatura. La pelle, ormai svuotata, veniva quindi riempita con pietre calcaree e erbe, e messa a bollire con varie sostanze vegetali, alcune delle quali secernevano tannino, che conferiva una colorazione rosso scura. In questo modo si effettuava la riduzione della testa, che si convertiva in tzanza (o tzantza, o tsansa, o tsantsa). Le pietre all’interno avevano la funzione di creare la nuova forma e dimensione. Tsenkush dice che nel Centro Shuar a Sucùa (che noi abbiamo trovato chiuso per le feste pasquali) avevano alcuni esemplari di tzanza, che sono stati prelevati da rappresentanti di non meglio definite istituzioni, per poterle analizzare … non le hanno mai riconsegnate. Racconta anche di alcuni tzanza, recuperati in Olanda, ma anche questi non si sa dove siano andati a finire. Solo a Cuenca, qualche mese più tardi, vedremo un tzanza, esposto nel Museo de las Cultura Aborigenas. Ha ancora tutti i capelli, occhi e bocca sono cuciti e le dimensioni sono quelle della testa di un neonato. Il colore è scuro e la zona mandibolare è molto pronunciata. La pratica di ridurre la testa non esiste più … qualcuno dice che ci siano ancora anziani che la effettuano su teste di animali, per tenersi in allenamento. In ogni caso, non più di venti anni fa, uno straniero è stato bloccato in aeroporto a Quito e, in mezzo ai ricordini, aveva un esemplare di tzanza di recente fattura. Su internet è facile vedere esempi di tzanza, conservati in musei americani e europei, e, incredibile,  troviamo anche un sito dove è possibile acquistarli.

Tra un racconto e l’altro la serata avanza, e così anche la stanchezza. Facendoci strada tra un esercito di blatte, raggiungiamo le amache, un rapido passaggio nella zona bagno, oltre la strada e per prendere sonno ci vogliono solo pochi secondi, grazie anche alla chiassosa ninna nanna cantata dalle rane. Penker kanarta (Buona notte in lingua shuar).

 

venerdì, 1 aprile

 

Stefano all’ingresso della casa shuar

Bella nottata, dormiamo bene, giusto un paio di puntate al “bagno” nel buio della selva, ma muniti di pila. Quando ci svegliamo il cielo è coperto, ma c’è comunque una bella luce. Tsenkush e Laura sono già in piena attività, per loro la giornata inizia ancora prima dell’alba. Facciamo un salto al ruscello per lavarci almeno la faccia e poi ci dedichiamo alla colazione. L’aria della selva mette un certo appetito. Prepariamo caffè, pane e marmellata, mentre la casa ci offre banane e papaya. Tsenkush si trattiene un pò con noi e parte subito con i racconti. Ha una memoria incredibile, ricorda nomi e date con estrema precisione, e ogni volta che nomina una persona lo fa citando il nome e aggiungendo i due cognomi, quello paterno e quello materno, ma non basta, anche i genitori vengono indicati con il nome e i due cognomi. Le storie sono interessanti, anche se a volte è difficile seguire il filo del discorso perchè inserisce nomi di persone, luoghi, istituzioni e citazioni che per noi sono totalmente sconosciuti. In più ci infila condimenti di carattere religioso o mitologico che sarebbe molto bello conoscere. Ogni tanto azzardiamo una domanda, ma spesso, dopo un iniziale tentativo di risposta, il discorso prende strade che solo lui può seguire … continuiamo ad ascoltare cercando di cogliere quanto più possiamo. Oggi ci sono anche i nipotini, figli della figlia, che sono, naturalmente, incuriositi dalla nostra presenza. Il maschietto, Jofre, è molto interessato alle amache. Gli dico che, se vuole, può provare a coricarsi e la cosa sembra piacergli. Loro sono abituati a dormire su tavoloni di legno durissimi, pura madera, un vero toccasana per la schiena. I bambini, insieme ai nonni, andranno alla granja per raccogliere platano, yuca, patate. Noi invece ci dirigiamo verso il villaggio. Il percorso non è complicato, grazie al empalizado, ma in alcuni punti fango e pozzanghere richiedono una certa attenzione … Stefano si distrae un attimo e fa un bel volo, non si rompe niente ma uno degli stivali si riempie completamente di acqua, con conseguente ammollo della calza … e successivo rischio, a causa del caldo, di “lessatura” del piede. Arriviamo comunque al vilaggio, in giro non c’è quasi nessuno, tentiamo di comprare qualcosa nelle due tiendas, ma gli unici alimenti reperibili sono riso, zucchero, sale e qualche biscotto, il basico del basico, come era prevedibile. Prendiamo un pacchetto di biscotti e ci avviamo verso l’uscita del paese attraverso un sentiero in pietra. Le case di Parroquia de Yaupi, circa una cinquantina, sono tutte in legno, con il tetto in zinco, cosa che conferisce alle abitazioni un aspetto piuttosto “caldo”. È un peccato che la lamiera stia prendendo il posto dei tetti fatti con le foglie di palma, la modernità … Nelle case non c’è acqua corrente ma alcuni possono usufruire del prezioso liquido attraverso pompe, collegate a una autoclave che prende direttamente l’acqua dal fiume. Molti continuano a andare al fiume a prendere l’acqua e lavarsi, come hanno fatto per tutta la vita. Lasciandoci il villaggio alle spalle raggiungiamo la “pista di atterraggio”, lunga 3/400 metri e larga una trentina. È stata costruita dai missionari salesiani … o meglio, dagli indigeni, sotto la supervisione dei salesiani. Al lato della pista scorre un bel fiume dalle acque limpide e rumorose. Ci fermiamo, approfittando dell’ombra per rinfrescarci. Stefano tenta inutilmente di fare asciugare la calza, l’umidità è molto elevata, dunque nulla da fare. Tutto intorno la natura rigogliosa ci ricorda che ci troviamo in piena foresta, benchè la mano dell’uomo abbia aperto molti spazi in quella che un tempo doveva essere una intricatissima barriera verde. Ripartiamo.

missione salesiana a Yaupi

Percorriamo tutta la lunghezza della pista e, seguendo un sentiero ben marcato, arriviamo alla grandissima missione salesiana che si sviluppa intorno a un ampio spiazzo in fondo al quale, su una delle pareti della scuola, domina l’immagine di Don Bosco. Nella missione esiste l’ala maschile e quella femminile, e fin qui nulla di strano, da un gruppo religioso non ci si può aspettare niente di diverso. La cosa curiosa è che i cani sono stati addestrati a vigilare sui ragazzi e morderli quando questi tentano di attraversare il “confine” … potenza della fede. La zona femminile è gestita dalle suore e oggi, essendo venerdì, ci sono molte mamme indigene che sono venute a salutare le figlie (future suore, se non rinsaviscono prima). All’interno della missione c’è il Colegio (scuola superiore). Gli alunni non pagano una retta, ma in cambio lavorano … facendosi un mazzo così. Anche i genitori degli allievi lavorano gratis, e sicuramente non si risparmiano, almeno a giudicare dalla pulizia del posto e dalle costruzioni. Queste ultime sono fatte di blocchetti, che uno dice, ma da dove diavolo li sono andati a prendere i blocchetti nella selva amazzonica?? Bene, i blocchetti sono arrivati fino alla pista con gli aerei, ma dalla pista alla missione, circa un quarto d’ora di cammino, sono stati trasportati a spalla … e non certo dai padri salesiani. Gli Shuar, come quasi tutti gli indigeni che abbiamo visto fino a ora, sono capaci di trasportare carichi enormi, camminando per ore, a volte anche per giorni. Incontriamo un gruppo di ragazze che torna alla missione con pesantissimi cesti, pieni di yuca. Il carico viene trasportato appoggiando la fascia, legata al cesto, sulla fronte. Certo, lavorano per pagarsi gli studi, ma Tsenkush dice che li sfruttano in maniera eccessiva. Bisogna considerare che lui, da futuro prete, si è trasformato in un anticlericale sfegatato, pur mantenendo, dice, la fede cattolica. Il crocefisso che porta al collo sembra confermarlo. Nella Missione conosciamo Milton, un giovane ingegnere di Guayaquil, che per un anno lavorerà qui come volontario. Ci invita a pranzo e accettiamo con piacere. Non siamo tanto abituati (per niente, direi) alle preghiere prima del pasto e infatti Stefano è già pronto ad attaccare il cibo sul tavolo, per fortuna ci rendiamo conto in tempo e ci blocchiamo. Facciamo anche una specie di segno della croce e ascoltiamo la preghiera, rivolta al Papa Giovanni Paolo II, in stato di coma da un paio di giorni, cosa di cui non eravamo a conoscenza. Ottima la zuppa di cereali, poi verdure, lenticchie, banana fritta. Per Stefano anche una porzione di würstell. Da bere, succo di tamarindo, buono. Qui il problema dell’acqua viene risolto prendendola direttamente dal fiume che scorre poco distante, il rio Wampis. La fanno bollire e la bevono tranquillamente. Terminato il pranzo con un’altra preghiera, salutiamo e andiamo via. Facciamo una passeggiata lungo uno dei tanti sentieri che conducono alle comunità più lontane. Superate le piantagioni di banane della missione, la selva si fa più intricata ma il percorso è ben segnato. Fra alberi e vegetazione lussureggiante, il paesaggio è quello tipico della selva tropicale. 

libellule innamorate

Camminiamo un pò e, rientrando, ci fermiamo a rinfrescarci fra le acque verdissime e le rocce del rio Wampis, in una tranquillità totale, animata solo dal rumore del fiume e da bellissime libellule azzurre che si accoppiano, tutte insieme, come prese da un attacco collettivo di frenesia sessuale. Stranamente, a parte le libellule, non vediamo animali, nemmeno volatili. Ci piacerebbe trattenerci con i piedi a mollo, ma dobbiamo fare i conti con la luce del sole e, quindi, rimessi i piedi al caldo, dentro gli stivali, ci avviamo verso “casa”. Appena arriviamo andiamo subito a lavarci. Rispetto a ieri l’acqua del ruscello è piuttosto bassa, e insieme a noi hanno deciso di rinfrescarsi anche un paio di anatre con relativi anatroccoli. Non sono esattamente animali della selva, ma sono simpatici compagni di bagno. Sono circa le 18.00 e ormai è quasi ora di cena. Decidiamo di osare, preparando fagioli in scatola e riso. Ne viene fuori una cenetta deliziosa, tanto invitante che anche i nipotini di Tsenkush la osservano con occhi vogliosi … finiamo per darne un pò anche a loro che, in un attimo, fanno fuori tutto, mangiando con le mani. Oggi i bambini rimarranno a dormire qui, domani vanno tutti a lavorare alla granja. Dopo cena, a lume di candela e sorseggiando chicha, ci tratteniamo ad ascoltare i racconti di Tsenkush. È un personaggio davvero particolare e della sua vita non si riesce a capire molto, un periodo voleva diventare prete, è stato militare convinto, ha lavorato come infermiere, si occupa di medicina naturale, è cattolico ma difende strenuamente le tradizioni shuar, dicendo che gran parte degli usi si stanno perdendo. Racconta che, quando il padre è morto, lui e suo fratello sono stati sottoposti a una sorta di trattamento a base di erbe allucinogene, con lo scopo di renderli più forti di fronte al dolore e dargli la capacità di affrontare la perdita del genitore. Anche qui, come in tutto il mondo, gli anziani sono convinti che i giovani non servano a nulla e che siano viziati, e così anche Tsenkush va per il cammino battuto, “noi si, che sapevamo soffrire, io ricordo questa esperienza come un momento durissimo, ma mi è servito per diventare un uomo forte, adesso per i giovani è tutto facile”. Francamente non mi pare che vivere in un posto come Yaupi possa definirsi facile, anche se alcuni sognatori pensano possa significare un ritorno alla vita naturale, alla semplicità e alle regole primitive della convivenza. Il turista che si immerge in questa realtà lo fa per pochi giorni, conservando la propria formazione occidentale e sapendo che presto farà ritorno alla “realtà”. Parlo anche di noi, benchè raramente ci lasciamo prendere da facili entusiasmi. Quanti cambierebbero la propria vita con quella di uno Shuar? Forse, in linea di principio, qualcuno lo farebbe, ma in termini pratici questo non avviene e tutti sono felici di poter tornare nelle proprie case, raccontando di aver vissuto in mezzo ai “selvaggi”. Certamente pochi Shuar avrebbero dubbi, direbbero subito si alla proposta di scambio, non avrebbero alcuna esitazione.

 

 

Nucy Yomaira, Nadia Paola e Jofre Alejandro, nipoti di Tsenkush

sabato, 2 aprile

Notte di pioggia, tuoni e fulmini, le rane smettono di cantare presto, forse vanno in qualche torrente a festeggiare l’arrivo dell’acqua. Piove ancora quando ci svegliamo e anche “andare in bagno” è un pò complicato … fango, pioggia, ombrello in mano. Ci prepariamo a fare colazione. Una premessa: ieri sera Stefano ha detto a Laura che ci sarebbe piaciuto provare un loro piatto tipico, senza specificare che io sono vegetariana e che poteva andare bene per cena … per colazione troviamo sul lavolo due scodelle piene di zuppa fumante, dalla quale fanno capolino piccoli e grassi pesci simili ai ghiozzi, tutto accompagnato da yuca e banana bollite. Io devo spiegare che c’è stato un malinteso, che mi scuso moltissimo, ma non posso mangiarlo, mentre Stefano, fra smorfie che lo fanno somigliare a Mr. Bean, mangia quasi tutto. Io lo aiuto con yuca e banane. I nipoti di Tsenkush, a cui la pioggia ha fatto saltare l’andata al terreno, guardano il piatto con occhi carichi di desiderio … e va bene, finiscilo pure. Continua a piovere, io mi trattengo con i bambini, facendoli disegnare, Stefano parla con Tsenkush, il quale gli riferisce che la figlia era un pò preoccupata per la nostra presenza, pensava potessimo essere due tagliatori di teste!!! Lui, come se fosse la cosa più normale del mondo, racconta di averla tranquillizzata dicendole “ma no, non credo, due gringos tagliatori di teste, mi sembrerebbe strano” …

disegno di Jofre Tsenkush

 Per fortuna a metà mattinata la pioggia decide di darci una tregua, io vorrei approfittare per fare qualche fotografia, ma evidentemente non è la giornata giusta: la macchina fotografica, provata dal calore e dalla eccessiva umidità, si blocca. Poi riprende a funzionare, continuando ad abbandonarci di tanto in tanto. Ci prepariamo comunque a uscire, ormai è uscito anche il sole. Laura, la figlia e i nipoti sono pronti per andare a lavorare, mantre per Tsenkush la giornata lavorativa pare occupare solo le primissime ore del giorno. Secondo quanto racconta, la tradizione shuar vuole che l’uomo si alzi prima dell’alba per andare a cacciare, e lì la sua attività si conclude, mentre quella della donna prosegue per tutte le 24 ore. Tra pioggia, pesci e racconti usciamo tardi. Vogliamo andare a conoscere la comunità di Yapi che dovrebbe trovarsi a circa un’ora di cammino dalla Missione, “la strada è buona, non ci sono pozze, è tutto empalizado” … falso. Credo che a volte dicano le cose solo per compiacerci, fatto sta che troviamo le solite pozze di fango dove si sprofonda fino alla caviglia, ma è normale. Il sentiero che percorriamo è comunque bellissimo, fra ponticelli, ruscelli, alberi enormi, funghi dall’aspetto sinistro e fiori colorati che rendono il paesaggio molto variopinto. 

rio Wampis

Nemmeno qua avvertiamo la presenza di animali, a parte coloratissimi bruchi, cavallette e qualche altro insetto. Camminiamo per quasi due ore, nessuna traccia della comunità, non importa, va bene anche così, ci tratteniamo ad ammirare le piante fiorite di achiote (dai semi di questa pianta si ottiene una polvere rossa che gli indigeni usano, tra l’altro, per le pitture corporali), i platanillos e bellissimi fiori rossi che hanno la forma di labbra carnose. Sulla strada del ritorno ci fermiamo nuovamente a mettere i piedi nell’acqua gelata del rio Wampis e a riempire il bidoncino. Qui tutti la bevono, perchè a noi dovrebbe far male? Torniamo presto, sappiamo che troveremo la cena pronta. Speriamo che Laura e Tsenkush mangino con noi, ma continuano a mantenere una certa distanza e noi rispettiamo il loro comportanento. Ormai è tramontato il sole, bella la luce delle candele. Laura ha preparato ayampacos, che normalmente vengono fatti con carne o pesce, ma in mio onore, oggi sono vegetariani: uovo e palmito, avvolti in foglie di bijao, messi poi a bollire in acqua. Il sapore è delizioso e delicatissimo. Tra l’altro Tsenkush dice che lui stesso ha raccolto il palmito e che non è necessario uccidere la palma per prenderlo. Non so come faccia, ma gli credo. Oggi è la nostra ultima notte a Yaupi, non abbiamo nessuna voglia di andare via, ma … Anche Laura e Tsenkush partiranno con noi, lei va dai suoi parenti in un’altra comunità, lui va a Quito dove tenterà di ottenere un sussidio per la figlia, gravemente malata. Dopo cena definiamo anche il pagamento. Tutto come indicato all’inizio: 2 dollari a testa per notte, più 1 dollaro per la cena, per un totale di 14 dollari. Decidiamo di arrotondare a 20 dollari, per quattro giorni ci pare più che ragionevole. Lui, chiaro, è contento e accetta il regalo con un semplice “ustedes deciden” (voi decidete). Chiuso il momento finanziario, può iniziare la fase delle storie al lume di candela, durante la quale i lineamenti di Tsenkush ricordano quelli di un monaco tibetano o di un saggio cinese. I racconti sembrano non avere fine, sempre conditi da mille particolari. Parla della sua famiglia. La madre è ancora viva (ma quanti anni avrà?) mentre il babbo, come già ci ha detto, è morto quando lui era giovane. Fra gli Shuar era una cosa assolutamente normale che il marito avesse relazioni fuori dal matrimonio (pratica tuttora abbastanza comune fra gli uomini sudamericani). Nel caso della sua famiglia, per evitare che il padre andasse alla ricerca di “compagnia”, i suoceri gli hanno “regalato” la figlia più giovane, cioè la sorella della sposa … tutto allegramente in famiglia! E parla, parla, parla, mentre Laura timidamente reclama, tentando di portarlo a dormire, fino a che, rassegnata, finisce per addormentarsi sulla panca. La serata si conclude con un momento molto emozionante: Tsenkush, per salutarci, ci canta una canzone in lingua shuar, alla luce della lanterna, con gli occhi chiusi, preso dall’ispirazione, a me si riempiono gli occhi di lacrime, una di quelle situazioni che non si riesce a raccontare … andiamo a dormire accompagnati dal suo canto modulato.

 

domenica, 3 aprile

 Così come è successo all’andata, anche oggi non abbiamo un’idea precisa degli orari di partenza. Sappiamo che intorno a mezzogiorno c’è una canoa che va fino al ponte, ma non è il caso di fidarsi troppo, meglio arrivare in anticipo, pur rischiando di attendere qualche ora. I margini temporali sudamericani possono avere variazioni imprevedibili in un senso o nell’altro … ci vuole pazienza. Facciamo colazione, finiamo di preparare i bagagli, che nella sezione “roba sporca” emanano un olezzo niente male. Lasciamo nella capanna il cibo che ci avanza, un saluto (privo di convenevoli) ai nostri padroni di casa e siamo pronti. Alle nove ci avviamo lungo il sentiero, un pò più leggeri rispetto all’arrivo, visto che acqua e vettovaglie sono finite, rimangono due bottigliette di acqua che abbiamo raccolto al fiume e fatto bollire sul fuoco a legna, ha un forte odore di fuoco, ma la berremo comunque. Il cielo è nuvoloso e la giornata non è tanto calda, non ancora almeno. Le pozzanghere, anche oggi, a momenti ci rallentano, ma, in linea di massima, procediamo abbastanza rapidi. A dire il vero impieghiamo molto meno tempo che all’andata e infatti in meno di un’ora siamo a Parada. In ogni caso la camminata non è finita perchè, quando il livello del fiume è basso, la canoa non arriva fin qui, dobbiamo quindi arrivare a un posto che si chiama Tarabita, che “è qui vicino, seguite il sentiero, dovete attraversare il fiume, ma poco, poi c’è una spiaggia e siete arrivati” … pare facile, no? Nel frattempo arrivano Laura e Tsenkush, anche loro in partenza. Facciamo la strada insieme, fra fango e tronchi da scavalcare, con Laura capofila, rapida benchè appesantita da un cesto di giunco che trasporta appoggiando sulla fronte la fascia che lo regge. Dopo mezz’ora arriviamo a un ponte, facciamo una breve sosta e qualche fotografia, benchè ancora non sappiamo se le macchine fotografiche stiano funzionando (anche la piccola Olympus dà pochi segni di vita). Proseguiamo, raggiungiamo un grande spiaggione di ciottoli, che costeggia il fiume … e qui viene il bello.

Donatella dopo il guado

Ci troviamo nel punto in cui il rio Yaupi riceve le acque del rio Yapi, e qua dobbiamo guadare, “ma poco”, ha detto il tipo che ci ha dato le indicazioni, “ma poco” un accidente. Si tratta di un corso d’acqua vero e proprio, largo almeno una trentina di metri e la cui profondità, nel tratto che attraversiamo, supera i 60 centimetri, a Stefano arriva poco più sù del ginocchio, a me molto più sù del ginocchio. La corrente, pur non essendo fortissima, si fa sentire. La preoccupazione non è tanto quella di finire in acqua, quanto che ci cadano gli zainetti, con dentro documenti, macchine fotografiche, rullini, soldi. Ma, come ben si addice a due Giovani Marmotte, ormai cariche di esperienza, arriviamo sani e salvi sull’altra riva, i pantaloni sono bagnati fino alla coscia, gli stivali sono pieni di acqua, ma che importa. Abbiamo camminato per un’ora abbondante, ma finalmete siamo arrivati a Tarabita. Sulla spiaggia è pronta la canoa di Carlos Charupi, la stessa con cui siamo arrivati. Sono circa le 11.30 e secondo le previsioni dovremmo partire verso mezzogiorno, ma chissà … Nessuno sembra aver fretta, e neanche noi ne abbiamo. Laura può far riposare testa e spalle, poggiando il cesto per terra, possiamo dunque vedere cosa contiene: varie buste, due galline e un altezzoso gallo. Se le galline se ne stanno tranquille in terra, con le zampe legate, il gallo non sembra volersi rassegnare alla prigionia e, con un lampo di orgoglio, riesce a liberarsi, correndo rumorosamente verso i cespugli. Nè Laura nè Tsenkush sono disposti a lasciarlo andare, lo inseguono ma l’animale riesce a infilarsi fra gli arbusti. Tsenkush lo segue e, dopo qualche secondo, avvolto in una nuvoletta di piume e foglie, ricompare trionfante con il fuggitivo ben assicurato per le zampe. Un’altra canoa è pronta a partire, loro due si imbarcano, ci vedremo al ponte, più tardi. Inizia per noi l’attesa, il motorista non è animato dalla minima fretta, dice solo “ahorita vamos, una media horita mas” (adesso andiamo, solo una mezz’ora). Aspettiamo. Il posto è piacevole, immerso nel verde, ogni tanto vediamo anche uno spiraglio di sole. Passa mezz’ora, poi un’altra e un’altra ancora. Nessuno si agita. C’è un grosso gruppo familiare, composto da donne e bambini, che ammazzano il tempo bevendo chicha, mangiando yuca e pesci bolliti. Pare tutto tranquillo, ma in meno di un secondo il cielo si copre, si alza il vento e cala una forte oscurità … è un aguacero, un temporale. Ci rifugiamo tutti dentro una tienda dove vendono solo riso, sale e pezzi di sapone. Siamo circa una decina, le donne non parlano e si occupano dei bambini, gli uomini parlano fra loro, prima di rivolgere l’attenzione verso di noi e iniziare con la solita trafila di domande sull’Italia, il lavoro, i soldi, quanto costa il volo, numero di figli, religione … Anche noi vorremmo chiedere un sacco di cose, abbiamo tante curiosità sulla loro vita, le tradizioni, la natura, ma nessuno ha voglia di ascoltarci. Tutti vogliono sapere dell’Europa … e noi lì, a tentare di spiegare che, è vero, in Italia non c’è la povertà che si può vedere in America Latina, che i servizi sono migliori, ma che non siamo tutti miliardari e nemmeno milionari, che bisogna studiare e lavorare molto per poter avere una buona vita … ma è difficile comunicare su alcuni argomenti, loro rimangono fermi nella loro idea del mondo occidentale, dove la vita è facile, nessuno soffre, un paradiso insomma.

 

 lungo il rio Yaupi

Ormai sono le due passate, ancora piove, ma improvvisamente, senza una parola, tutti si alzano e si dirigono verso la canoa, ognuno carica le sue cose, siamo pronti a partire, sono le 14.20. Percorriamo un tratto brevissimo, solo fino all’altra sponda, dove la famiglia scende, andranno a piedi fino a un’altra comunità, li riprenderemo più giù. Navighiamo per venti minuti e ci fermiamo di fronte alla Comunità Tucupi. Ci sono canoe, adulti e bambini di tutte le età. La nostra presenza è fonte di curiosità generale, fanno finta di non guardarci, ma se ci giriamo di scatto sono tutti lì, che ci osservano e ridacchiano. Alcuni bambini sono piccolissimi, con la pancia prominente e le gambette martoriate dalle punture di insetti, ma allora pungono anche loro! Anche se non ho citato l’argomento, è inutile dire che i giorni trascorsi a Yaupi ci hanno messo a contatto con una incredibile varietà di insetti famelici e aggressivi. Le zone più colpite sono gambe, gomiti, pancia, inguine … tutto, insomma. Grazie agli stivali, almeno caviglie, piedi e talloni si sono salvati, ma nell’insieme le punture sono tante, dolorose e alcune già iniziano a infettarsi, non volevamo l’Amazzonia?? La sosta dura poco più di mezz’ora, alle 15.20 ripartiamo, ha smesso di piovere e il panorama, allietato dal sole, è bellissimo. Si susseguono le fermate per caricare altri passeggeri, vediamo spiaggette, capanne, piccoli villaggi. Siamo seduti nel sedile di prua e, di fronte a noi, c’è Pedro, il signore che il primo giorno voleva affittarci una stanza nella sua casa. Per fortuna non siamo finiti lì, perchè, alla lunga, si rivela un pò arrogante e rompiballe. Dopo tutte le domande che già ci ha rivolto mentre ci riparavamo dal temporale, adesso passa a interrogativi più specifici. Sembra molto interessato ai prezzi dei ristoranti. Cerchiamo di chiarire che in Italia la maniera di mangiare è diversa, che non c’è il piatto unico con riso, insalata, carne, patate, yuca, come avviene in America Latina, bla bla bla … ma non c’è nulla da fare, è un dialogo impossibile, la sua conclusione è “es decir que en Italia no hay restaurantes” (sarebbe a dire che in Italia non ci sono ristoranti), e ripassa a concentrarsi sul mondo del lavoro, su quanto si guadagna e così via. Ci avviciniamo alla nostra destinazione e Pedro lancia un ultimo tentativo di ottenere qualcosa da noi, chiedendoci di dire ai nostri amici, quando verranno a Yaupi, di portare “cose e regali” non meglio specificati. Provo a conversare sull’argomento, dicendo che magari, chi lavora come guida, potrebbe fare questo discorso ai turisti che accompagna, invitandoli a portare vestiti, farmaci o materiale per la scuola … ma non mi ascolta, credo che le sue “cose” non siano le stesse di cui parlo io. Arriviamo al puente de Yaupi alle 16.30. Le manovre di sbarco sono rapide e di poche parole, paghiamo 3.50 dollari, salutiamo Charupi e ci defiliamo da Pedro, prima che ricominci a parlare. Dopo un attimo arriva l’altra canoa, a bordo c’è anche Tsenkush, semiaddormentato, deve avere festeggiato con molta chicha nel villaggio dei parenti di Laura. Ci sediamo sul marciapiede ad aspettare il bus per Santiago, che passerà verso le 17.30. Il rientro alla realtà è strano, dopo essere stati in mezzo alla natura e al silenzio per vari giorni la presenza di un solo bus è quasi traumatica. È curioso come anche le persone assumano un aspetto differente, lo stesso Tsenkush, adesso ben vestito e pettinato, pare aver perso una parte del fascino che lo avvolgeva all’interno della sua choza. Sul bus siamo gli unici bianchi, affianco a me una bella bambina mi guarda, poi osserva gli stivali, pare che pensi “è diversa da me ma ha gli stivali uguali ai miei, non può essere cattiva”, o forse si sta solo addormentando. Anche io chiudo gli occhi per riposare. A confronto con la selva, Santiago ha l’aspetto di una grande città, scendiamo di fronte allo “splendido” Hotel Interoceanico, dove prendiamo possesso della stessa stanza. Ci diamo una rapida lavata e usciamo, con stivali, fango e tutto. Andiamo da Gladys che ci accoglie con una bottiglia di birra gelata, dopo qualche giorno la cerveza è migliore. Da poche ore è stato dato l’annuncio della morte del Papa e alla televisione trasmettono servizi speciali sull’argomento. Due parole con Gladys, una rinfrancante cena dalla Señora Rosa e la serata si conclude. Torniamo in albergo, dove, naturalmente, Stefano deve scavalcare la finestra per poter entrare in camera …

Le foto sono nostre, a parte quelle degli tzanza, che abbiamo preso in prestito da internet. Il disegno della casa shuar è di Stefano. Il racconto, rivisto e corretto a quattro mani e quattro occhi, si basa sul diario di Donatella. Mettiamo punto al racconto sugli strascichi del Carnevale di La Paz. Da oltre due mesi, infatti, ci troviamo in Bolivia.

Cliccando su questo indirizzo potrete vedere tutte le nostre foto del periodo trascorso in Ecuador:

http://it.pg.photos.yahoo.com/ph/donatellaestefano/my_photos

 

 

La Paz, Bolivia, 1 marzo 2006, giorno di viaggio 1580

Stefano

Donatella

trullalli@yahoo.it

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