Ecuador
Diario di viaggio 2009
venerdì 7 agosto
2009
Si parte, ma non
si parte... e intanto che aspettiamo pazientemente all'areoporto di Amsterdam di
salire sul nostro aereo per l'Ecuador, sento uno che dice che un ecuadoriano gli
diceva che dopo la pace col Perù del 1998, hanno aperto le porte alla
emigrazione, e che questo ha dato molto fiato alle famiglie povere grazie alle
rimesse che hanno consentito a molti di farsi la casa, o comunque di stare
meglio. Ma dopo cinque anni avevano chiuso di nuovo, e chi già era fuori buon
per lui...ma chi era dentro non riceveva più il visto d'uscita... Adesso
l'emigrazione è ripresa e una grande percentuale di donne (ma anche di uomini)
tra i 25 e i 35 anni è a lavorare all'estero, perciò ci sono così tante
postazioni di cabine telefoniche internazionali...
E così si
delinea la nostra meta come una realtà all'arrovescio della nostra realtà: noi
facciamo difficoltà a lasciar entrare, loro a lasciar uscire...
Insomma intanto
l'aereo non parte, ha un guasto ci dicono, e dopo tre ore dicono che debbono
andare a prendere un altro aereo... Sali, scendi, risali.... E' anche così che
si marca una sorta di rito di passaggio...o di rito propiziatorio. Il viaggio
dunque inizia con questa sua dimensione faticosa, bisogna conquistarsi
l'obiettivo.
Cade miseramente
la leggenda degli olandesi precisi e efficienti (potevano controllare 'sto aereo
un po' prima, o no?), e sono gli ecuadoriani a lamentarsene di più. Molte/i di
loro lavorano in Europa, e per i loro famigliari che li attendono un ritardo di
questo volo di tre o quattro ore, è un grande disagio.
Mi aspettavo di
incontrare tra gli ecuadoriani soprattutto montanari andini, e invece no, sono
quasi tutti dei meticci bianchicci, o negretti...sono della pianura, della
costa...
Gli areoporti si
sa, sono un piccolo concentrato del mondo, ci passano e ci convivono brevemente
genti in transito di ogni nazione e lingua. Ma in questi luoghi anonimi il
melting pot è una realtà quotidiana, garantita dalla brevità del passaggio, e
quindi dalla condizione del tutto egocentrata e di indifferenza totale verso il
vicino con cui non si ha nulla a che spartire, se non dettagli contingenti.
Ma la grande
diversità passa per il tipo di viaggio in cui ognuno si sente calato. C'è chi
viaggia per affari, per lavoro, per motivi famigliari, per puro divertimento,
per andare a rilassarsi, per fare shopping conveniente, o perchè partecipa ad
un viaggio di gruppo organizzato da una agenzia, oppure per dare una rapida
occhiata di un week-end, o per motivi sportivi o agonistici, per ragioni
sentimentali, per eventi tristi, o addirittura luttosi, o di persecuzioni, per
spirito di avventura o di conoscenza, o per studio, ...ecc.
E quindi gente
che compie magari lo stesso viaggio, nello stesso posto, sta in effetti facendo
un viaggio molto differente. E poi intervengono componenti psicologiche,
caratteriali, legate alla compagnia, nota o casuale, oppure alla condizione di
solitudine, ..., e dunque le stesse cose eventi, incontri, esperienze, ecc.
assumono un diverso significato, durata, sensazione, ...
L'aereo ad
Amsterdam non riescono a ripararlo (?) e dopo più di 3 ore partiamo con un
nuovo aereo, scocciati ma anche con un rassicurante senso di sicurezza.
Atterrati per un
breve scalo all'isoletta di Bonaire nei Caraibi (fa parte delle Antille
olandesi), prima di ripartire si trova che c'è un problema grave anche in
quell'aereo ....! Dopo un'ora e mezza ripartiamo. Arrivati in Ecuador, a
Guayaquil si trova un difetto, una perdita di carburante, anche questa volta
dobbiamo cambiare aereo solo per questo ultimo tratto per Quito...!
Certo è che
mentre eravamo in attesa là a Guayaquil, un pensierino alla vicenda della
emigrazione (poi mancata) dei miei genitori proprio in quella città, subito
dopo la seconda guerra mondiale, non potevo non farlo...(ma a quei tempi
l'Ecuador era un Paese molto diverso dall'attuale, era una cosiddetta
"banana republic", ed era socialmente e economicamente molto
arretrato. Inoltre allora vigeva il razzismo, mentre oggi si definisce una
società multiculturale: è cambiato il mondo anche da queste parti...!). Chissà,
sarei stato un altro io stesso (e forse sarebbero degli altri anche i miei
figli...).
Distrutti
fisicamente e moralmente, giungeremo infine a Quito......Strastanchi, per essere
stati bloccati su quel sedile tanto tempo (15 le ore di volo effettivo), ma
anche per aver dovuto arrivare in aereoporto due ore in anticipo per il check-in
(nonostante lo avessimo già fatto via internet), e per le attese snervanti di
ore negli areoporti per cambio e per scalo, e inoltre ora anche per il
cambiamento di clima, di altitudine, e di fuso orario, cerchiamo lo sportello
per il biglietto del taxi, e si scopre che non si può andare con l'auto sino
all'hotel perché quella calle è pedonale ! ( e -poi scopriremo- anche perché
in questi giorni il centro storico è chiuso a causa di una festività
importante)...
Per lo meno non
abbiamo da perdere tempo a cambiare i soldi, perchè qui dal novembre 2000 con
il fallimento della moneta nazionale, il sucre, c'è stata la "dollarizzazione"
del paese, quindi vigono i biglietti dei dollari usa, mentre solo per le monete
hanno corso anche quelle nazionali.
sabato 8 agosto
Ora eccoci
finalmente e comunque a Quito ! già sull'aereo nell'ultimo tratto le facce di
quelli che sono saliti erano più montanare di quelle di chi era sceso a
Guayaquil. Comunque ora qui a Quito, anche se si dice che la popolazione sia
molto mista, in realtà mi pare prevalga un tipo fisico andino. Leggo che nella
zona della sierra gli indios sono il 55%, i meticci il 33% e i creoli e bianchi
il 10%. La piazza centrale della città è a 2850 metri sul livello del mare, ed
è situata alle falde del vulcano Pichincha
(4794 m., "il signore del fuoco") che da il nome alla
provincia. L'impegno del nostro viaggio è quello di visitare esclusivamente la
fascia andina (ma restare sotto i 3600 a causa di miei problemi cardiaci). Poiché
in effetti l'Ecuador è costituito da 4 mondi differenti, la pianura e la costa,
la cordigliera della sierra e i suoi altipiani, la parte est che è un pezzo di
Amazzonia, e l'arcipelago delle Galàpagos. Quattro mondi distinti, non vogliamo
fare confusione, ci basta conoscerne uno.
Prendiamo un
minibus-taxi dall'areoporto. Tutta la famiglia è presente, è come una azienda
a conduzione famigliare, ci sono il taxista, la moglie, la bimba, e il bimbetto
piccolino. Faccio un po' di conversazione col piccolino di 3 anni che mi dice
che è il papà che sa "manejar" (=guidare nello spagnolo
ecuadoriano).
La città è
proprio lunga, lunga, e stretta, e si vedono i suoi limiti ai lati. Mi pare più
tranquilla e modesta di certe altre città scassate, sporche e approssimative
che abbiamo viste in altri paesi poveri.
L'hotel San
Francisco (che non sta in plaza San Francisco come avevamo immaginato), è al
primo e secondo piano di un bell'edificio coloniale del Seicento, con un patio
fiorito (sarebbe stato il primo albergo dell'Ecuador, già nell'anno 1700), e
l'accoglienza è gradevole.
Nella saletta con
le poltrone e il computer collegato a internet, guardo la mia posta e trovo una
mail di benvenuto di una persona che avevo contattato prima di partire, Miguel
Pumaquero !... che si offre di portarci in giro nei dintorni suoi, e che verrà
a trovarci qui a Quito dopodomani, ma che carino!
Su un tavolino
vedo il libro di Galeano, "Las venas abiertas de América Latina", che
è l'ultimo libro che ho avuto in mano prima di partire e che poi non ho preso
per risparmiare spazio e peso. E' come un saluto di collegamento...
Siccome stiamo in
una habitaciòn senza finestre, usciamo subito a fare quattro passi. Dicono che
il centro storico di Quito sia l'area coloniale meglio conservata e più grande
delle Americhe (e perciò dichiarata patrimonio culturale dell'umanità dall'Unesco)
e in effetti lo si può ben vedere già da un primo giretto: Plaza grande, con
il palazzo presidenziale, e l'arcivescovado, la cattedrale ecc.; poi più in là
vedremo la iglesia de la Merced in stile moresco secentesco; e poi la plaza San
Francisco con la imponente chiesa con il suo grande atrio, e il complesso
conventuale, tra i primi edifici coloniali del Cinquecento ... Proprio là sotto
ci fermiamo a riposare al bar all'aperto "Tianguez", per prendere il
primo mate de coca. E siamo soddisfatti di aver avuto una prima visione di bei
palazzi, belle architetture di questo quartiere storico ben conservato. Dicono
che all'inizio della colonia gli spagnoli si servirono di validi costruttori
indios, e che sorse una originale scuola quiteña di pittori, scultori, e
artigiani di valore, in gran parte di provenienza locale indigena, addestrati
alla conoscenza degli stili europei da frate Ricke, cugino primo dell'imperatore
Carlo V, ai quali si debbono opere d'arte di grande bellezza
(al proposito c'è anche un raccontino popolare su Pampite, un indio
artista del legno).
Ma quel che in
questa prima uscita mi aveva più colpito, è stato il fatto che subito, appena
in piazza grande, ci eravamo imbattuti in un ciclista colombiano solitario,
anche lui sessantenne, ex professore di "storia universale", che si fa
tutta l'America del Sud in bicicletta... Ci fermiamo a parlare un po'. Conosce
l'Europa, e anche l'Italia dove ha girato sempre in bici. E' andato in pensione,
la famiglia è ben sistemata, i figli oramai grandi, e lui si è sentito libero
di andarsene in giro per mesi. Non so, mi è sembrato questo primissimo
incontro, come un segno di un altro io di un'altra possibile vita, che mi dava
il benvenuto...
Poi fa irruzione
la fame che, giunti all'ora di pranzo (ma ci sono sette ore di ritardo...), ci
porta nel cortile del palazzo laterale della piazza centrale, in una gradevole
trattoria, la "cafeteria del fraile", cioè il caffé del frate, che dà
sulla balconata interna, dove mangiamo benissimo: prendiamo, in tre, un locro
con queso y aguacate (cioé una minestra di patate e mais con formaggio e
avogado), caldo de verduras con pollo (cioé un brodino di verdure e di pollo),
trucha con crema de almendras (=trota con una crema alle mandorle), pollo a la
naranja (pollo all'arancia), e camarones a la plancha (gamberoni alla griglia).
L'assaggio della gastronomia locale è sempre un buon ingresso, una buona
introduzione in una cultura, in un altrove, gustando le abitudini culinarie si
comprende tangibilmente come è vivere in un contesto altro, assaggiare ti da la
misura della creatività di un paese e puoi decidere se ti piace il loro modo di
elaborare il nutrimento, la degustazione del buono ha una funzione essenziale in
una introduzione, forse altrettanto di quanto non la svolga il bello mostrandosi
sotto inedite sembianze architettoniche, paesaggistiche, umane...
Intanto giù nel
patio arriva un gruppo musicale goliardico di studenti universitari, che suona
con chitarre, e canta, pezzi classici spagnoli del seicento riadattati. Bravi e
simpatici. Dopo l'occhio e il palato, anche questa è per noi una introduzione
alla componente hispanica di questa ex colonia, attraverso la gradevolezza per
l'orecchio e l'appetibilità dei suoni e delle armonie caratteristiche.
Ma l'incontro più
commovente era stato in piazza San Francisco, con una giovane india venuta nella
capitale per questa festa, sin dai dintorni del Cotopaxi, di nome Aida, di
vent'anni, piccolina, bassettina, magrolina, che ci voleva vendere delle
sciarpettine (belline, a poco prezzo, Ghila ne compra una).
Parliamo un po', lei è del villaggio di Quilotoa (a 3800 m.), mentre
altre sono di Tigua e sono qui per vendere i loro quadretti naif. Le ho poi
chiesto se potevo farle una foto per ricordo, lei dice gentilmente di sì con la
sua vocina sottile, e con il suo sorriso dolce, e un corpulento poliziotto poco
distante è subito intervenuto per dirle in modo brusco che non può chiedere
soldi per farsi fotografare! Lei poi era rimasta come intristita, perché ci
dice che quello proprio la perseguita. E ben a proposito è qui sotto l'egida
della imponente chiesa-monastero dei francescani, e del santo dei poveri. La sua
aria dimessa -nonostante il bel costume tradizionale e la collana la rendessero
quasi elegante-, e la vocina e i modi aggraziati di questa povera contadinella
tanto lontana da casa, mi hanno commosso.
Ma penso al
contrasto tra la chiesetta della "porziuncola" ad Assisi, e la
massiccia imponenza di questo tempio-fortezza che domina alta sulla grande
piazza sottostante, che è una emblematica testimonianza dell'impegno speciale
che i francescani avevano offerto di svolgere per civilizzare gli indigeni, la
colonia fece leva su di loro per conquistare le anime dei "selvaggi"
ignari della vera religione e hispanizzarli. Leggo dunque quella che qui è una
famosa leggenda che narra della edificazione di questa chiesa nei primi tempi
della Quito spagnola: la storia di Cantuña, al quale all'inizio del seicento
venne edificata e dedicata una cappella adiacente al monastero.
Dunque si tratta
degli ultimi anni dell'impero inca e dei primi anni della colonia dopo la
conquista. Come è noto l'ultimo Inka fu il nativo Atahualpa (o Atawallpa). Il
suo valoroso generale in capo era Rumiñahui, il quale tentò di liberare il suo
Signore che era stato catturato con un tranello dagli invasori, ma non riuscì,
e dopo il suo assassinio organizzò la resistenza di questa parte dell'impero,
ma fu sconfitto, e allora si precipitò a tentare la difesa della valle sacra
del Cusco al sud. Runiñahui (così chiamato dal nome di una montagna rocciosa)
nascose da qualche parte il tesoro reale, e ne affidò il segreto al suo fedele
aiutante Walpa. Dopo l'incendio della città di Qitu (appiccato dalle truppe
incas prima di ritirarsi), e la vittoria definitiva dei conquistatori spagnoli,
iniziò subito la costruzione della città coloniale, tra cui quella del
monastero e della chiesa francescana fu una delle prime, essendo cominciata già
nel 1535. Il figlio di Walpa, rimasto orfano ed anche menomato durante
l'incendio, fu trovato e protetto dal capitano Hernàn Juàrez, che lo istruì,
lo fece convertire, e che infine essendo senza figli, lo adottò. Cantuña,
battezzato come Francisco, per riconoscenza gli avrebbe confidato l'informazione
sul luogo del tesoro, ma poco dopo il capitano spagnolo morì raccomandando il
figlio ai francescani e dicendo loro che lo lasciava erede di tutte le ricchezze
che aveva conquistato durante la guerra. La confraternita dunque chiese
all'indio di contribuire al finanziamento della costruzione del nuovo complesso
religioso (pensando forse anche che costui poteva più facilmente far lavorare
manodopera locale). E Cantuña si impegnò solennemente a trovare il denaro
necessario per l'edificazione del grande atrio che era progettato all'ingresso
della chiesa. Forse voleva acquistare così riconoscenza, o almeno benevolenza
da parte dei nuovi dominatori per un indio, a vantaggio generale della sua
gente. Ecco dunque una storia che allude al primo concepimento della futura
realtà del moderno Ecuador prima coloniale, poi creolo, e ora multiculturale.
Questa è una delle leggende più note e più raccontate, in varie versioni,
dagli abitanti della città sotto il nome di "Tradizione di San
Francisco", così come è riportata dallo studioso del folklore quiteño Luìs
Anìbal Sanchez.
L'indio Cantuña,
spinto forse da un'ansia di grandezza per restare ricordato nella storia tra i
fondatori della chiesa di San Francisco, commise la singolare follia di firmare
un solenne impegno per costruire il grandioso atrio. Raccolse non si sa come
molti fondi, e si avviò l'impresa di fabbricazione. Ma quando già stava per
scadere il tempo entro cui si era impegnato a garantire la consegna, l'opera era
a metà. Preso dal panico, divorato dall'ansia, e oramai febbricitante Cantuña
con l'orgoglio ferito, non sapeva come trarsi dall'impiccio in cui si era
cacciato. Presto sarebbe stato gettato in prigione, e oltretutto sommerso dal
sarcasmo degli spagnoli, e dal disprezzo della sua stessa gente. Mancavano
oramai solo diciotto ore, e già alcuni gli chiedevano "ma dove li hai
presi tutti quei soldi? dove pensavi di trovare l'oro necessario per questa
impresa? Ma tu sei un pazzo e un imbroglione". Alla penombra del tramonto,
disperato si inginocchiò e pregò "Jesùs muy poderoso" il potente
Gesù di fare un miracolo. Convinto di essere stato ascoltato, si recò di
fretta verso il cantiere, e gli parve di intravedere dei divini costruttori
all'opera, vide molta luce e poi da lì ne uscì solo un fumo che dissipatosi
mostrò che il cantiere era deserto. In un sussulto di rabbia diede un grido
blasfemo, ed apparve un personaggio avvolto in un mantello rosso, che sorrideva
in modo enigmatico. Costui gli si avvicinò dicendogli: "Cantuña conosco
il tuo dolore, so che domani sarai disgraziato e verrai maledetto da tutti, io
posso far in modo che al primo albeggiare l'opera sia conclusa. Tu mi firmerai
questo contratto, sono Lucifero, il demone della stella del mattino, e voglio la
tua anima in cambio. Accetti?" L'indio non vacillò e subito disse: "sì
accetto, però se al primo raggio dell'alba, prima che si estingua il suono
dell'ultima campana dell'Ave Maria, ancora mancherà da collocare qualcosa,
fosse pure una sola pietra, questo contratto sarà nullo!".
"Sia fatto. Firma", e scomparve.
Se ne tornò
confuso alla sua abitazione il nostro Cantuña, e si sentì tormentato dai dubbi
per tutta la notte. Poco prima dell'alba, rendendosi conto della follia
commessa, pregò il cielo di perdonarlo per
la colpa commessa, e chiese un rimedio per la sua povera anima. Ma dato che
intanto l'alba si approssimava, corse verso la chiesa per vedere se era cambiato
qualcosa. E gli sembrò di vedere, mentre arrivava alla piazza, un gran
forsennato via vai di operai, e l'atrio ben in piedi con anche il suo tetto.
Dunque la sua anima era perduta! Si inginocchiò per fare penitenza e pronunciò
una orazione fervente di fede. Intanto Lucifero rideva di lui. Il sole già
stava per alzarsi dietro l' Itchimbia (una collina attorno a Quito), e l'atrio
che Cantuña ora osservava da vicino era quasi terminato. Lucifero rise ancora.
Suonarono le
quattro campane, araldi dell'aurora. "Vittoria" ruggì Lucifero.
"Vittoria!" esclamò Cantuña, "manca una pietra, un blocco, ne
manca uno!". E all'istante del primo raggio solare dell'alba il diavolo con
i suoi sprofondò negli inferi.
L'anima del
povero indio era libera, e come per una evocazione prodigiosa il grandioso atrio
si levava solenne dinnanzi agli sguardi dei fedeli quiteños che convergevano
per la funzione mattutina.
Ce ne sono in
realtà varie versioni di questa leggenda, anche abbastanza diverse tra loro,
come sempre accade per testi di tradizione orale (e alcune si possono trovare in
breve anche nelle guide turistiche; rinvierei però per vedere
una versione diversa da questa ma valida in italiano, alla raccolta di
"Leggende della Sierra, della Costa e delle foreste dell'Ecuador", a
cura di L.Bersezio e M.A. Pérez, Paroladifiaba-Aries editore, Padova, 2000).
Certo pur
imperniandosi attorno ad un protagonista indio, non è una storia di carattere
indio questa, ma di lontana matrice germanica e soprattutto di forte carattere
hispanico, anche se un poco adattata. Siamo a metà del Cinquecento, e forse
sotto l'impero di Carlo V qualche artigiano e qualche religioso germanico era
giunto nel nuovo mondo e aveva divulgato dei racconti sulle vicende di G.J.Faust
(morto nel 1540), e d'altronde già vi erano leggende germaniche medievali
abbastanza simili (si vede nella raccolta a cura di Hermann Hesse quella sul
ponte), con la stipula di patti con cui il diavolo tentava di ingannare astuti
fedeli che poi riuscivano ad ingannarlo. O forse questi racconti erano giunti
dopo, quando all'inizio del Seicento i francescani decisero di dedicare a Cantuña
una cappella, e ormai già circolavano un paio di storie a stampa della favolosa
leggenda faustiana. E' chiaramente presente anche un più antico tratto ermetico
e mercuriale, che si fonde con il carattere un po' picaresco di questo
Lucifero. D'altra parte c'è
l'importanza -tipica della cultura andina- data al primo raggio di sole, uno
strano intreccio di complementarietà tra santità e follia, e una nascosta
quasi complicità tra intervento celeste e tellurico, nonché il tema sociale
della integrazione dolorosa e faticosa dei nativi. L'allusione al favoloso
tesoro di Atahualpa, come a oro del diavolo (la spiritualità prehispanica
veniva demonizzata). Insomma questa leggenda segna per certi versi l'inizio
della cultura creola e meticcia nel continente hispanoamericano, che poi marcherà
questi territori per secoli.
E' stato un buon
inizio venire subito nella affascinante piazza San Francisco a sorseggiare un
bel mate de coca caldo.
Ci addormentiamo
alle sei / sei e mezza del pomeriggio!, perché qui a quest'ora tramonta il sole
e comincia a venir buio (e freschino). La nostra habitaciòn come dicevo non ha
finestre. Si tratta di una habitaciòn cui ci sono due ambienti comunicanti, con
due letti matrimoniali, e un bagno, ma nei muri non ci sono aperture. Forse sarà
per questo che di notte non sentiamo il freddo nonostante l'assenza di
riscaldamento, infatti grazie all' effetto-stalla ci riscaldiamo con il calore
emanato dai nostri stessi corpi e dai nostri fiati... (oltre al fatto che sui
letti ci sono due coperte di buona lana e il copriletto). La habitaciòn, come
le altre, dà sulla balconata interna verso il bel patio fiorito, e l'unica
fonte per il ricambio d'aria dunque è la porta in legno traforato. Basta tenere
aperti gli scuri interni della porta, e un poco di aria entra, anche se così
chiunque passa potrebbe guardar dentro... Comunque dormiamo come sassi.
domenica 9
Ci alziamo che è
mattino prestissimo, comincia appena ad albeggiare.
Già stanotte si
sono sentiti mortaretti, fuochi d'artificio, canti, e dal pomeriggio di ieri si
notava un continuo confluire di una fiumana di gente verso la piazza centrale.
E' per via della festa per il bicentenario del primo "grido" di
indipendenza, festa che si terrà oggi nella capitale (anche se la ricorrenza
formalmente sarebbe domani...).
Un operaio che
stava facendo lavori di recinzione della piazza ci dice che ogni evento in
effetti inizierà alle 5 pm, per cui ci consiglia di andare a visitare la
località chiamata Mitad del Mundo (nome dovuto al fatto che di lì passa
l'equatore), in quanto là ci sarà musica con spettacoli e balli, già dalle 12
e 30.
Allora con un
taxi ci facciamo portare là. E' suggestivo trovarsi proprio sulla latitudine
zero. C'è un gran monumento (un po' pesante), costruito nel '79, alto trenta
metri, con su un globo da 5 tonnellate, e con un terrazzino da cui si vede bene
il retrostante vulcano Pululahua. Il monumento che c'era prima, uguale ma più
ridotto, e che era stato costruito per il bicentenario della "missione
geodesica" francese del 1736 è stato spostato in un altro villaggio. E'
abbastanza massiccio e grande, tanto che dentro ci sta un museino di carattere
etnografico sulle popolazioni indigene dell'Ecuador che vivono a cavallo
dell'equatore. C'è poi a lato del viale con le statue degli scienziati, un
museino di geodesia, un planetario, e anche vari negozietti e ristorantini. Ma
soprattutto oggi, giornata di cielo limpido e sgombro, c'è un SOLE
spaccapietre. Nella piazzetta centrale si svolgono effettivamente spettacoli di
musiche e anche danze, ma non sono un gran ché, anzi sono proprio l'esempio di
come si potrebbe ridurre tutto il patrimonio folklorico a una farsa a fini di
intrattenimento per turisti (sudamericani o di altri paesi).
Dunque quando La
Condamine venne qui nel settecento per fissare il punto esatto di passaggio
dell'equatore, e calcolarne la lunghezza (per poi stabilire il metro, cioè la
misura universale) restò sorpreso per il fatto che la circonferenza risultava
essere maggiore di quanto si aspettasse (essendo il diametro all'equatore di
circa 12756 km). E così si è scoperto che la terra non è una sfera, ma è
schiacciata ai poli e un po' più larga al centro. Sicché avevano ragione gli
antichi a dire che la cima del Chimborazo (il monte più alto dell'Ecuador) era
il punto più vicino al dio Sole (Inti), o come dissero gli scienziati francesi
con altra prospettiva, il punto più distante dal centro della terra (nonostante
sia meno alto dei monti dell'Himalaya rispetto al livello del mare). Per varie
cause non riusciamo ad andare a visitare il museo del tempio del sole, che è
vicino alle rovine archeologiche di Rumicucho, lungo la strada incaica dell'Intyñan,
dove gli antichi Qitus ritenevano, a ragione (!), che passasse l'equatore (o
meglio: dove i raggi del sole giungono perpendicolari), cioè poche centinaia di
metri più in là rispetto alla linea tracciata dagli scienziati del gruppo di
La Condamine, sul colle Catequilla al bordo del cratere spento del vulcano
Pululawa. Nel tempio c'è una apertura sulla volta del soffitto che permette di
rendersi conto del l'inclinazione stagionale dell'asse terrestre rispetto al
sole, e che illumina via via dei pannelli con i simboli del calendario
astronomico (gli scienziati antichi avrebbero così rilevato anche
l'oscillazione periodica dell'asse), e dal mirador, dal terrazzo panoramico, si
ammira uno dei più grandi crateri abitati che ci sia al mondo, che oggi è
anche una Riserva Geobotanica.
Peccato.
Oltretutto al ritorno saliamo in un bus che invece non va fino al centro storco
di Quito. Per cui scendiamo alla terminale delle corriere, una grande stazione
di bus, e da lì prendiamo un taxi per ritornare al nostro albergo. Il taxista
era un indio col volto ocra brunato per il sole e gli chiedo da quali montagne
provenisse, ma lui invece è quiteño d.o.c. da generazioni (dal suo viso allora
potrebbe anche essere forse un discendente degli antichi indios Qitus ?), e mi
fa varie domande sull'Italia e sulla lingua italiana, è un tipo pieno di
curiosità e intelligente. Si lamenta per la conferma del mandato presidenziale
a Correa e per il tipo di sviluppo economico in corso. Si lamenta di come sta
crescendo in modo accellerato e abnorme la città, e ha nostalgia di quando era
piccolo e Quito era una cittadina tranquilla (negli aa. sessanta ancora aveva
300 mila abitanti, nel 1974 mezzo milione, dieci anni fa già il solo municipio
ne includeva un milione e mezzo, ma ora in più ci sono i popolosi sobborghi,
che di fatto sono contigui). Ha quindi assistito a grandi trasformazioni
soprattutto in questa ultima dozzina d'anni. Ma in realtà tutto l'Ecuador ha
visto grandi movimenti e migrazioni, sia di inurbamento dai campi alle città e
cittadine in sviluppo, sia dalle montagne verso la pianura e la costa, dove
quasi la metà degli abitanti sono "immigrati" interni, e negli ultimi
anni con la febbre dell'oro nero, del petrolio, verso l'oriente e l'Amazzonia
che viene massicciamente deforestata, e infine ultimamente l'emigrazione verso
l'estero.
Intanto
constatiamo che il centro è stato chiuso e sigillato, e facciamo gran giri, e
poi dovremo per forza farci un pezzo a piedi. Siamo stanchi, ustionati dal sole,
e ancora per niente acclimatati, e sballati per il fuso orario (con problemini
per gli orari di assunzione delle mie pillole). Intanto qui in centro c'è un
gran casino di gente per questa fiesta del grito de independencia, ma è proprio
come stare in un autobus zeppo...! Ci sono pure dei soldati pronti in assetto
antisommossa, con l'elmetto, il fucile mitragliatore imbracciato, le divise
mimetiche ecc. Compro un bellissimo cappello di feltro nero, anche se è un po'
caro ($22) è proprio molto bello e sono contento, lo porterò molto spesso,
viste le folate di arietta fresca e le serate freddine. Ci sono gruppi musicali
per le strade che fanno un miscuglio tra rock, ex Inti Illimani, e
salsa...Ceniamo in un internet café in piazza grande. Ci riposiamo un pochino,
poi torniamo in albergo e cerchiamo di tirare svegli fino alle 8 di sera (!), e
a quel punto crolliamo addormentati.
lunedì 10
Stamattina ci
alziamo alle 8 (e non alle 5 e mezza come ieri!), e dunque ci pare di esserci già
ambientati... Facciamo un girettino in centro, e poi verso le dieci e mezza
viene a trovarci Manuel Pumaquero Minta. E' in gran tenuta, per poter poi andare
ad un suo impegno importante. Sta proprio bene con quel suo cappello bianco, la
mantellina, i fiocchetti, la camicia di fattura artigianale. E' un po' scuro di
pelle e con i tratti del volto molto indio (gli occhi quasi un po' mongolici),
con baffetti e barbetta. Il sorriso e gli occhi a mandorla sono attraenti, e la
sua calma serafica, e il timbro della sua voce, ci conquistano subito. Appena
entra nel nostro albergo, lo individuiamo subito come la persona che stavamo
aspettando, lo abbiamo come "sentito" e riconosciuto. Lui ci ha
abbracciati calorosamente, dicendo che era come se ci avesse già conosciuti. C'è
stata una impressione immediata e forte di simpatia, "nonostante"
l'abbigliamento apparentemente un po' troppo eccentrico e vistoso (perlomeno
differente dai vari costumi della gente indigena di diversi paesi e regioni che
in quel giorno affluivano a Quito). E'
una persona che ha molto carisma, ed è anche aperto e disponibile, e
immediatamente affettivo.
Io già sapevo da
internet che lui è stato interpellato varie volte come un rappresentante
culturale delle popolazioni di lingua kichwa, in eventi, in riunioni, e in
convegni. Lui "di professione" è dedito alla medicina e alle arti di
cura della salute psico-fisica tradizionali andine. Sia per quanto riguarda la
diagnostica, che le varie terapie, come pure i massaggi, e la pratica di
esercizi per la cura dell'equilibrio naturale. E' persona comunque modesta e
sempre pronto ad ascoltare a ad imparare qualcosa dagli altri. Chi non sa
imparare, ci dice, non sa insegnare, mentre chi ha qualcosa da insegnare, vuole
e sa anche imparare.
Ora, così
abbigliato, assume un aria un po' particolare che si fa certo notare: porta una
camiciona blu scuro, con un poncho leggero dal vivace colore rosso, a righe
bianche con decori, pantaloni leggeri bianchi come il cappello. Questo
suo sombrero (di panno o di lana cruda pressata) ha in cima dei rilievi,
che lo dividono in sei parti, e da un lato gli pendono due nastrini che con
l'aria producono vicino all'orecchio un fruscio leggero che ricorda il vento,
l'elemento aria, mentre dall'altro lato gli pendono due pon-pon. Porta una
borsettina tradizionale in cui tiene accuratamente certe sue cose; tra l'altro
ad un certo punto ha tirato fuori da una piega all'altezza della vita, che stava
tra i calzoni e la camicia, una ocarina.
Chiediamo che ci
portino qualcosa da bere, e vediamo che ci rimane male per il fatto che avendo
chiesto una aranciata gli avessero portato una bibita, quindi diciamo alla
signorina che intendevamo dei succhi di frutta naturali, ma lui a questo punto
chiede di portagli intanto subito un bel bicchiere di acqua fresca.
Gli chiedo
innanzitutto come sta, e come sta la sua famiglia. Così dice che lui è
divorziato, ma che si vede con la sua ex moglie quando va a trovare i figli. Il
primo, Israel, in questo periodo è via per studi, la seconda, Ruth, si è
appena iscritta all'università, e il "piccolo" Pachakutiq di sedici
anni sta concludendo la scuola superiore. Si vede che è molto affezionato e
legato ai suoi figli, e ne è anche molto orgoglioso.
Prendendo spunto
dall'acqua del bicchiere, ci parla della sacralità della Natura e di tutte le
sue manifestazioni, le montagne, i laghi, i ruscelli, la pioggia, l'aria, la
vegetazione, le varie forme di vita che si sono sviluppate, ... A questa si
aggiungano la sacralità del sole, cioé della fonte inesauribile di luce e di
calore, che danno rilievo e colore al mondo, e della luna per tutti gli influssi
che essa ha sulla terra e su tutti i viventi. Se dunque recuperassimo il
sentimento di questa sacralità, e partissimo da lì per sviluppare la
spiritualità e i nostri valori di riferimento, nei nostri comportamenti come
esseri viventi, come figli di madre natura, forse non saremmo giunti a questo
punto di grave crisi del nostro ecosistema, tanto danneggiato dall'inquinamento
da mettere a repentaglio la sopravvivenza di varie specie...
A un certo punto
si è interrotto perché dice che gli mancava un po' l'aria, ed ha fatto aprire
una delle grandi porte-finestre che danno sull'esterno. Si concentra sul
bicchiere d'acqua che tiene con entrambe le mani, e beve alcuni sorsi.
Poi ci dice dei
suoi impegni con l'istituto che dirige, denominato "Jatun Yachay Wasi",
in kichwa, o Hatun yachana huasi, letteralmente casa del grande sapere
cioè istituto di studi superiori, una istituzione culturale e di
insegnamento, chiamata in spagnolo
anche "Universitas de sabidurìa ancestral", che lui e altri hanno
fondato alcuni anni fa. E' molto entusiasta del successo di questa iniziativa,
che è diretta ad una operazione di recupero culturale e di valorizzazione di
quanto di orginale c'è nella tradizione dei popoli aborigeni, e poi vi si
promuovono gli studi e le ricerche sulle concezioni specificamente andine, cioè
peculiari della cultura degli "indigeni" (oggi non si usa più dire
indios). Inoltre in questo modo si diffondono e si coltivano le tradizioni più
antiche che altrimenti stavano per essere dimenticate. Ad esempio ci accenna
alla festa per il solstizio di giugno, che nel calendario lunare incaico ( o
come dicono qui: incasico) è una giornata "libera" dai 13 mesi
dell'anno; lungo tutta la cordigliera andina, dalla Colombia sino al nord del
Cile, gli indigeni danzano per festeggiare e ringraziare che l'asse terrestre
abbia questa inclinazione di 23° gradi e 27', poiché è da questo fatto che
nasce la vita così come la conosciamo.
Ghila gli chiede
esattamente che corsi ci sono in quell'istituto, e lui ci dice che si tratta
innanzitutto di far conoscere e praticare la Medicina tradizionale. Quindi uno
studio dei vegetali, delle loro proprietà, dell'influsso lunare , dei principi
attivi presenti in ogni pianta, di come lavorarle per trarne beneficio. Ed
egualmente per i minerali, e gli animali. Ma poi anche si tratta della cucina,
del modo e delle motivazioni per cucinare i cibi in una certa maniera. Per cui
è importante raccogliere tutta la sapienza medica locale, sia a fini curativi
che di tipo preventivo. Pertanto in questo settore vi sono anche corsi per saper
fare promozione della salute, svolgere una attività di consultorio a indirizzo
individuale e famigliare, ma anche spiegare i campi nei quali i rimedi
tradizionali non possono rispondere alle esigenze di salute di tutti. Alla fine
si da un diploma di tecnologo terapeuta, ma sempre con una preparazione
specifica relativa ai concetti di equilibrio e di squilibrio energetico, a
livello individuale, famigliare, comunitario o ambientale, basati sulle
concezioni e sui principi della medicina tradizionale delle Ande.
In secondo luogo
ci sono corsi di Agropecuaria, relativi all'agricoltura, orticultura,
allevamento, che si basano anch'essi sulle concezioni tramandate dall'epoca
incaica. I saperi relativi alla Madre Terra (Pachamama) e ai frutti che da, e
alle necessità di curare e mantenere un equilibrio a livello ecologico e
ambientale, in modo da operare in maniera e misura sostenibile per lo sviluppo e
l'ottimizzazione del settore primario dell'economia andina. Quindi tenere sotto
controllo l'erosione dei suoli, non praticare in modo indiscriminato la
deforestazione dei territori, o lo sviluppo abnorme delle strutture industriali
e urbane, ecc. Ma anche favorire pratiche
di coltivazione, semina, raccolto, e allevamento che si rifacciano ai principi
della cosmobiologia andina. La cura del chaqra, del luogo di crescita, fa sì
che quando il seme muore rinasca come pianta, o che il cucciolo sviluppi
pienamente le sue capacità da adulto.
Poi c'è un area
dedicata ai saperi relativi all' habitat, quindi rispettosi dell'ambiente, delle
tradizioni e stili architettonici e artistici di costruzione peculiari del
contesto ambientale e culturale, e anche delle motivazioni relative al loro
orientamento, all'arredo, ai materiali utilizzati (naturali e biodegradabili, ma
anche dello stesso territorio, in modo da essere partecipe delle stesse
vibrazioni energetiche), così da poter poi "ritornare" a madre
natura, perchè una abitazione prima o poi deve reintegrarsi con la terra,
eccetera.
Infine un settore
dedicato alla promozione e alla difesa in campo sociale delle comunità
indigene, quindi in questa area si compiono studi di carattere sociologico,
economico, giuridico, politico-amministrativo, basati sui principi di giustizia,
e sull'etica specifica delle culture andine. E anche per dare le capacità di
ideare e realizzare progetti di sviluppo ecosostenibili e fondati sullo scambio
equo e solidale. In una comunità è fondamentale il tema della giustizia. Ogni
persona è interdipendente e sociale. Cruciale è saper gestire la mediazione
comunitaria. Per raggiungere una conciliazione dopo un episodio dirompente, è
imprescindibile lo stare faccia a faccia, ma è difficile da gestire, ci
vogliono persone qualificate, preparate, e che si siano sapute conquistare
rispetto e autorità nella comunità per poter mediare. Perciò sin da ragazzi
(sopra i dodici anni) il percorso di iniziazione deve condurre all'esercizio
della governabilità. Attraverso la pratica ognuno deve imparare a prendersi
cura di sè e autogestirsi, facendo esperienze.
Queste dunque in
breve le quattro branche, o rami dell'istituto, che quindi è dedito al
recupero, alla conservazione, e diffusione dei saperi tradizionali affinché la
cultura (e quindi in primo luogo la lingua, o meglio le lingue aborigene) non
vadano disperdendosi, ma anche affinché siano rinvigorite, rinnovate e poste in
grado di prendere parte al mondo moderno, per dare un impulso allo sviluppo di
una nuova coscienza tra gli indigeni, di un nuovo atteggiamento di rispetto da
parte della società attuale nei loro confronti, e di predisporre ad una visione
più olistica delle problematiche di sviluppo che si armonizzi con il rispetto
di madre natura.
Manuel ne è da
qualche tempo il rettore, e questo impegno lo ha fatto conoscere e apprezzare,
per cui ora è un punto di riferimento non solo per le comunità andine, ma
anche per gli "altri", per il mondo della cultura, della
amministrazione pubblica, e della politica a livello nazionale ecuadoriano. E'
stato autorizzato dal consiglio della sua comunità indigena Puruhà (che vive
nelle aree centrali della valle tra le due cordigliere quella Reale e quella
occidentale) a conferire il bastone simbolo di saggezza e quello simbolo di
comando. Ad esempio lo ha dato all'attuale presidente della repubblica. Tuttavia
come dicevo prima è persona semplice e alla mano.
Ci dice che nella
concezione ancestrale del tempo, esso era visto come una successione di epoche,
o fasi, detti Pachakutin, che significa rifacimento, ritorno, ricorrenza, e da
poco è terminato il periodo oscuro, per cui ora sta iniziando (ritornando) un
periodo (il decimo) di luce e di rinascita.
Tanto ha parlato
e si è intrattenuto con noi a rispondere alle nostre domande e a spiegarci
tante cose con pazienza, sorriso, e passione e impegno, che si è scordato di un
appuntamento di carattere politico che aveva e per cui era venuto a Quito... Ci
dispiace moltissimo, ma a questo punto gli chiediamo se vuole pranzare con noi
da qualche parte. Gli fa molto piacere, anche se ci pare di capire che il suo
particolare vegetarianesimo gli potrebbe porre dei limiti.
Andiamo dunque di
nuovo alla "cafeteria del fraile", che avevamo già apprezzato ieri e
che sembra andargli bene. Anche qui notiamo che prima di bere un bicchiere
d'acqua lo tiene tra le due mani e si concentra un attimo, ci dice che l'acqua
è yucumama, è un elemento sacro, e che quindi lui fa un ringraziamento di
accoglienza delle sue proprietà benefiche prima di assumerla. Ordina un brodo
di verdure, e poi della frutta, ma fa alcune raccomandazioni al cameriere.
Parliamo del vegetarianesimo, e Ghila gli fa notare come una contraddizione il
fatto che lui ci abbia detto che nelle sue pratiche di cura (aveva appena
ricevuto una chiamata al cellulare da una sua paziente e amica) fa uso di quegli
animalini tipo porcellini d'india che qui si chiamano cuy, perchè dicono che il
loro corpo è molto sensibile a certe infermità o malattie, e che dalla loro
reazione, passando un cuy scuoiato lungo tutto il corpo del paziente, si può
diagnosticare il male e il suo grado di gravità. Ma lui non aveva mai
considerato la questione di incongruenze con la scelta vegetariana, e dice che
ci rifletterà, ma che crede che in quel caso il cuy stia offrendo il suo corpo
per aiutarci, e che questa è una sua destinazione positiva nel mondo. Poi
pranzando ci dice che oggi è il giorno in cui Correa (che lui nomina come
Rafael) assume il suo secondo mandato presidenziale e che anche lui era invitato
alla celebrazione di investitura nello stadio olimpico, come rappresentante
della sua comunità. Restiamo esterefatti e ci sentiamo un po' in colpa per
averlo distratto così tanto, ma lui è molto sereno al riguardo. Ha molto
apprezzato le numerose e schiette domande e perplessità di Ghila, e le nostre
riflessioni, mie e di Annalisa sul rapporto tra particolarità e universalità
di un messaggio, e sulla educazione. Comunque non appena ha terminato ci saluta
e ci promettiamo di rivederci, ci chiede delle nostre prossime tappe, e dice che
potrà venire a incontrarci quando saremo a Latacunga, per quel giorno
pranzeremo e chiacchiereremo di nuovo assieme.
Nel resto della
giornata continuiamo a ripensare a lui e alle sue parole, ci dispiace non aver
filmato l'incontro, in modo da poter ricordare esattamente tutte le diverse cose
che ci ha detto.
Ecco siamo già
entrati in una visione più da vicino, più interna al paese, che comincia ad
apparirci molto più sfaccettato e complesso di quanto potessimo pensare prima
della partenza.
Ci eravamo
introdotti grazie ad un approccio occidentale (centro storico coloniale, chiese,
palazzi, chitarra classica barocca, la povera tenera indianella, la leggenda con
i tormenti di coscienza del convertito, i musei sulla geodesia e la
determinazione scientifica dell'equatore, il nostro albergo col patio fiorito,
ecc) e ora con i discorsi e la presenza stessa di Pumaquero che ci fa
intravedere cosa c'è dietro all'immagine degli indios danzanti al solstizio, ci
siamo intrufolati in un'altra cultura e ne abbiamo avuto un primo squarcio,
anche se già l'osservazione dei volti e dei costumi delle masse confluenti
nella capitale per le feste, e il fatto di venire a sapere di un tempio del sole
sul Pululawa (una sorta di contraltare dei musei su La Condamine), ci aveva
avvisato della eterogeneità di questo mondo andino dotato un suo antico
universo di senso.
Torniamo in
albergo, e ci cambiamo, perché appena verso le sei va via il sole, fa subito più
freschino.
Poi andiamo in
calle Ronda, una strada acciotolata in curva e in discesa, vicino alla bella
piazza di San Domenico, era malfamata in passato e considerata pericolosa per
stranieri, ma essendo una calle storica e molto bella, è stata ristrutturata e
valorizzata, e vari abitanti ora hanno aperto bottegucce di interesse turistico,
e caffetterie, e ristorantini, per cui è piacevole passeggiare. Ci fermiamo in
un ristorantino con tanti colori sgargianti, aperto da alcuni giovani
afroecuadoriani, che però, diciamo così, non sono molto solleciti nel
provvedere ai clienti, e nei tempi lunghi che passiamo lì, ci intrattiene un
esplosivo e simpatico giovane nero della costa della Colombia, che fa delle
treccine colorate a Ghila, e intanto scherza, fa passi di danza, canticchia
canzoni, e ride. Ci divertiamo, e poi torniamo in albergo.
Sì il paese è
composito (e in mutazione).
martedì 11
Andiamo alla biblioteca di scienze sociali e antropologiche della Università
cattolica, molto più ricca e tecnologicamente avanzata della nostra biblioteca
di Facoltà (a Ferrara), dove ci possiamo rendere conto della estrema ricchezza
e complessità degli studi e delle ricerche sulla cultura andina, compiute da
esperti raffinati e ben attrezzati.
Poi andiamo alla
Casa della Cultura dove Ghi è interessata a parlare col conservatore della
cineteca, il signor Chinchin. Il quale esordisce con un sonoro "caramba!"
(che credevo fosse una espressione tipicamente messicana...), e ad un certo
punto mi dice: ma lo sa che c'è uno che le somiglia? è uno strumentista del
conjunto musical "Pueblo Nuevo". La cosa mi incuriosisce, mi
piacerebbe vederlo. E lui cita il proverbio "siempre hay dos caras iguales
en el mundo" (ci sono sempre due volti uguali al mondo). Mi torna in mente
che cinque anni fa quando andai in Perù, in un ristorante di Lima mi
scambiarono per un ecuadoriano...
Poi andiamo alla
Libreria "Abya Yala" (dal nome originario con cui era chiamato il
continente poi battezzato America in onore del suo "scopritore"
Amerigo Vespucci) e alla "Libri Mundi". Belle grandi librerie
specializzate in antropologia, sociologia e scienze umane ricche di libri
interessantissimi mai tradotti da noi (segnale del nostro progressivo
impoverimento e depauperamento culturale limitante i dibattiti intellettuali
agli spazi oramai ristretti di un Occidente eurostatunitense). Studenti
seriamente impegnati nello studio, che fuori nel giardino conversano sulle loro
incipienti specializzazioni.
Andiamo a trovare
Giovanni Onore, è un frate marianista (sempre vestito da laico) di quasi
settant' anni, che vive in Ecuador da trent'anni; è stato professore di
entomologia all'università, grande studioso e ricercatore, cui si deve
l'identificazione di decine di specie tra cui molte portano il suo nome (anche
se non poche si sono già estinte nel corso della sua vita...). Da lui
incontriamo Queti, una intelligente e simpatica collaboratrice, sorella dello
scultore ecuadoriano Mario Tapia (Onore anni
fa si era dedicato a far compiere gli studi a tutta la numerosa famiglia Tapia),
e il prof.Valter Rossi un suo collega entomologo dell'università dell'Aquila
(che è qui perché ha scoperto e studiato un fungo del carapace di certi
coleotteri), e le sue due allieve Sylvia e Mayra, che recentemente Onore ha
"adottato" agli studi. Comperiamo da lui alcuni oggettini in tagua (da
un grosso frutto si ricava un seme bianco e durissimo, il cosiddetto
"avorio" vegetale, che serve per fare bottoni) fatti appositamente
dagli abitanti di Otonga, e prendiamo anche dei libri (tra cui quello di C.E.Jàcome
sulla vita di Giovanni Onore, del 2008, da cui vengo a sapere molte cose
interessanti su quest'uomo straordinario), e lasciamo degli indumenti da
regalare.
Onore ci parla a
lungo dei problemi gravi causati dalla deforestazione, i suoi effetti sul clima
e sull'ecositema, che ha causato già l'estinzione di numerose specie. Nell'area
della sierra è ridotto al 9% il territorio coperto da foreste, mentre quello
della costa e della pianura è oggi solo del 6%, e nell' Oriente amazzonico
copre oramai solo la metà del territorio... ! Lui anni fa aveva ricevuto un
grande appezzamento da un apicultore italiano che lasciava il paese, ma avendo
fatto voto di povertà non poteva accettarlo, quindi ha creato nel '98 una ONG e
poi raccolto fondi per acquistare via via tutto il resto di quel territorio in
cui è presente una foresta originaria, e così metterla in salvo
dall'incipiente disboscamento, appunto la foresta di Otonga (da lui così
denominata dal nome di una specie di lombrico locale), che da allora è proprietà
di questa Fondazione "l'arca verde Otonga", ed è una Riserva
Integrale, cioè totalmente protetta, e ha anche creato una organizzazione
contro la deforestazione, un centro di educazione ambientale, e un ufficio per
le adozioni a distanza che garantisce ai bambini del luogo di poter frequentare
le scuole). La gente di lì lo adora e lo chiama affettuosamente "padrecito"
oppure "piripito".
Onore come
scienziato si occupa in particolare degli insetti, ma più in generale degli
esseri viventi che rappresentano degli indicatori per la salute dell' ecosistema
(come in Italia potrebbero essere le lucciole). Ci racconta ad esempio del
problema dei rospi, in spagnolo sapos (e in kichwa: ambato, da cui il nome di
una attuale città). L'argomento della deforestazione selvaggia (o tala
indiscriminada de bosques) potrebbe essere affrontato sotto vari aspetti, ma è
comunque una grave minaccia che l'uomo ha messo in atto contro l'ambiente e in
definitiva contro anche sè stesso. L'Ecuador, pur essendo in Sudamerica un
piccolo paese (è esteso poco meno dell'Italia) ha sempre rappresentato un
esempio di straordinaria varietà e ricchezza di specie animali e vegetali. Oggi
molte sono minacciate di estinzione e molte sono già estinte a causa del
modello di sviluppo selvaggio praticato dalla nostra "civiltà"
attuale, dovuto alla eccessiva ingordigia di guadagni, e all'ignoranza,
nonostante non manchi l'informazione e non manchino le ricerche, gli studi, gli
allarmi lanciati dagli scienziati. Dunque uno di questi casi è rappresentato da
rospi e rane. Ogni albero tagliato, e la scomparsa dell'ambiente del sottobosco,
significa la morte di decine di migliaia tra piccoli e meno piccoli esseri che
vivono in quel contesto. La distruzione di una intera foresta (fenomeno in corso
di rapida accelerazione) causa la morte di milioni di esseri viventi suoi
abitanti, e la agonia e il rischio di estinzione di molte specie. Inoltre, nella
Scuola di Biologia della Università cattolica dell'Ecuador si stanno ancora
studiando gli effetti di un microscopico fungo della pelle (il quitrido, o
dendrobatidis) che lentamente giunge a impedire a rane e rospi di respirare.
Onore ci racconta
che la faccenda era iniziata negli anni '40 quando si era scoperto che una certa
specie di rane del Sudafrica reagiva agli ormoni femminili umani per cui si
gonfiavano i loro organi sessuali, quindi fu massivamente impiegata per valutare
se una donna fosse incinta, iniettando in quella specie di rane l'urina della
donna si poteva dare una risposta certa (oggi si usa un reattivo chimico).
Allora questo fungo è passato ad altre specie di rane che non hanno le difese
adatte, e si sta ora diffondendo su rane di altre parti geografiche e
continenti, causando la morte di gran parte delle rane a livello mondiale in
questi ultimissimi decenni, e oggi mettendo in forse la loro sopravvivenza a
livello globale nel giro di pochissimi anni. La presenza e diffusione di questo
fungo in Ecuador è aumentata vertiginosamente anche a causa della variazione
delle condizioni climatiche e del mutamento o scomparsa di particolari habitat
nelle zone deforestate. (in questi mesi da noi fa discutere l'opposizione di
certi ambientalisti alla costruzione della circolare attorno alla città di Asti
in nome della salvaguardia dell'habitat di una specie di rane che è presente
ormai solo in due località piemontesi.)
Ma si pensi che
la pelle delle rane costituisce un vero e proprio laboratorio chimico, e che da
essa si estraggono molti medicinali e antibiotici, che hanno salvato la vita a
tante persone. Ancora si stanno studiando le numerosissime specie di rane perché
costituiscono una miniera di informazioni straordinaria, le rane rosse, le rane
corallo, le rane diurne e quelle notturne, eccetera, sono preziose persino per
le loro specifiche tossine (si sono potute tenere sotto controllo grazie ad esse
piaghe endemiche). Ma più in generale le quasi cinquecento specie diverse di
anfibi (di cui più della metà è
oggi minacciato di estinzione) sono ritenute fondamentali per la medicina oltre
che per la conoscenza della storia della vita (essendo presenti sulle terre
emerse da circa 350 milioni di anni, e rappresentando una fase di passaggio
cruciale nella evoluzione). Perciò nel cosiddetto "Ranarium" della
università cattolica di Quito si mantengono in vita esemplari rari per poter
compiere studi e analisi. E' parte del progetto Arca come conseguenza del
Vertice Mondiale di scienziati tenuto alla fine del 2005 per salvare le specie
anfibie. Per la loro sopravvivenza sono indispensabili certe piante, determinati
vegetali, un certo ambiente in uno specifico e delicato ecosistema...
Mi viene in mente
per associazione di idee quel raccontino che riguardava il boom demografico, per
cui c'è uno stagno in cui ci sono dei girini, e le rane che ne derivano si
raddoppiano di numero a ogni generazione, a un certo punto le rane coprono un
quarto della superficie dello stagno e incominciano a porsi dei problemi, quando
capiscono che la questione è gravissima già hanno coperto metà dello stagno,
e il giorno dopo, in cui avrebbero messo in atto il loro piano per frenare il
boom demografico, lo stagno era completamente ricoperto e morirono tutte
simultaneamente per mancanza di risorse adeguate. E non si pensi che sia una
storiella un po' pergrina: si consideri che l'Ecuador nel 1910 contava 1.400.000
abitanti, nel 1945 ne aveva tre milioni e mezzo, nel 1974 già erano sei e
mezzo, e oggi ne ha quasi sedici, e .... l'attuale tasso di natalità è del
23,7 per mille (in Italia è meno del 9 per mille).
In un contesto
come quello attuale di un Paese in via di travolgente e caotico sviluppo
economico, anche sui giornali ecuadoriani si scrive che "la desforestaciòn
es rampante y catastrofica", ma non si riesce a fare gran ché per
impedirla, o limitarla, o almeno regolamentarla. Ad es. si è compiuta una
inchiesta sulle condizioni di lavoro terribili dei taglialegna, sono al lavoro
tutto il giorno con paghe ridicole, e stanno costantemente lontano dalle
famiglie, ma ad ogni modo hanno bisogno di denaro e accettano ogni cosa.
Comunque le loro famiglie in definitiva stanno economicamente meglio di un tempo
e mandano i figli a scuola per prendere un diploma che permetta loro di uscire
dalla emarginazione. Stando meglio le famiglie hanno più figli, anche perché
ci sono migliori cure della salute. Ma un domani lo sviluppo dell'economia del
paese sarà in grado di dare lavoro a una popolazione tanto più numerosa? Ma in
definitiva di che vivranno gli stessi lavoratori taglialegno quando il legname
delle foreste (che ora sembra infinitamente inesauribile) si sarà ridotto ai
minimi termini? Quando l'ultimo albero delle foreste equatoriali sarà tagliato,
forse gli uomini capiranno il vero valore di ciò che hanno distrutto, ma a un
certo punto sarà troppo tardi...Un detto ecuadoreño è "! vive su vida
sapo !", in cui il nomignolo sapo era dato per indicare un "poverocristo"
qualunque: che tu possa vivere la tua vita dunque ranocchio!
Onore nel suo
orto fa crescere il mais originario, selvatico, con le spighe piccole, che si è
quasi estinto ora, ma rivela informazioni sulla invenzione dell' agricoltura di
50mila aa fa. Rispetto all'apporto energetico di quel che potevano mangiare i
popoli raccoglitori, questo è più nutriente e fu selezionato, fino a
sviluppare massimi in cui certe qualità ricrescono subito 4 volte l'anno, per
cui garantiva la sicurezza alimentare.
Torniamo al
nostro albergo.
Alla
sera faccio una gran camminata per il centro mentre si sbaracca tutto essendo
finita la festa. C'è un'aria di squallore, di sfascio, ed è tutto un po'
residuale. Molti si sono accalcati in minuscole osterie a magiare qualche zuppa.
Alcuni escono da queste osterie (peñas) ubriachi e vocianti. Reincontro
Aida seduta sulla scalinata di pietra gelida della chiesa di san Francisco con
alcune sue compagne! che ridono quando la riconosco e la saluto chiamandola per
nome. Osservo dei gruppetti di monelli sporchi e cenciosi che hanno finito la
loro opera da lustrascarpe e contano le monete, c'è anche un gruppetto di
bambine-lustrascarpe di circa 10 anni che se ne stanno tra loro, mi fanno venire
in mente certi personaggi di Charlie Chaplin...e provo pena e tenerezza per
loro. Regalo qualche caramella e qualche giocattolino che mi ero portato dietro,
sono felici.
Tornando ripasso
dal centro e assisto ad una sorta di teatrino popolare in piazza. Si recita a
soggetto, ci sono due attori che interpretano in modo fortemente caricaturale i
loro poveri personaggi che si fanno da spalla e si completano a vicenda nella
loro caratteristica contrapposizione. Si tratta di tipizzazioni
molto marcate ed esagerate, il tono è provocatorio e il volume ovviamente molto
alto della voce impostata. Il testo del canovaccio è infarcito di lazzi e motti
e volgarità. La gente partecipa emotivamente con passione e ride sguaiata. Sono
tutti talmente presi e incantati che si potrebbero facilmente rubare i
portafogli (che forse molti non hanno nemmeno). La commedia con le sue pantomime
sembra non finire mai, non essendoci in effetti nessuna vera e propria trama,
nel senso che non vi è né capo né coda ma solo scenette giustapposte, con
incontri-scontri tra i due compari coprotagonisti.
Alle varie smargiassate la folla applaude e fa il tifo per l'uno o per
l'altro, commentando ad alta voce. Mi sembra di tornare indietro di
quarant'anni...
Quanti begli
studi sul folklore, e le tradizioni popolari, e la cultura popolare, si
potrebbero compiere qui, essendo il mondo illetterato e la modalità di
trasmissione orale e tramite musica e gestualità, ancora del tutto presente e
vivente...
mercoledì 12
Andiamo al bel Museo del Banco Central, molto ben strutturato, e
interessantissimo, dove purtroppo è chiusa la "sala de oro" con la
famosa maschera d'oro del sole con raggi a serpente della civiltà pre-incaica
di La Tolita (quasi un simbolo dell'Ecuador). E' un museo di archeologia e
d'arte di eccellente livello e contenente pezzi straordinari.
Poi incontriamo
Richard, che nel governo attuale è una specie di sottosegretario nel consiglio
per lo sviluppo delle nazionalità e dei popoli dell'Ecuador (Codenpe).
Pranzando, ci parla della politica attuale verso le comunità non hispaniche e
aborigene.
Con la nuova
costituzione del settembre 2008 sono ben 14 le nazionalità
ora riconosciute (kichwa, salasacas, shuar, awa, cofàn, huaorani,
Tsachilas o colorados, e vari altri), più altri 8 popoli (come gli
afroecuadoriani, cioè i neri; o i montubios, cioè i contadini della pianura
tra la sierra e la costa, misti indios-neri-bianchi, che si distinguono quindi
dalla comune tipologia del mestizo pampeño, che è il tipico campesino delle
praterie; ecc.), e ora sono tre le lingue ufficiali dello Stato. Si protegge il
diritto alle loro terre e all'autogoverno, e il diritto ad essere consultati su
questioni che li riguardano. Si riconosce la proprietà collettiva delle comuni,
si riconosce il diritto delle varie comunità a proteggere e sviluppare le
proprie tradizioni e conoscenze, e la tutela dei loro luoghi sacri. Si riconosce
il diritto a voler essere curati con le procedure mediche tradizionali. Richard
ci spiega cose molto interessanti. E' un politico molto impegnato, ma anche con
studi da antropologo, per cui ha una attenzione e una sensibilità particolare
per queste delicate questioni... Ma oltre alle questioni riguardanti i non
hispanici, ha anche una attenzione al folklore, e alle tradizioni dei meticci e
delle popolazioni di campesinos di madre-lingua spagnola, e delle loro usanze e
credenze (per cui ci accenna ad es. alle comunità di pescatori, o ai mandriani
nomadi, che hanno proprie identità e caratteristiche distintive). Ora sì che
abbiamo uno sguardo più interno e un quadro della grande complessità di questo
Paese! Il nuovo regime di Correa si fa vanto del motto di unità nella diversità
e vorrebbe presentare l'Ecuador come modello di convivenza tra le differenze, e
come paese fondato sulla multiculturalità, per cui la nuova politica è
chiamata revoluciòn ciudadana, rivoluzione della cittadinanza, dell'essere
cittadino. Speriamo che l'intenzione dia buoni frutti. Ma lui dice che rimangono
ancora tracce di una vecchia mentalità, per esempio al censimento, o quando per
documenti anagrafici, devono dichiarare se sono indigeni, meticci o bianchi, o
neri, ecc. molti indios si dichiarano meticci, come molti meticci dicono di
essere bianchi, e così via, perché altrimenti temono di essere mal
considerati. Gli riferisco la questione che ci fu da noi in AltoAdige/Sudtirolo
quando si doveva dire se si era di lingua tedesca o italiana (o ladini), e non
era prevista la possibilità di sentirsi appartenenti a entrambe le culture, o
anche di essere di famiglia mista, di essere bilingui e questo sollevò un
problema grave. Ma Richard sembra non capire bene cosa intendo dire.
Poi tra noi
riprenderemo spesso delle riflessioni e delle osservazioni al proposito di
queste problematiche identitarie. Ricordo che anche in Perù il nostro autista
era un indio che sin da ragazzo viveva a Lima e aveva sposato una donna creola
(cioè latina), lui si riteneva un meticcio. Ma in che senso? In questo caso il
termine assume un significato esclusivamente di tipo culturale, cioè riferito a
cultura, costumi, abitudini, mentalità, condivisa con altri. Insomma il figlio
di una coppia di indios che come tantissimi in Ecuador emigrò in pianura o
sulla costa o in città per trovare lavoro, non si sente per nulla un indio (un
tempo in pianura il termine "indio" era sinonimo di montanaro -o
contadino- analfabeta) e si sente partecipe delle abitudini, dei costumi, delle
mentalità diciamo latinoamericane, della società di cui è parte, e quindi
anche se non è misto, si iscrive come meticcio (per cui conta meno il sangue,
il dato somatico, e più il sentimento di appartenenza). Questi sarebbero quelli
che venivano chiamati "cholos", cioè indios ormai latinizzati,
urbanizzati, modernizzati. Il termine era spregiativo (un po' come in Messico
pachuco o chicano per i messicani che sono emigrati negli Usa e vivono come dei
nordamericani), intendendo significare da parte dei bianchi e creoli di
Guayaquil e dell'ovest, gente immigrata dalle montagne, ignoranti e grezzi. Ma
da parte di molti oggi fieri di essere indigeni (cioé autentici americani
originari), "cholos" è utilizzato per indicare gente che ha rigettato
le proprie origini, che si vergogna dei propri genitori, non sente il legame con
la terra, con la cultura d'origine. Molti genitori della precedente generazione
(quelli che oggi sono nonni) non volevano che i propri figli parlassero il
kichwa o le lingue aborigene (chiamati allora dialetti, o al più linguaggi
locali) ma che si integrassero nel mondo moderno e quindi in casa parlavano
spagnolo. Per cui oggi ci sono invece giovani che vorrebbero riappropriarsi
della cultura originaria, e che si mettono a studiare il kichwa (ma per loro è
ormai come studiare una lingua straniera, estranea) oppure che rinunciano ad
approfondire le loro conoscenze della cultura di origine per l'ostacolo
linguistico. Ma la storia delle generazioni che erano giovani negli anni
sessanta-settanta era ancora appartenente a una fase in cui emanciparsi voleva
dire modernizzarsi, quindi uscire definitivamente dal mondo ristretto, marginale
ed emarginato del piccolo paesino, dei campi, e delle montagne. Voleva esprimere
una grande voglia di integrarsi, di essere considerati come persona e non
etichettati a vista come poveri indios. La rivendicazione degli strati marginali
e poveri era allora quella di una società in grado di integrare tutti, e
sostennero l'accelerazione del modello vigente di industrializzazione e della
conseguente assimilazione e omologazione. Questo retaggio del passato prossimo
fa sentire ancora molto il suo peso, e condiziona larghi strati di popolazione,
di quel 42%, di coloro che sono o si ritengono, o si presentano, o si dichiarano
meticci. Quindi a certuni sembra andare in una direzione contraria ai tempi la
attuale richiesta delle comunità indigene di una scuola bilingue, e non la
apprezzano né capiscono se non intendendola come un primo passo nelle scuole
elementari per comunicare con i bimbi che non sanno lo spagnolo, ma per portarli
via via poi a integrarsi nella società moderna.
Da una
dozzina/quindicina d'anni a questa parte con il risveglio politico degli indios,
è iniziato invece un processo in senso inverso, anche se contestualmente il
processo di acculturazione da parte della odierna componente egemone
meticcio-creola si è accentuato, ma non più per vie ideologiche o per
pregiudizi e motivi di carattere razzista (ancora presenti), ma oramai piuttosto
per via degli effetti dello sviluppo economico, dell'inurbamento, della
scolarizzazione, e dei mezzi di comunicazione, in primo luogo della televisione,
del cinema, e della musica commerciale (che è ladina, o "gringa"),
oltre che di radio, giornali, e riviste e rotocalchi, o semplicemente della moda
standard, e dei modelli che questi media propongono.
Perciò alcuni
dicono che il processo in atto della cosiddetta rivitalizzazione e di
riappropriamento, recupero e valorizzazione della cultura specificamente andina,
è una reazione di tipo regressivo, e lo vedono come un assurdo ritorno
nostalgico ad un passato che oramai è fuori dai tempi moderni. Quindi come un
richiudersi in una antimodernità, che verrà in ogni modo travolto di fatto
dallo sviluppo in corso.
E lo percepiscono
anche come un insensato e offensivo gesto di rifiuto e di negazione della grande
e onnipervadente cultura latinoamercana, che invece è ciò che unisce tutti i
paesi e i popoli delle tre Americhe. Caso mai l'antagonista anche culturalmente
invadente, il cliché dell' "altro", secondo loro dovrebbe essere oggi
il "gringo" (termine dispregiativo per statunitense), inteso nella sua
stereotipizzazione come modello esemplare negativo, contrapponendosi al quale si
rinforzerebbe il sentimento patriottico.
Perciò per
contrasto chi valorizza la cultura andina invece sottolinea quanto il suo
messaggio sia universale, e insiste su un rinnovamento, e ammodernamento, dei
concetti stessi di cittadinanza, nazione, patriottismo, eccetera, per una società
multiculturale rispettosa della dignità di ciascuna componente. Processo che è
iniziato quando i movimenti "indigenisti", di matrice populista o
marxista, anni fa fecero render conto agli "indios" che le comunità
indigene risultavano costituire la maggioranza assoluta dell'elettorato (impresa
difficile perché ai poveri emarginati da sempre le elezioni non interessavano
affatto). Quindi più che una "coscienza di classe" si è poi
sviluppata una coscienza della propria specificità culturale. E da qui è nata
anche l'elaborazione di proposte per modelli alternativi di sviluppo.
Insomma
l'intreccio tra appartenenze, identità, lingua, cultura, nazionalità,
cittadinanza, stirpe, e mentalità è estremamente complesso e intricato, specie
in un piccolo paese tanto vario e composito come l'Ecuador.
Alla sera andiamo
a cena con Queti al ristorante "vista hermosa" su una suggestiva
terrazza con belvedere, tutta la città ci saluta con le sue lucine accese nel
buio. Beviamo un canelazo caldo, e mangiamo degli involtini e degli spiedini,
godendoci l'aria fresca e il panorama notturno.
giovedì 13
andiamo all'Avis dove ritiriamo l'auto, una berlina con bagagliaio
spazioso, posti comodi, 1600 cc., una Mazda Allegro ($33 al giorno = 21 €uro).
Ora sì che si parte, questa è
proprio una seconda partenza. Allora, via! di lì ci dirigiamo verso nord,
intanto mi oriento col traffico e il modo di guidare (e le strade): ma bisogna
adattarsi e abituarsi alla svelta... Pranziamo in un piacevole ristorantino in
legno lungo la strada, e dopo tre ore di traffico e di su e giù di salite e
discese, arriviamo alla cittadina di Otavàlo (2600 m), dove ci fermiamo all'
Hostal Riviera Sucre. Nell'albergo prevalgono i colori forti e allegri, il che
ci piace, e poi la habitaciòn ha delle ampie porte-finestre! Ci accoglie la
signora Adriana, una creola bianca molto gentile e sorridente. Mi chiede se per
caso ho dei parenti o famigliari in Ecuador, perché dice subito che assomiglio
molto a un loro amico...Rimango stupito e incuriosito. Dice che è uno che
lavora alla casa della cultura di Otavalo. Anche lei aggiunge: hay dos caras en
el mundo...
Alle 5 di sera
andiamo a plaza de los ponchos dove il mercato dell'artigianato indigeno sta
chiudendo, e quindi sono tutti più disponibili a concedere sconti e fare buoni
prezzi per realizzare ancora qualche vendita all'ultimo minuto. Si contratta
bene con loro, sono molto abituati a turisti stranieri. Comperiamo cose di bella
lana di alpaca soffice e calda, e tessuti. Si dice che la gente di Otavalo siano
i migliori artigiani e anche commercianti della sierra, e che siano capaci
imprenditori e innovatori; per questo li trovi in tutti i mercati del Paese, e
si dice che siano tra gli indigeni quelli che hanno raggiunto il migliore
livello di vita. Ma nel contempo hanno conservato molto i propri costumi e le
proprie tradizioni. Scherzando con un bimbo che gioca, chiacchieriamo con il
padre, un indigeno otavaleño con la pelle color mogano, che fa il maestro di
scuola, e ci parla con competenza dei problemi del bilinguismo, e anche lui
menziona il nuovo Pachakutin, ovvero la nuova era di cinque secoli, che sta
approssimandosi.
A questo
proposito alla sera a letto mi vengono in mente alcune cose che avevo letto
ultimamente sulla processione degli equinozi. Si veda a questo proposito lo
studio dei miti andini preincaici e incaici in cui si allude alla processione
assiale, compiuto da William Sullivan, in "Il sergreto degli Inca",
1996 (tr.it. Tea). Prossimamente si prevede uno spostamento dell'asse terrestre,
e questo tra l'altro avverrebbe in prossimità con l'apertura dell'Era del nuovo
Pachakutin, per l'avvento del quale la fase di transizione sarebbe cominciata già
alcuni anni fa con l'anniversario della impresa di Colombo (1492) e si
concluderebbe con il cinquecentenario dell'assasinio di Atawallpa (1533) e
dunque della fine della indipendenza indigena in America.
In sostanza tutto
si rifà ad un calcolo maya (ma che sarebbe una conoscenza molto più antica),
per cui con la fine del 2012 si concluderebbe anche secondo il loro precisissimo
calendario e la loro matematica su base 20, la fase attuale. Per quanto riguarda
la processione equinoziale sappiamo che l'asse terrestre è soggetta ad
oscillazioni continue durante il suo movimento rotatorio. La rotazione dell'asse
compie un giro in 25920 anni, puntando via via sulle varie costellazioni, per
cui tale rotazione è stata suddivisa in dodici transizioni, o "ore",
nel passaggio dall' entrata in una certa costellazione alla successiva (di qui
la denominazione di processione). E dunque dopo circa due millenni (2160 anni),
ora sta per entrare nel quadrante dell'Acquario, e precisamente a partire dal
21.12. 2012 (sotto il cui "influsso" dunque resterà per i prossimi
2160 aa). A quel punto l'asse terrestre inizierebbe a spostarsi più
sensibilmente a causa delle periodiche oscillazioni, e ciò potrebbe portare
anche ad un indebolimento del magnetismo attuale (o a uno spostamento del polo
magnetico attuale, con la possibiltà addirittura di una inversione dei poli
magnetici, cosa che avviene circa ogni cento millenni), e quindi anche a un
cambiamento climatico globale. Terminato il percorso del semicerchio di
allontanamento rispetto al centro della nostra galassia, ora dopo 12960 anni
(quindi all'incirca l'epoca in cui giunsero in America popolazioni siberiane
attraverso lo stretto di Bering congelato) reinizierebbe a "puntare"
nella direzione verso il centro (noi stiamo in periferia, nel cosiddetto
"braccio di Orione"). Da qui deriva la profezia di cui si parla (che
si ritrova anche in alcune visioni filosofico-spirituali dell' India arcaica che
parlano di modifica graduale del posizionamento della kundalini terrestre, cioè
del "serpente di luce" o fascio energetico che la attraversa), secondo
la quale ciò porterebbe ad un'era nuova e migliore soprattutto nella evoluzione
culturale e spirituale, per cui l'uomo raggiungerebbe in quel nuovo periodo una
maggiore consapevolezza di sè e si aprirebbe un periodo di pace e di grandi
progressi in tutti i campi. Certi dicono che ciò comporterà un graduale
"esaurimento" delle conseguenze della forza attrattiva della
spiritualità orientale (tutti i grandi profeti da Krishna, Mosé, Orfeo, Elia,
Daniele, Zarathustra, Pitagora, Buddha, Gesù, Maometto, eccetera erano
asiatici) per spostare il proprio centro attrattivo e creativo nelle Americhe...
Che dire?
speriamo in questa nuova influenza stellare, e che intanto cominci il nuovo
Pachakutin...
venerdì 14
Al mattino facciamo una bella gita nei dintorni approfittando del tempo limpido
e luminoso.
Andiamo al lago
vulcanico Cuycocha, a circa 33 km a nord in salita (il lago è a 3068 m.), che
è un profondo cratere di 4 km per 3, con due isolette coperte di vegetazione,
che sembrano un po' dei cuy (coniglietti) accovacciati, da qui deriverebbe il
nome, oppure come ora si dice, verrebbe da Ki cucha, ossia laguna degli dei
nella antica lingua Cara, parlata in periodo pre-inca. Le isolette sono separate
da quello che gli indigeni chiamano il "canale dei sogni", e in
effetti è un luogo favoloso, che colpisce per la sua straordinaria bellezza e
la sua originalità. E' un incanto stare a osservarlo. Nel centro di accoglenza
è installato un piccolo museo che descrive il grandissimo parco-riserva
naturale di cui fa parte (Cotacachi-Cayapas), ricchissimo di flora e fauna (tra
cui più di 630 diverse specie di uccelli). Lungo la riva giocano delle
paperette (poi più tardi Pintag ci dirà della leggenda del misterioso cuy
dorado, per cui la prima persona che lo vedesse sarebbe divenuta ricca, mentre
la seconda si sarebbe trasformata in una papera). Il lago vulcanico in effetti
suscitò leggende e anche timori, tra cui si dice che sul fondo ci sia uno
scalone senza fine (la profondità è di ben 160 metri), oppure che a volte
emergesse l'occhio del lago e con un'onda si portasse via i malcapitati che
vedeva (e in effetti alcuni scivolarono nelle sue profonde acque e non sapendo
nuotare annegarono) finché un guerriero non riuscì ad accecare l'occhio che
tutto vede, e da allora l'acqua della laguna non inghiotte più nessuno (anche
queste storie ce le racconterà Pintag). Più avanti ci sono un punto ristoro e
delle bancarelle, e si intravede sul bordo della cima dell'altra riva un mirador,
cioé un ristorantino con terrazza panoramica. Ma seguendo il percorso del
piccolo battello che porta in giro i turisti restiamo lì affascinati a
osservare quanto il lago sia più grande di quel che sembri. Il panorama è
magnifico e affascinante, e l'aria tersa, è fresca e tonificante.
Sullo sfondo si intravede il monte-vulcano innevato Cotacachi (di 5000
m.).
Poi discendiamo
alla cittadina di Cotacachi, pranziamo e comperiamo alcune cose dell'artigianato
locale del cuoio. La cittadina divenne famosa quando nel '96 elesse il primo
sindaco indio dell'Ecuador (il 60% degli abitanti è indigeno, il resto sono
meticci), il quale diede l'avvio ad una cosiddetta "democrazia
partecipativa con trasparenza", basandosi sui classici comandamenti andini
pre-hispanici (di cui io avevo già saputo in perù) che sono:
ama lulla, ama shua, ama killa, semplificati dagli spagnoli come non
mentire, non rubare, non oziare, ma che vanno intesi nello spirito originario,
cioé non essere bugiardo nel senso di non approfittare della buonafede, ovvero
sii franco e leale, trasparente; non ladro, è il principio su cui si basa il
valore comunitario della condivisione e della fiducia, il ponte che unisce; e
infine non ozioso, non solo nel senso di "flojo" o "flaco",
fiacco, pigro, imbelle, debole, ma soprattutto come indicazione ad essere
attivo, cioè a dare il tuo contributo, a consentire il passaggio al meglio. E
fondò la prima agenzia turistica che ha messo nelle mani della comunità
indigena locale molte delle attività turistiche della zona, permettendo uno
sviluppo economico della comunità nella valorizzazione delle risorse culturali
e storiche, e naturalistiche (perciò la cittadina ebbe un premio dall'Unesco).
C'è anche un museino, e il maggior artista ecuadoriano Guayasamìn ha fatto un
grande murale intitolato agli excluidos, che pure attira i visitatori, ed è
veramente un'opera che colpisce, di grande valore estetico artistico a tinte
forti e con figure stilizzate impressionanti.
Quando era venuto
a trovarci Manuel Pumaquero ci aveva dato l'indirizzo di una
giovane che era stata allieva del suo istituto, Maria Quilumbango
Saransig, una otavàlo, che è una sua cara amica, sumak mashi (dolce amica in
kichwa) e ci dice che ci farà visitare luoghi sacri molto suggestivi. Quindi
dopo pranzo Maria col suo guagua (bimbo) Pumanaqui di quasi due anni, viene a
prenderci al terminal de buses, e ci guida al suo paesino, Peguche, a casa loro,
dove siamo accolti da una famiglia di contadini (ad accoglierci c'è Pacha la
sorella di suo marito, anche lei con un bimbo piccolo, Kindi, che significa
picaflor, cioé colibrì, e la grande reggitora della famiglia allargata, la Mamà).
Constatiamo che a cominciare dai giovani di oggi gli indigeni portano nuovamente
nomi tradizionali in kichwa, e che questi giovani quando hanno figli danno ai
loro bimbi nomi kichwa; mentre per il
passato non era così, infatti molti trentenni, o più grandi, hanno nomi
spagnoli di santi cattolici, cui oggi aggiungono un soprannome in kichwa.
Evidentemente sino a una generazione fa ci si vergognava di avere nomi
"strani" ed era forte il desiderio di essere come tutti gli altri.
Dunque a Peguche
abbiamo passato del tempo in questa grande casa di campagna, a parlare con il
suo giovane cognato, Pintag, sulla loro spiritualità. Il nome Pintag richiama
quello di un generale otavalo dei tempi della guerra con le truppe dell'Inca,
questi cadde in una prima battaglia, e i compagni fecero con la sua pelle un
tamburo, in modo che fosse presente alla testa dell'esercito durante lo scontro
definitivo contro l'Inca (poi perso), insomma il generale Pintag fu l'ultimo
eroico difensore della indipendenza degli otavalo. Ci dice che si è laureato in
economia alla università di Ibarra (una città poco più a nord), e che a quel
tempo erano solo tre in tutto gli studenti indios (si pensi che in generale
negli anni sessanta, ancora la maggioranza della popolazione ecuadoriana era
analfabeta, alla fine degli aa. settanta si contava un terzo di analfabeti,
mentre oggi la percentuale è scesa sotto il dieci%, ma tra gli indios i tassi
erano molto molto più alti. Comunque i motivi erano anche dovuti all'imperante
razzismo). Ha scritto una tesi su un suo progetto di creazione di una sorta di
bonus comunali per finanziare nuove iniziative di interesse sociale. Ora si sta
effettivamente attuando per la istituzione di un grande parco ecologico con al
centro un complesso a forma di chakana (la cosiddetta croce andina, o a
scaloni), con al centro un museo e un ostello. Solo che nessuna autorità
statale lo ha finanziato, e quindi lo faranno per conto loro, cioè con il
supporto di tre comunità indigene consorziate. Così si potrà salvare
quell'albero in kichwa chiamato pumanaqui, che è una pianta nativa originaria,
mentre l'eucalipto (qui molto diffuso) non lo è, ed è un albero che consuma
molta umidità, che fa isterilire la vegetazione aborigena. Quindi dico farete
come abbiamo visto in Sudafrica, deforestare per poi riforestare? ma nel
frattempo ci sarà un periodo intermedio in cui il paesaggio si impoverirà. Si,
mi dice, deforestar para reforestar el nativo: la pobreza de hoy sera la fortuna
de mañana (la povertà di oggi sarà la fortuna del domani). Gli chiedo se la
nuova politica governativa gli pare buona, e mi dice che la cartina di tornasole
è la legge sulle acque, e la nuova legge appena approvata favorirà i privati e
non le comunità indigene. Per cui gli importa poco della nuova politica di
riconoscimento delle varie nazionalità, perché serve solo a guadagnare il
consenso, ma il banco di prova è la legge sulle acque, e da questa si vede che
il presidente non è così amico degli indigeni. Il piccolo Pumanaqui entra di
corsa nella stanza e viene da me e mi prende un dito e mi tira come per dirmi di
seguirlo, e dicendo "oy oy oy", gli vado dietro, o meglio lui mi porta
tenendomi stretto, dall'altra parte della corte dietro la loro seconda casa (la
famiglia è grande e estesa) e lì Maria mi spiega che hanno trovato morta una
gallina cui lui era molto affezionato, ed ora infatti continua a dire "oy
oy oy".
Torniamo da
Pintag e chiediamo di parlarci di argomenti di tipo spirituale, e lui esordisce
dicendo che anche in questo campo i concetti che si esprimono, poi portano con sè
un orientamento della società; ogni concetto implica una forma di vita. Sia nel
senso che ne è espressione, sia nel senso che apre a certe modalità e a certi
percorsi. Tutta la spiritualità andina parte da cose concrete, reali, in cui si
esplica Madre Natura, la terra, le acque, il cielo stellato, le piante, i
vegetali, gli animali, sono ciò che sostanzia la spiritualità, e la stessa
cosmovisione dei popoli indigeni.
Ora il mondo
indigeno è alla ricerca di nuove soluzioni per potersi meglio autogestire. Il
fatto è che tutto ha una sua ragione, ma la scoprirai dopo, per cui devi essere
sempre aperto. A certi però interessa solo apprendere cose nuove, e mai si
dedicano ad insegnare, sono in fondo degli egoisti. Noi otavalo ora teniamo il
desiderio e la necessità di apprendere, di conoscere, ma non dovremmo
dimenticarci che solo il restare nel territorio, radicarsi qui e dedicarsi anche
a divulgare, fa sì che poi certe cose possano realizzarsi veramente. Perciò
bisogna rimanere aperti. Se non ora, magari in un diverso momento o sotto
diversa forma, poi si vede che c'è sempre una reciprocità nella necessità di
apprendere e anche di insegnare. Pertanto dobbiamo sapere attendere per cogliere
le opportunità. Non si tratta di credere nel destino, è una forma di vivere la
vita. Ogni tappa è importante, ma non solo la prima o la seconda o la terza e
poi basta, magari da un segnale il più banale che viene dopo, si potranno
capire le ragioni delle tappe precedenti, e poi in una fase successiva ancora si
potrà vedere come raggiungere l'obiettivo, e infine ci si potrà occupare di
insegnare agli altri.
Ma non si tratta
solo di una migliore organizzazione economica, dice ancora Pintag, ma anche di
migliorare la condizione spirituale, per cui tutte le cose buone che accadono,
tutte le esperienze fatte, devi poi ricordartele e conservarne il senso dentro
di te, per poi poterle trasmettere. E ribadisce che ogni cosa che c'è e ognuno
di noi come individuo ha un significato unico; c'è una ragione per cui ciascuno
è in questo mondo, dato che ognuno è parte della Natura dentro la quale ha da
svolgere un proprio ruolo, e la sua presenza assume il proprio significato.
Siccome in tutto quel che facciamo dobbiamo passare per quella che è la
nostra specifica porzione della energia generale, allora si capisce come
ciascuna forma di vita si relaziona con le altre, e i vali livelli
dell'esistenza sono interrelati, come è rappresentato nel simbolo della Tawa
Chakana, dei quattro ponti scalonati.
Lo sollecitiamo a
dirci di più su alcune concezioni del mondo e della vita tipiche degli indigeni
andini. Ci dice che per esempio per loro il passato non è di dietro, e il
futuro davanti, come pensiamo noi che abbiamo una concezione lineare del tempo.
Loro pensano al passato come all'epoca di quelli che sono stati i primi, ñaupaq
kausaqunak. Quindi non quelli che ci sono stati prima, che sono -come diciamo
noi- dietro di noi, ma all'inverso. Per la cultura andina quelli che sono stati
i primi, ci stanno davanti, noi ci siamo aggiunti dopo, siamo in coda. E' come
per i numeri. Il passato è quel che ci sta di fronte, davanti, dinnanzi, e non
è dietro, ultimo. Noi europei diciamo che il passato è finito, non c'è più,
è morto, ma è al contrario: del futuro non si sa nulla, il passato è sempre
vivo, ha dato forma al presente e ancora lo influenza o condiziona, agisce su di
noi. Guai se non imparassimo da tutti quelli che prima di noi hanno affrontato
tanti problemi, e le necessità di sopravvivere in un certo ambiente. (E'
evidente che in questa fase di recupero di una concezione prehispanica, per lui
è fondamentale tenere dinnanzi a sè i modelli precedenti; ma d'altronde anche
in Europa certi dicono che le nostre radici sono dinnanzi ai nostri occhi).
Poi aggiunge che
se parlare significa pensare, quindi è da qui che deriva il come apprendere le
conoscenze, e perciò è importante in educazione, insegnare a saper parlare, a
sapersi esprimere, perché comporta saper pensare, e quindi è un insegnare a
saper pensare. Inoltre bisogna parlare del passato e non darvi poca importanza.
Però bisogna stare molto attenti, vigili, perché non ci si deve perdere
avanzando nel cammino. Mentre oggi molti indigeni lasciano le loro radici, e si
dimenticano di sè stessi. E' questa la falla dell'educazione attuale. Ci sono
molte forme di dominio, la religione, l'educazione, e il sistema nel suo
complesso. Ad esempio c'è l'alcol per dimenticarti il dolore. Il vizio serve
per dominare. Così le chiese servono per dividere. Ma ora terminò il
Pachakutin negativo, e sta iniziando un'era nuova. Perdersi in definitiva è una
decisione, così come la vita è tutta una messa alla prova. Come nel caso di
quell'indio che è divenuto sindaco della città di Otavalo, e che si è
dimenticato di chi è lui stesso. Certo, dice ancora, la cultura è qualcosa di
vivente, e quindi si deve adattare e si trasforma. Per esempio nel suo progetto
di sviluppo territoriale e sociale si contempla anche un grande lavoro di
formazione e di comunicazione, perché il progetto riguarda la partecipazione di
tre comunità per un totale di 12 mila persone. E tutti ora hanno desiderio di
partecipare. Si tratta di una grande opera di riforestazione, di rispetto per
gli equilibri dell'ecosistema, e di scambio reciproco tra chi è più in alto e
ha molta acqua e chi è più in basso e ha molta più varietà di prodotti. Ma
gli organismi pubblici, lo stato, il municipio, non lo finanziano, forse perché,
come si vocifera, qualcuno vorrebbe aprire una grande miniera nell'Imbabura, e
il governo e le amministrazioni locali sperano nei profitti di quella miniera...
Ci accompagna
fuori dal cancella alla nostra auto, e intanto mi dice che proprio lì vicino
alla palizzata tempo fa aveva incontrato un chusalongo, uno spirito agreste, e
che era più alto della casa, si sono guardati, e poi subito lui è scomparso...
sabato 15
(Ferragosto), al mattino presto andiamo con un taxi al mercato del bestiame.
Speriamo di incontrare Maria che ci aveva detto che sarebbe stata qui per
vendere dei polli. Si vede bene il vulcano mama Cotacachi innevato (5000 m) ed
è uno spettacolo di sfondo incantevole. Arriviamo
e ci rendiamo subito conto che Maria non l'avremmo potutaincontrare mai
da tanta folla e ressa che c'era. Una grandissima quantità di gente stava
affluendo con ogni mezzo a questa spianata portando i propri animali da vendere
o venendo per scambiare o comperare. A piedi, con i maiali al guinzaglio, o in
auto, o con camion stracarichi di mucche, o di lama, o di pecore...e anche
torelli. Insomma ci facciamo coraggio e iniziamo a fendere la folla come si può
fare in un autobus al mattino pieno di impiegati e di studenti, per cercare di
scendere alla propria fermata. C'è una gran confusione, voci, vari suoni dei più
diversi animali che si lamentano o sono preoccupati. Gente che è qui e deve
andare là. C'è una zona per gli animali piccoli, e un'altra per quelli grandi.
Nella prima ci sono ceste piene di galline, pulcini, paperette, conigli, cuy,
eccetera, alcuni vendono un cucciolo di cane, o un tacchino. Puzze e odori e i
bisogni delle varie bestie per ogni dove. Ma è veramente molto ricco, vario,
suggestivo, interessante e anche colorato, e si vedono costumi diversi dei vari
paesi. Le donne portano dietro di sè i bambini più o meno piccoli, o tengono
per mano quelli più grandicelli, anche loro vestiti col costume del paese come
i grandi, sembrano degli ometti o delle donnine in miniatura. Gli uomini hanno
le trecce, il sombrero e vari tipi di ponchos. Turisti pochissimi, o solo più
tardi, c'è dunque solo la gente di campagna che viene per fare i propri affari
o per curiosare. Incontriamo persino il ragazzino negretto conosciuto ieri, che
arriva con un'oca in braccio. Maria non c'è, sapremo dopo che le hanno rubato i
suoi quattro polli, che erano proprio suoi personali, ed è tornata indietro.
Nella parte alta ci sono vari comedores, punti di ristoro sotto dei tendoni, con
pentoloni fumanti (e puzzolenti di grasso) e le loro porchette arrosto o allo
spiedo, e carne (prevalgono, intestini, frattaglie, pelle, parti povere e a buon
mercato) e pesce. Alcuni vendono anche cordame, oppure assistiamo a una
interessante vendita all'asta di coperte, con tanto di altoparlante per il
banditore. C'è pure una parte con i foraggi per le bestie. Restiamo quasi tutta
la mattina sino a sfinimento per rintronamento, ma è veramente un grande
spettacolo. Al ritorno in paese andiamo a vedere il mercato della frutta e
verdura che pure è molto suggestivo e animato.
Pintag aveva
promesso che ci avrebbe accompagnato in un luogo sacro di grande energia dove
loro si recano per fare delle cerimonie, o per isolarsi a meditare, e questo è
il luogo in cui si trova un albero sacro: taita lechero, cioè taita in lingua
kichwa significa padre, e lechero è il nome spagnolo di un albero
(euphorbia?) che cresce in quelle zone, le cui foglie secernono un
lattice.
Ci dovremmo
incontrare dopo pranzo davanti all'albergo gestito dalla sua famiglia in città
(a saperlo avremmo potuto andare là, evitando così notti insonni per colpa dei
pullman, e dei camion pesanti, che passano a tutte le ore sotto la nostra
finestra...) che si chiama hostal Chuquito; il termine chuqo sta ad indicare un
colore tra il giallone scuro e il color caffé chiaro, e il nome dell'hostal
ricorda il fatto che il padre aveva il nomignolo di chuqo perché quando era
bambino gli era morto il suo amato cane "giallo" (chuqo) e lui lo
aveva annunciato piangendo. Anche ora a casa loro c'è un bel cagnone (allku
=cane, mentre kanirka significa mordere) "giallo", a cui il piccolo
Pumanaqi è molto affezionato (il cane è l'unico che riesca a farlo
sorridere!). Invece essendo sabato, tutta la cittadina di Otavalo è invasa da
una infinita quantità di bancarelle, e non si può passare. Telefoniamo che
venga lui da noi. Dopodiché il cellulare mi cade di tasca senza che me ne
accorga, ed è così che me lo fregano. Ne
compreremo più tardi uno di seconda mano dopo aver fatto la denuncia alla
polizia per telefono con l'aiuto della signora Adriana dell'hotel.
In auto Pintag
racconta la storia dei quattro colori del mais, in Sudamerica c'è il giallo, il
bianco, il nero e il rosso, e la storia dice che quando verranno meno, finirà
l'umanità. Chiaramente, dice, l'allusione è alle quattro principali civiltà,
d'Asia, d'Europa, d'Africa e delle Americhe. Pintag dice che in effetti il
choclo (la pannocchia in kichwa) inizia col morocho (mais duro) bianco, che poi
maturando diventa giallo; la zuppa è macinata e si fa la colada de maìs che in
kichwa si chiama api, o in spagnolo mazamorra, ed è scura, e si mangia con
caracoles (cozze), o col cuy, ma dice che noi non la conosciamo perché i
meticci non la mangiano e quindi
non si trova nei ristoranti. Si può fare anche con la chuchuca che è un maìs
più grande. Insomma dunque lo stesso mais cambia colore. Poi c'è il yamor che
è una mescolanza di sette grani diversi: i quattro di maìs, orzo, avena,
frumento, da cucinare per tutta la notte e poi quando è pronta è da consumare
subito (ancora non si sa come bloccare la fermentazione, mentre gli antichi
all'epoca pre-inca e inca lo sapevano fare). A Otavalo in settembre c'è una
festa del yamor che dura vari giorni. Insomma la storia dei quattro colori
facendo riferimento al mais, allude anche al fatto che c'è mescolanza, e che ne
esce un risultato buono, e che c'è trasformazione da un colore all'altro.
Dunque dopo un
po' di strada sterrata in salita su per una collina isolata,
giungiamo quasi in cima, lasciamo l'auto e saliamo sul cocuzzolo (a 2837
m) di questo dosso (Pucarà de Rey Loma) ricoperto d'erba, dove c'è un solo
albero. Da lì si gode un panorama straordinario: da una parte si vede giù la
Laguna San Pablo (chiamato, dagli antichi abitanti Cara, Imba cocha), un bel
laghetto sulle cui rive le donne del paese vicino vanno a lavare i panni.
Venerato e rispettato sin dali tempi più remoti per la sua origine mitica. E
dall'altra parte si vede la grande montagna Imbabura (di 4600 metri) a 60 km
dalla cittadina, che da il nome alla provincia, e che pure chiamano taita, poiché
gli si attribuisce la paternità di tutto il popolo degli otavalo, e, come di
rimpetto a questa, si vede piuttosto in lontananza la maestosa montagna
Cotacachi, che, pur trovandoci all'equatore e in agosto, ha dei ghiacciai
perenni; essa ha un nome proprio (in spagnolo Maria Isabel Nieves) e gli
indigeni per grande rispetto la chiamano Mama Cotacachi. E' un vulcano semi
spento, ma potente.
I due si guardano
e si desiderano, ma anche un po' si fanno ogni tanto dei dispettucci o degli
scherzi, e giocano tra loro. Taita Imbabura presenta da questo lato una parte
rocciosa che sembra un po' a forma di cuore, lì si trova l'anima della
montagna. Certe leggende dicono che là dentro ci siano grandi ricchezze (forse
là è stato nascosto all'arrivo degli spagnoli il tesoro di Atahualpa), e/o che
se si riuscisse ad andare dentro, là non passa il tempo, e pare che qualcuno
avesse trovato il modo di entrarci, e dopo 50 anni sarebbe uscito con la stessa
età di prima...Quanto ai poteri di questa "vertiente mitica", di
questo leggendario versante del monte, essa si farà conoscere pienamente solo
da un eletto il quale incontrato il tesoro dovrà fondare là sul sacro monte
una città nuova...
Taita Imbabura è
il padre e quindi il protettore degli indios, simbolo di forza e durezza, e di
virilità, da lui dipendono il tempo atmosferico locale e i buoni raccolti. Gli
indigeni vengono periodicamente qui a svolgere il rito del Wakcha Karay
(scritto anche Huaccha caray, regalo per i poveri), cioè a implorare la loro
protezione e esprimere desideri per le proprie comunità, per cui la gente si
raccoglie qui intorno portandosi il pasto, che viene benedetto dallo Yachag,
dallo sciamano, e si condivide tutto. Pintag ci racconta la leggenda della bella
laguna e dell'albero che le fa come da sentinella. Tantissimo tempo fa ci fu un
lungo periodo di aridità che flagellava tutta questa regione , e pertanto la
gente pensò che si sarebbe dovuto compiere il sacrificio di una giovane per
offrirla a Taita Imbabura e calmare il sacro monte che era divenuto così poco
generoso. Una bella indigena chiamata Nina Paccha (fonte di luce) fu l'eletta,
però il suo giovane innamorato Guatalquì, non era disposto a perderla, e così
fuggirono assieme. Tutti si misero al loro inseguimento, e quando stavano per
raggiungerli, il cielo si illuminò per un forte lampo, e Nina Paccha sparì. Il
grande padre l'aveva trasformata in una bella laguna. Inoltre sorse un terribile
fulmine proprio dove si trovava il giovane innamorato, che sfumò e germogliò
in forma di albero lechero, così volle taita Imbabura perché facesse da
guardiano permanente della sua amata. Dato che la gente era immobilizzata dalla
sorpresa e dallo spavento, una forte e abbondante pioggia incominciò a cadere
su tutti i campi coltivati. Fu così che la laguna e l'albero si convertirono in
templi rituali da dove si potevano alzare implorazioni per la semina, il
raccolto e per la vita stessa...
Insomma quando si giunge là, bisogna
chiedere permesso all'albero, e anche ai due grandi monti, e mostrare rispetto.
E' davvero un punto panoramico
bellissimo, e questo albero lechero in quella posizione dominante sembra proprio
essere un guardiano, o un testimone, in costante comunicazione e dialogo con il
lago, con la valle e con le due grandi montagne. C'è silenzio assoluto, e di
solito tira un forte vento. E' certamente un luogo in cui si percepiscono forti
energie presenti. Perché il lechero si trova qui? Pintag ci parla del fatto che
qui si può avvertire la energia principale e suprema dell'universo chiamata in
kichwa Aya Uma (aya è lo spirito e uma la testa, quindi sarebbe il capo-spirito
ovvero il Grande Spirito venerato anche dagli "indiani pellerosse" del
nordAmerica, mentre gli spagnoli lo definirono il gran demonio, o testa di
diavolo, ma la traduzione era una forzatura consapevole). Certi sostengono che
questo albero solitario è divenuto un vero e proprio simbolo della "otavaleñidad",
quindi di quel qualcosa comune che provano indios, meticci, e ladinos che è
l'identità culturale locale, pur variamente intesa.
Dunque prima di venire abbiamo
comperato alcune offerte da portare in omaggio, una banana, un sacchettino di
cioccolattini, un mandarino, due piccoli panini, ecc. e ognuno ha dovuto
prendere solo i suoi e pagare per proprio conto. Insomma non è come fare la
spesa, e dunque questo ha fatto un po' tribolare il negoziante per dare a
ciascuno il suo resto separatamente. Giunti qui, dopo aver chiesto il permesso,
ci siamo disposti in cerchio e Pintag ha intonato una melodia, poi dopo un lungo
silenzio ciascuno è andato a scavare una buchetta in terra ai piedi
dell'albero, dove ha deposto la sua offerta e l'ha poi ricoperta con quella
terra, e tornando a sedersi al suo posto sul prato, ha pensato mentalmente
qualcosa che desiderava particolarmente e che potesse essere di generale
gradimento. Infine lui ha intonato un'altra melodia, siamo rimasti lì ancora un
po' in silenzio e in meditazione. C'erano dei gran nuvoloni anche neri, e il
vento era proprio molto forte. Quando Pintag ha detto che il ringraziamento era
terminato, ci siamo alzati, e ci siamo fatti fare anche una foto.
Proprio in quel momento si è aperto un
grande buco tra le nuvole, e siamo stati inondati dal forte sole, ci siamo detti
che sembrava come un segno di accoglienza e gradimento.
Quindi all'improvviso si è alzata in
volo una grande aquila ! che è salita altissima, e poi è andata lontano.
E' stato magnifico, abbiamo abbracciato
quell'albero come fosse un anziano parente, con affetto.
In quel momento è arrivata una giovane
inglese da sola, che era salita a piedi, e ci ha chiesto di cosa si trattasse,
così le abbiamo un po' raccontato di tutto questo.
Intanto un cagnetto vagabondo si è
avvicinato alla buchetta che avevamo fatto, e ha incominciato a mangiarsi le
nostre offerte...
Poi siamo
ridiscesi, e abbiamo rivisto l'inglesina camminatrice con un motociclista
accanto, che discutevano, allora ci siamo avvicinati per proteggerla e intanto
abbiamo visto che il giovanotto era uno della polizia, così gli abbiamo detto
che la conoscevamo e che l'avremmo accompagnata noi per il resto del percorso
fino in città. Lui ha detto che voleva solo avvisarla del pericolo che ci
potrebbe essere a girare da sola in luoghi isolati, ma che lei non ha capito
quel che le diceva e ha equivocato le sue intenzioni. Boh, chissà?... in
effetti lei, come moltissimi dei numerosi turisti britannici e nord-americani
(di gran lunga i più numerosi tra i turisti stranieri) non capisce lo
spagnolo...l'abbiamo accompagnata in auto per un po', poi lei ha voluto
continuare la sua camminata.
Poi Pintag ci ha
portato a visitare le cascate, che si trovano nell'area di una ex grande
hacienda in cui c'era un opificio di tessitura. Si tratta di un bel bosco grande
esteso, curato come parco pubblico, e piuttosto frequentato e visitato. Anche il
bosco è caricato di sacralità, come già abbiamo visto la cultura locale e le
tradizioni mantengono una relazione
molto stretta e fortemente sentita con il contesto ambientale naturale, in
special modo con le montagne, i boschi, gli alberi, le fonti, i fiumi e i laghi,
e al proposito hanno presenti moltissimi significati che sono attribuiti agli
elementi della natura, e ricordano molte leggende e miti, che hanno poi ispirato
una gran varietà di racconti e fiabe, come anche riti e cerimonie, e feste.
La cascata
principale compie un salto d'acqua di 18 metri di altezza, è formata dal rio
Peguche che sgorga dal lago di San Pablo, e dopo la cascata cambia nome e viene
chiamato Jatun Yacu (grande acqua). Perciò la comunità indigena del luogo si
denomina fachallacta, o "figli della caduta d'acqua", intesa
quest'ultima quale sinonimo della forza e potenza dell'acqua. Questo è un luogo
sacro per gli otavalo, che qui vengono a compiere abluzioni e immersioni
rituali, soprattutto durante la luna piena (quando l'effetto della attrazione
lunare sulle acque è maggiore), in particolare anche presso il cosiddetto baño
del Inca, dove si immergeva Atahualpa (o Atawallpa) per purificarsi e
intercedere con l'elemento delle acque, yacumama, per cui gli indigeni
bagnandosi stabiliscono dei patti con lo spirito del fiume per caricarsi di
forze e di energie. Questo accade in particolare con il bagno rituale Armaytuta,
durante la cosiddetta fiesta de San Juan, cioè con la festività del dio Sole,
lo Inti Raymi, che si tiene nella notte tra il 21 e il 22 giugno nel momento
culmine del solstizio (conosciuta appunto come "la notte del bagno").
In quella occasione si beve la bevanda sacra, la chicha de jora, cioè birra di
granturco germogliato, si mangia in comune, api con cuy, si
cammina nel bosco sino alla cascata con musica e canti, poi si inala il vapore e
le gocce d'acqua, e poi si danza al grido "churay! churay!" diffuso in
tutte le Ande, oppure "hala-ha! ha, ha!", e si mangia un po' di "motecito"
(una pappetta di mais bollito, come una polentina) a discrezione del sacerdote
della cerimonia, cioè a seconda di quanto intensamente si balla, e le danze
durano tre giorni e tre notti. Queste feste collettive devono essere (da quanto
ci riferiscono) molto coivolgenti e travolgenti, e quando gli indigeni
incominciano a bere basta poco perchè si inebrino e allora si scatenano in
urli, canti e balli esagerati. Giovanni Onore diceva che loro non sono forniti
degli enzimi sufficienti per metabolizzare l'alcol, quindi non lo
"digeriscono" e basta loro una minore quantità rispetto a noi europei
per cadere ubriachi fradici (ne abbiamo visti parecchi). Per gli indigeni di
tutto il nord questa festa in occasione dei raccolti d'estate è molto sentita
come un riferimento culturale importante, e i preparativi (anche in senso
"spirituale") durano diversi giorni.
Poi siamo andati
all'angolo della musica, che è un luogo vicino ad un grande albero, in cui si
va a provare i nuovi strumenti appena costruiti, e a metterli a punto, e anche
dove si recano coloro che hanno appena terminato un corso di musica strumentale.
Attraversiamo il fiume camminando su un grosso tronco, restiamo un momento in
contemplazione della cascata, e Pintag dice che secondo certi ogni tanto dietro
la cascata si apre un passaggio segreto nella roccia.
Poi passiamo a salutare l'albero nodoso, un grosso e largo albero molto
bitorzoluto, vicino al quale vengono gli innamorati. Infine raggiungiamo Ghila e
Annalisa che si erano fermate e ci aspettavano in una bella radura del bosco.
Ecco cosa può fare uno sguardo magico, ci fa vedere in un parco dove viene la
gente a passeggiare per ricreazione, e in una bella cascata, cose sorprendenti e
meravigliose; tutto dipende dal tipo di sguardo che si è attivato.
Oramai prossimi
al crepuscolo andiamo, sempre per una stradona di terra e sassi verso un
villaggio e ci fermiamo vicino a una casa contadina, qui ci porterà a vedere la
pietra nera, raccontando della gara tra due chusalongos (personaggio mitico
della serranìa andina, figura burlesca, una sorta di demonietto anche
sporcaccione, molto alto e dotato, che si diverte a dire chiare e tonde certe
verità, entrato anche nel folklore popolare dei meticci dell'epoca della
colonia, era come un essere faunesco e satiresco, che viveva nei boschi e nei
monti da selvaggio, in modo animalesco accoppiandosi con chiunque. Per cui era
chiamato dagli spagnoli "diablo suelto", o spirito maligno, o anche
spregiativamente diavolo indio). Dunque c'erano due guardiani delle montagne,
che erano due chusalongos potenti, avevano un pene così lungo che faceva cinque
giri del ventre, e tra loro si è ingaggiata una gara di lancio del peso per
stabilire quale montagna doveva tenere più vegetazione. Il primo lanciò una
grossa pietra, e fu appunto quella che cadde vicino a Peguche in un prato nei
pressi di un rio, mentre invece quella tirata dall'altro arrivò sino all'Imbabura,
ed era un masso tremendo che si chiama kwandun rumi, e con quel tiro vinse il
guardiano del Cotacachi. In effetti esiste lungo un fianco dell'Imbabura un
laghetto con un masso proprio nel mezzo, ed è un bellissimo luogo dove a volte
Pintag va a meditare. Come mai c'è proprio lì questo masso? perché
è stato gettato sin lì da un potente chusalongo... Ma anche questa che
ora vedremo, e che si chiama hatun rumi, grande pietra, è molto rispettata, e
spesso ci si reca lì a tenere cerimonie. Scendiamo a piedi lungo il muro della
casa, Pintag saluta e chiede il permesso, il prato è sempre più scosceso e
oramai umido, e la luce comincia a scarseggiare. Passati a fianco di una grossa
mucca (che io nella penombra credevo potesse essere un toro) arriviamo a questa
grossa pietrona nera, ed in effetti è molto suggestiva, anche perché c'è
vicino un torrente con molti alberi alti che svettano lungo le sue rive, e quel
poco di chiarore che c'è ancora li mostra come in controluce, mentre le acque
sono un po' luccicanti. Il silenzio qui è totale (a parte il sottofondo del
mormorio del ruscello e qualche muggito). Giriamo attorno alla pietra nera, e
vedo che le rugosità della roccia sono state dipinte perché sembrava di
poterci intravedere delle figure, che così sono state evidenziate e poste in
risalto. Si tratta di un volto di profilo di uno che soffia dentro una grande
conchiglia per farla suonare.
C'è anche una
spirale, che Pintag dice che rappresenta il tempo e dove si può ben vedere che
il passato è sempre davanti al presente perché man mano che segui col dito il
percorso un tratto del precedente si trova dinnanzi. Restiamo lì un poco in
silenzio, io sono ammaliato per non dire stregato dall'ambiente circostante e
dalla imponenza magica del grande masso scuro con le sue figure che oramai
appena si intravedono. Gli alberi in controluce ondeggiano per il vento, e si
levano profumi di fiori. Quindi risaliamo in silenzio su per il prato nel buio e
raggiungiamo l'auto dove ci aspettano Ghila e Annalisa.
Infine torniamo a
Otavalo e ceniamo con lui in un ristorantino con musicisti locali che ci
assordano, mentre mangiamo il lapingacho (frittelle di patate e formaggio) e il
morocho (mais abbrustolito duro e scuro). In una cartina di Otavalo vedo che da
una parte c'è il cimitero meticcio, e dall'altra il piccolo cimitero indio:
questo rivela già molto sul regime di apartheid e sul razzismo che ha imperato
nel Paese sino a una quindicina d'anni fa.
In effetti Pintag
dice che in questo sono separati. Loro vanno al cimitero il lunedì e il giovedì,
se no "hay mal aire". Mentre invece i meticci ci vanno in giorni
differenti, e così non si incontrano.
Insomma non
bastava esser morti per non essere più etichettati come inferiori... Ma
ricordiamo che sino a pochi decenni fa la città era considerata "il
luogo" dei meticci e dei bianchi, gli indios che ci vivevano erano lì per
svolgere i lavori manuali o i lavori servili. Mentre gli indios nella loro quasi
totalità erano i contadini, i campesinos, e facevano esclusivamente i lavori
dei campi e dell' allevamento e pastorizia, nei paesi, nei villaggi, nelle zone
rurali, vivendo nelle loro comunità per conto proprio. Venivano in città per
il mercato, e si riconoscevano a vista per il fatto di essere scalzi (una volta
c'era un detto che suonava così: "la gente decente siempre usa zapatos",
le persone per bene usano sempre le scarpe), di indossare i costumi
tradizionali, e i sombreros, e per la pelle bruciata dal sole e corrugata dal
vento, per il fatto di parlare negli astrusi "dialetti" indigeni (così
ci si esprimeva).
Pintag aggiunge
che loro credono che ci siano momenti in cui lo spirito di una qualunque cosa o
persona possa manifestarsi, trovare una porta di passaggio da una dimensione ad
un'altra, un canale di comunicazione tra i Pachakuna; con un appropriato
"camino", percorso, di preparazione puoi comunicare, puoi avere
accesso entrando in sintonia con l'energia universale Aya Uma. Ti può aiutare
l'energia specifica di una montagna (Apu), oppure altre, e per quello che
riguarda lo spirito dei defunti, a mezzogiorno, alle quattro del pomeriggio e a
mezzanotte del lunedì e del giovedì si riescono a percepire dei colpi, delle
scosse che facilitano il passaggio. Ma in generale il tuo spirito può
incontrarsi con lo spirito di qualsiasi cosa sia piccola che molto grande, e per
ciascuno c'è il suo momento magico da saper cogliere.
domenica 16
partiamo verso sud, ci fermiamo ad un altro punto di intersezione con
l'equatore, con un tizio addetto che fornisce spiegazioni con riferimento alla
astrologia andina.
Si vede
l'imponente vulcano Cayambé perennemente innevato (5800m), che sta a 60 km da
Otavalo. E' la terza montagna più alta in Ecuador, e la più alta tra quelle
che nel mondo sono attraversate dalla linea dell'equatore. Ha sempre costituito
per le culture indigene un punto di riferimento astronomico, e sulla sua
osservazione è stato costruito uno dei primi calendari agricoli. I saggi delle
antiche culture preincaiche lo consideravano il centro dell'universo e del
tempo.
Dopo il giro con
la circolare est attorno Quito, e dopo Aloag e Aloasì, nei dintorni di Machachi
ci fermiamo a pranzare lungo la strada al café de la vaca. Poi dopo aver
intravisto il Rumiñahui (4700), vediamo proprio bene Taita Cotopaxi (5900m.) !
che poi si coprirà di nubi per giorni. Che veduta spettacolare! è molto largo
e ha in cima uno scialletto bianco di neve sfrangiato... E' proprio come un
bambino disegnerebbe un vulcano con la neve.
Infine dopo aver
superato un altipiano sui 3500 metri, scendiamo verso Lasso e arriviamo a
Latacunga (2800 m), all'hotel Rodelu. Giretto per il centro storico, ceniamo
alla pizzeria Bongiorno con dei francesi che ci parlano delle loro esperienze e
impressioni, sono giovani interessati, colti e acuti osservatori, e benché
abbiano girato più o meno negli stessi posti e in questi stessi giorni, le loro
impressioni sono abbastanza diverse dalle nostre. Probabilmente questo esito
dipende da diversi fattori, dagli eventi accaduti e dagli incontri compiuti,
dallo stato d'animo loro, dalle loro aspettative, generate dalla loro
preparazione al viaggio, dall' interrelazione reciproca tra loro tre e dai
rispettivi commenti e reazioni e dibattiti che questi hanno generato, che hanno
fatto sì che il loro specifico "vissuto" di queste esperienze visive
e umane fosse differente dal nostro, dato che anche il nostro era determinato da
quegli stessi elementi indicati prima, ma sotto altra veste, altra forma, e
quindi altre modalità di approccio alla realtà che ci veniva incontro. E'
curioso, ma "consueto" che sia così, tuttavia ci stranisce un poco.
E' interessante riflettere su queste cose, ogni viaggio è una avventura unica e
irripetibile.
Uno di loro
accennava a questa fase di "recupero" della identità aborigena andina
attraverso la scuola elementare, ma anche i corsi per adulti, e i risvolti
culturali delle attività sociali e sindacali. Mi fa tornare in mente alcune
pagine che leggevo l'altro giorno in un libro preso alla "Abya Yala",
sugli "equivoci" della "pretesa" di "insegnare la
cultura". L' autore, José Sanchez Parga, trattando della educazione
interculturale di base bilingue (EIB) che da ormai molti anni si è introdotta
nelle aree a maggioranza indigena, esponeva i suoi "dubbi pedagogici"
relativamente alla sperimentazione sino ad allora svolta (tra il '91 e il
2005) nelle zone rurali della Provincia del Cotopaxi, diceva che l'insegnamento
in kichwa era stato subordinato e condizionato ad un supposto
"rafforzamento" dell'identità culturale, inteso semplicemente come
una incorporazione di certi contenuti culturali nell'istruzione, cosa che è a
suo parere ben lungi dal garantire "effetti di interculturalità".
Come se il solo fornire nozioni culturali -scrive- fosse sufficiente per
"fomentare" l'interculturalità, o darle impulso, perché si possa in
tal modo "produrre equità ed eguaglianza" tra le diverse culture del
Paese (le virgolette si riferivano al testo della precedente Costituzione di
dodici anni fa). Mentre, dice Sanchez, le culture sono effetto della società e
non dell'istruzione, e le culture sono qualcosa che esiste solo
interculturalmente in quanto l'interculturalità, ovvero le relazioni tra
culture, sono la forma di essere, di esistere e vivere di ogni cultura. Pertanto
saranno gli attuali sviluppi sociali, le attuali linee di tendenza della società
moderna ciò che produrrà i cambiamenti culturali, e darà impulso alla perenne
trasformazione dei contesti culturali. La cultura è un prodotto e non qualcosa
a sé stante che possa essere insegnato e impartito. Se ci si limitasse a questo
allora si ignorerebbe la forza dei processi culturali, che sovrasta qualsiasi
iniziativa conservativa per frenare i cambiamenti. Già questi primi pochi cenni
ci possono dare un'idea del grande dibattito in corso sulla operazione di
recupero e salvaguardia, ma soprattutto di rivitalizzazione, della cultura
andina, che forse è stata riferita piuttosto alla cultura materiale, e a quello
che fu il patrimonio culturale originario del mondo indigeno della sierra (?).
Comunque per
certi versi mi ricordano un poco i dibattiti che c'erano in Spagna nel 1989
quando passammo il nostro anno sabbatico in Catalogna, ed era in corso il
processo di "normalizzazione linguistica" da parte del governo
regionale catalanista, ed assistemmo ad accese discussioni in proposito (che poi
constatammo che erano simili a quelle in corso anche nei Paesi Baschi, in
Galizia, e in altre parti, da quando si erano istituite le regioni autonome).
lunedì 17
A Latacunga ci reincontriamo, al mercato locale, con Manuel Pumaquero.
Pranziamo e alla fine gli chiedo se vuole un dolce, ma lui dice che per cena
prende un po' di dolce, mentre a pranzo no, e mangia cose poco salate, mentre
alla prima colazione allora sì prende un dolce e cose del tutto senza sale.
Questa è una sua dieta. La dieta è importante, così come il cosiddetto
"yoga andino" che lui pratica regolarmente. Ci dice che è composto da
tre fasi, la prima si chiama uyari ed è una pratica di meditazione
basata sul controllo del respiro, la seconda cuyuri, e consiste
nell'assumere e mantenere certe posture, proprio simili a quelle yoga (abbiamo
visto al museo un'antica statuetta pre-incaica in cui una figura umana era
seduta a terra a gambe incrociate, con la schiena e la testa ben dritta, e gli
occhi chiusi), la terza è lo Inti cuyuri, che è una disciplina di
meditazione molto avanzata che si compie di fronte al sole. In Bolivia ha visto
un noto monolito con la figura di un puma con il ventre molto all'indentro, e
quello è un modello da seguire, quando lavoriamo principalmente col diaframma
si dice "solarizamos", poiché ci si concentra proprio sul plesso
solare, e si è rivolti al Sole. Al mattino presto ci si apre per espellere
l'ossigeno notturno, e si assume energia morbida, cioé aria pura. I cosiddetti
movimenti solari mirano a connettersi, bruciare e assorbire. Si tratta
effettivamente di esercizi che risalgono a prima degli Incas. Le vibrazioni di
energia morbida passano ad esempio anche attraverso il cucinare, se no non si
riesce ad entrare nel cuyuri. Per questo l'arte culinaria è tra le arti sacre,
ci vuole molto tempo per imparare a cucinare in modo spirituale,
e per apprendere che il cibo e il fuoco ti sorridono. Nel momento in cui
si preparano e si manipolano e si cuociono i cibi, si sta comunicando con la
dimensione spirituale. Queste sono cose che vengono spiegate da un Taita Yacha,
da un saggio, un hambi yacha, uno che ha le conoscenze del prendersi cura, o da
un hambi Runa, un uomo (o donna) di medicina. Ma ad esempio nelle arti della
salute e della cura andine, chi veramente è il soggetto, chi si cura, è il
malato; l'altro (ad es. il medico) è un accompagnatore. Ma -ci dice- non date
credito ai vari curanderos o chamanes popolari, sono quasi tutti ignoranti.
Ci parla di tante
cose. Per esempio ci dice che la trinità andina è composta da Amaru, il
serpente, dal puma, stupendo e temibile, e da Kuntur, il condor, che non ha mai
ucciso nessuno, che ha la più grande apertura alare di tutti, e vola a grandi
altezze in cielo. Il puma rappresenta l’energia; il sepente la conoscenza, e
l’intelligenza; il condor la pace. Questo era anche il Totem antico in cui
questi animali erano raffigurati uno sopra l’altro. La loro trinità
rappresenta l'armonia. Così come ci sono tre mondi di vita, o Pacha, donde
estamos subsistiendo: quello sotto (urin) di noi, il mondo degli elementi
primordiali (simbolo: il serpente), che è Uju o Ukhu Pacha (ovvero
l'oltre il mondo, o oltre la vita, dove si trovano gli spiriti); poi Kay
Pacha (questo mondo, o questa vita), che è la superficie terrestre, il
mondo dei vegetali, e degli animali tra cui l'uomo (simbolo della vitalità: il
puma); e infine sopra c'è il mondo celestiale e cosmico, Hanan Pacha (ciò
che c'è prima del mondo, o della vita), in cui nel nostro mondo e nella nostra
vita primeggiano il Sole e la Luna (che quando sono allineati producono le
cosiddette "maree equinoziali"), ma vi sono anche le nuvole, e
l'arcobaleno, e le stelle lucenti come la stella "sentinella del
mattino", chaska lucero (che noi chiamiamo Venere), e quella della sera
(che è Marte), e le costellazioni. Simbolo del mondo alto: il condor. La
corrisponenza e la complementarietà tra questi mondi di vita è un dato
essenziale. Questi elementi si ritrovano in tutti i popoli della cordigliera
andina da nord a sud, come ad esempio i tre comandamenti citati già più sopra,
o la chakana, la cosiddetta "croce a scala andina" (che si basa
sulla osservazione della costellazione della "Croce del Sud", cioè
sul calcolo del rapporto sacro tra lato minore e maggiore, ovvero considerando
l'uno il lato di un quadrato e l'altro la sua diagonale, che è pari alla radice
quadrata di due, la cosiddetta costante pitagorica, ma già calcolata
nell'antica India vedica e dai Babilonesi). Essa è in effetti la
rappresentazione di un ponte con tre gradini replicato sui quattro lati di un
quadrato, da qui il nome completo, tawa chakana, tawa significa quattro
(il cui disegno nella sua interezza ha una certa somiglianza con alcuni antichi
mandala vedici); i quadrati rappresentanti gli scalini lungo le diagonali
avevano i tre loro lati "esterni" di quasi 4,5 cm. per lato,
determinando così l'unità "aurea" di misura andina, Kumbe mayo,
usata dagli agrimensori e dagli architetti e ingegneri (per saperne di più vedi
C. Milla Villena, Genesis de la cultura andina, 1980,2008).
Gli dico che
avevo già saputo della "croce andina" in Perù, e so che questo ponte
a scala è il simbolo della razionalità del tutto. Rappresenta la
complementarietà, la corrispondenza, il mutuo soccorso, la trasparenza, il
ponte, il passaggio, la comunicazione e/o connessione tra esseri umani e tra
l'uomo e il resto della natura, come tra l'uomo e il cosmo. In questo senso è
un ponte (chaka significa "ciò che si deve attraversare", e hanan,
"in alto"), costituito da gradini; ed è spesso seminterrata in quanto
la metà superiore si riferisce al ponte tra i mondi di superficie e cosmico,
mentre quella nascosta si riferisce al contatto tra il mondo di superficie e
quello interno o interiore più profondo.
La croce del sud
con le sue quattro stelle raffigurava anche la complementarietà per un verso
tra sopra e sotto (hanan-urin), cielo-terra, uomo-donna, ecc., così come col
discrimine in verticale, quella tra destra e sinistra, luce-ombra, giorno-notte,
sole-luna, maschile-femminile, ecc., e infine quella tra le quattro parti del
mondo, il Tawantinsuyo, che era il nome dell'impero incaico, simboleggiate nei
quattro lati della chakana. Perciò si segna un centro con un cerchietto o un
quadratino, verso cui eventualmente convergono quattro semirette. Manuel segna
da un lato la volontà e dall'altro l'azione, in alto il sapere e alla base il
saper essere.
Tutta questa
simbologia era raffigurata nel grande tempio del Sole (qoricancha) a Cusco. E i
saggi (yachak) dicevano che "nel mondo nulla è di per sè buono e nulla è
cattivo, semplicemente ciò che c'è, c'è perché deve esserci",
insegnando così a rispettare le polarità, come complementarietà.
Sembra
incredibile che tali concetti si siano mantenuti all'interno del contesto indio
solo per tramite orale, e Manuel dice che una cultura comune si potè mantenere
grazie ai quipùs, cioè ai promemoria fatti di cordicelle, e anche alla rete
viaria incaica che era efficiente e molto estesa, percorsa da chasky, messaggeri
che portavano, correndo a notevoli altitudini, messaggi di ogni genere da una
parte all'altra dell'impero, così si è costruita una unità culturale comune
al di là delle differenze. Questi simboli sono poi la base di partenza per
sviluppare una serie di insegnamenti. L'anno passato ci fu una marcia sia dal
nord del Chile sino a Panamà, sia nell'altro senso, seguendo il tracciato della
grande arteria centrale incaica che percorre tutte le Ande, la strada reale, che
è anche il Qapak ñan, il sentiero della luce, che va in diagonale come
l'inclinazione dell'asse terrestre, che è anche un simbolo di un cammino di
conoscenza e di spiritualità. L'incontro tra quelli provenienti dal nord e
quelli dal sud, simboleggia l'auspicato incontro tra l'aquila e il condor, cioè
il ricongiungimento tra "indiani" pellerosse, indios "pueblos",
toltechi, nahuatl, e altri uomini di spiritualità del Nordamerica, da un lato,
e gli indios delle Ande, dell'Amazzonia e tutti i popoli oppressi del Sudamerica
dall'altro. Quando l'aquila e il condor incroceranno negli alti cieli d'America
i loro voli, si aprirà una nuova era per i popoli indigeni e per tutto il
continente. Si procedeva con i bastoni sacri sopra al capo, e si intonavano
cantici e ogni tanto si compivano corse come quelle dei chasky. La marcia, o
corteo, si ripete ogni quattro anni. Fu in quell'occasione che lui incontrò una
straordinaria donna tedesca di settant'anni che lo volle fare anche se si
camminava sopra i 4000 metri, e che era una grande studiosa e ricercatrice delle
culture dell'area andina.
Gli parliamo
della visita al lechero sopra Peguche, e lui commenta che si sarebbe dovuto
utilizzare il suo nome originario in kichwa (pinllu o pinkul); la simbre è
l'energia del nome, se non si utilizza il nome autentico non giunge tutta la
energia. Comunque dice che ci sono simbres che non si rivelano a chi non è
iniziato, ad esempio nelle scritture (e allude ai quipùs e ai simboli sui
tessuti) ci sono dei codici che sono riservati. Anche nella provincia di
Chimborazo c'è un albero sacro; è vicino a dove si trova un antichissimo
tempio andino, tra Chunchi e Cañar, a 3260 metri, sul monte del Puñay. Non c'è
solo il famoso tempio di Ingapirka ad essere di forma ellissoidale, ma ce ne
sono di pre-incaici, e forse anche precedenti la stessa cultura cañar e dei
sacerdoti Schyri, e civiltà arcaiche come quella de "La tolita"
(potrebbero risalire fino al 3500 a.C.). Si tratta di tre piramidi tronche
ellittiche di terra scalonata, non con i lati come un muro, cioè perpendicolari
al terreno, ma obliqui, sono state identificate nel 2003. La più grande è
posta sulla cima del monte ed è alta 45 metri e lunga 420 metri. Si sono
preservate perché protette da uno strato di materiali che le hanno conservate
dalle erosioni della pioggia e della neve. Le tre assumono viste dall'alto la
forma come di un uccello sdraiato. Non ce ne sono altre eguali nel mondo
costruite sopra una rocca, una cima rocciosa.
Dopopranzo ci
salutiamo, ma ci ritroveremo poi di nuovo a Riobamba per visitare il suo
istituto.
Per strada una
signora ci ferma perchè ci sente parlare in italiano, e si mette a
chiacchierare perchè lei lavora a Milano, e poi ora c'è qui la sua figliola e
vorrebbe che sentisse com'è la lingua italiana...
Quindi verso metà
pomeriggio andiamo a vedere l'agriturismo "el Cuello de Luna" (a
3125m) che ci piace molto, e incontriamo una coppia di catalani, Conchita e
Jordi. Il nome dell'agriturismo è la traduzione di Cotopaxi, poiché quando la
luna piena sorge proprio da dietro la cima del Cotopaxi, sembra che sia la sua
testa che si appoggia sul cratere e il monte-vulcano dunque diventa il suo
collo, con il collare o uno scialle, di neve e ghiacci, dev'essere uno
spettacolo strabiliante.
martedì 18
facciamo una gita alla Hacienda di San Augustìn de Callo (3300m). Lì c'è
tutta la storia del paese, dal tempietto inca con i muri di grandi pietre
rettangolari incastrate
a secco perfettamente tra loro, alla grande Estancia coloniale, al
territorio attorno della immensa hacienda, ai quadri con i ritratti e le foto
dei grandi personaggi della famiglia, tra cui due presidenti. Qui risiedette il
grande scienziato ed esploratore Alexander von Humboldt nel 1802, fu lui a
denominare e rendere famosa questa larga e grande vallata come "avenida de
los volcanes" (complessivamente ve ne sono venti). L'ultima discendente
della famiglia, da giovane fu una allegra ragazza del '68 amica di molti
artisti, che oggi è una cordiale signora sessantenne che viene a salutarci. Qui
si può assaporare tutto lo stile di vita dell'epoca coloniale e del primo
periodo della indipendenza repubblicana. Oggi è un albergo di lusso ( circa 500
dollari a notte).
A differenza
delle encomiendas (concessioni reali spagnole) dei grandi latifondisti (che
comprendevano vaste piantagioni, e includevano la locale popolazione, costretta
a lavorare per la famiglia padronale bianca), qui sul lungo altopiano tra le due
cordigliere, queste grandi haciendas non erano molto numerose. In generale
ancora fino a pochi decenni fa in Ecuador su 350 mila proprietari agricoli, solo
1370 (i grandi possidenti) avevano terreni di oltre 500 ha., prevalentemente giù
dalle pendici della cordigliera occidentale e in pianura sino alla costa. Sulla
sierra si coltivavano prevalentemente mais, patate, orzo, grano, fave, verdura;
mentre nelle piantagioni c'erano produzioni più redditizie. Gironzolando per le
stanze di questa grande casa, e nei cortili e nei patii, nel giardino con i
grandi alberoni secolari, i fiori, le papere nel laghetto, visitando la scuderia
con i suoi bei cavalli, e guardando i campi qui attorno, la grande cucina e la
dispensa, e le case degli inservienti e dei lavoranti, i quadri con i ritratti,
o le foto di queste famiglie, con i politici, i magistrati, gli appassionati di
tori e di corride, ci si fa una idea di questo piccolo-grande mondo a parte, di
queste isole, in cui scorreva una vita di altri tempi sino a pochi anni fa. E si
percepisce la cosiddetta "eredità dell'altèro spirito spagnolo di
casta". Ogni grande latifondo era come un piccolo regno patriarcale in cui
tiranneggiava una locale monarchia assoluta per diritto divino. Nel succedersi
delle generazioni e dei matrimoni tra questa manciata di famiglie si è
costituita l'oligarchia creola, che ha dominato imperturbabile, pur con dissidi
tra i suoi partiti, sino a pochi decenni fa.
Pranziamo assai
tardi, verso le due emmezza, al Cuello de Luna, con una ottima sopa de kinwa (o
quinoa) e del pollo alla piastra. La sera a Latacunga cerchiamo un posto
gradevole per cenare, ma alla fine torniamo da Bongiorno.
mercoledì 19
andiamo a Pujilì (2961m.), poi su su a Collas Alto Victoria (facciamo
vari giri per cercare un allevamento di lama, e intanto diamo un passaggio a un
ragazzino di nome Darwin e sua madre, una "indigena" di lingua
spagnola).
Poi scendiamo a
visitare la Hosteria La Ciènega, anche questa carica di storia e di mobili e di
patii (qui risiedette nel 1736 La Condamine per compiere la missione geodesica
con altri accademici, e alcuni anni dopo per osservare l'eruzione del Cotopaxi
). Erano anche loro tra i padroni di questo Paese. e anche questa magnifica
grande villa nel suo grandissimo parco, con i suoi caminetti, e le sue sale e i
suoi salotti, è ora un Hotel.
Poi dopo vari
giri infine troviamo i bungalows (cabañas) della Casa del Montañero, anche
chiamata Llamahuasi. Si passa così dalle 5 stelle e dal lusso ostentato, alla
polvere (letteralmente) e alle baracche di legno e paglia. Ma i due coniugi
Rivera con i loro figli figlie e figlioletti mi fanno tenerezza per l'impegno
e il grande lavoro che hanno profuso nel cercare di rendere accettabili
queste capanne, che sono in effetti come un campo-base spartano destinato agli
andinisti, che i loro figli grandi, in qualità di guide esperte, portano con
una 4x4 sino alle falde del Cotopaxi, e accompagnano poi lungo i sentieri e su
per le ascensioni sul ghiacciaio. Nella capanna allestita a soggiorno con
tavolini, sedie, vecchie poltrone, c'è pure un computer collegato a internet,
non appena lo accende per mostrarcelo, i bambini subito si precipitano ad
approfittarne, e sono bravissimi e velocissimi a trovare i siti che interessano
a loro con le immagini delle moto, o con i giochi on line.
E infine sostiamo
alla bella e gradevole Hostaria San Mateo, mangiamo, stiamo lì a leggere dei
miti andini e dei cuentos (ma sono strani e non ci piacciono molto), e poi Ghila
va un poco a cavallo nel parco.
Alla sera invece
per cena ci fermiamo in città alla cafeteria vicino al negozio di attrezzature
per l' andinismo. I jugos, i succhi di frutta sono sempre buonissimi, c'è
quello più diffuso forse, di tomate de arbol ("pomodoro" d'albero),
quello di babaco (un grosso fruttone verde), di maracuyà, di guayaba, e di
guanabana, o naranjilla, oltre che di papaya, o di arancia, o di cedro, o di
mora o del frutto della passione, pasiflora in spagnolo e taksu in kichwa.
Anche si bevono
spesso le aromaticas, che sono degli infusi o tisane, di cannella, di cedro, di
camomilla (manzanilla), con miele, o di erbe tipo hierba buena o hierba Luisa.
Se no da bere c'è il canelazo caldo, oppure la cosiddetta orchata, anch'essa
tiepida.
giovedì 20
Al mattino presto andiamo ai mercati di Saquisilì (2900m). Che belli !
ma che caos... (c'è in una spianata il mercato del bestiame grande, poi ci sono
varie piazze, per gli animali piccoli, per la frutta e verdura, per il pesce,
per mangiare nei comedores sotto le tende, per l'artigianato, i tessuti e i
vestiti e gli oggetti vari). Poche sono le vecchie scalze, tutti oramai hanno le
loro scarpe, che spesso però sono solo dei sandaletti leggeri, e aperti, di
corda, tipo espadrillas. Molti piedi sono piatti e sembrano "di
cartone"... Praticamente tutte le donne hanno dietro la schiena un bimbo più
o meno piccolo, oppure dei carichi di merci. E in testa il loro cappello di
feltro tradizionale. Gli uomini hanno la treccia, il poncho, e dei borselli. Ma
quanta miseria, quanta povera brava gente che lavora duro e vive umilmente...Su
un muro c'è questa scritta spray: "Que la ira a la injusticia ponga rronca
nuestra voz" (che l'ira verso l'ingiustizia renda roca la nostra voce),
firmata dal "gruppo Bim Bam Bum".
Poi partiamo e ci
dirigiamo giù giù verso Baños (1850m.) ma la strada è interrotta per obras e
ci sono dei desvios che ci fanno un po' perdere e prolungare i tempi. Arrivati
all'hostal "Isla de Baños" ricco di vegetazione lussureggiante e di
fiori, andiamo a pranzo ma viene a mancare la corrente elettrica. Facciamo poi
un giretto ai bagni termali caldi e vediamo la cascata e la fonte delle acque
sante della Virgencita, dove Ghi immerge il suo ditone gonfio, che migliora.
Vediamo che tutti i negozi preparano la gomma caramellata, e tritano le canne da
zucchero per estrarre la melassa.
venerdì 21
Facciamo una gita per vedere altre cascate ma c'è una pioggia
torrenziale che poi diventa un vero diluvio tropicale (anzi equatoriale)
amazzonico. Passate un paio di gallerie grezze non illuminate, e la diga di Agoyàn,
vediamo due cascate, del Rio Verde e del Rio Negro. Ma poi torniamo indietro
(dopo aver accettato di fare una foto-ricordo a due ragazze superfradice che
erano partite per la gita in bici!...), perché non si vede più nulla, nemmeno
la strada. Più tardi si schiarisce, e andiamo a vedere il ponte nuovo (e sotto
sotto si vede il ponticello vecchio), e ci accorgiamo di un serpente che un
tizio tira su con un bastone, è uno velenoso. Da qui si vede benissimo che la
cittadina è costruita sul ciglio dello strapiombo dove sotto passa il rio
Pastaza. Torniamo alla fuente miracolosa, andiamo a fare un giretto in auto
dall'altra parte di un ponte da cui si vede giù un orrido, o cañon,
suggestivo, e infine si schiarisce bene e ammiriamo finalmente il Tungurahua!
(5023m.) vulcano attivo che causò disastri qualche anno fa. Torniamo indietro e
visitiamo un parco zoologico con condor, aquile, pappagalli grandi, tapiri,
eccetera. Ceniamo in una trattoria con simpatici camerieri (uno romagnolo e
uno toscano).
sabato 22
Dopo questo breve assaggio pre-amazzonico, partiamo e facciamo un percorso su
strade minori, le carreteras interparroquiales, attraversando Qero, e arriviamo
infine a Riobamba (2750m). Troviamo posto nel centro storico. Poi andiamo al
mercato, e in vari negozi, e almuerziamo. Ci reincontriamo con Manuel Pumaquero,
che ci porta dopo Cajabamba, verso la Laguna di Colta (3180m). Intanto si
schiarisce il cielo e vediamo Taita Chimborazo, vulcano di 6310 m. largo 20 km.
il cui nome significa "re della morte" (certo tra quei ghiacciai, e a
quelle altezze...). Andiamo a visitare la chiesetta di Balbanera, prima chiesa
cristiana in Ecuador, costruita sopra una fonte sacra di acqua. In paese ci sono
anche un monumento a Condorazo ultimo re dei Puruhà, e uno della principessa
Paccha. E poi ci mostra i resti antichi inglobati in case, chiese, muri di
Colta, appartenenti anche al primo insediamento coloniale poi sommerso da terra
e abbandonato. Lui ci fa anche notare una piramide di terra a gradoni sulla cima
di un monte (ora costellata da antenne-ripetitori!!) e varie collinette naturali
o artificiali (che si chiamano pukara) usate anticamente per cerimonie o come
centri di studio e insegnamento da parte di maestri. C'è anche un paesino dove
vivono i discendenti degli sciamani di un tempo. E infine visitiamo il suo
istituto Jatun Yachay Wasi, con le sue coltivazioni, il suo laboratorio, le
serre, le aule, gli animali. Vari studiosi delle antiche conoscenze andine, tra
cui anche universitari, hanno contribuito alla fondazione. C'è stato anche
l'avvallo e il supporto dell' Orden Andina de la Sabidurìa. Qui in vari punti
del vasto prato circostante compiono atti rituali, commemorazioni, cerimonie,
dibattiti, premiazioni, consegne di titoli,
meditazioni, accendono un falò e si radunano attorno per canti,
eccetera. Nel suo ufficio di direttore, c'è uno strano quadro molto simbolista,
è di una pittrice tedesca, ora defunta, che era una autorità nel campo degli
studi sulle culture andine. Poi ci fa vedere che tiene un tamburo particolare
per eventi ritualistici, con un timbro profondo e produce una sonorità molto
intensa, con vibrazioni prolungate. Ha un bastone rituale con penne di condor e
di kuriqingui (un uccello andino più piccolo), che viene consegnato in certe
occasioni accompagnate da offerte ad es di frutta, come un simbolo che
conferisce la facoltà di dirigere, amministrare, ordinare, controllare,
aiutare, accompagnare la propria gente. In una speciale borsa fatta come un
tascapane, tiene una grande conchiglia che si può suonare col fiato, e produce
un suono potente ad un notevole volume, per cui si fa udire in un vasto raggio e
sovrasta altri suoni e rumori. Bisogna però prima "riscaldarla" con
dei rintocchi che la facciano vibrare. Il grande Pachakamaq ha fatto tutto con
questo suono e con la luce; questo è il suono primigenio. E ce lo fa sentire,
poi la mette nel borsello e la riappende al chiodo che intanto era venuto un po'
fuori dal muro, e quindi col peso si stacca e la conchigliona cade finendo con
un rumore secco sul pavimento ! lui subito si scusa con la conchiglia, la
carezza e le parla. Anche noi ci siamo rimasti male, e ci sentiamo dispiaciuti
per l'accaduto.
Poi ci mostra lo
stendardo andino con i colori dell'arcobaleno (arco Iris) a quadretti diagonali;
il rosso è nella diagonale centrale, mentre in Bolivia lo è il bianco, e in
altre zone altrove, in quanto le diagonali scorrono e cambiano posizione
turnandosi al centro. Esso è presente in tutte le cerimonie e occasioni
pubbliche. Quindi ci mostra un sasso molto antico proveniente dal Lago Titicaca,
il paese di origine delle culture aymarà e quechua-kichwa. Dice che quando è
necessario "lavorare" col suono, e le vibrazioni, per sanare le
persone (non per curarle), la si percuote ritmicamente con una certa altra
pietra della stessa origine. Poi ci mostra un grande quarzo con un bellissimo
interno, e dice che il quarzo è come l'ovulo, il seme, della Terra, quindi
quando lo rompono, PachaMama ne risente. Anche questo è un potente sanatore.
Poi mostra vari bastoni che si scuotono e si fanno battere tra loro, e che
provengono da arbusti differenti, sia maschili che femminili. questi infilati in
anelli di metalli vari lavorati, producono vibrazioni che vanno accompagnate con
cantici, e anche di questi ce ne si serve per sanare, durante atti e cerimoniali
di sanazione.
Usciamo
all'esterno, nel cortiletto in mezzo c'è un leggìo di pietra che fa come da
pulpito per prolusioni, proclamazioni, discorsi pubblici. C'è scolpito come un
gran librone aperto con incise delle iscrizioni, ma va prima bagnata la
superficie del lastrone e strofinata con il palmo della mano, per poter poi
vedere e leggere la scritta. Lui è molto orgoglioso del fatto che nelle Ande
sia nata e abbia fiorito la cultura umana, e che proprio qui in vista di taita
Chimborazo, e della sacra laguna di Colta sia sorto per la prima volta in
Ecuador questo istituto per studiarla. Quindi ci porta a vedere l'aula grande,
che porta su una parete la raffigurazione affrescata della Sabidurìa, del
sapere, della sapienza, ed è interessante notare che tutte le culture l'hanno
sempre rappresentata come una donna. Sopra c'è la figura di un alpaca con il
Runa (l'essere umano) andino che va verso la presa di coscienza, di
consapevolezza. Sulla parete di fronte c'è una raffigurazione del simbolo e
sigillo dell'istituto, con la prima sua denominazione, Hatun Yachana Huasi, che
è racchiuso in una corona con due fiori chuguirawa (una pianta amara curativa),
un alberello kishwar che è già cresciuto per essere un "vecchio
saggio", poi ci sono due serpenti piumati (anch'essi rappresentano l'antica
sapienza), e un condor che attende di venire nutrito dai due serpenti, e più
oltre Inti, il Sole, e l'uovo che è come il seme della Umanità. Il tutto forma
una corona Maskapaycha con i due uccelli andini kuriqingui e pettirosso, cioè
sapienza e coraggio, che è la corona che veniva conferita ai grandi sapienti.
L'insieme in pratica è come una sorta di mandala andino.Sul pavimento di
parquet ci sono dei tappetini e stuoie di paglia che servono per sedersi o
sdraiarsi a fare gli esercizi psicofisici del cuyuri (il cosiddetto yoga andino).
Sono anch'essi di una paglia locale perchè altrimenti le vibrazioni delle loro
energie non sarebbero in armonia, dato che anche le stuoie partecipano alle
vibrazioni generali. In un angolo vediamo un alto braciere (di bronzo?) che si
usa per accendere il focolare sacro durante certi atti rituali.
Usciamo fuori,
dove c'è una copia in piccolo della piramide ellittica tronca di terra, che c'è
sul monte Puñay, una semiovale a gradini di terra ricoperta di prato, con una
radice di legno tagliata per poter far sedere in centro chi parla o gestisce
l'evento. Un orto circolare suddiviso in settori da pietre bianche, a
disposizione come laboratorio perchè gli studenti sia di agropecuaria, che di
medicina possano apprendere a seminare e accudire le piante curative, e a
fertilizzarle in modo naturale (ma ciò implica anche una serie di conoscenze di
carattere generale della concezione del mondo e dell'uomo basata su una rete
energetica). Ci sono spazi vuoti per consentire alla terra di riposare a cicli.
Prima di dedicarsi all'orticultura si pronuncia o si pensa una orazione per
chiedere il permesso alla terra di lavorarla e coltivarla. In queste occasioni
bisogna che le parole dette a voce o mentalmente siano dette col cuore (per la
medicina andina nei mammiferi ci sono quattro cuori, i due più importanti sono
quello rosso, e il rognone, o rene, che è il primo eventuale sostituto del
cuore rosso, ad esempio durante gli infarti).
E infine
dall'altra parte del campo c'è una sorta di "labirinto" o percorso a
spirale, o vortice, o a sezione di conchiglia, costituito da alberi, piante,
arbusti autoctoni coltivati e curati da loro (si inizia con l'albero "della
carta" che si squama, il pachamanka), che porta ad uno spiazzo (dove c'è
anche una struttura di bastoni a forma di piramide con sopra dei teloni, dentro
cui potersi isolare e raccogliere momentaneamente), dove ci fermiamo a meditare
con una bella falce di luna splendente proprio dinnanzi al prato a gradoni dove
ci si può sedere a semicerchio. Restiamo a lungo in silenzio ad occhi aperti ad
ammirare le silhuettes degli alberi e il riflesso d'argento sugli specchi
d'acqua. Ci rimarrà una bella sensazione e un forte ricordo di questa serata.
Poi andiamo a
casa sua (o meglio lo era, ora ci vivono i figli con la madre, ex moglie),
l'appartamento è ancora un po' grezzo, ma è grande e ben suddiviso. C'è un
ambiente ampio dove il pavimento si ribassa e si forma come un salottino con
poltrone e divani, un gradino più in su c'è il tavolo dove ceniamo, la cucina
un po' sommaria, il bagno, e le stanze per ciascuno di loro. Cioè la madre, il
figlio grande che ora è all'estero, la ragazza, bellissima, più aperta e
intelligente, e il piccolo quindicenne un po' timido ma gradevole. Lungo la
strada ci siamo fermati per comprare qualcosa come nostro contributo, e mangiamo
e beviamo tutti assieme. Poi lui tira fuori un tipico flauto "di Pan"
andino curvo con doppia serie di canne a zufolo, poi una chitarra, il giovane
dei tamburelli, poi una specie di mandolino (il charango ?), e suonano e cantano
per intrattenerci. Proprio una bella serata.
Infine lo
accompagniamo in una lontana periferia dove c'è la sua attuale abitazione, ma
la strada è di terra e sassi e non è illuminata, per cui non scendiamo, ci
salutiamo, e poi nel buio, senza illuminazione stradale, e nel deserto perché
non c'era più praticamente nessuno nelle strade, riusciamo infine a trovare la
direzione del centro e a tornare in camera a dormire.
domenica 23
Partiamo, vediamo bene il grandioso
Chimborazo, e si intravede dietro il Carihuairazo (5020), poi attraversiamo
l'ultima parte dell'altipiano dell'avenida de los volcanes di Humboldt, dove per
lunghi tratti non c'è assolutamente nessuno, e vediamo in lontananza il grande
vulcano Altar (5320), e poi scendiamo ad Alausì (2374m.). Ci fermiamo a fare
una sosta e a vedere l'animato e colorato mercato locale. Poi risaliamo verso
Chunchi (2754m) e mangiamo, e assistiamo a una improbabile partita di calcio
femminile, e poi da qui la strada inizia ad essere brutta con buche, pezzi non
asfaltati, lavori in corso, mancanza di manutenzione, ecc. a passo lento
giungiamo sino al bivio di Zhud. Il tempo non aiuta con piogge e nuvole. In
lontanaza ci sarebbero due grandi montagne, ma non si vedono proprio. Siamo nel
Paese dei Cañari (il cui nome significherebbe serpe-pappagallo).
Attraversata
Tambo saliamo per una via sassosa ad Ingapirka, e poi da lì con una strada
sterrata peggiore, di sette kilometri, saliamo sino al sito delle rovine
archeologiche (3280m), e poi per una stradina di terra in ripida salita
giungiamo alla "Posada", in una vecchia "casa de hacienda",
restaurata come albergo, dove ci riposiamo, ceniamo vicino al camino, e poi
prima di ritornare in camera ci danno tre boule di gomma in un contenitore di
tela, belle calde-calde anzi bollenti, da mettere nei letti (ma poi la mia perde
acqua e mi bagna le lenzuola e il pigiama...).
lunedì 24
Visitiamo il complesso archeologico di Ingapirka, che è in parte un
antico sito pre-incaico, un centro cerimoniale cañari e in parte un tempio
incaico (o come qui dicono incasico) a forma ellissoidale, con cui l'inca Tupak
Yupanqui volle simboleggiare la conciliazione tra la cultura matriarcale cañari
con quella patriarcale inca. La parte cañari è quella con sassi arrotondati,
mentre quella inca ha pietroni ben squadrati. Forse era il centro spirituale cañari
in quanto era ritenuto il loro luogo di origine (pacarina) la cosiddetta hatun
(=gran) Cañar. Il tutto aveva forma di una falce di luna, e inoltre c'è una
grande tomba (huaca) di sole donne di varie età. Qui le sacerdotesse cañari
compivano cerimonie in cui si beveva la pozione sacra (guandu) tratta dal
floripondio, che è una bevanda allucinogena (come la ayahuasca). Poi quando
giunsero gli incas, lo trasforma-rono in un sito che visto dall'alto ha forma di
puma, con la sagoma della sua zampa in atto di stare per compiere un balzo,
corrispondente al sito semielissoidale costruito dai cañari sull'altura
Pilaloma, e il tempio solare come testa. E' costruito attorno a un Acllawasi,
cioè casa delle elette, o casa delle nascoste, cioè un "convento" in
cui venivano cresciute e vivevano in clausura le vergini del Sole, cioè le
"suore" inca (cosiddette poiché si chiamavano tra loro sorelle e che
a partire dai 18 anni erano al servizio del sovrano e della corte, e del culto
solare); più tardi divenute anziane, le "madri superiori" (mamakuna)
si curavano delle giovani vergini e della gestione dell'Acllawasi che era anche
una scuola femminile che trasmetteva loro conoscenze riservate alle iniziate,
dove si formavano anche le principesse (ñusta) e le future spose dell'Inca (pivihuarmi).
(questo sito fu identificato da La Condamine che ne ha riportato precisi
disegni).
Perciò qui era
il luogo in cui si passava anche dai culti alla Luna (Mama Quilla) a quelli
nella "testa" del puma, dedicati al Sole (Taita Inti), con
celebrazioni mensili e per tutto l'arco dell'anno. Perciò è qui presente un
masso con tredici buchi che è un calendario solare-lunare, dato che c'erano 13
mesi lunari di 28 giorni (13 x 28 = 364 + il giorno della festa del solstizio
Inti Raymi), e la posizione e inclinazione dei buchi riempiti d'acqua faceva sì
che dal riflesso del sole, e dall'angolazione dei raggi luminosi, si poteva
vedere in che mese si era (il masso era posizionato circa un kilometro più in là
di ora, in un luogo adatto a questo scopo). Pertanto le mamakuna dovevano
padroneggiare anche saperi di tipo astronomico, matematico, e geometrico. Ci
sono anche altre pietre con buchi, che contenevano i vari colori derivati da
sangue di animali, o da vegetali o terre, per i dipinti o per i tessuti, o per
dipingersi il volto e il corpo durante le cerimonie. Qui nella parte centrale
del "corpo" vi erano varie case-laboratori artigiani in cui
risiedevano i più abili e sapienti artefici che lavoravano le pietre
(architettura), le ceramiche, le paglie, e il cuoio (artigianato). E più sotto
campi e orti per la coltivazione
dei vari grani e sementi, e piante per gli offici sacri. Durante le grandi feste
dei solstizi e degli equinozi, il supremo sacerdote, o l'Inca stesso, veniva per
svolgere le cerimonie, che erano accompagnate dalla bevanda della cicha de jora,
tipica degli incas. Si compivano anche sacrifici rituali (mai umani) di llama o
alpaca, e tagliavano loro la testa su particolari supporti in pietra, ma era il
cuore l'offerta per il re (in questo caso il sovrano-reggente del Suyo, o
territorio, delle Ande del nord, cioè del regno di Quito, ovvero di quella
parte del Tawantinsuyo, dell'impero dei quattro angoli del Mondo) o per l'Inca.
Questa celebrazione avveniva nel grande tempio a forma elissoidale (l'unico
costruito dagli Incas), tipica delle più antiche civiltà andine (detto usnu),
posizionato sull'asse est-ovest, seguendo il tragitto del sole, ed edificato
sulla roccia sull'orlo di un dirupo, con muri in pietra secca alti 4 metri. Di
fronte al quale si situa l'Ingachungana, una sorta di vasca ovale. Probabilmente
da qualche parte c'era un Intiwatana (un altare o cosiddetto orologio solare in
pietra che segnalava il primo raggio di sole che giungeva nel luogo all'alba), e
il re o l'Inca che veniva per le celebrazioni stava all'interno dell'ingresso
trapezioidale, ma grazie ad un sistema di eco tra le varie nicchie presenti
nelle pareti, poteva essere informato sottovoce del momento esatto in cui uscire
sulla soglia mostrandosi al pubblico quando sarebbe stato illuminato dal sole
(abbiamo sperimentato l'effetto eco che funziona ancora nonostante manchino il
tetto e parte del muro). Ma inoltre un foro nel soffitto faceva sì che si
illuminassero via via all'interno i simboli dei solstizi ed equinozi, compiendo
dei balzi come un puma dall'uno all'altro.
In mezzo
all'intero complesso ci sono una pietra che simboleggia l'incontro delle due
culture del nord e del sud, e una che marca il centro esatto dell'insieme
cerimoniale. Qui celebrò forse la sua ultima cerimonia (così fa intendere il
cronista Pedro Cieza de Leòn, qui giunto una ventina d'anni dopo) l'ultimo
reggente del nord, e poi ultimo Inca, cioè
Atawallpa (cioè Atahualpa, o in cañari Ata-balipa, che era uno dei
figli dell' Inca Wayna Capac e della regina locale, Paccha Duchisela, di cui a
Colta c'è un monumento), e che era anche lo Schyri, il sacerdote dei Cara e dei
Cañari. Atawallpa sposò, come voleva la tradizione, la sua sorella, cresciuta
proprio in questa Acllawasi (conosciamo la sua vicenda poiché dopo l'assasinio
di Atawallpa da parte di Pizarro, questi la sposò per fini politici, ma poi
ucciso anch'egli a causa della guerra civile tra spagnoli, fu presa da Betanzos,
ed è lui che riporta il racconto che lei gli fece della propria vita, ora
riproposto in forma di romanzo storico da Alicia Yanez).
Poi
visitiamo il piccolo museo, dove compro un librino con un bel poema di
A.Maldonado su Huayna Capac (e dove forse dimentico il mio amato sombrero nero
di feltro).
Ripartiamo
attraversando la città di Cañar (a 3160m), Bibliàn e Azogues (dopodiché la
strada è ottima). Scesi a Cuenca (2500m), pranziamo in una
gelateria-pasticceria vicino al parque Calderòn che è la piazza centrale, e
poi preferiamo cercare un albergo anziché andare in casa di Andreita. Il centro
storico è quasi ricco come quello di Quito di case coloniali, palazzi e chiese.
Più tardi ci viene a trovare Andreita con la sua bimba (le compriamo al mercado
de las flores una bella composizione, e regaliamo una bambolina alla bimba) e
andremo a cena a casa loro con la zia Teresa che ci ha fatto una torta, anche se
verrà a mancare la luce.
martedì 25
Facciamo (per la nostra prima e unica volta) un giretto orientativo con
un bus turistico scoperto... (!), come ci aveva consigliato Andreita. Si tratta
di un chivas, un autobus aperto e con sedili sul tetto. E' un bel centro storico
coloniale, grande e ricco di palazzi e di chiese, e di vecchie case coloniali.
Cuenca fu una città importante nel Vicereame di Nuova Granada, e poi dopo il
breve periodo della Gran Colombia, nella Repubblica creola nell'Otto e
Novecento. Giriamo tutta la città e infine saliamo al mirador di Turi (2600m)
da dove la ammiriamo dall'alto.
Girandoci intorno
con il bus si vedono bene i resti del complesso incaico Pumapungo con le basi
del palazzo e le fortificazioni. Perchè qui Wayna Capac volle dare il via alla
costruzione di una città ex-novo, Tomebamba, a somiglianza della città di
Cuzco, una sua gemella, quale capitale del regno del nord (Chinchaysuyu). E'
sempre Cieza de Leòn che riferisce che "l'imperatore Guayacapa"
scelse il punto di confluenza tra il rio Tomebamba e un affluente, per costruire
la parte consacrata al potere politico e amministrativo (Puma Pungo), mentre il
centro cerimoniale dedicato al puma era già stato completato nella vicina Inca
Pirka. Il puma come abbiamo visto simboleggia l'energia e questa avrebbe dovuto
diventare una seconda capitale al nord, il che richiedeva nuove energie, e
apportava anche nuove energie. Forse Wayna Capac morì proprio nella sua
Tomebamba (o Tumipampa, cioè la valle del cielo), a causa delle epidemie che
cominciavano a diffondersi in seguito allo sbarco dei primi esploratori
spagnoli. Se la costruzione di Ingapirca e di Tomebamba preludeva allo
spostamento del centro di potere del nord dalla città di Quito (che era stata
la capitale del regno dei qitu - cara), e se poi in sovrappiù Tomebamba poteva
essere vista come un contraltare di Cuzco, o addirittura un preludio al suo
abbandono a favore della nuova capitale, allora ci poterono essere vari
possibili motivi per provocare la morte di Wayna Capac. Dopo un periodo di
cogestione della sovranità, la proclamazione di Atawallpa ad Inca, lui che era
figlio di una puruhà, quindi una straniera, al posto del fratellastro Huancar
che a Cuzco era considerato di puro sangue reale inca, fece risvegliare questi
dubbi sulla volontà di imporre un dominio del nord. Ma proprio quando Atawallpa
aveva oramai vinto la guerra civile, e stava per marciare sul sud, arrivò dalla
lontanissima Spagna Pizarro, che riuscì a catturarlo prigioniero a Cajamarca.
Pizarro si impegnò a liberarlo se gli avesse pagato un immenso riscatto,
mostrando che ciò che più gli interessava era arricchirsi con grandi quantità
di oro, e se si fosse convertito al "vero Dio", il che sì compì, e
in questo Atawallpa si dimostrò molto "ingenuo", ma Pizarro (che era
una sorta di picaro) non mantenne poi fede alla parola solennemente data in
pubblico, e si rese così evidente l'inganno che aveva teso, e fece uccidere l'Inca
strangolato con la garrota (1533). Per tutti i popoli andini fu come aver
assassinato un dio in terra. Si consumò così la passione e morte di chi poteva
rappresentare oramai l'unico protettore degli indios. Da allora una "elegia
ad Atahualpa", si diffuse in tutte le Ande e questo lungo cantar lamentoso
e funebre si conservò per quattro secoli venendo tramandato oralmente in
quechua di generazione in generazione. Il cantico poi fu tradotto in spagnolo
nel 1938 da J.M. Arguedas, che lo fece così conoscere, e lo ripropose al
pubblico moderno rendendolo nuovamente attuale per i lettori di tutto il mondo.
Comunque il suo
valido generale Rumiñahui cercò invano di organizzare la resistenza del Nord
contro gli invasori (avevamo visto la sua statua a Otavalo, che gira le spalle
alla chiesa), ma fu sconfitto dal conquistador Belalcàsar (che forse
originariamente era: ben al-kazar). Intanto la città fu distrutta e
ricostruita. Andrès Hurtado, nominato vicere, essendo nato a Cuenca in
Castiglia, fece ribattezzare la exTomebamba col nuovo nome di Cuenca de las
Indias, e un capitolo di storia si chiuse per aprirne un altro.
Al pomeriggio
andiamo all'interessante "Museo de las culturas aborigenas". Inizia
con reperti addirittura di 14 mila anni fa, e testimonia la continuità di varie
culture succedutesi nel tempo, dalla Valdivia, a La Tolita, al Carchi, Puruhà,
a Quevedo, Napo, Cañari, fino agli Incas. Straordinaria raccolta compiuta da un
professore di storia, e poi messa a disposizione del pubblico grazie ad una
fondazione.
mercoledì 26
Andiamo a visitare il bel Museo del Banco Central, archeologico, e
antropologico. Molto ben fatto, soprattutto direi la parte etnografica.
Poi andiamo alla
Casa de la Mujer, che è un centro di botteghe artigianali, e al mercado de San
Francisco. Mangiamo a pranzo un almuerzo a menu fisso al café di Mama Kinoa (o
Quinoa), gestito da una comunità kichwa locale, dove prendiamo come primo
appunto una sopa de quinoa.
Su un muro di una
strada intercantonale c'è la seguente scritta a spray: Q mueran las religiones
y viva dios q nunca muere si muere da igual el resucita...!!! (che muoiano le
religioni e viva dio che non muore mai, se muore fa lo stesso resuscita...).
giovedì 27
Facciamo una gita a Gualaceo, dove visitiamo un taller artigianale di
macana, tessuto per abiti (paño) fatto con i telai di legno ikat, con disegni e
colori vivi, e le cucitrici che fanno a mano le bordure e confezionano le
giacche; la signora ci mostra come
ci si posiziona in terra con una fascia dietro le reni e le gambe distese
spingendo forte con i piedi contro il muro, per tenere disteso il telaio a mano.
E poi riusciamo a trovare l'Orquideario, che è ufficialmente denominato "invernadero
Ecuagenera" (e il cartello non è facile da individuare), con centinaia di
diverse specie di orchidee. Qui si parla un dialetto "espanglish-quichisado",
cioé uno spagnolo con un miscuglio di termini kichwa e inglesi (ad es.: Alberto
trae a la guagua please =Alberto, porta il bimbo per favore). Poi andiamo a
Chordeleg, dove entriamo in molte gioiellerie per vedere i lavori in filigrana
d'oro e d'argento. Vediamo una donna che intanto che cammina in strada continua
a intrecciare la paglia da cui sortirà in una settimana un sombrero. Infine
andiamo sino a Sigsig, 60 km più in là. In piazza c'è un monumento in memoria
del cacicco Duma il quale difese strenuamente il territorio di Chordeleg e
Sigsig dall' Inca Tupag Yupanqui che restò sconfitto. In periferia della
cittadina visitiamo la locale Toquillera, cioè un opificio dove una cooperativa
di 153 donne fabbrica vari tipi di cappelli di tipo "panamà", o
jipijapa con una particolare paglia, la paja toquilla. Ci attardiamo nel bosco
lungo il fiume a guardare le lavandaie che lavano i panni nell'acqua corrente.
Queste zone erano
abitate anticamente oltre che dai cañari, dai chibchas, gente originaria
dell'area di Bogotà, esperti orafi, che sconfitti gli incas, continuarono a
governare il territorio tramite una specie di confederazione tra i loro
cacicchi. Giunti gli uomini di Pizarro, si allearono con loro, e per ricompensa
ricevettero assicurazione che avrebbero ottenuto dei privilegi. Quando un
cacicco moriva ne ricoprivano il corpo con polvere d'oro e lo immergevano in un
lago. Visto questo, nacque più tardi tra gli spagnoli la credenza che essi si
rifornissero nella grande selva orientale del "paese delle amazzoni".
E si diede l'avvio alla folle, demenziale, insulsa e funesta spedizione verso il
leggendario "El Dorado", in cui morirono di stenti, di malattie, e di
fame, oltre ai "conquistatori" stessi, circa settemila indios chibcha
(gruppo che poi si ridusse ai minimi termini e senza maschi, per cui in Ecuador
si estinse) che gli avventurieri spagnoli avevano deportato con sè come guide,
come portatori, e come esercito ai propri ordini (a proposito, si rivedano i
film "Aguirre il furore di dio", di Herzog, che in parte si ispirò a
questa avventura, e "El Dorado", di Carlos Saura).
venerdì 28
Partiamo da Cuenca e andiamo con la nuova strada di cemento (non del
tutto terminata...) verso Saraguro. C'è nebbia, pioggerellina, nuvoloni bassi,
dopo il bivio di Tarqui procediamo molto lentamente senza visibilità per lunghi
tratti in salita. Oltrepassiamo il passo di Tinajilla a 3527 metri, e poi
superata Oña, ci ferma un blocco stradale di polizia. Il poliziotto si
sorprende della mia patente italiana, che non aveva mai visto e che studia
attentamente, e vuole controllare i passaporti, per cui apriamo il bagagliaio
per tirare fuori la valigia in cui ci sono i passaporti, che è proprio quella
più sotto, e allora ci dice che non importa, di andare pure. Infine scendiamo a
Saraguro (2650m).
Là ci aspetta
Patricio Quizhpe Guamàn, che ci guida con la sua motoretta su per le strade
sterrate e oramai fangose per la pioggia, sino all'hostal della comunità, lo
Achik Wasi. Dopo esserci riposati a aver pranzato con piatti locali assieme ad
un gruppo di maestre della zona che si ritrovavano per un convegno sulla
didattica, Patricio viene a riprenderci. Ci dice che lui è un artigiano che
costruisce strumenti musicali tradizionali; ha imparato a farli sin da piccolo
perchè gli è sempre piaciuto, e ora si è perfezionato in questa abilità. Ci
porta un po' in giro nei dintorni e visitiamo una textileria della comunità,
dove ci lavorano nel loro "tempo libero" diversi bambini e ragazzini
(i telai con la spoletta e il rocchetto sono tutti di legno costruiti
artigianalmente) che così imparano come si fa a produrre ciò che serve a
tutti, in questo caso gli abiti tradizionali. I ragazzi con noi non parlano ma
sono molto impegnati a mostrarci come sono capaci e bravi, e ogni tanto si
consultano, oppure si dicono battute, ma non si distraggono troppo e lavorano
con attenzione e con impegno. Abbiamo un attimo di sconcerto dato che siamo
sempre stati contro al lavoro minorile, ma Patricio non condivide questa nostra
preoccupazione. A fondamento di questa iniziativa c'è l'antico concetto andino
di minga (o minka), ovvero dei lavori di interesse comune, che tutti dovrebbero
saper fare e prestare a titolo gratuito in caso di necessità. Il principio di
riferimento generale è quello di reciprocità (basato sui tre comandamenti cui
accennavo più sopra). Reciprocità e vantaggio generale esprimono il concetto,
mentre si chiama Ayni la forma
concreta che può prendere. E anche qui il riferimento che viene fatto per
spiegare il significato di tutto ciò è alla natura e a quello che oggi
chiamiamo ecosistema, cioè qualcosa che sussiste e si perfeziona solo a
condizione di avere l'apporto di tutte le singole componenti relazionate in un
intreccio complesso. Quindi a suo dire i ragazzi vengono qui volentieri e
spontaneamente perché si divertono e apprendono un saper fare utile, possono
verificare e dimostrare le proprie capacità ed essere apprezzati, e hanno
capito che se no non ci sarebbero più a disposizione della comunità i loro
abiti tradizionali. E dice che quindi il lavoro in questo caso è per loro anche
una forma di gioco, e di gara, o di personale soddisfazione. Certo messa così,
allora mi sembra un fattore molto positivo e importante; inoltre si consideri
anche il contesto, per cui qui quello che noi chiamiamo il lavoro minorile, qui
c'è sempre stato, ed in parte è tuttora una realtà quotidiana tra gli strati
sociali più poveri e marginali (la questione piuttosto non è tanto il lavoro
ma il suo sfruttamento). Poi ci mostra la zona di una ex laguna prosciugata,
dove scambiamo due parole con una signora anziana che sta filando a mano
(proprio come faceva da noi un secolo fa la Berta). Passiamo davanti a una
scuola che si chiama Centro Educativo Comunitario, Activo, Intercultural Bilingüe,
"Inti Raymi", una scuola pubblica, o come dicono qui,
"fiscal" cioé finanziata dal fisco.
In uno spiazzo
qualche ora fa avevamo visto un mural con un disegno della valle e un bel sole
sorridente, e vari bambini in primo piano, con scritto: Asociaciòn "Juntos
por los Niños", gobierno local municipal del Canton Saraguro; e lo
slogan "Hagamos realidad los Derechos de los niños, niñas y adolescentes"
(rendiamo realtà i diritti dei bambini/e e adolescenti).
Infine andiamo in
una cafeteria moderna a mangiare humitas e tamales bevendo canela. Poi io vado a
comprare qualche cosa da portare a casa loro, in un minimarket del paese,
spartano ma abbastanza ben fornito. Intanto entro in un negozio di cappelli per
rimpiazzare il mio che ho perduto. Ma il negozio, pur essendo molto fornito, con
le diverse taglie, per uomo, donna e bambini, ha una notevole esposizione su
scaffali di decine e decine di cappelli tutti neri, tutti di una foggia quasi
identica, con piccolissime varianti, c'è insomma solo il modello tradizionale
saraguro, e assolutamente nient'altro. Resto un poco spiazzato...
Patricio ci porta
a conoscere la sua casa di famiglia, dove incontriamo sua moglie Sisa e sua
sorella Luz e le loro due bambine IllaryQuilla e Sisay, e il piccolo Ayni.
Regaliamo loro dei giochini. Loro ci fanno il fuoco per terra nello spiazzo lì
fuori, e impastano e moliscono il mais (che lavoro! e che fatica), per cucinare
sulla piastra di metallo fatta da loro stessi e un po' approssimativa, delle
tortillas "autentiche" in cui mettono un pochino di formaggino delle
loro mucche. Noi portiamo come contributo (pensando soprattutto alle bambine)
della marmellata, yogurt con croccantini, brioches, e non ricordo che altro.
Chiacchieriamo e
Luz ci dice che è da anni che il marito è negli Stati Uniti come immigrato
clandestino per lavorare come cuoco o come muratore, e non potrà ritornare
prima di cinque anni. Così lei è sola. Per fortuna che Sisa e Patricio ora
hanno dovuto lasciare la vecchia casa dove stavano e si fermano qui per un po'
in attesa di andare nella casa nuova. Anche lei come Sisa insegna nella scuola
elementare della comunità. Poi arrivano un'altra sorella più grande, di
quindici anni, e una ragazzina di dieci. Intanto il fuoco si spegne, e siamo
come catturati dalle due bimbe scatenate, che dopo un po' mettono su delle
musiche tradizionali, si vestono di tutto punto da piccole ballerine, e ci
mostrano perfettamente delle danze tradizionali con tutte le mosse e le
giravolte, sono bravissime (forse le hanno imparate a scuola). Evidentemente si
sono allenate moltissimo e sono anche delle acute osservatrici, perché sanno
imitare alla perfezione le movenze delle danzatrici. Purtroppo il volume è a
livelli massimi, ogni tanto le due mamme lo abbassano ma senza mai
rimproverarle, e dopo un po' le bimbe lo rialzano. In seguito torna Patricio e
poi arrivano il padre Segundo Luìs e la madre (che tiene sempre il suo vecchio
sombrero nero a macchie bianche), che vengono dalla casa di campagna apposta per
conoscerci. Così ci invitano a restare per cena (che noi credevamo fossero le
tortillas).
Cena con zuppa
locale (in piatti fatti da loro), attorno a tre tavoli attaccati, con tutta la
grande famiglia riunita al completo. Quel che mangiamo sono solo cose prodotte
da loro stessi.
Mi pareva di
ritornare a quando ero piccolo e da Milano andavamo in campagna, vicino a Porto
Ceresio sulle rive del lago di Lugano, in una casa accanto a quella del
contadino e della sua famiglia. Ricordo che quando andai con mio nonno da loro,
ci fecero posto a tavola, e c'era poca luce, la cena era una semplice tazza di
minestra calda con dei pezzi di pane, i volti si intravedevano appena, come in
un chiaroscuro di Caravaggio, c'era un po' odore di stalla, e mangiammo in
silenzio, solo alcune poche parole in dialetto. Ho risentito tutto quel calore,
quella intimità, quell'atmosfera dimenticate. Quanto ho goduto di questa cena
con il padre a capotavola, la madre col suo grande cappello in testa, la moglie
del figlio affaccendata a servire in tavola. E quella zuppa calda nelle ciotole
di terracotta fatte a mano, un po' grezze, e il silenzio (anche le bambinette
mangiavano)...Questa sì che è stata una grande lezione, di semplicità, di
accoglienza, di condivisione, di comunicazione non-verbale fatta di sguardi, di
sorrisi, di gesti. In quel momento sì che eravamo calati nella cultura
campesina saraguro, e l'abbiamo potuta percepire vivendola. Ho poi ringraziato
tanto e veramente di cuore.
Siamo ritornati
su per la ripida strada di terra infangata a ballonzoloni, e ci siamo infilati
sotto le coperte un po' umide e fredde.
sabato 29
Facciamo un po' di colazione da loro con il latte appena munto (e
bollito). Andiamo tutti assieme (Patricio e Sisa in moto, Luz e le bambine
scatenate, e una sorellina più grandina, tutti dentro la nostra auto...=7) su
per una ripidissima sterrata fangosa sino alla frazione di Ilinchos dove c'è la
loro scuola comunitaria, che si chiama "Inka Samana", da dove
si vede un panorama molto ampio e bello. All'esterno
della scuola ci sono delle costruzioni di legno, che sono i laboratori e gli
ateliers. Lì la bambina ci racconta la leggenda cupa sul lago che c'è in cima
al monte. E Sisa conferma che quando sua madre era una giovane sposina e andò là,
il lago alzò delle terribili onde come per prenderla, lei scappò via ma perse
il suo prezioso anello, dopodiché il lago si calmò...
Offriamo l'almuerzo
a tutti in una trattoria, poi Sisa ci porta da suo zio José-Maria Vacacela
nella sua casa che sta in campagna ed è discosta dalla strada sterrata e un po'
di difficile accesso attraverso i campi irrigati. Ci avventuriamo lungo lo
stretto sentierino, tra odori di concime, e la presenza di animali, ed entriamo
in questa tipica casona di campagna, in cui tutto è molto semplice ed
essenziale, e pure un po' approssimativo. Lui è il fondatore e direttore delle
scuole della comunità.
Subito ci offre
una chicha fatta in casa veramente buona. La chicha è una birra alcolica che si
ottiene con la fermentazione non-distillata del mais e di altri cereali. Questa
era forse killu asuwa, in kichwa, cioè chicha gialla. Certe chiche, come la
chicha de jora (fatta col granturco germogliato) si bevono soprattutto durante
le grandi celebrazioni come lo Inti Raymi, in quanto bevanda sacra (come ho già
accennato più sopra); mentre la chicha morada o "colada morada" si
beve in occasione di feste come quella della Mamà negra, o la festa del Yamor a
Otavalo.
Ci racconta
intanto la sua storia personale, per spiegarci come è giunto a decidere di dar
vita a una scuola non autoritaria, e ci fornisce questa testimonianza:
"(...) mio
padre mi aveva sempre educato col fare, senza teorie, o libri, mi mostrava come
dovevo fare e mentre provavo mi correggeva. Presto mi diede delle incombenze,
dovevo badare al bestiame, però potevo intanto anche distrarmi un po' con le
farfalle...Quindi io ho imparato a contare dalle farfalle, dalle pecore, dalle
galline, ho imparato a contare quante ce ne sono e quante ne mancano, per andare
a cercarle. Questa era l'educazione nei campi, e io vivevo felice e apprendevo
quel che mi serviva, senza dover essere obbligato a starmene sempre seduto,
attaccato a una sedia. Senza dover tenere una persona che stia lì a impedirti
che ti alzi, che conversi, ... Quando io andai a scuola, questo fu il primo
shock che ebbi, e allora mi dissi: ma questa è una prigione! e io qui devo
scontarci sette anni !??... Mi ci portarono verso i sei anni d'età perché
pareva che non riuscissero ad addomesticarmi tanto facilmente, quindi all'età
di sette anni già pensavo: no, non mi piace, non mi piace per niente tutto
questo! però era obbligatorio andare a scuola, e i miei mi mandarono. Gli
insegnanti avevano il loro compito, e tra i doveri c'era quello di tenere i
ragazzi dentro all'aula e di tenerli zitti oltretutto, e poi dare loro mezz'ora
di ricreazione, concedere loro uno sfogo, io direi, perché è chiaro che dopo
averli costretti lì, facendo loro pressione, il ragazzo lo necessita. Pertanto
la mia prima impressione dell'educazione fu che era una cosa che non mi andava
bene, e anzi non mi pareva che questo fosse educazione... Questo mi ha marcato,
segnato.
Un'altra cosa che
mi segnò fortemente, è stata il confrontarmi con una cultura che non era la
mia. Poiché gli insegnanti erano di altra cultura, quella dei meticci, e io ero
dentro un'altra cultura, quella indigena, anche se io non lo sapevo. Ma quella
cultura lì io non la conoscevo, non sapevo quello che a quel tempo erano le
haciendas (le aziende agricole). Qui a Saraguro non c'era il sistema economico
delle haciendas, per quello io non lo conoscevo. Mio padre stesso non le
conosceva. Quindi per me non c'era questo problema del razzismo, del rifiuto
dell'indio, eccetera.
Ma andai alla
scuola, e lì fu dove mi fecero vergognare di me, e della mia famiglia, mi
fecero sentire il peggiore, il più in basso. E questo sia i miei compagni di
scuola meticci, che gli insegnanti. Perché quando venivano i miei genitori,
loro parlavano in kichwa, e io capivo, anch'io parlavo in kichwa. E allora tutti
mi ridevano dietro, si prendevano gioco di me, e mi dicevano brutte
cose..." (ma eri l'unico bambino di campagna? l'unico indigeno?) "no,
già cominciavano ad essercene alcuni, ma comunque sia questa è la mia
esperienza. Ci fu uno che mi perseguitava, e si giunse al punto di chiamare i
miei, e mi vollero espellere. Io, quando venivano i miei a visitarmi, o a vedere
la scuola, io ormai andavo a nascondermi, perché nessuno mi vedesse, in modo
che non stessero a guardarmi, che non mi incontrasse nessuno, per non correre il
rischio di dare spazio alle burle, ai motteggi.
Quindi anche
questa fu una così orribile esperienza, che si aggiunse a quel che già non mi
piaceva. Fu così che mi vergognai delle mie origini e cominciai a voler
rifiutare la cultura mia di famiglia.
Ecco, questa per
me è stata la funzione della educazione. Questo è quel che mi segnò ai tempi
della scuola.
Ora, per
semplificare e senza toccare altri aspetti che non mi piacquero per nulla, e che
non erano pochi, però insomma, va beh, questi furono i primi.
In ogni modo poi
riuscii a staccarmi, e uscir fuori da questo contesto, da questo ambiente, anche
se un po' emarginato, un po' ferito, però insomma va beh.
Ad ogni modo,
quando andai all'istituto (medie, e medie-secondarie), al collegio, lì
trovai un altro contesto che marcò parecchio l'educazione nel nostro Paese, però
ero già un po' più ragionevole, più razionale, più maturo. E lì in seconda,
sì mi pare proprio che fosse in seconda, un insegnante di scienze sociali disse
che noi a Saraguro vivevamo a centotrentaquattro gradi...e io non riuscivo a
farmi entrare in testa alcuna ragione logica per cui si potesse dire che noi
stavamo a quella temperatura... perché proprio a scuola mi avevano insegnato
che quando l'acqua bolle, vuol dire che è arrivata a cento gradi, e se ci metto
un dito dentro mi scotto. Così compii il mio ragionamento, e poi dissi: mi
scusi, mi perdoni, ma come è possibile che stiamo a quella temperatura se è più
alta dell'acqua che bolle ? e lui disse: signor Vacacela, fuori! eppure avevo
solo fatto una domanda...Allora mi resi conto. Mi dissi: qui non si può dire
niente, non puoi essere critico, non puoi protestare, per niente, il professore
è la massima Autorità, proprio perché se anche dicesse qualche barbarità,
tuttavia non si può dirgli nulla. E questo non mi pareva giusto.
Così me ne andai
fuori dall'aula, e per fortuna avevo buoni voti e godevo di buona considerazione
da parte di alcuni professori che mi accettavano abbastanza, anche se ero così,
un po' critico... e anche lo stesso rettore, che era stato quello che aveva
detto ai miei genitori quando non volevano iscrivermi all'istituto superiore,
che era un peccato, perché dimostravo di avere capacità e volontà per poterlo
fare bene. E dunque avevo degli appoggi, e questi mi davano un senso di
sicurezza. Comunque ora ero stato cacciato fuori, e ero finito, perché lui mi
disse: non rientrare in classe se non vieni accompagnato da tuo padre. E mio papà
avrebbe anche potuto darmi un sacco di botte...anche solo per il fatto che non
aveva tempo per potersi occupare di questo tipo di cose. Fortunatamente poi
tutto si sistemò, in quanto molti professori si resero conto che in definitiva
non avevo commesso alcuna infrazione, ma avevo semplicemente fatto una domanda,
espresso un dubbio, che è cosa che può capitare a qualunque studente, cui
l'insegnante era tenuto a dare una risposta. Mentre il fatto è che non mi
rispose. Quindi constatato questo, in una riunione votarono contro
quell'insegnante, che dovette lasciare il collegio. Ma in ogni modo questo fu un
fatto che mi lasciò il segno. L'educazione è qualcosa che deve andare bene a
chi comanda.
Infine, per
esempio, quando ero all'università, ho avuto l'occasione di lavorare e
nel contempo di dover studiare, quindi l'occasione di confrontare gli
studi con la pratica. All'università potevo studiare anche senza dover
frequentare. E perciò lavoravo presso un istituto privato a Quito, e nel
contempo mi preoccupavo per i miei studi; dovevo studiare per auto-prepararmi
per gli esami. Grazie a quella mia attività potevo stare comunque a contatto
con l'ambiente degli insegnanti, e conoscere i padri di famiglia degli studenti,
e partecipare a molte riunioni e seminari didattici che dava il direttore in
varie occasioni, e la cosa oltretutto mi piaceva moltissimo, così accompagnavo
da varie parti il direttore, stavo sia con gli insegnanti che con gli allievi,
sentendo cose, ascoltando i loro commenti, e così imparai molte cose. Quando
stavo all'università dunque c'era un professore di Pedagogia, e il primo giorno
quando lui espose in sintesi tutto il suo sistema pedagogico, io intervenivo, e
finivo col fare riferimenti alla pratica che conoscevo, e vedevo che lavorare
coi ragazzi è una cosa difficile. E lui diceva, certo, certo signor Vacacela,
eccetera. Molto bene, allora il giorno dopo, intervenivo di nuovo, e chiaramente
facevo riferimento alla mia esperienza, e facevo esempi, oppure riferivo
aneddoti, e in questo modo attiravo l'attenzione dei miei compagni di corso,
anche quelli che a volte non erano molto interessati dai discorsi del
professore, mentre ascoltavano e partecipavano alle varie esperienze di cui li
facevo partecipi, e che sono quelle reali che io vivevo e di cui volevo parlare.
E il professore diceva, va bene, va bene Vacacela... Però alla terza volta non
gli faceva più piacere, anzi gli diede fastidio, e a un certo punto mi disse:
signor Vacacela fintanto che qui il professore sono io, in questa università il
professore è quello che ne sa un pochino di più su queste cose. E mi dissi,
ecco hai visto? ci sono due modi di comunicare, e qui io devo stare più basso.
Ed ecco che mi ritornavano in mente le mie esperienze anteriori. Anche
all'università quel che bisognava fare era studiare per passare l'esame. Quindi
io devo solo studiare e prepararmi, e impegnarmi ad andare avanti così, sino ad
arrivare a conquistare un titolo per potermi esprimere.
Ecco queste cose
hanno segnato la mia esperienza, e la mia impressione fu che in certi ambienti
è ancora peggio se sei un indigeno. Praticamente la scuola è il luogo in cui
constati che viene svilita, deprivata di valore, tutta la tua cultura. In questa
educazione si da valore solo alla parte dell'intelletto. Tutto quel che riguarda
il fare, la pratica, l'esperienza, è svilito, è di minor valore. Allora
cominciai a pensare ad elaborare un progetto educativo diverso per Saraguro, per
i miei fratelli indigeni, e per gli stessi miei figli, perché desideravo che
potessero passare per una educazione diversa da quella di cui io avevo fatto
esperienza, e che era risultata una esperienza non tanto buona. Ecco è così
che cominciammo a sperimentare questo nuovo progetto di educazione.
Ricordo che
quando andavo a scuola mi impressionò molto il racconto di quando una
commissione di scienziati francesi venne nel Settecento fino in Ecuador per
misurare dove passasse la metà del mondo, la missione geodesica. E dicevano che
vennero qua perchè la popolazione locale non sapendo né leggere né scrivere
non poteva fare questo calcolo. Mentre invece gli antichi abitanti dell'impero
incaico avevano misurato la metà del mondo e gli scienziati geodesici si
sbagliarono di 240 metri, e ora risulta che la misura indicata dai nostri
antenati era più precisa. Niente male per non sapere né leggere né
scrivere!... Il sapere leggere e scrivere non produce pensiero, è solo un
mezzo, uno strumento, che bisogna saper usare.
La scuola è così,
è fatta per produrre acquiescenza, per abituare a credere in quello che ti
dicono. Ora noi volevamo fare scuola diversamente."
Quindi ci parla
della fondazione della nuova scuola sperimentale da parte di un gruppo di
insegnanti molto impegnati, in riunioni, in cui si discuteva di Dewey, di
Pestalozzi, di Neill, di Freinet, eccetera, anche con i genitori, e ci riferisce
delle loro scelte pedagogiche per una scuola senza gerarchie, non autoritaria,
basata più sul fare e sulle esperienze, cioè a partire dalla pratica per
aggiungervi la teoria. E' una senza divisioni per classi, in cui si lavora per
gruppi di interesse, e in cui ogni ragazzo è libero di costruirsi il proprio
percorso di apprendimento e di sceglierne i tempi, pur che segua almeno cinque
gruppi al giorno. Si segue la pedagogia attiva, e si allestiscono molte attività
di laboratorio in edifici di legno costruiti all'esterno. E' una scuola di base
bilingue kichwa e spagnolo (ma ora hanno aggiunto anche l'inglese come lingua
straniera), che contempla sia le elementari che le medie. Alla fine comunque
bisogna che ogni studente abbia raggiunto uno standard minimo, e inoltre bisogna
che abbia terminato di farsi il proprio abito da sè (quindi filando, tessendo
il tessuto, cucendo e tagliando, ecc. come abbiamo visto più sopra) dimostrando
le capacità raggiunte (durante il periodo scolastico anche si lavora nei campi
e si impara a fare tutto quel che serve per sopravvivere). E' dunque un contesto
in cui vengono stimolate le motivazioni ad apprendere, e in cui vi è un estremo
rispetto per l'alunno, che è posto al centro dell'attenzione, anche a scapito
di programmazioni d'istituto, e pianificazioni ministeriali, di progetti rigidi,
e di programmi disciplinari, ma in cui è molto arduo il compito dei
docenti-educatori, che sono chiamati a fare da guide e accompagnatori, e che
necessitano di una ottima e vasta preparazione professionale, essendo anche
impegnati con piccoli gruppi ma di età diverse, cercando di svolgere una
didattica il più possibile individualizzata. Non sono contemplate punizioni né
giudizi, né quindi voti, o esami, e si stimola i ragazzi ad autogestirsi, e a
responsabilizzarsi.
Ma poi la moglie
lo chiama perché non sta ben, è a letto ammalata, e noi ringraziamo molto per
il tempo dedicatoci e lo salutiamo. Ripercorriamo a fatica lo stretto e
scivoloso sentierino sul crinale dei campi irrigati e seminati, evitando mucche,
cani, maiali, e una volta giunti sulla strada di terra dove abbiamo lasciato
l'auto, commentiamo meravigliati e ammirati di aver trovato in un paese di
campagna come Saraguro una scuola all'avanguardia, con impostazione
antiautoritaria.
Torniamo a casa
dei Quizhpe Guamàn. Si beve la orchata, che è una aguita dolce bollita, e
ceniamo lì. Parliamo un po' con il padre che è appena arrivato ed è stanco.
Anche lui è un direttore didattico, ma del circolo delle scuole medie-superiori
e professionali statali, un complesso di circa mille studenti. E ci parla delle
loro diffcoltà e problemi.
domenica 30
Al mattino andiamo da loro per salutarli. Così conosciamo anche
Teresita, che ci aspettava per riceverci vestita "elegante" ovvero di
tutto punto con un bellissimo abito tradizionale, con una bella fibbia d'argento
della nonna, una collana, e il grande sombrero dipinto di bianco a pois neri.
Lasciamo come doni un pacco di spaghetti, dei giochini per i bimbi e un
calcolatorino tascabile solare. Luz dice che è un peccato che partiamo perché
si sarebbe potuto guardare assieme verso la luna, infatti ha letto su internet
che stanotte si potranno vedere due lune; le diciamo che non ci pare una cosa
possibile (per non dire che è una cosa assurda...), che forse ci potrebbe
essere un particolare effetto di rifrazione luminosa...Ma lei insiste che non è
così, che ha letto che si vedrà che ci sono in realtà due lune...(?!).
Teresa, che sta a
Riobamba dove studia all'università, ci parla di uno stage che aveva fatto con
Manuel Pumaquero, uno stage che definisce "misto" perché c'erano sia
Purwà che Saraguro..., e poi dichiara "gran respeto", cioé una
grande considerazione, ammirazione e devozione per "Taita" Manuel
(e così dunque lo chiama col titolo di "Padre").
E' veramente
straordinario che dei ragazzi al giorno d'oggi si esprimano in questo modo,
spontaneamente, e sinceramente, nel dichiarare i propri sentimenti riguardo al
proprio insegnante, considerandolo proprio un Maestro... Appunto il caso, tra
gli altri, delle culture e delle civiltà amerindie, ci mostra che bastò
spezzare due o tre anelli generazionali di congiunzione nella storia di quelle
società, distruggendone i beni culturali e il ceto dei detentori e
trasmettitori dei saperi e dei valori, che interi popoli hanno cessato il
proprio percorso di incivilimento e di irradiazione di civilizzazione.
L'educazione in sostanza è un tentativo per evitare che si debba ricominciare
sempre da capo ad ogni passaggio di generazione, curando che vi sia una
comunicazione intergenerazionale, che avvenga un transito, un passaggio di
consegne...Quindi in definitiva la relazione educativa costituisce una
mediazione tramite la quale le generazioni si impegnano in una sorta di
staffetta nella loro corsa verso l'avvenire, e ci si passa il testimone. Si da
per suo tramite solidità ad un ponte ad arco, che presenta alcuni ostacoli da
superare, sotto forma di scalini, perché si tratta di passare attraverso dei
gradi di elevazione. L'educazione è dunque un intento per affrontare il grande
e angoscioso timore della perdita, dovuta a discontinuità, che causerebbe
l'estinzione, la scomparsa di qualcosa di prezioso, di un patrimonio, e quindi
in questo caso il rischio di apocalisse culturale (cioè la fine della propria
presenza nel mondo). La relazione educativa è il punto, lo snodo fondamentale
di ogni cultura e in definitiva della stessa civiltà umana, senza provvedere
alla quale si può perdere l'umanità (come aggettivo qualificante), l'essenza
dell' umano. Quindi è quel valore aggiunto che dà un significato allo stesso
processo di umanizzazione del primate homo. Ma seppure si riesca ad evitare il
rischio della perdita e della discontinuità, c'è tuttavia dispersione, e si
compiono giri tortuosi nel cammino. E perciò
se c'è dispersione di energie (come nei conduttori di energia), c'è
sproporzione tra l'impegno che si richiede di impiegare e gli esiti, e ciò che
resta, che si conserva nei passaggi, quindi a maggior ragione una sproporzione
deve esserci e va messa in carico.
Ed è appunto
sullo sfondo di questa problematica comunicazione che risalta la coppia
maestro/allievo, ed i contesti, i termini, e la sostanza di questa copula sono
astri cui si deve sempre guardare per orientarsi. Il cammino spesso è involuto,
fa strani percorsi, a volte tortuosi, va su e poi va giù, e a volte pare girare
a vuoto attorcigliandosi su sè stesso a causa di certe questioni che ne
imbrogliano il senso. Quindi pietra basilare per l' evoluzione della civiltà
umana è tener viva la grande catena maestro-allievo.
Sono riflessioni
che mi erano sorte stamattina, quando andando a fare colazione scambio due
parole con una addetta dell'hostal della comunità, di circa una trentina
d'anni, tutta vestita con il costume tradizionale, che mi chiede se siamo stati
a visitare questa e quella località importante (un altro baño del Inca e delle
grotte) e scopro che lei non sa parlare il kichwa. Mi dice come per
giustificarsi che i suoi genitori non glielo vollero insegnare quando era
piccola e quindi in casa parlavano con i figli e tra loro solo in spagnolo
(proprio come un'altra con cui avevo parlato giorni addietro), però mi dice che
lei si sente molto legata alla identità culturale dei saraguro. Mi viene in
mente la collega ferrarese Giuliana Berengan che in un suo corsivo a proposito
di queste problematiche, citava Ken Hale, docente di lingustica al MIT secondo
cui "lasciare morire una lingua è come sganciare una bomba sul Louvre".
E con questa frase ad effetto aveva ragione. Ogni anno ci sono delle lingue
"minori" che scompaiono, si estinguono...Forse il kichwa ha fatto
appena in tempo a rifiorire, ma ha rischiato molto, come denunciava il grande
scrittore quechua peruviano (che scriveva i suoi romanzi in spagnolo) José-Maria
Arguedas (morto suicida nel 1969). Gli antichi saggi indo-vedici insegnavano che
le parole e i pensieri sono anch'essi da considerarsi alla stregua delle azioni
nel comporre la vastissima e intricatissima rete e catena del karma, cioè delle
cause e degli effetti. Gli antichi greci come il grande Gorgia dicevano che la
parola ha un corpo sottilissimo ma potente, e il suo potere è grande perchè la
parola è ammaliatrice, produce incantesimi. In un altro senso Wittgenstein
diceva che "anche le parole sono azioni" riferendosi al fatto che
esprimono emozioni, e quindi non sono neutre. Ma se una lingua muore, con lei
rischia di morire una cultura, tanto stretti ne sono i reciproci legami. La
Berengan parla di una complessa e delicata "combinazione alchemica"
tra le parole che va a formare il tessuto linguistico di una cultura, cioè
quell'elemento che è di basilare importanza nell'incidere sui rapporti
interpersonali e quindi nei rapporti sociali e politici.
L'impiegata
dell'ostello, è d'accordo e se ne rende conto, per cui mi dice che fa
apprendere il kichwa ai suoi figli in una scuola bilingue. In effetti il
tramonto di una lingua è paragonabile a un "disastro ambientale"
grave, e bisognerebbe che in questi casi le autorità si rendessero conto che
serve un intervento culturale d'urgenza, e l'impiego di mezzi adeguati per
scongiurare una eventualità simile. E' importante dunque che in Ecuador da più
di una quindicina d'anni sia stato attivato un progetto di Educaciòn
Intercultural Bilingue, per il recupero e la rivitalizzazione delle lingue e
delle culture locali originarie. Certo le lingue come i loro dialetti sono dei
corpi collettivi viventi e quindi cambiano, si trasformano; e l'operato di certe
accademie della lingua, a volte è un po' troppo conservativo (penso al caso
francese) quando cerca di remare controcorrente in un tentativo autoritario e
vano di impedire i mutamenti e le contaminazioni (che da noi sono fortissime con
la lingua egemone dell'occidente che è l'inglese), mentre è giusta la lotta
contro le scorrettezze grammaticali-sintattiche a favore di un buon uso corretto
e colto della lingua che si impiega per la comunicazione. Quindi anche il kichwa,
oltre a contaminazioni con lo spagnolo (e ora già un po' anche con l'inglese,
come abbiamo visto più sopra), verrà trasformandosi e ammodernandosi per
adeguarsi alla vita urbana e allo sviluppo economico in atto, e speriamo che ne
uscirà (come auspicava Arguedas) un kichwa all'altezza delle sfide
socioculturali attuali. Questo è l'intendimento ad es. dell'istituto di
Pumaquero di cui parlavo prima, che oltre al recupero della "sabidurìa
ancestral" vuole promuovere la formazione di una "nueva conciencia".
Ma per ritornare
ora alla cronaca del viaggio che stavamo compiendo, a questo punto vorremmo
prendere congedo dalla famiglia, ma le bimbe chiudono la porta a vetri interna,
per non lasciarci partire, e così siamo fatti "prigionieri". Le due
mamme dolcemente dicono loro di aprirci, che abbiamo fretta di partire perché
dobbiamo fare un percorso lungo, ma loro non accennano a volerlo fare; ancora
due e tre volte le mamme e anche altri cercano affettuosamente di convincerle a
spostarsi dalla porta, ma loro sembrano incaponirsi di più, per cui gli adulti
lasciano perdere ogni insistenza, e intanto in effetti passa un po' di tempo.
Noi facciamo loro tanti sorrisi e saluti con la mano, e insomma dopo un bel po'
le bimbe si convincono e dispiaciute si rassegnano a liberarci.
Dunque dopo aver
salutato i genitori, Teresa, Patricio, Sisa, Luz, e tutti quanti della famiglia
ripartiamo subito per il nord, la strada ora è migliore, c'è un bel sole.
Abbiamo un po' di dubbi se andare a Guayaquil e ritornare a nord attraverso la
pianura e la costa. Tra l'altro giorni addietro avevo visto su un vecchio
giornale delle pubblicità, tra cui una che riguardava Guayaquil, dove nel
centro storico, nella ciudadela, c'è un ristorante che si chiama (in italiano):
"casa di Carlo"...e la cosa mi aveva colpito. abbiamo poi deciso di
riprendere la strada dell'andata, e dunque ci fermiamo a pranzo alla stazione
termale di Baños de Cuenca, appena sulle colline fuori città, dove ci sono
piscine con acque calde minerali.
Poi proseguiamo verso Zhud, eccetera, eccetera, a ritroso, e anche qui la strada
è migliorata, forse grazie al poco traffico e alle condizioni atmosferiche,
dobbiamo solo fare una lunga sosta a Chunchi (2754m) e così intanto vediamo
l'affaccendarsi per il mercato locale, e torniamo ad Alausì dove ceniamo con
dei pansitos comprati in panaderia e passiamo lì la notte.
lunedì 31
Colazione e via, arriviamo a Riobamba dove cerchiamo Manuel Pumaquero
all'istituto, e poi alla "Casa Indigena" (dove in cortile c'è una
gigantografia di Taita Proaño, il primo vescovo amico degli indios)... ma
purtroppo anche lì non lo troviamo. In periferia, in una strada laterale quasi
deserta, vedo una donna indigena che si genuflette in ginocchio sul marciapiede
e si dondola un poco. Chissà che stava facendo...
Ripartiamo.
Compiamo una penosa e lentissima attraversata della moderna città industriale
di Ambato (che in questi ultimi vent'anni ha caoticamente quadruplicato il
numero di abitanti).
Dopo Lasso
usciamo dalla Panamericana e giriamo verso l' hostal della "Quinta Colorada"
in campagna, e ci fermiamo lì. Siamo circa sui 3200/3300m. C'è il caminetto in
camera, che ci accendono per la sera (abbiamo 4 coperte di lana ciascuno), e
anche nella sala dove mangiamo. Piatti locali con cibi prodotti in loco. Siamo i
soli tre clienti in questo autentico agriturismo che si chiama così perché è
effettivamente tutto dipinto a colori forti e vivaci, con allegri affreschi un
po' naif sui muri esterni raffiguranti le montagne, i laghi, i vulcani.
All'interno le pareti sono giallone, arancioni, rossastre, blu, color mattone.
La famiglia che vive e lavora qui è accogliente, stanno facendo seccare al sole
i chicchi di mais su lenzuoli stesi sul terreno del cortile, e anche questo da
un bel colore giallo, accanto alle aiuole di fiori. Dopo averle sgranate, le
pannocchie (choclo) le conservano per accendere il focolare nei camini, e per
avere la brace. Anche qui tutto è fatto con quello che offre l'ambiente, per
cui le verdure, la frutta, il latte (e anche il riscaldamento) sono il risultato
del loro stesso lavoro. Ci sono delle mucche, dei maiali, dei conigli, delle
galline, un grande orto. In questo modo ci sono ben poche spese vive, e poco
viene comperato, sicché ogni unità famigliare (proprio come era a Saraguro e a
Peguche e in altri villaggi dove si facevano da sè i vestiti e il vasellame)
tende ad essere autosufficiente, e non da contributo alla economia monetaria. Le
due economie vivono parallelamente, ma poco si toccano.
La padrona della
Quinta è una francese che anni fa si era stabilita qui, ma poi dato che il
bimbo si ammalava facilmente, è tornata in Francia e viene a dare una occhiata
ogni anno e mezzo o due (ma ora sono però già 3 anni che non si fa vedere...).
Ci sono ancora qua e là vecchie riviste e giornali francesi cui si attinge per
accendere il fuoco, ma ora anche questi stanno per finire.
Loro hanno
imparato ad utilizzare il fax e usano la lavatrice solo per i clienti, per il
resto vivono come se la proprietà fosse loro, tutto quel che c'è l'hanno fatto
loro, tutto l'ambaradan dell'albergo e ristorante la portano avanti loro, fanno
buon nome all'agriturismo, sanno come trattare e provvedere ai clienti
stranieri, e proseguono con le coltivazioni, nell'allevamento, eccetera.
Accompagnano con una 4x4 gli escursionisti e gli andinisti (ci sono anche molti
vecchi opuscoli e libri sull'andinismo) che vengono qui per andare sulle alte
montagne (che loro conoscono a menadito), e rispondono al telefono. E intanto la
famiglia cresce, i figli diventano grandi, e si sposano, e la famiglia si
allarga... Loro sono originari di un paesino su in alto, dalle parti della
laguna di Quilotoa (che è un lago che riempie un cratere del vulcano a 4 mila
metri, dove quindi, purtroppo, non andremo) ma oramai da decenni vivono qui
nell'altipiano.
Appena fa buio
esco e vedo il Cotopaxi con le nevi rischiarate dalla luce lunare ! è proprio
una dea stupenda e magica! la sua luce azzurrina non è forte come quella
solare, ma crea effetti argentati sui ghiacci, e illumina tutta la grande
vallata.
martedì 1°
settembre Al
mattino facciamo subito un giretto per godere del bel panorama del Cotopaxi
visibile in tutto il suo splendore.
Ma la strada
recentemente asfaltata, a un certo punto non prosegue, per lavori in corso,
proprio si interrompe. Torniamo indietro.
Si vedono bene
anche i due vulcani spenti Ilinizas (5263 m.) innevati, uno dietro l'altro,
quello a nord e quello verso sud, come fossero dei gemelli.
Stiamo in
giardino a leggere. Verso le cinque emmezza andiamo a fare una bella passeggiata
serale lungo le fattorie. Silenzio, qualche abbaiare di cane, o muggire di
mucca, e più sotto si può vedere tutta l'ampia vallata della "avenida de
los vulcanes", con la vista di tutte le larghissime falde del Cotopaxi,
semideserte,in lontananza sulla sinistra il Rumiñahui, roccioso e granitico...
Anche stasera
l'aria è bella frizzante e pulita, energizzante, ed è così tersa che poi col
buio le stelle spiccano splendide e la neve del ghiacciaio che fa da scialle al
vulcano, riflette con effetti azzurrognoli la grande luna ormai praticamente
quasi piena. Che incanto! Gran peccato non poter fare una foto, ma il ricordo
resterà impresso ugualmente. Ma come non potrebbero sorgere da qui dei miti,
delle storie, delle leggende, delle canzoni...delle poesie... E anche
generazioni di scrutatori del cielo stellato, e della luna...?!
mercoledì 2
Ripartiamo, andando più a nord vediamo le due cime Ilinizas ben
separatamente. Superiamo la parte alta della strada (che è a circa 3500m) e poi
passiamo oltre il rifugio del Papa Gayo (3300m) tenuto da un israeliano. Poi,
scesi e arrivati a Tambillo, facciamo un po' fatica a vedere dove prendere il
bivio a destra. E scendiamo infine sino a Sangolquì (2550m). Ci sistemiamo
nella bella "hostaria Sommergarten", dal nome del tedesco che l' ha
fondata nel '90. Qui predomina il clima mite e ventilato della valle de los
chillos, dove c'è la primavera eterna. Bel giardino molto fiorito e vista su
montagne (dovrebbero essere il Sincholagua, 4900, e senz'altro il grande vulcano
Antisana, 5760, e chissà quali altre), che spuntano dietro i fiori e le palme
del giardino con piscina all'aperto.
Andiamo nel
pomeriggio tardi a cercare un Parco forestale, girando ad Amaguaña su per una
cosiddetta "via lastrada" che è invece un sentiero sassoso pieno di
buche in salita con il problema di molte pietre e pietrone sconnesse che
risultano un impedimento e sono pericolose per la coppa dell'olio...Andiamo
verso la Reserva Natural (a 2880m) della foresta di Pasochoa (che è un monte di
4200m.). E' stata fondata nel 1997, ed è una vera rarità, perché sarebbe quel
che rimane della foresta originaria della valle andina tra le due cordigliere, e
che oramai è stata distrutta o soppiantata. Ad un bivio come al solito senza
cartelli c'era una coppia di anziani seduti fuori dalla porta di casa, che erano
come in catalessi con lo sguardo fisso, dopo un po' che chiedevamo loro conferma
della strada, lui si è come risvegliato, e ha tradotto a lei in kichwa, a quel
punto lei ha risposto in spagnolo "sigue recto", e lui ugualmente, in
contemporanea. Più oltre, prima di alcune casupole, c'era un cartello che
incredibilmente intimava di rallentare, poi una signora ci ha confermato che
proprio quella era la strada, dicendo il solito "sigua no màs"
(=prosegua e nent'altro). Quindi abbiamo incontrato un sorprendente
"mini-market", e un'altra coppia estatica e silente, e un anziano
seduto, che solamente studiava il terreno ai suoi piedi, o forse era un po'
sordo... Varie vacche sulla "strada", cavalli, cani randagi, un mulo
con dei lunghissimi peli, un llama, ecc. Infine giunti alla meta, il guardiano
molto gentile ci saluta. Qui ci sono più di 150 razze di uccelli, tra cui
moltissime varietà di colibrì, dai più minuscoli ai più grandini, e tra
queste quello con il becco più lungo al mondo (essendo lungo tanto quanto il
corpicino). Poi gli ho chiesto se avevano un "triptico" della riserva
(cioé un foglietto illustrativo, un dépliant), ma mi dice che l'avevano
esaurito già da molto tempo. Non hanno mai riassestato la strada d'accesso
almeno fino al centro di accoglienza, e neppure mai ristampato i foglietti
illustrativi. Quando sto per andar via, però il guardiano mi dice che gli era
rimasto un librino sulle specie locali di uccelli, e me lo
vuole regalare... E poi torniamo pure indietro sempre per quell'unica via
di sassi... un po' "svelti" per cercare di arrivare prima del buio,
tra sobbalzi, balzelloni, buche, e sonori colpi di pietre sotto l'auto, ma va
tutto bene (nel senso che non si rompe la coppa dell'olio sotto lo chassis).
All'hotel ci
attende un amico del proprietario, un bavarese di nome Tino, che è un biologo
(era lui che ci aveva consigliato la gita), che suona benissimo la chitarra
classica (e anche sue composizioni) e ci regala un bel concerto all'imbrunire
(ora lui è in pensione e si è ritirato qui, e saltuariamente fa la guida nelle
foreste della zona, e nella selva amazzonica). Che pace, che armonie...
giovedì 3
Al mattino vediamo il bel mercato animale e alimentare di Sangolquì,
assolutamente non turistico, anzi un mercato povero, è interessante ma ci
stanca un po' la ressa, il sole forte, e il gran caos.
Ripartiamo per
arrivare a Quito e sistemarci nell' hostal Posada del Maple. Restituiamo l'auto
all'Avis. Reincontriamo per strada il romagnolo del ristorantino di Baños (!),
che ci riconosce mentre stiamo salendo su un taxi.... Andiamo nel mercato
artigianale La Mariscal dove Ghila fa gli ultimi acquisti di souvenir o di
regalini, e io mi compro un bel cappello di feltro per riparare alla perdita del
precedente.
A cena andiamo da
Giovanni Onore, reincontriamo la Queti, e le due ragazze. Mi piace il motto del
fondatore della loro congregazione, il beato padre Chaminade, che leggo nella
cappelletta interna: "L' essenziale è l' interiorità. Attuate quel che vi
dice". Siccome poi stiamo assaggiando della cioccolata di sua produzione, e
anche dei mieli, e commentiamo i loro sapori, a parte quel che si sa già a
proposito delle virtù del cacao e della cioccolata, lui ci dice che il miele
non lascia penetrare germi, e comunque questi non sopravvivono, per cui una
volta se ne spalmava un po' su una ferita aperta per prendersi il tempo di
andare dal medico. E qui in Ecuador ci sono dei mieli ottimi. Mangiando Onore ci
parla del fatto che che ci sono centinaia di varietà di patate, che maturano in
periodi differenti, oltre ad alcune di cui si fanno due o tre raccolte l'anno,
per cui nell'arco dell'anno sempre ci sono nuove patate (anche se vanno trattate
e cucinate diversamente, e sono di qualità non sempre eccellente). Ripenso al
curioso incrocio che ci fu cinque secoli fa, quando gli europei portarono germi
sconosciuti in America (in particolare il vaiolo), che causarono un vero e
proprio falcidio della popolazione (addirittura in un secolo del 75% degli
indigeni andini) degno per gli effetti demografici delle peggiori pestilenze e
epidemie che in quei tempi flagellavano l'Europa; mentre l'America apportò agli
europei (oltre a oro e argento), le patate, e vari altri alimenti allora
sconosciuti, che consentirono la crescita demografica e salvarono la vita a
tanti poveri che sarebbero stati a rischio di morir di fame durante le carestie
(oltre alla prevenzione dello scorbuto dovuta anch'essa alla pelle delle
patate), per cui in meno di due secoli la popolazione dell'Europa occidentale si
accrebbe di circa tre volte (anche per altri concomitanti fattori)...
E poi, come la
volta scorsa in cui ci eravamo visti, Onore ci dice che lui si occupa di
bio-indicatori del riscaldamento termico (cioè animali, soprattutto insetti, ma
anche piante e vegetali particolarmente sensibili e a rischio). Per arrivare a
dire che quando si estingueranno le api, scomparirà anche la specie umana per
vari motivi interconnessi. Di api ce ne sono moltissime varietà, in Ecuador c'è
persino un'ape senza pungiglione, che si difende in altri modi, con mezzi
chimici. Tante specie si sono estinte già nel solo corso della sua vita di
studioso, tra cui alcune specie rare che lui stesso aveva scoperto e
identificato.
(Quando poi
torneremo in Italia, leggerò di Onore nel libro di viaggio di un o scalatore e
alpinista, V.Mason, "La via dei vulcani" (Nordpress, 2007), da cui
verrò anche a sapere che la Rai aveva fatto tre-quattro anni fa un paio di
documentari su Otonga e su Onore).
Salutiamo e gli
lasciamo varie cose, abiti, medicine, ecc per chi ne può aver bisogno.
venerdì 4
Andiamo di nuovo alla Casa della Cultura, alla cinemateca dove Ghi parla
con la direttrice Wilma Naboa. Poi ci incontriamo di nuovo con Manuel Pumaquero,
che era a Quito all' Instituto Intercultural Amautay Wasi. Lo aspettiamo, ci
sediamo sul prato del parco di fronte, c'è molto vento, mentre io vado a fare
due passi verso il vicino Osservatorio astronomico, sento uno strano cigolio e
poi un rumore secco, mi giro e vedo che per poco non cascano addosso a Ghila e
Annalisa due palme (!) che si spezzano per il vento e vengono abbattute al
suolo...! ma davvero per appena un paio di metri non sono state travolte...
Andiamo con lui a
pranzo al ristorante vegetariano "Sakti", consigliatoci da un suo
simpatico amico che viene appositamente a prenderci e ci accompagna là in auto.
In quel ristorante incontriamo la signora Wilma della cinemateca (!) che dice a
Ghila che ha dimenticato là la sua maglia...
Manuel Pumaquero
ci racconta che quando lo cercavamo a Riobamba, lui era stato via alcuni giorni
con tre amiche, dormendo in tenda in una foresta sacra durante i tre giorni e
notti di luna piena ! Un bosco di arrayanas, ce ne sono ancora solo altri due
nel mondo. Dice che hanno fatto delle cerimonie presso dei resti antichi, e che
lo spirito della montagna gli ha parlato. Gli diciamo che noi poi eravamo andati
al Pasochoa, dove c'è il colibrì dal becco lunghissimo, ma che ovviamente non
abbiamo visto. E allora lui dice che Tulcàn el kindi, cioè quel colibrì col
becco più lungo, è un animale sacro ed è per loro un simbolo culturale, è
rappresentato in quel famoso disegno gigantesco che si trova nella pampa presso
Nazca. Gli diciamo anche di quando eravamo al mercato del bestiame fuori Otavalo,
e si vedeva taita Imbabura con delle nuvole sulla cima, tutte rosse per il sole
che sorgeva dietro, uno spettacolo affascinante, e lui dice che si chiama
uruchungar quel "fuoco" delle cime dei monti, che appunto segnala la
presenza dell'Apu, dello spirito della montagna. E che secondo le leggende in
quelle occasioni i monti a volte si scambiano espressioni di vita (cioè
mandrie, greggi, uccelli...!).
Vede che giriamo
con una sportina di plastica e gli dico che ci portiamo dietro dei giocattolini
da regalare ai bambini poveri, e che a volte persino dei ragazzi grandicelli che
fanno i lustrascarpe li hanno presi ed erano tutti contenti come fossero dei
bambini. Ci dice che lo può ben capire perché anche lui da ragazzino ha fatto
quella vita per più di un anno gironzolando da mattina a sera come un vagabondo
per le strade, con la sua cassetta di legno per lustrare le scarpe, ma era così
che si guadagnava da vivere...Penso allora a quanti sacrifici ha evidentemente
dovuto fare per studiare e per conquistarsi la sua professionalità.
Poi lo
accompagnamo in una allucinante corsa in taxi fino al Terminal Sur che sta fuori
città, modernissimo, enorme, sperando che questa volta non perda un
appuntamento importante che ha a Riobamba. Ci saluta con grandi abbracci e ci da
sul palmo della mano sinistra alcune foglioline di "coca madre" da lui
stesso raccolte, che tiene in un piccolo sacchettino apposito. Ciao Manuel,
yupaichani! grazie. Speriamo di rivederci!
Qui nell' immenso
viavai di grandi folle, reincontriamo quella signora con figlioletta che
all'andata avevamo incontrato a Latacunga (!), che lavora a Milano, anche in
questo caso è lei che ci riconosce, e ci chiama. Poi torniamo in centro storico
e andiamo a Plaza San Francisco, e lì nella grande piazza reincontriamo i
catalani Conxita e Jordi che domattina partiranno (!). Chiacchieriamo assieme di
viaggi al bar Tanguez prendendo un mate de coca.
Per tornare in
albergo facciamo il record di taxi persi, e allora, rassegnati, prendiamo in
plaza santo Domingo il "trole", cioè il lungo tram ecologico che fa
da metro di superficie. Prenderemo poi un taxi per andare dalla fermata al
nostro Hostal. Intanto regaliamo tutti gli ultimi giocattolini che avevamo
portato.
sabato 5
Stamattina Annalisa cade da un gradino e si storta la caviglia, per un
bel po' non riesce a camminare, la signora le da un bastone. Mangiamo da una
cilena che ha appena aperto un ristorantino all'angolo.
Al pomeriggio
viene a trovarci in albergo Giovanni Onore con le due ragazze, perchè è appena
arrivato da Otonga dove ha preso su in auto la bimba Kerly e sua mamma, per
farci incontrare. Commovente. Sia la bimba che la giovane mamma erano ovviamente
spaesate (lei aveva freddo, non è abituata alle quote di Quito), forse non
erano mai state dentro un albergo, e comunque già l'ambiente della grande città
le sconcerta. Ma comunque non erano timide, comunicavano e rispondevano bene,
sempre in modo educato. La mamma è vedova con tre figli, e sopravvivono col suo
lavoro di preparare e confezionare in casa sacchetti di noccioline....
Intanto ci
racconta di aver visto ieri nella foresta di Otonga la farfalla della razza più
grande del mondo, e ci fa vedere le foto fatte col cellulare, ha le ali grandi
come una mano aperta, e un corpo incredibile, era adagiata su un tronco d'albero
e molto ben mimetizzata. Dice che ancora non si sa bene dove vadano a deporre le
loro uova, né come avvenga la riproduzione, né di cosa si cibino....Ci sarebbe
davvero tanto ancora da ricercare e da studiare nella selva...
Regalo dei
campioncini di profumini alle ragazze. Lascio a Onore per la gente di Otonga un
borsello e un paio di scarpe.
Facciamo le
nostre tre valige, e dobbiamo abbandonare varie cose, libri (romanzi e guide
turistiche) per risparmiare spazio e soprattutto peso, perchè annalisa certo
non può portare nemmeno una delle nostre tre valige.
domenica 6
Al mattino si parte. Saluti al telefono alla piccola Kerly.
Al controllo di
frontiera sono molto scrupolosi e fanno grandi controlli in uscita (??) oltre al
fatto che devi pagare una bella tassa per poter uscire....!! Un po' mi tornano
in mente quei discorsi che riportavo proprio all'inizio di questo diario. Tanto
che a un certo punto, dopo aver fatto il check-in, consegnato le valige, e
pagato in un apposito ufficio la famosa tassa, la guardia di confine che mette
il timbro di uscita, cui avevo consegnato i nostri tre passaporti insieme
dicendo che siamo un'unica famiglia, controlla bene i nostri volti, vede
annalisa sulla sedia a rotelle e ghila che arriva piano piano, e dopo averlo
apposto al passaporto mio e di annalisa, si mette a supercontrollare quello di
Ghila e impiega parecchio tempo, a cercare sul suo computer, e fare non so che
verifiche, e dopo aver minuziosamente studiato il passaporto, premendo con
l'unghia la parte plastificata sopra alla prima pagina, ed essere anche andato
da un superiore a chiedere chissà cosa, sentenzia: "la figlia non può
lasciare il Paese". Come? Faccio finta di non aver capito, e dico: abbiamo
il timbro d'entrata in data 8 agosto (come a voler dire, ma se ci hanno fatto
entrare avranno pure controllato il passaporto, no?...). Dice: "la figlia
non può viaggiare all'estero!" Punto. E fa per chiamare i prossimi. Come
se la sua incombenza da burocrate fosse faccenda oramai chiusa.....Allora chiedo
alla signorina che accompagnava annalisa spingendola sulla sedia a rotelle, di
farsi spiegare meglio che difficoltà c'è. Dice che il passaporto è scaduto
dal giugno 2007,... allora giro la pagina e faccio vedere che nel retro c'è
stampato "rinnovato al 2012"...Per fortuna che rinnovato in spagnolo
si dice renovado...quindi in italiano non è così diverso e difficile da
decifrare come in finlandese o in ungherese...prende, mette il timbro d'uscita e
chiama il prossimo. Waw ! (= uahuuu...), o come dicono nei fumetti anche fiuuuu!...
Da noi se uno non
ha il passaporto in corso di validità non lo fanno entrare, oppure lo espellono
dal paese. Altrimenti in questo caso, noi che avremmo fatto? noi due con già il
timbro di "usciti", e Ghila, senza più la valigia, che avrebbe dovuto
fare? avrebbe dovuto tornarsene fuori dall'aereoporto per andare al consolato
italiano ???? e così perdendo l'aereo e lasciando scadere il biglietto di
ritorno??? Ma allora chi è che al nostro arrivo aveva controllato il suo
passaporto e la aveva lasciata entrare?....
Chissà cosa
doveva essere l'arroganza durante il periodo della dittatura dei militari, tutta
gente con quella mentalità lì...(D'altronde basta leggere alcune pagine del
libro di Giovanni Ferrò, "Taita Proaño, l'avventura di un vescovo tra gli
indios dell'Ecuador", pubblicato dal Gruppo Abele, per rendersene conto).
Comunque tutto
bene in aeroporto per i problemi di annalisa e per portare le valigie, c'è una
buona assistenza, meno male.
Poi durante la
sosta a Bonaire nei Caraibi, anche questa volta per ingannare il tempo andiamo a
vedere fuori, e curiosiamo nell'area di transito del piccolo areoporto guardando
fuori dalle vetrate, è anche stavolta tutto nuvolo, e uno mi dice che è
spessissimo nuvolo, il caldo è quello paradossalmente ventoso e afoso tipo come
quando uno sta troppo vicino al foen (ma che ci verrebbe a fare uno in questa
isoletta assurda? fino qui per "abbronzarsi" sul bordo di una
piscina??).
Lunedì 7
Infine lunga esasperante e spossante attesa di 9 ore all'aeroporto di
Amsterdam........, dove l'unico intrattenimento per cercare di far passare il
tempo in questo non-posto che è come essere in un centro commerciale, è
l'incontro con una famiglia di ebrei francesi fanatici religiosi con cui
annalisa si intrattiene un po' a conversare e fare domande (e a dover dare
risposte alle loro domande)...
Infine arriviamo
a Bologna nel pomeriggio; ci viene a prendere Michele (e anche la Maddy, mia
cara ex studentessa, amica di ghila).
Qualche giorno
dopo ci giunge una bella letterina da Kerly con un disegno colorato. E a seguito
di una mia mail di considerazioni sull'equinozio inviata a Manuel Pumaquero,
nella sua risposta ci parla della giornata del 21 settembre, con le feste del
Koya Raymi che sono dedicate alla Terra e a tutte le sue manifestazioni, e
dunque alla spiritualità della femminilità, con un
omaggio alle donne, e un bagno rituale in una fonte (pukyu) per celebrare
la bellezza dell'elemento cosmico femminile. Ah! che peccato non esserci
stati...
Ecco che già un
po' di rammarico per la brevità del nostro soggiorno, si tramuta
alchemicamente in nostalgia, e in un rinforzo di una sorta di sentimento
di attaccamento affettivo, per cui incomincio a partire mentalmente in
"viaggi" verso quell'altrove che diviene come un po' favoloso e
magico.
Proprio a un mese
esatto dal nostro rientro, ecco che compare a Ferrara un personaggio che viene a
tenere una conferenza sulla spiritualità aborigena indoamericana, con anche
qualche esercizio di respirazione e di meditazione e una cerimonia finale...e
ritrovo un po' quel che avevamo lasciato. Mi è sembrato anche questo come un
"saluto di collegamento". Ecco, anche essendo qui, un minimo di
continuità permane.
Chissà se riusciremo a far venire qui Manuel...? potrebbe fare da "ambasciatore" culturale degli indigeni andini...
Carlo Pancera
Le foto http://utenti.unife.it/carlo.pancera/mywebalbum/index.html