Colombia
(voglia
di libertà dolceamara)
Diario di viaggio Inverno 2013
di Erik Viani
Dopo anni di assenza, cresceva sempre più la voglia di un ritorno in sud America . Iniziava ad essere un’astinenza che, per diversi motivi, mi emarginava da questo meraviglioso continente. Rimaneva solo un quesito da sciogliere: quale meta scegliere?
Quell’aria
calda ed umida, quasi soffocante, tipica delle foreste equatoriali; quella
musicalità che rievoca un mix di ritmi africani conditi da strumenti latini;
quel mare color zaffiro dove, alla prima soffiata di vento, si trasforma in
smeraldo e quelle montagne che raggiungono le nuvole come nella mia Valtellina,
erano le caratteristiche ideali cui andavo alla disperata ricerca, lontano da un
rigido inverno e da paesaggi siberiani completamente imbiancati a perdita
d’occhio.
In
controtendenza alle opinioni di molta gente mi orientai sulla Colombia e mai
scelta fu più azzeccata.
Potendo
ammirare un paesaggio che comprendeva tre zone climatiche ben differenti e
distinte tra loro: le « tierras calientes » (calde), le « tierras templadas
» (temperate) e le « tierras frias » (fredde), avevo solo l’imbarazzo della
scelta per disegnare l’itinerario che meglio si avvicinava ai miei ideali
senza trascurare la storia che ci ha consegnato città meravigliose come
Cartagena e Salento.
Mi
ero chiesto inoltre quanto poteva essere la distanza tra diceria e realtà, tra
il potere del convincimento di cultori della superficialità e di chi descrive
la propria esperienza vissuta e toccata direttamente con mano.
Questo
viaggio mi ha fatto capire che il confine è ancor molto lontano.
Si
pensa alla Colombia come quel Paese pericoloso e pieno di contraddizioni . Alla
pari del Nicaragua è uno stato giovane che esce da anni di conflitti interni e
lacerazioni sociali : i cartelli del narco traffico di Medellin e Calì, le
lotte per le espropriazioni delle terre ai nativi ad opera di latifondisti senza
scrupoli, la corruzione nelle alte cariche politiche, ne sono da triste esempio.
Inconfutabile è il fatto che sino a pochi anni fa la situazione a livello di
sicurezza era insostenibile ed il governo precedente, facendo seguito
l’attuale, avviò un colossale programma di epurazione investendo grandi
capitali per ristabilire l’ordine pubblico mobilitando esercito e polizia dove
tutt’ora presidiano ogni angolo del proprio territorio.
01/03
Mi
trovo in un ostello della capitale e ricevo un vademecum di consigli ed
informazioni su come muovermi senza difficoltà in città ma ho un rigetto per
le metropoli , con il loro : chiasso, confusione ed inquinamento soffro solo il
loro disagio e sconforto. Voglio bypassarla al più presto per poi immergermi
nella frescura della zona andina con una prima tappa nel triangolo del caffè
per poi tuffarmi nel profondo blu della costa del caribe.
02/03
Uscito
dalla città subito il verde e la naturalezza prendono il sopravvento sul
grigiore della capitale e l’umidità, portata dalla pioggia della notte
precedente, esalta i profumi rilasciati dal terreno. Un misto di eucalipto, caffè
e frutta esotica con sensazioni mai percepite prima .
Sale
la voglia di penetrare sempre più all’interno di questo territorio che piano
piano rivela ogni suo segreto.
Faccio
tesoro di un consiglio suggeritomi da una guida locale per recarmi al canyon de
Combeima, a mezz’ora di strada da Ibaquè.
Non
conosco nulla di questa zona né tantomeno trovo appunti che mi possano aiutare.
Mi faccio trasportare dalla semplice curiosità.
Raggiungo
la meta dopo circa cinque ore di auto ad andatura panoramica e subito mi
colpisce l’ospitalità della gente locale. Prenotai dall’Italia uno chalet
isolato a mezza costa ma le piogge insistenti di alcune settimane precedenti il
mio arrivo hanno trasformato la strada sterrata in un acquitrino rendendola
impraticabile se non a dorso di muli o con jeep a quattro ruote motrici . Un torrente d’acqua, altezza cosce,
attraversa la carreggiata in un punto ben preciso lungo un piccolo smottamento
di terreno tracimato a valle. Senza alcuna esitazione riprendo il percorso lungo
la strada principale arrivando sino a “El Silencio”, l’ultimo agglomerato
di case abitate prima dei sentieri che proseguono per le vette più alte della
Cordigliera centrale andina .
Realizzo
subito che io e le mie compagne di viaggio, che mi hanno seguito da Cesena,
siamo gli unici stranieri nella circostanza. La cosa non mi rammarica, anzi, mi
dà la possibilità di catalizzare maggiore attenzione rendendo più spontanea
la convivenza .
Ho
subito voglia di far ballare i piedi scaldandoli lungo il sentiero che porta al
Nevado del Tolima. E’ un percorso che dura nel complesso un paio di giorni ma
voglio solo misurare il grado di difficoltà iniziale. Il percorso in effetti è
impantanato e sconnesso. Di tanto in tanto incrocio qualche cavallo che, con i
suoi zoccoli, sprofonda nella poltiglia e mi trovo obbligato a guadare alcuni
ruscelletti formatisi con le piogge precedenti. Il paesaggio circostante mi
assale dal fitto della vegetazione ma l’orario, ormai prossimo al tramonto, mi
impone un malinconico ripiegamento . Rientro alla base accelerando il passo in
discesa con il risultato di uscirne con le scarpe completamente inzuppate di
fango sino alle caviglie.
Giunto
a “El Silencio” mi fermo ad una bancarella di locali e la curiosità mi
spinge ad acquistare un sacchetto di foglie secche di coca da masticare o bere
come infuso.
03/03
Diamo
appuntamento alla nostra guida alle dodici e, nel frattempo, decidiamo di
dedicare l’intera mattinata ad un’escursione sino a “El Rancho” a quota
2600 mt raggiungibile dopo una mezz’ora di strada mista asfalto/sterrato con
una jeep ed un’altra mezz’ora a piedi lungo un sentiero con attraversamenti
di torrenti su passerelle simili a ponti tibetani . El Rancho è una prima tappa
con tanto di campo tendato, ristoro e bagno termale per l’avvicinamento al
Nevado del Tolima . Questa vetta è un vulcano inattivo che, con suoi 5600 mt di
altezza, è la terza più alta del paese e il più meridionale di una catena di
coni vulcanici presenti all’interno del Parco nazionale de Los Nevados. Con il
vicino Nevado del Ruiz, questo vulcano costituisce il cuore della Cordigliera
centrale, che ospita alcune tra le cime più alte ed imponenti della Colombia.
Purtroppo
il tempo non è di buon auspicio e la pioggia comincia a scendere proprio poco
prima il nostro arrivo a destinazione ma, alla vista della sorgente di acqua
termale, mi torna il sorriso immergendomi copiosamente nel tepore in completo
abbandono. Non fosse per l’impegno preso in precedenza me ne starei ore ed ore
nel relax assoluto ma devo rispettare i tempi ed allora procedo con passi sempre
più decisi lungo la discesa del rientro. Giungo al parcheggio e decido di
correre gli ultimi dieci chilometri , tanto traffico non ce n’è se non
qualche sporadico ciclista domenicale, sino a destinazione.
Arrivo
a “El Silencio” dopo 45 minuti di corsa frizzante in leggera discesa .
In
attesa del resto del gruppo mi rinfresco con una doccia fredda (acqua calda
neanche l’ombra) ed assaggio un infuso di foglie di coca il cui effetto lascia
solo una leggera anestetica sensazione alla
lingua.
Mi
ricongiungo con gli altri amici e subito ci dirigiamo verso Salento. La strada,
sino a Cajamarca è gradevole ma , passato il paese, inizia un tormentato passo
di montagna sino a circa 3000 mt di quota con un traffico pesante mai visto in
vita mia. Non è un viaggio ma un’odissea lunga un centinaio di chilometri
lungo i quali incrocio bisonti della strada di ogni stazza e portata.
Trascorriamo il tempo fotografando il mezzo più originale e quello più
sgangherato ad una media di 30km orari. Lungo alcuni tornanti incrocio alcuni
ragazzi che, sventolando un fazzoletto rosso, dirigono il traffico in entrambi
le direzioni dando precedenza agli autoarticolati in salita giustificato da il
fatto che, qualora dovessero fermarsi, chi li farebbe ripartire in salita?
Finalmente
scolliniamo e si apre innanzi noi una vallata che si disperde in lontananza sino
a scorgere la cordigliera andina che la cinge da ogni lato.
Dopo
circa quattro ore raggiungiamo Salento immersi in una pace e tranquillità
assoluta. I suoi viali riconducono alle città tipiche coloniali spagnole di metà
‘700 come Granada in Guatemala o Leon in Nicaragua ma in scala molto più
ridotta. Vi è un buon clima ed una tranquilla movida che riempie le strade nei
fine settimana, merito anche ad un turismo interno che affluisce numeroso dalle
vicine città dell’area del Caffè come: Armenia, Pereira e Manizales.
Dopo
una cena a base di carne e pesce d’acqua dolce, la trota salmonata è un
grande risorsa ed è sempre presente nei menù locali, trascorro la serata a
“El Tejadito”, il locale più in voga della città bevendo un caffè nero
pece e sorseggiando un buon rum “Medellin” di 3 anni. E’ un buco dove
fanno musica live con luci molto soffuse ed una animata frequentazione di
turisti e giovani locali . Peccato che già alle 21:00 vige un virtuale
coprifuoco durante il quale si spegne la musica con le sole candele accese che
rimangono sui tavoli a creare un’atmosfera retrò ma, senza la vera sostanza
del ritmo e calore latino, il locale perde la propria essenza . In tutto il
quartiere più trafficato la vita va via via scemando con il calar delle tenebre
diventando i cani randagi i veri padroni della notte.
04/03
“Un
angelo a quattro zampe motrici”
Si
parte di buon mattino e dopo mezz’ora d’auto raggiungiamo Cocora a 2390 mt
di altitudine.
E’
una giornata uggiosa con un cielo plumbeo ed una luce fioca . Purtroppo i colori
di questa splendida vallata, contigua al parco nazionale Los Nevados, oggi non
risaltano in tutte le loro caratteristiche ed espressioni.
La
mia intenzione è raggiungere Acaime a più di 4 km di salita fermandomi ad
aspettare gli altri per poi ridiscendere da “La Montaña” percorrendo un
circuito ad anello di circa 12 km di saliscendi in cinque ore circa , stando
alle segnalazioni delle guide locali .
Iniziamo
a camminare per il sentiero che attraversa tutta la vallata sino a raggiungere
la foresta. Il primo tratto è caratterizzato da una grande influenza antropica
con verdi pascoli che si propagano lungo tutta una fascia pre boschiva . Alzando
lo sguardo verso i crinali delle montagne più basse che sovrastano la vallata,
come piccoli fiammiferi, si intravedono lunghe file di palme di cera . Alte sino
a 60 mt, le palme di cera del Quindio rappresentano il simbolo emblematico della
Colombia ed in questa zona se ne trovano un’infinità .
Proseguo
con la mia andatura seminando il resto del gruppo. Il primo tratto è un invito
al sentiero vero e proprio che parte dal fitto della foresta e prosegue sino
alle vette circostanti. Durante il percorso non mancano ponti in corda sospesi
sui torrenti sottostanti i quali aumentano la loro portata durante la stagione
delle piogge ingrossandosi sino a trasformarsi in vere e proprie autostrade
d’acqua.
L’attraversamento
di questi ponti deve essere effettuato in perfetto equilibrio immaginando di
disegnare un’ipotetica linea retta con i passi che si alternano innanzi uno
all’altro altrimenti vi è il rischio di un eccessivo barcollio che rende più
difficoltoso il superamento.
Con
l’avanzare inizia la salita vera e propria lungo un’impenetrabile foresta
sino a raggiungere Acaime. Arrivo poco dopo un’ora e raggiungo una coppia di
escursionisti con una cane che prosegue sino ad un ristoro. Mi accorgo di aver
impiegato meno tempo di quanto pensassi ed allora, leggendo un’indicazione
della successiva località lungo il medesimo percorso, decido di proseguire per
altri 4,5 km. Saluto la coppia accarezzando il cane con un gesto affettuoso e mi
incammino, con una buona andatura, verso la “Estrella de Agua”.
Vedendomi
proseguire, anche l’animale decide di affiancarmi nella salita cambiando
direzione di marcia .
Mi
sento felice d’aver trovato un compagno a quattro zampe a cui, amichevolmente,
attribuisco il soprannome di “El Trucha”, il trota in spagnolo, che non ha
niente a che fare con l’omonimo protagonista, tristemente ricordato per le sue
discutibili vicende nel salotto politico italiano. Il nome, puramente di
fantasia, lo conio prendendo spunto da un allevamento di trote salmonate situato
ad inizio percorso.
Riprendo
il cammino, sempre più impervio e faticoso, e mi accorgo che “El Trucha”
prosegue fiero per alcuni metri senza mai abbandonare la mia vista dove, di
tanto in tanto, vedendomi un po’ più affannato, si ferma e prosegue a mio
fianco. Verosimilmente è lui che detta il ritmo nel tratto più in salita ed è
sempre lui che mi da’ lo stimolo per proseguire nonostante mi trovi senza
acqua e con il respiro sempre più in affanno. I cartelli si susseguono
indicando la destinazione sempre più prossima e, fortunatamente, anche il
sentiero si fa’ più dolce e meno scosceso. Riesco anche ad assetarmi al primo
rigagnolo d’acqua fresca ed insieme al mio inseparabile compagno proseguo
verso la meta. Il paesaggio cambia con l’alzarsi di quota, così come la
temperatura che si abbassa di alcuni gradi . Purtroppo, essendo preda di nebbie
e foschie che mi avvolgono sino a farmi scomparire nel nulla, non riesco ad
osservare un nitido panorama .Fortuna vuole che, con l’apertura della vallata,
al primo soffio di vento, la cappa di nebbia ed umidità scompaiono gradualmente
scoprendo un paesaggio completamente diverso dal precedente. Finalmente, dopo
circa due ore e mezza, leggo il cartello che segnala “Estrella de Agua” ad
un’altezza di 3170 mt. Trovo un ragazzo che mi porge un quaderno per
registrare la mia presenza e mi indica un torrente con alcune cascatelle per
sorseggiare acqua di fonte proveniente dai ghiacciai del Tolima. Mi segue anche
“El Trucha” e poco dopo lo vedo accucciarsi sotto ad un cespuglio per un
meritato riposo.
Non
voglio prendere troppo freddo e la nebbia riprende il sopravvento avvolgendo
nuovamente il paesaggio circostante. Decido, conseguentemente, di rientrare alla
base senza troppi indugi. In silenzio, mi incammino verso valle cercando di non
svegliare il fido compagno ancora fermo nel suo giaciglio. Neanche dopo pochi
metri, lo vedo riprendere il sentiero con un passo ancora sonnolento seguendomi
come un’ombra. Ha tolto la trazione posteriore lasciandomi dettare il passo
ma, tempo di rimettere il motore a pieni giri e me lo trovo davanti come una
guida alpina. La discesa è meno faticosa e lascia anche delle piacevoli
parentesi per alcuni passaggi di corsa alternandomi al comando con “El Trucha”.
Dopo un tornante mi trovo di fronte un colibrì che, incurante della mia
presenza o forse, inaspettatamente, si lascia osservare per alcuni istanti . Non
riesco, ma non voglio neanche fotografarlo per non perdermi un attimo della sua
elegante e leggiadra danza tra un fiore e l’altro. La foresta è invasa di
colibrì ma, osservarlo così da vicino, non potevo neanche immaginarlo nelle
miei fantasie più recondite.
Proseguo
con passo deciso verso il parcheggio con “El Trucha” che mi segue ormai da
ore con una perfetta intesa . Ad un tratto incrocio una fila di cavalli che si
fanno largo con difficoltà nello stretto e sconnesso sentiero, li passo senza
problemi ed aumento il passo incurante del mio compagno. In realtà non voglio
portarmelo appresso sino all’auto per evitare un duro distacco, fatto
sta’che, dopo mezz’ora dal mio arrivo, me lo trovo al seguito di un ragazzo
il quale con un fiero e marcato sorriso mi fa’ vedere alcune foto fresche di
scatto e dice :”Hai visto, questo cane mi ha seguito da La Montaña senza
lasciarmi un istante per tutti i 4 km sino al parcheggio e l’ho fotografato più
volte lungo il tragitto.” Incredibile, l’amico a quattro zampe motrici ha
seguito l’escursionista risalendo nuovamente di quota per poi accompagnarlo
sino al parcheggio.
Non
ci ho messo tanto a capire che “El Trucha” non era altro che l’angelo
custode della Valle del Cocora della quale custodiva ogni suo segreto e lo
lascio con l’ultima, ma sincera, stretta di zampe.
Dopo
circa tre ore d’attesa al parcheggio ritrovo le compagne di viaggio e
rientriamo a Salento per l’ultima cena a base di “Trucha della Valle del
Cocora” e badeja paisa, il piatto tipico colombiano.
05/03
Facciamo
poche centinaia di metri dalla nostra abitazione per raggiungere una tipica
piantagione di caffè di montagna . Caso vuole che la “Finca don Eduardo”,
questo il nome della piantagione, seguisse, per l’intero processo produttivo,
un trattamento con metodo biologico : piante di caffè che crescono con altre
coltivazioni da frutta; scarti che vengono riconvertiti in sostanze nutritive
e/o trasformati in fertilizzanti naturali contro parassiti e muffe; raccolta che
viene eseguita interamente a mano; spolpa tura delle bacche e rimozione della
pellicola che riveste il chicco di caffè che effettuate con ausilio di
macchinari azionati manualmente; essicazione, tostatura e confezionamento
eseguiti direttamente nella piantagione.
Durante
l’assaggio, l’aroma ed il gusto che ne derivano lasciano una prolungata e
gradevole persistenza al palato.
Ripartiamo
a metà giornata disseminando profumo di caffè per tutta la camera la cui scia
ci accompagna per tutto il viaggio in auto sino alle terme di Santa Rosa de
Cabaln, nostra successiva meta.
Il
posto è meraviglioso; troviamo una cascata che forma più salti a far da sfondo
ad alcune piscine termali la cui acqua arriva a raggiungere i 40° di
temperatura. Tutt’intorno è un trionfo della natura con piante e fiori
tropicali di qualsiasi forma e colore che ubriaca la vista .
Trovo
il coraggio e mi butto sotto gli zampilli freschi della cascata per poi
immergermi nell’acqua termale. Questo circuito lo ripeto più volte senza
neanche accorgermi del trascorrere del tempo che, ormai tiranno, si abbatte
inesorabile sulle nostre teste scandendo l’ora della partenza incurabile della
nostra voglia di relax e tranquillità.
Mi
rilasso a tal punto da trascorrere sonnecchiando in auto l’intero tragitto
sino a Manizales.
Questa
città, con più di settecento mila abitanti, funge da vertice alto nell’area
del Triangolo del Caffè e, dopo aver visto le meraviglie della piantagione di
caffè e delle terme di Santa Rosa, non mi dice un gran che; mi offre solo
riparo in ostello per la notte ed il classico bicchierino di rum di fine pasto.
06/03
Riprendiamo
il viaggio dirigendoci verso il grande cono del Nevado del Ruiz all’interno
del parco nazionale Los Nevados. Questo vulcano, tutt’ora in attività, è
soprannominato dai nativi “El León dormido de los Andes colombianos” o
“Kumanday” in lingua indigena, è catalogato tra i più pericolosi nella
zona data la sua natura piroclastica.
Nel
1985, una sua eruzione, con ripetute esplosioni e colate laviche devastò la
città di Armero non tanto distante da Manizales. L'eruzione avvenne dopo
sessantanove anni di dormienza . Quando la colata piroclastica fuoriuscì dal
cratere vulcanico, sciolse i ghiacciai delle montagne, creando quattro enormi
lahar (colate di fango, frane e detriti indotte dal vulcano) che scesero a circa
60 Km/h. I lahar presero maggiore velocità incanalandosi nei sei principali
fiumi alla base del vulcano ed infine riversandosi sulla città, uccidendo più
di 20.000 dei suoi 29.000 abitanti.
Da
poco più di un anno l’accesso al vulcano, lungo una strada percorribile in
auto tra le più alte al mondo, è interdetto, per motivi di sicurezza, a tutti
i turisti. Il percorso è accessibile sino a Brisas, a 4100 mt di quota, dove è
attiva la stazione meteorologica e di vulcanologia che controlla ogni movimento
sismico del grande e irrequieto paziente.
Il
Nevado del Ruiz, con tutta la sua affascinante e controversa natura, rappresenta
il simbolo di questo parco nazionale per la sua fama di killer spietato e nello
stesso tempo per la sua facilità di ascesa durante il suo periodo di riposo.
Sino a 4800 mt di quota si può arrivare in auto dopodiché, proseguendo a piedi
lungo un facile sentiero per altri trecento metri, si raggiunge la caldera.
Questo è il limite della zona di accesso consentita ai turisti. Da questa quota
sino alla cima a 5321 mt d’altezza l’ascesa è consentita solo a guide
esperte previo autorizzazione del dipartimento del parco nazionale Los Nevados.
Non
sempre è possibile vedere la vetta in quanto attraversata da forti venti che
spingono continuamente le nuvole verso questa direzione ma, con un po’di
attesa e un pizzico di fortuna, ogni tanto il sole fa capolino lasciandosi
intravedere per pochi secondi.
Coincidenza
vuole che, oltre la cima, abbiamo avvistato uno dei pochi esemplari di avvoltoi
delle Ande colombiane presenti nel parco. La persona più emozionata per
l’avvistamento fu il nostro autista il quale, durante le sue visite al
Kumanday, non aveva mai visto un esemplare così ravvicinato: “Buon compleanno
Chucho!”, fu il nostro commento.
A metà
giornata riprendiamo la strada che ci riconduce alla capitale. L’idea iniziale
è quella di raggiungere Bogotà attraverso la città di Honda a nord di
Manizales ma, una manifestazione di coltivatori del caffè che protestava per
gli eccessivi rincari del costo della vita a discapito di un prezzo fisso del
loro prodotto all’origine, impediva il passaggio a tutti i mezzi . Le notizie
che giungevano in diretta dalle zone occupate dai manifestanti non lasciavano
alcun scampo; da quel tratto non si passava nemmeno supplicando in ginocchio.
Dietro front e via attraverso Manizales-Pereira-Armenia. Questo significava
ripercorrere quel maledetto scollina mento attraversato dal serpentone di
autoarticolati che riduceva la velocità a 30 km orari di media!
Ritorniamo
a Ibaquè nel pomeriggio e scegliamo una tranquilla pensione lungo la stessa
strada percorsa all’andata per raggiungere il Canyon di Combeima.
Tempo
di riporre gli zaini in camera ed fare una doccia veloce e ci precipitiamo
subito in paese per una cenetta in una tranquilla zona. Lascio rientrare gli
amici in auto e mi fermo per bere una birra in compagnia di un amico conosciuto
in albergo. Si lascia andare a lunghi e introspettivi discorsi descrivendo il
percorso della sua vita in parallelo ai problemi che vi erano in Colombia ai
tempi dei disordini e del caos totale.
“Ero
militare”, descrive l’amico colombiano con una voce timorosa e malinconica
allo stesso tempo, quasi volesse disprezzare il passato ma dando altresì grande
risalto ed importanza a quello che aveva realizzato lungo il suo
percorso:”vedevo i miei commilitoni morire ammazzati per un pugno di pesos. Ti
uccidevano solo per contrasto di ideali oppure perché incorruttibile. Ogni
giorno a Bogotà morivano, per opera di bande armate, decine di innocenti ed io
non potevo fare niente se non difendermi senza mai voltar spalla. Guadagnavo
tanti soldi che poi scialacquavo in rum, cocaina e donne. Il vortice della bella
vita aveva preso il sopravvento sulla coerenza e sul risparmio. Non ne avevo mai
visti tanti in vita mia ma la testa era quella di un bambino che non si
accontentava del vassoio pieno di caramelle. Ne volevo sempre più sino a farmi
cadere i denti dalla carie. Ora eccomi qui, senza lavoro, famiglia e ideali.
Presto servizio in questo albergo di proprietà della zia in cambio di vitto e
alloggio. Lei è l’unica persona che mi dà fiducia e crede in me. Lavoro non
ne trovo e vorrei tanto costruirmi una nuova vita. Chissà, se la zia vende
l’albergo ed apre un ristorante in città magari, assumendomi, riesco a
mettere da parte un po’ di pesos per trovarmi un piccolo appartamento in
affitto.”
Mi
sembra, in parte, di trovare un parallelismo con il nostro stivale, con la sola
differenza che in Colombia, la crisi che stanno vivendo l’Italia e l’Europa
in questo periodo, non è stata neanche sfiorata, anzi, in controtendenza, si
registra una grande crescita in diversi settori, turismo in primis. La stabilità
che si è creata ha dato sicurezza a investitori stranieri dando ossigeno a
società ed imprese in una nuova panoramica di sviluppo.
07/03
Partiamo
di prima mattina verso la capitale per una visita al famoso museo dell’oro
lasciando il nostro abile e fedele autista al suo rientro a Manizales.
Questo
museo è qualcosa di eccezionale nella sua semplicità e percorso storico
accompagnato da suoni ed immagini che rievocavano un fastoso passato con :
effigi, icone, amuleti e maschere intarsiate in oro massiccio e sottratte a topi
e profanatori di tombe.
Fortuna
vuole che il nostro ostello fosse ubicato proprio nel quartiere vicino al museo
e non tanto distante da una trepidante e calda movida notturna; ottimi
ristoranti e numerosi locali per il classico assaggio di caffè colombiano
bagnato da una lacrima di rum Medellin .
08/03
Il
mare ci chiama e noi spicchiamo il volo sorvolando le Ande per raggiungere
Cartagena in tarda mattinata . Subito si avverte un cambio climatico con una
caldo umido ed appiccicoso che costringe a spogliarsi . L’idea non mi
imbarazza, anzi, finalmente abbandono i vestiti nel grande zaino per poi girare
con uno più piccolo e pratico.
Il
nostro ostello è un pertugio in piena bagarre notturna dove, i gatti in calore
miagolano sino all’alba, i bambini vendono platani fritti ballando agli angoli
delle strade e le prostitute iniziano il loro turno mischiandosi con la folla
nei locali .
Passo
il pomeriggio bighellonando lungo le strade del vecchio quartiere aspettando il
calar del sole.
Eccomi
nella “vida loca” di Cartagena e ci sediamo in un ristorante molto rustico
ed accogliente. Le strade pullulano di gente ed ovunque si sente musica latina
ad altissimo volume.
Finalmente
mi rintano in una bettola che da’ nel vicino ostello a sorseggiare un goccio
di rum il cui sapore richiama vagamente le atmosfere dell’epoca in bianco e
nero del secondo dopoguerra, non fosse per la musica assordante di discussa
matrice americana . Esco dal locale ed una donna di facili costumi mi offre
sesso platealmente senza indugi. Ripiego e lei cambia tattica proponendomi
polvere bianca a buon mercato; sorrido e giro lo sguardo oltre la strada
soprassedendo i suoi tentativi d’abbordo. Mi fermo al lato opposto a gustarmi
il via vai di gente che riempie ogni vuoto. L’atmosfera cresce così come i
bicchieri che vado a consumare.
La
notte è ancora lunga ma domani mi attende una sveglia di prima mattina per il
bus che ci condurrà a Tayrona .
09/03
Sveglia
alle 04:30 dopo una notte in bianco e, con ancora addosso il rincoglionimento
per il chiasso e la musica dei vicini locali, prendiamo il bus delle cinque
diretto a Tayrona . La temperatura al suo interno è a dir poco polare ed io mi
copro alla spiccia con ancora il pigiama addosso ed una berretta d’alta
montagna . Il viaggio dura poco più di cinque ore e mezza con fermate
intermedie per il sali e scendi di altri passeggeri . Mi si affianca una ragazza
la quale inizia ad intavolare un discorso al quale all’inizio non attribuisco
grande attenzione. Quando in seguito inizia ad albeggiare e con essa la luce mi
risveglia la vista, mi trovo di fronte ad uno sguardo incantevole con due occhi
scuri e profondi che mi osservano e, probabilmente, la incuriosiscono . Sarà
merito del mio pigiama in pile a righe bianco-gialle oppure del mio sguardo
fantozziano? Fatto sta’ che la sua compagnia mi fa volare il tempo giungendo a
“El Zaino”, località da dove si accede al parco, senza alcuna forma di
stanchezza .
Ci
registriamo e paghiamo una tassa d’entrata pari a 37.500 pesos,
l’equivalente di circa 17 euro.
Dalla
stazione d’ingresso, percorrendo una strada asfaltata per circa 5 km, si può
raggiungere a piedi oppure con furgoncini collettivi Canaveral per poi
proseguire camminando oppure a dorso di cavallo sino alle varie località lungo
il litorale all’interno del parco di Tayrona .
Da
Canaveral il sentiero è in mezzo ad una fitta jungla che, in alcuni tratti,
raggiunge direttamente il mare.
Per
le notti da trascorre nel parco, ascoltando il consiglio di locali e consultando
alcune guide, abbiamo scelto Arrecifes, una baia molto amplia con alcune
“cabanas” e campi tendati .
Trovata
la nostra “cabana” non ci rimane che tuffarci in mare. Appena ci avviciniamo
alla spiaggia un macabro cartello che dice : “In questa spiaggia è vietato
nuotare dato che hanno perso la vita più di cento persone. Non far parte di
questa statistica”, ci avvisa della pericolosità del mare in questa zona. In
effetti, accompagnate da un forte vento, ci sono delle onde immense che sembrano
scoraggiare qualsiasi persona dotata di quoziente intellettivo normale.
Accosto
un sentiero che costeggia il mare per alcuni tratti e proseguo nella jungla per
altri, ma sempre con le onde e la loro schiuma bianca ben in vista .
Dopo
appena un chilometro e mezzo raggiungo “La Piscina”, la prima spiaggia
balneabile e, dopo la stessa distanza, “El Cabo san Juan”.
Questa
ultima località è la preferita da saccopelisti e backpackers provenienti da
ogni angolo del globo. Si respira un’aria randagia, da compagno e cittadino
del mondo. Le espressioni che girano sono molto informali : barbe lunghe e
incolte e capigliature a nido di rondine, vanno per la maggiore. Non mi ci vuole
tanto a mischiarmi con la comunità di viaggiatori visto la mia barba affinata
in botti di rovere e il mio abbigliamento misto sale e muffe locali .
Trascorsa
l’intera mattinata con il sedere appiccicato ad un sedile di un furgoncino,
una volta giunto al parco, non sembrava vero potermi muovere solo ed
esclusivamente con le proprie gambe, cavalli a parte.
Arrivato
a Cabo san Juan ho iniziato a seguire ogni sentiero che portasse a baie nascoste
o luoghi ricchi di significato come il percorso che conduceva per altri 3 km a
“El Pueblito”, un antico borgo abitato dal 450 al 1600 DC le cui rovine,
rimaste ancora intatte, sono rappresentate da basamenti circolari in pietra di
abitazioni tipiche dell’epoca .
Lungo
il sentiero che conduce a El Pueblito è possibile avvistare uccelli variopinti,
rettili e piccoli mammiferi come roditori ed erbivori di piccola taglia .
10/03
L’atmosfera
primitiva e selvaggia che si respira in questa zona mi fa sentire completamente
a mio agio. Ogni giorno percorro scalzo più di 10km tra sentieri in terra
battuta dell’interno e spiagge che si avvicendano l’un l’altra lungo la
costa. Le nuvole nascondono un pallido e timoroso sole ma bastano due ore di
intenso irraggiamento per ricorrere ai ripari dalla forte intensità . Sembra di
vivere in piena armonia con la natura e lontano da ogni possibile inquinamento
antropico. L’aria che si respira all’interno di questo parco è pura come
l’acqua che si beve dai rigagnoli che scendono dalle montagne le quali cingono
il mare a difesa da ogni possibile attacco di calce e cemento.
Con
il trascorrere del tempo mi abituo sempre più alle cose essenziali dimenticando
presto vizi e sfizi di un vicino passato.
11/03
Mi
alzo con la luce del sole che invade prepotentemente la nostra camera e gli
starnazzi delle oche che liberamente girovagano per il prato antecedente la
nostra entrata. Mi bastano alcuni biscotti per farmele amiche, stesso discorso
per quel pappagallo morto di fame che risponde al nome di “Lorenzo” che ogni
mattina, a colazione, mi aspetta al ristorante per giungere al mio tavolo sino
al piatto in cui mangio rubandomi ogni cibo in esso contenuto.
Ormai
le nuvole, il vento e le forze della natura scandiscono il mio tempo che si
sussegue con delle tabelle ben precise : mattinata nuvolosa, sole a metà
giornata, ancora nuvole nella seconda parte e pioggia durante la notte.
Le
camminate chilometriche non mancano e rendono piacevoli e frizzanti le giornate
condite con bagni di sole e tuffi in acque rese schiumeggianti dall’impeto
delle onde.
Vorrei
portarmi via una fetta di tranquillità da questo paradiso.
12/03
Seguendo
la tradizione, ormai consueta, delle lunghe ed intense camminate, decido di
percorrere a piedi l’intero percorso che parte da Arrecifes sino a Cabo per
poi ritornare alle “cabanas” per prendere lo zaino e ripartire, sempre gambe
in spalla, sino a El Zaino dove si trova la stazione d’entrata del parco.
Quattordici chilometri lungo un paesaggio che mi lascia basito di fronte alla
sua semplicità e meticolosa pulizia .
Ritrovo
il resto del gruppo, che nel frattempo mi ha raggiunto al parcheggio del bus, e
ripercorriamo la direttiva che ci riporta a Cartagena.
Il
ritorno in quell’ostello mi da’ la sensazione di passare dalla pace dei
sensi al senso del baccano . Da un estremo all’altro in poco tempo. Lo stesso
che ci separa da una notte agitata ad un’isola contornata da un mare
altrettanto agitato.
13/03
Dopo
la solita notte in bianco ci diamo appuntamento con una ragazza, contattata
dall’Italia, per raggiungere l’eco-hotel “La Cocotera” situato nella
Isla Grande all’interno del “Parque Natural
Corales del Rosario y San Bernardo”. Al molo di Cartagena prendiamo una lancia
insieme ad altra gente diretti al parco. Siamo gli unici a sbarcare al molo di
attracco de “La Cocotera”.
Questa
struttura fu di proprietà di un narco trafficante, confiscata dal governo
colombiano e successivamente donata ad un’associazione gestita da una comunità
di nativi facente parte di un progetto di eco-sostenibilità ambientale.
Ci
accolgono due socievoli e sorridenti ragazze mostrandoci l’abitazione e
l’organizzazione al suo interno. Una guida locale, con l’ausilio di una
mappa, ci spiega le caratteristiche dell’isola con tutte le sue bellezze ed
amenità . Tempo un nano secondo e siamo già in acqua . Una piscina limpida con
sabbia fine circondata da mangrovie e palme da cocco ci coccola al suo interno.
La
Isla Grande è la maggiore delle isole che costituiscono il parco de Los Corales.
Durante tutto l’anno ci vivono 1200 nativi dediti alla pesca ed al turismo,
offre l’opportunità di praticare diverse escursioni a contatto con la natura per
tutto l’arco della giornata .
In un
ventaglio di proposte tutte allettanti scegliamo le più caratteristiche e
meritevoli, nell’ordine: la visita al villaggio Orika; il bagno notturno alla
Laguna Encantada e la gita in barca attraverso le lagune interne.
Il
villaggio è situato ad una decina di minuti dal nostro albergo raggiungibile
attraverso un sentiero interno. E’ circondato d’alberi d’alto fusto che
fungono da barriera protettiva dalla furia degli uragani che, almeno due o tre
volte all’anno, si scatenano sull’isola . Non offre particolari spunti se
non l’ospitalità e la gentilezza dei locali, sempre sorridenti e disponibili
.
Percorriamo
a ritroso un tratto di costa bagnata da un mare che si alterna con colori accesi
e vivaci con pellicani che si tuffano in picchiata a pochi metri da riva e
fregate che volano sopra le nostre teste con estrema eleganza ma pronte ad
arraffare un po’ di pesce a qualche malaugurato uccello.
Il
sole non smette un attimo di splendere sino quasi ad accecarmi .
Mi
trovo d’innanzi ad un vero e proprio paradiso a pochi chilometri dalla
baraonda della movida colombiana .
Rientriamo
per un’ottima cena a base di pargo e barracuda, qualche fetta di papaya ed un
assaggio di dolce a base di cocco e zucchero caramellato, una leccornia per i più
golosi . Subito dopo ci armiamo di pile e frontalino e ci incamminiamo con due
guide attraverso un altro lato dell’isola che conduce alla “Laguna Encantada”.
Dopo poco più di un chilometro arriviamo ad un molo in legno che da’ sulla
laguna . Un locale mi invita a scendere in acqua con lui, la curiosità è tanta
ma la voglia, dopo la mangiata di pesce, un po’ meno. Mi lascio convincere e
ci tuffiamo insieme. “Incredibile”, osserva un’amica :”sei tutto
illuminato!”. Spente le torce e puntando lo sguardo verso di noi si vedono
scie luminose ad ogni movimento del corpo.
Dicono
che è una forma di plancton che pulsa ed emette luce ad ogni nostro contatto in
segno di difesa; in realtà è una specie di fitoplancton (ovvero l'insieme
degli organismi presenti nel plancton) che produce bioluminescenza attraverso la
sintesi di sostanza organica da sostanze inorganiche, utilizzando la radiazione
solare come fonte di energia in presenza d’ossigeno.
In
realtà qualcosa di veritiero c’era anche nella loro affermazione in quanto
solo al contatto con questi microrganismi si evidenziavano veri e propri fasci
luminosi .
Lo
spettacolo è comunque emozionante. Sembrava che il cielo fosse sprofondato in
acqua trovandomi a nuotare in mezzo
alle stelle in un mare nero pece disegnando la mia autostrada del sole. Non
avrei più voluto uscire da questo spettacolo della natura. Ne avevo sentito
parlare ma mai toccato con mano ed ora, era qui e, come una sinfonia, ogni
movimento corrispondeva ad una nota di luce ben precisa.
14/03
Dopo
colazione ci aspettano altri amici locali per condurci in barca lungo le lagune
soprannominate:Vigia, Cocosolo e Caracol, collegate una all’altra da tunnel
d’acqua in mezzo alle mangrovie che formano un’impenetrabile cornice verde
lungo le sponde sino a raggiungere il mare aperto.
Questi
corridoi naturali possono arrivare sino a 700 metri di lunghezza con la luce
solare che, sporadicamente, filtra i suoi raggi e dipinge con colori sgargianti
l’acqua sino a raggiungere i fondali che variano dal metro ai due metri di
profondità. Tutt’intorno vi è una calma surreale, qua e la, il cinguettio di
qualche uccello rompe il silenzio senza spezzare l’armonia che si è venuta a
creare. Arriviamo sino al mare per un bagno nelle sue calde acque e poi il
rientro penetrando sempre più nel fitto delle lagune sino ai loro più oscuri
segreti .
La
vita sull’isola prosegue blandamente lasciandomi trasportare dai venti che
soffiano da sud-est e dall’incantevole natura che la custodisce gelosamente.
Al suo interno si trovano piante e frutti mai visti prima come ad esempio: l’ighito,
il sinfrio, il totumo, il lulo, la guanabana, la pitahaya gialla ma la regina
incontrastata è la papaia . Cresce spontaneamente dappertutto ed il suo sapore,
così dolce e delicato, ci accompagna durante le giornate trascorse nel parco.
15/03
Di
prima mattina una rappresentante della comunità locale ci avvisa che a causa
dell’aumento del vento il mare si faceva sempre più increspato e di
conseguenza nessuna barca poteva lasciare l’isola . La notizia ci coglie
impreparati in quanto l’indomani avevamo il volo di rientro in Italia . Ci
rassicurò offrendoci un'altra notte in albergo e promettendoci che, alle prime
luci dell’alba, potevamo scendere con le barche dei nativi attraverso un
percorso più lungo ma meno esposto ad onde tumultuose.
Ormai
eravamo rassegnati e la cosa, tutto sommato non ci rattristava più di tanto,
non fosse per l’orario indefinito d’arrivo e i bagagli ancora da prendere in
città .
Dopo
un’ora circa ritorna la stessa rappresentate e ci comunica che, per
coincidenza, vi era una lancia a motore dei guardia parco che rientrava in paese
a metà giornata. Ci suggerisce inoltre che la traversata sarebbe stata
abbastanza movimentata ed il rischio di bagnarsi era pressoché scontato.
Accettiamo la proposta a scatola chiusa facendomi salire la curiosità e, nello
stesso tempo, l’adrenalina nell’affrontare onde in un mare sempre più in
fermento . L’itinerario da seguire si poteva così riassumere : primo tratto
in mare aperto sino a percorrere un primo canale che ci riconduceva in mare
sotto costa e poi, attraverso un secondo e lungo canale artificiale, realizzato
dagli spagnoli nel ‘700, si raggiungeva Cartagena risalendo il porto
industriale.
L’intera
traversata fu devastata da onde assassine e vento incessante ma altrettanto
emozionante per la scoperta di un tratto che, non fosse stato per le circostanze
avverse, mai avremmo potuto osservare.
Arrivarti
a Cartagena il mio unico desiderio era trovare una sistemazione che mi dava la
possibilità di schiacciare un sonno riconciliante senza l’ossessione del
chiasso e del baccano infernale tipico dei suoi locali notturni .
Nulla
togliere a questa città così vitale, dinamica e piena di vita con un’anima
ed un cuore pulsante giorno e notte.
16/03
Ci
accoglie una splendida mattinata con un cielo velato e la giusta temperatura per
fare una passeggiata all’interno delle mura nella parte antica della città .
Cartagena è un patrimonio Unesco e conserva ancora tra le sue vie un fascino
che riconduce all’epoca coloniale spagnola .
Non
possono mancare gli ultimi acquisti : rum, caffè…..ed è tempo di rientrare
in Italia .
17/03
Home
sweet home, non prima d’aver ringraziato gli amici conosciuti in Colombia e le
mie inseparabili compagne di viaggio.
Lungo è il tunnel che porta verso il successo, maggiore sarà la sua lunghezza e più elevata la soddisfazione nell’averlo raggiunto…
Erik