7 giorni in Cambogia
1995
di
Marco Cavallini
http://digilander.libero.it/marcaval/index.html
Era l'autunno del 1995, da quando ero al Liceo sognavo di fare un viaggio
in Cambogia per vedere i Templi nella jungla, leggo sui giornali che è stata
firmata una tregua di 6 mesi tra i Khmer Rossi e l'esercito governativo. Un
amico, appena tornato da un soggiorno di una settimana, mi racconta che non ci
sono grossi problemi : bisogna soltanto informarsi sul posto prima di
muoversi. Ma questo ormai è vero in tutto il mondo. Mi basta questo stimolo
per decidermi a realizzare il mio vecchio sogno.
Arrivato ad HoChiMin City (la vecchia Saigon!) m'imbarco su un Tupolev delle
Vietnam Airlines ed arrivo a Phnom Penh, con 20$ e 2 foto-tessera (bagaglio
indispensabile, insieme ad una fotocopia del passaporto, di qualunque
previdente viaggiatore solitario) mi procuro il Visto all'ufficio doganale.
Devo procurarmi un altro biglietto aereo ma sono le 17, sta iniziando il
crepuscolo e gli uffici dell'aeroporto sono già chiusi, quindi rassegnato
salgo su una specie di ApeCar e mi faccio trasportare al centrale Hotel
Capitol, un alberghetto di livello decisamente scarso, in cui convergono tutti
i viaggiatori solitari, essendo segnalato dalla Lonely Planet, la mitica Guida
australiana compagna di tanti viaggi. Il proprietario mi propone un letto in
una camerata con altri turisti per 1$ e mezzo oppure una camera singola per 2$
e mezzo, crepi l'avarizia : opto per la seconda soluzione. Depositato lo zaino
in camera, scendo in strada per bere qualcosa nel baretto sottostante,
frequentato in quel momento da diversi turisti, e subito vengo avvicinato da
un personaggio locale che si presenta come Signor Chum e mi chiede se ho
bisogno di qualcosa. Gli spiego che devo assolutamente trovare un biglietto
aereo per Siem Reap e, avendo ricevuto la sua disponibilità ad aiutarmi,
salgo con lui sul suo motorino. Attraversiamo la città già buia lungo viali
completamente deserti, costeggiati da case con finestre e porte sbarrate, e ci
fermiamo nell'unica strada movimentata. Da un palazzo esce un signore
distinto, in giacca e cravatta, che sale con noi sul motorino e, dopo pochi
minuti di strada, raggiungiamo la sua piccola agenzia turistica. Il signore
elegante apre il suo piccolo ufficio ed io riesco, ancora incredulo, a
prenotare un biglietto per il volo dell'indomani. Phnom Penh è
"stranamente" tranquilla appena cala il buio ma è pur sempre una
città asiatica: basta chiedere e si trova tutto!
Il giorno seguente,in attesa del volo, decido di dedicare la mattinata alla
visita culturale di questa città martoriata. Come mia abitudine concordo
prima il prezzo dei servizi che richiedo, per evitare discussioni alla fine,
ed ottengo da Chum un giro della città in motorino, di mezza giornata, per
soli 2 $. Ci dirigiamo verso la periferia, superiamo un ponte in legno
costeggiato da palafitte per poi immetterci in una strada in terra rossa. Il
paesaggio, distese a perdita d'occhio di verdi risaie, affascina ma,
improvvisamente, un cratere dall'aspetto sinistro interrompe la strada e mi
ricorda che siamo nei pressi dei tristemente famosi "killing fiels",
i campi di sterminio creati da PolPot e dalla sua cricca. Sono rimaste solo
delle fosse circondate da filo spinato arrugginito, ma Choeung Ek (questo il
nome del campo di sterminio) è molto frequentato dagli indigeni che ci
tengono a raccontare la triste storia del loro paese ai pochi turisti che
arrivano fin qua. Una signora di mezz'età mi illustra, gentilmente, il
piccolo museo all'aperto, attirando la mia attenzione, con insistenza e
orgoglio, sulla lapide, posta all'entrata, dove il popolo cambogiano ha inciso
sulla pietra la sua volontà di non consentire mai più il ripetersi di simili
eventi. Mi soffermo ad osservare lo stupa (tempio buddhista) che conserva al
suo interno tutti i teschi ritrovati nelle fosse comuni : il grosso taglio
evidente su tutti i crani mi riporta alla mente uno degli orribili motti di
PolPot "non si spreca una pallottola per i prigionieri!". Dopo
questo primo approccio, continuo la mia visita alla città e mi faccio
condurre a Tuol Sleng, la famosa scuola-prigione, che è stata lasciata
esattamente nello stato in cui la trovarono i liberatori vietnamiti. Qui
l'impatto è ancor più sconvolgente: il cartello che riporta le leggi in
vigore all'interno di questo luogo di sofferenza, le anguste celle che
impediscono di stare distesi, le fotografie delle vittime, le stanze con gli
strumenti di tortura, mi producono un'angoscia crescente che mi spinge, alla
fine, ad uscire quasi correndo da questo posto e dall'orrore che vi si
respira. Mi occorrono quasi due ore, che trascorro muto e immerso nei miei
pensieri, per superare l'impatto prodotto dal "toccare con mano" le
atrocità che ha subito questo stupendo popolo ma, nonostante tutto, resto
convinto che un viaggiatore debba visitare anche questi luoghi per poter
meglio comprendere l'anima di un popolo e trasmetterla, a chi non potrà
conoscerla di persona, nel modo più fedele e completo possibile, senza i
filtri dei mass-media.
Al rientro dalla visita Chum mi propone, ed io accetto volentieri, un suo
amico come guida nella mia prossima destinazione: lo troverò all'aeroporto di
Siem Reap e mi guiderà, con l'immancabile motorino, nella visita ai monumenti
circostanti. Nel primo pomeriggio m'imbarco sull'aereo per Siem Reap, curioso
di vedere come la mia nuova guida riuscirà a riconoscermi ma, appena
sbarcato, dopo un'ora di volo tranquillo, vedo tra la folla variopinta
dell'aeroporto un uomo che espone un foglio di carta bianca con scritta verde
in inglese: "Benvenuto Signor Marco, Io sono il Signor Heng!" . Fin
troppo facile!! Gli spiego come sono abituato a muovermi, e soprattutto, che
non cerco alloggi di lusso ma quanto di più vicino alle usanze locali. Mi
sistemo in una piccola GuestHouse familiare per 4 Dollari a notte in Siem Reap,
un piccolo paese, che sta rinascendo grazie all'arrivo dei turisti che vi
alloggiano per accedere alla zona archeologica, ma che mantiene intatte le sue
tradizioni con il rumoroso e colorato mercato pomeridiano. Dopo aver
concordato in 3$ al giorno il prezzo per il trasporto con Heng e comprato
all'ufficio turistico un biglietto valido 4 giorni per la visita alla zona dei
monumenti, consapevole che il tramonto e l'alba sono i momenti migliori per
assaporare la suggestione offerta dal contrasto tra i templi e la vegetazione
selvaggia che avanza implacabile. Non mi resta che sperare nel bel tempo.
In motorino giungiamo in prossimità della prima Porta di Angkor Thom, la città
forticata accerchiata da un larghissimo fossato in cui pare vivessero feroci
coccodrilli, e superato l'affascinante ponte su cui campeggiano alla destra 54
statue di divinità ed a sinistra un uguale numero di statue di demoni ancora
ben conservate, rimango letteralmente estasiato davanti alle tre gigantesche
facce che sormontano la porta guardandomi con cipiglio minaccioso. E' proprio
un luogo senza tempo. Spinto dall'incredibile suggestione del luogo, decido di
entrare a piedi e chiedo al mio conducente di aspettarmi oltre. Fatti pochi
passi, mi ritrovo in piena jungla. Sorpreso, consulto l'immancabile guida dove
leggo che Angkor Thom si estende per circa 10 chilometri quadrati. Sarà
meglio risalire sul motorino! Fortunatamente Heng non mi ha preso sul serio e
mi attende poco più avanti. Prima meta è il Bayon, un immenso complesso
architettonico sormontato da decine di facce di divinità che guardano in ogni
direzione, al tramonto è veramente spettacolare tanto che le facce sembrano
cambiare colore a poco a poco. Incurante dei tanti ed evidenti cartelli di
"Pericolo mine", un gruppo di turisti occidentali sta
tranquillamente scattando fotografie camminando nell'erba alta al di fuori dei
sentieri battuti: l'arrivo di un gruppetto di bambini, di cui uno senza un
braccio ed uno con una protesi al posto della gamba, si rivela più efficace
dei semplici cartelli ed i turisti, convinti, si mettono ordinatamente in fila
indiana e continuano la loro visita, improvvisamente silenziosi.
Per tre giorni continuo a scorazzare avanti e indietro tra le varie porte
monumentali, trovando posti sempre diversi in cui perdermi a fantasticare.
Nell'immenso campo vicino alla Terrazza del Re Lebbroso e alla Terrazza degli
elefanti, due stupendi punti sopraelevati che consentono un'ampia visione
panoramica dell'immenso complesso monumentale, stanno smontando dei grossi
palloni che riproducevano perfettamente Angkor Wat (Wat significa tempio,
n.d.r.). Erano stati montati in occasione della recente eclissi totale di
sole, per festeggiare il grosso investimento turistico che una delle Tigri
asiatiche ha fatto in questa zona. Non posso fare a meno di pensare che il
turismo, a volte causa di degrado in tanti stupendi luoghi e spesso prima
causa per la demolizione di antiche tradizioni culturali e sociali, avrà un
effetto positivo per la pace e la prosperità di questo paese martoriato da 30
anni di massacri e guerriglie. Seduto sulle scale di un tempietto, accerchiato
dalle immense radici di una pianta secolare, in compagnia di un turista
australiano, rimango un'ora a fantasticare con lui su come doveva essere la
vita qui nel periodo di massimo splendore; e ci immaginiamo una parata di
elefanti e cavalli rivestiti d'oro, seguiti dalle varie coloratissime tribù e
dalle immancabili danzatrici. Quando arrivo a Ta Phrom, il tempio Buddhista
rimasto esattamente come era al momento della sua scoperta nella jungla,
completamente preda della vegetazione che ne è diventata parte integrante,
trovo soltanto bambine del luogo che disegnano antichi personaggi sulla terra
aiutandosi con dei rametti. Una ragazzina che parla qualche parola d'inglese
mi fa da Guida, e alla fine non accetta nessuna mancia accontentandosi di
vendermi un pò della sua mercanzia: magliette e kramas, le coloratissime
sciarpe di cotone a quadretti che portano tutti i cambogiani. Visito il
favoloso Angkor Wat all'alba e al tramonto per godermi tutti i giochi di luce
ed i suoni della jungla che in queste ore sono più intensi: è uno di quei
posti che da soli valgono la fatica del viaggio.
In serata dopo aver ricevuto tutte le assicurazioni del caso sulla sicurezza
del tragitto, vado con Mr.Heng a cercare i biglietti per il ritorno a PnomPenh.
Usciamo dal paese e dopo qualche centinaio di metri tra le risaie, ci
addentriamo in un piccolo agglomerato di palafitte, una Comune. Ci togliamo
subito le scarpe e saliamo le scale per entrare in una palafitta, nella parte
sottostante all'aperto riposano due bufali ed alcuni tipici maiali neri con
gli immancabili cani di guardia, a cui normalmente è affidato il compito di
condurre al pascolo i bufali. E' l'ora di cena e nella grande sala illuminata
da due vecchie lampade a petrolio, con pavimento in bambù sul quale riposano
due bambini piccoli, ci sono una tavolata di soli uomini ed una di sole donne.
Da buon occidentale mi avvicino istintivamente alla tavola con gli uomini ma,
essendo lì per affari, vengo invitato a sedermi al tavolo delle donne :
quella cambogiana è una società matriarcale! Divido il pasto con loro,
mangiando le loro rinomate tagliatelle nonchè abbondanti porzioni di verdura
cotta rimanendo stupito dalla minima quantità di spezie presenti, compro il
biglietto e due ore dopo l'arrivo, io e Heng ce ne andiamo scortati da un
nugolo di bambini festanti.
Uscendo dal mio alloggio all'alba del giorno successivo, trovo Heng che mi
aspetta con la fida motoretta e partiamo per arrivare, dopo 10Km., ad un
piccolo mercatino. Mi procuro una bottiglia d'acqua, tre banane ed una
baguette (eredità del colonialismo francese) da consumare durante il viaggio.
Superate le ultime bancarelle, sbirciando le appassionate trattative che
animano il mercato, appare il molo dove si trova ormeggiato l'aliscafo che mi
ricondurrà a Pnom Penh. E' una specie di siluro costellato di piccoli oblò
in plastica gialla e rossa. L'idea di trascorrere quattro o cinque ore
all'interno di quel siluro non mi entusiasma; accomiatatomi dal sempre
sorridente Heng, salgo a bordo e mi siedo vicino alla porta ma, dopo la
partenza, una volta controllatomi il biglietto, vado a sedermi all'esterno,
sul tetto del siluro, dove già si trovano tre giovanissimi militari., Di
fianco al corso d'acqua alcune capanne di paglia spiccano tra alberi di sesamo
(il simbolo della Cambogia), mangrovie e vaste coltivazioni di tabacco;
comincio a fotografare lo stupendo panorama naturale suscitando la curiosità
di un ragazzino cambogiano, Kim, che insieme al padre si è nel frattempo
seduto di fianco a me. In breve mi ritrovo, con qualche semplice parola in
inglese e molta gestualità, ad illustrare l'utilizzo dei miei obbiettivi
fotografici sia a Kim che ai tre giovani interessatissimi militari. Al primo
imbarcadero siamo subito accerchiati da un nugolo di barchette con donne che
vendono provviste, ed il padre di Kim compra tre petti di pollo (uno anche per
me!). Ricambio la cortesia acquistando per tutti banane fritte avvolte in
grosse foglie (a volte non ho assolutamente idea di cosa io stia mangiando, ma
l'importante è che sia ben cotto!). Intorno a noi, anche gli altri passeggeri
dell'aliscafo, tra cui solo altri tre occidentali, stanno contrattando il
pasto con le barcaiole che, nel frattempo, sono salite a bordo. Terminato il
frugale pasto, metto subito alla prova uno dei militari chiedendogli di
scattarmi una fotografia insieme a Kim e al padre, e già pregusto la gioia
che proveranno i miei due compagni di viaggio ricevendo, dall'Italia, la mia
lettera contenente la foto-ricordo del nostro incontro. Superato il Lago Ton
Le Sap, popolato solo da sparute barchette di pescatori famosi per l'abilità
con cui governano i timoni usando soltanto i piedi, ci addentriamo
nell'omonimo fiume e, dopo un'altra ora abbondante, attracchiamo al molo di
Pnom Penh.
Non appena sbarcato mi sento bussare sulla spalla: chi poteva essere se non il
signor Chum con la sua immancabile sciarpa a quadretti gialli e bianchi.
Saluto Kim ed il suo gentilissimo padre e mi dirigo nuovamente al fatiscente
Hotel Capitol. In serata offro la cena d'addio al mio amico in un ristorante a
due piani sulla strada 182, popolato solo da indigeni. A tavola, gli chiedo di
ordinare, anche per me, un menù tradizionale cambogiano : cominciano ad
arrivare spaghetti e verdure crude, pezzi di carne e strane polpette, due
fornellini e due pentole. Pochi minuti dopo, quattro cameriere si trovano
impegnate, tra la divertita curiosità degli altri commensali, ad insegnare a
me, buffo occidentale, come si mangia. Il giorno successivo, ho ancora una
mezza giornata di tempo prima di ripartire, Chum mi consiglia di visitare il
movimentato mercato dell'antiquariato, dove si possono fare buoni affari. Mi
ricordo che un amico, prima della partenza, mi aveva chiesto di cercare degli
accendini Zippo originali (quelli in dotazione ai soldati americani e non i
divertenti souvenir che si possono trovare ad ogni angolo del Vietnam). Dopo
aver provato senza successo con due commercianti, ne parlo al mio solito
amico-guida cambogiano. Immediatamente mi conduce verso la periferia dove,
fermo al lato della strada, troviamo un vecchietto con un carretto di
sigarette. Con un fornello artigianale ci prepara un Thè e intavoliamo una
brillante conversazione in francese. Evidentemente l'anziano signore
cambogiano mi ha preso in simpatia e, come se mi avesse letto nel pensiero, mi
racconta come ha fatto, lui che parla Francese (una colpa gravissima!!), a
sopravvivere alle atrocità dei Khmer rossi. Alla fine, estrae da un
sacchettino nascosto tra i legni del carretto due Zippo originali che mi cede
ad un prezzo ridicolo, chiedendomi in cambio, di conservarne almeno uno in
memoria sua e del suo popolo. Riconoscente, suscito il suo entusiasmo
regalandogli un pacchetto di sigarette americane. Ancora oggi, guardando
questo accendino, che ho sottratto alle allettanti offerte di diversi
collezionisti, mi ritrovo a pensare a quell'incontro, alla semplicita ed alla
dolcezza di questa stupenda gente che non fa alcuna fatica a regalarti,
sempre, almeno un sorriso anche se porta ancora negli occhi il ricordo
dell'orrore che ha vissuto.
Saluto calorosamente Chum, primo responsabile della piena riuscita di questo
viaggio, regalandogli l'ultimo gradito pacchetto di sigarette. Nel primo
pomeriggio, quando risalgo sul Tupolev per il lungo viaggio di ritorno, sono
grato a questo popolo che mi ha così arricchito sul piano umano.
Due settimane fa ho incontrato un vecchio amico che, con entusiasmo, mi ha
subito detto "Sai dove sono stato il mese scorso? In Cambogia!". Mi
ha raccontato che si può circolare con la massima tranquillità e,
soprattutto, che la si può visitare tutta senza grossi problemi. Un'ora dopo
eravamo a cena in una trattoria, con davanti una vecchia cartina della
Cambogia in lingua francese e già cominciavo a sognare il mio ritorno.
Marco Cavallini
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