Cambogia, Malesia, Borneo e Brunei

Diario di viaggio 2010

di Federica Orzati

 

 

 

ROMA, 21 Febbraio 2010 ore 12:45

 Molti anni fa mia cugina si maturò con il massimo dei voti. Ricordo che la mia famiglia andò fiera soprattutto del tema d’italiano nel quale prese quindici quindicesimi. Il titolo era “Il Viaggio”. La cosa che più colpì tutti fu la citazione con cui aprì il suo racconto. Non sono mai riuscita a ritrovarla, ne ricordo solo il senso. Raccontava di una bambina che, rammentando Roma, diceva “è quella città in cui ho visto un cane giallo”.
Per quanto questo aneddoto possa lasciare impassibili i molti a me ha sempre fatto uno strano effetto. Sarà per la vicinanza concettuale con la maturità della bravissima cugina, ma non credo sia stato solo questo. La bambina aveva identificato una città bella e complessa come Roma con un cane giallo ma, nel rievocarlo, viveva una forte emozione. Non era una mancanza ma una interpretazione personale.
Con questo spirito parto per questo viaggio. Alla ricerca del mio simbolico cane giallo. Non pretendo che sia di tutti. Non pretendo che tutti lo notino. Basta che sia così per me e che possa ricordarmene ogni volta che voglio. E che riesca a strapparmi un’emozione.

Sono seduta davanti alla vetrata dell’aeroporto di Fiumicino, aspettando il mio trabiccolo della Egiptair. Non so perché ma stanno sfilando solo aerei magrebini. Sarò nel reparto “Asia e dintorni”.
Mia nonna ha fatto un voto alla Madonna di Montenero e dice il rosario tutte le sere. Mia madre mi ha detto “se l’aereo dovesse cascare vegliaci da lassù”. Insomma: se non mi prende un attacco di panico appena decollo siamo già a buon punto.

 

ORA IGNOTA, LUOGO IGNOTO, VOLO ROMA-IL CAIRO

Sotto di me il mare.
Si staglia come il dorso di un coccodrillo blu.
Ha un aspetto mai visto da quassù. Le ombre delle nuvole gli disegnano sopra scure sagome.
In mezzo a questa poesia si leva senza ritegno l’inconfondibile puzzo dei pasti aerei. Mi sale la nausea appena la hostess mi porta il vassoio. La scelta è tra una mattonella di simil-pasta e un pollo plasticoso.
Inizia lo sciopero della fame. Filippo scuote la testa, della serie: se questa parte così cosa fa in Cambogia?
Altro sciopero che ho deciso di fare è quello della pipì. La farò giunta a destinazione. E stop.
Il volo sembra, in compenso, tranquillo (appena scritto abbiamo iniziato a ballare) e il personale, rigorosamente egiziano, è di poche parole. Uno stuart mi sta simpatico e penso “se c’è uno così simpatico a bordo non possiamo cascare”. Poi ho visto le hostess baffute e chiattoncelle e ho pensato l’opposto. 1 contro 4 ha vinto l’aereo che cade.
Penso alla nonna a Montenero e chiudo gli occhi per cercare di dormire.
Non credo di aver mai dormito in aereo ora che ci penso. Altro sciopero. Abbiamo appena passato una lingua di terra in mezzo al mare turchese. Adesso l’acqua sembra più la pelle avvizzita di una donna al tramonto della sua vita. È increspato e opaco.
Si Balla!

 

SEMPRE ORA IGNOTA, SOPRA L’EGITTO

Sotto di me IL DESERTO… grande emozione. Un colore indecifrabile misto a nuvole. Pare il bordo di un sogno. Il Cairo dall’alto sembra una città sommersa dalla polvere. È impressionante. Palazzi su palazzi, alti e appiccicati, completamente sommersi dalla polvere. Come quando da noi arriva lo scirocco e porta con sé un pezzo di deserto. Dall’alto sembra una città spenta da cui emergono delle luci ovattate. È una città che, mi pare, svilupparsi in altezza. Non c’è uno spazio libero né un parco. Solo un regolare accalcarsi di grossi palazzi color deserto. Durante l’atterraggio vedo che le facciate sono colorate, per cui la sabbia si è annidata sui tetti e sulla strada.
Riesco a intravedere le piramidi.

 

IL CAIRO, ore 19:00

Aeroporto semi-vuoto ma pieno di amanti dell’aria condizionata. Sembra un freezer.
Gli egiziani hanno iniziato a provarci a manetta senza remore. Addirittura i poliziotti mi domandano se sono fidanzata mentre faccio il metal detector.
Adesso, mentre la Britney Spears egiziana canta alla radio, trovo qualcosa da fare per le sei ore (mi pare) che mi dividono dal prossimo volo. Voglio morire.
Mi giro e Filippo sta dormendo coperto dallo zaino e da tre felpe. Sembra una collina o un barbone, a scelta. Sta quasi russando. Lo invidio. Non avrei mai immaginato di invidiare uno in un momento di barbonaggio…
Di là si sente il rumore delle preghiere levarsi dalla stanza adibita alla funzione religiosa. Un puzzo di piedi paralizzante. Ma la domanda è: con tutti questi fusi orari quando sorgerà il sole in aereo? Anziché contare le pecore inizio a pensarci, vediamo se mi addormento.

 

22/02/2010 AEREO SOPRA MUMBAI, INDIA -4:19 ore a destinazione

Uno dei miei scioperi aerei è andato a farsi benedire. Esattamente quello del dormire. Dopo aver assistito alla memorabile scena di una preghiera collettiva (con tanto di immagine della Mecca trasmessa sul televisore davanti a ciascuna seggiola) ho deciso di crollare in un profondo sonno. E devo dire che, quando si dorme, il tempo vola in aereo.
In compenso ho stoicamente rifiutato ogni tipo di cibo aereo. È tremendo, chimico e sa di plastica. Se mi devo ammalare almeno che sia in Asia, mica sull’aereo!
Mi sono bardata con due copertine made in Cairo, ho tirato su il cappuccio e mi sono dormita la bellezza di 4 ore e mezzo di viaggio. E ora sto volando sopra l’India, il che lo trovo avventuroso ed emozionante.
Filippo invece, per sua fortuna, è un dormitore-aereo nato. L’unica cosa che lo manda in tilt sono le luci. Ovviamente, mentre tutto l’aereo è al buio, l’unico ad aver acceso un fanale per leggere è quello accanto a lui. Fil ha iniziato a guardarlo male aspettando che questo si rigirasse, ma fortunatamente non è accaduto.
Balliamo tantissimo, a malapena riesco a scrivere.

 

KUALA LUMPUR, ore 20:20

Non so definire dove mi trovo.
Sicuramente ciò che mi circonda sembra profondamente irreale. Luci, rosso, colori, lanterne, odori, puzzi, sporco, cinesi millenari con le Hawaianas, donne con velo, scritte strane. In questo momento saranno 35°C, diluvia e sto cenando sotto un gazebo rosso nel bel mezzo di China Town aspettando involtini primavera, riso fritto ai gamberi e french fries. Filippo si guarda intorno curioso.
Sembra un circo, uno spettacolo, dove ognuno ha il proprio ruolo. Ti investono con piccole magie che tengono nel mantello, nelle tasche dei pantaloni, in una mano. Un bonzo cammina scalzo sotto la pioggia e chiede l’elemosina. Una donna vecchissima traina un carretto con dentro della castagne alla brace. Le bancarelle, in mezzo alle quali sto mangiando, sono piene di Rolex falsi, borse, cinture, foulard, portafogli. Ti portano il catalogo di ogni marchio internazionale d’alta moda e ti fanno scegliere cosa vuoi. Un paradiso.
Nonostante stia piovendo è molto caldo. Un caldo afoso direi.
Ma procedo con ordine nel raccontare il mio arrivo in Malaysia.

Dall’alto dell’aereo vediamo Kuala Lumpur. Le ultime ore di volo, nelle luci soffuse dell’alba, le ho vissute con entusiasmo. Dall’alto si scorgono palme enormi, tozze e robuste e una metropoli nuova, mai vista.
15 ore di pipì trattenuta, credo di morire.
Sciopero fame e pipì: riuscito. Ho rinunciato perfino all’acqua: devo essere impazzita! Al che, una volta messo piede sulla terraferma, cerco disperatamente un bagno.
Percorro i nastri velocizzatori dei corridoi e corro nelle zone di transito, seguo cartelli e supero gente, a passo svelto: zero bagni. Ne vedo uno, mi pare, ma Filippo mi placca e mi supplica di andare prima a ritirare gli zaini: se la sente che ce li abbiano persi.
Tutta mesta lo seguo.
Prima della valigia però c’è la dogana. Fila discreta con gente di ogni tipo che cerca di varcare il territorio Malaysiano. Un poliziotto basso e tracagnotto mi fa un gesto incomprensibile che poi interpreto come “compila il permesso di soggiorno”, dopo attenta osservazione degli altri. Una volta fatto passo senza problemi la dogana.
I miei occhi hanno l’unico obiettivo di intercettare un bagno, ma pare che non ne abbiano costruiti a sufficienza.
E poi, ricordi? Prima gli zaini e poi la pipì, onde evitare crisi isterica del mio dolce compagno. Bisogna prendere una navetta/treno/metro che ci porti in un’altra ala dell’aeroporto. Tutto è così moderno ma allo stesso tempo giunglesco che mi fa, per un breve istante, dimenticare il mio bisogno impellente. Arrivati a destinazione mi trovo nell’enorme sala di ritiro bagagli. Rincomincia la mia disperatissima ricerca del bagno, stavolta in preda a spasmi e brividi. Filippo mi chiede di ritirare prima gli zaini e poi di farla. Lo mando affanculo e cerco il bagno da sola.
Chiedo a due facchini dove (cappero) sia il bagno e loro, dopo la quinta ripetizione in inglese perfetto, capiscono e mi indicano una zona remota del ritiro bagagli, a circa 200 metri da dove sono. Inizia una corsetta prima timida e poi sfrenata verso il bagno. Entro con l’intento di picchiarmi, qualora necessario, per entrare per prima. Ma il bagno è vuoto eccetto una donna delle pulizie con il velo che sorride. Finalmente faccio questa benedetta pipì, anche se il mio corpo ci inizia a credere dopo qualche ora, e vado a lavarmi le mani: peccato che nel lavandino scorrazzi gaio uno scarafaggio di dimensioni paragonabili al protagonista delle Metamorfosi di Kafka. Schizzo fuori, con gli occhi sgranati. Ma che ti aspetti? Welcome to Asia, avrebbe detto il mio amico Daniel se solo lo avessi già conosciuto.

Spingo il carrello con sopra gli zaini fino agli arrivi. E siamo arrivati, anche se restiamo dentro l’aeroporto. Filippo sparisce lasciandomi sola e spossata, incapace di realizzare. Un cervello ancora troppo pigro per contenere tutte queste nuove informazioni: si deve abituare. Poi Fil ritorna insieme a un malese. Arregge l’anima con i denti, è secco allampanato e, quando apre bocca, provoca il mio primo infarto del viaggio:
 Che cosa?!? Ma parlano così questi qua?!? “If you wanta tu dollà”… sorry???? Ovviamente mi dicevano che, se volevo due dollari (bla-bla-bla) peccato che per capire il “malinglese” ci metterò quasi tutto il mio soggiorno in Asia. Sob.
Andiamo nel sottosuolo e prendiamo il treno veloce che ci conduce alla Stazione Centrale di KL. Ovviamente ancora non sono uscita dall’aeroporto. Le navette e i treni entrano direttamente all’interno delle strutture.
Arrivati alla stazione, sempre restando dentro la struttura, ci fermiamo a mangiare al Mc Donald’s. Per raggiungerlo attraversiamo un corridoio angusto pieno di Change Money e di agenzie di viaggi. E, subito, entro in contatto con la realtà asiatica.
Persone per terra che aspettano il loro turno. Sdraiati, seduti, accasciati. Un uomo a terra con un bambino e la camicia semiaperta che aspetta il suo turno davanti alla Air Asia.
Per la prima volta mi accorgo anche della fortissima presenza musulmana nella popolazione. Le donne portano tutte il velo e sono totalmente coperte da testa a piedi.
Dopo aver mangiato, finalmente, usciamo. Appena si aprono le porte a vetri sento un’ondata di caldo asfissiante entrarmi in un secondo nei polmoni. Sembra che, in pieno Agosto, tu accenda un phon in modalità “Caldo torrido”. Cerco subito con lo sguardo dove sia il tubo di scarico che sta avvelenandomi con questo calore ma, appena lo dico a Filippo la risposta è: Fede questo è il clima qui. È la normalità.
Affondo il viso nello zaino e avviene il primo e unico momento di sconforto. Dopo esser stata ricattata con una foto saliamo sul taxi di un indiano e ci facciamo portare a Jin Petaling, ossia China Town. Cerchiamo un alloggio e troviamo questo sotto i portici del mercato posto gestito da cinesi. Per terra fa schifo e il bagno è imbarazzante. Ma va bene. Sul soffitto c’è anche un’aria condizionata fissa puntata a 10 gradi (fuori 40, bronchite garantita). Distruggiamo la valigia tanto da cambiarci le magliette e usciamo per venire qua a cena.
Immersi nel caos del mercato di China Town ci rendiamo subito conto di cosa sia l’Asia. Anzi, io me ne rendo conto, Filippo non è nuovo a questo continente.
Il mercato di Jin Petaling è formato da tre file di bancarelle che si estendono in lunghezza. Centralmente si formano corridoi di passaggio. Il mercato è parzialmente coperto da una tettoia, ma è talmente scassata che ci si bagna lo stesso… Inoltre lateralmente, sopra i marciapiedi, ci sono dei porticati e, nel muro, i negozi (che non sono altro che i magazzini e gli empori delle bancarelle). La vendita della contraffazione è legale e la merce ha diversi tipi di qualità: C, B, A, AA, AAA. Per comprare si contratta. Una volta che si inizia la contrattazione non ci si può tirare indietro e non si può abbassare il prezzo, altrimenti si manca di rispetto all’interlocutore.
Nel mercato scorrazza gente incredibile. Come ho detto prima: un circo. Una donna vende piume di pavone, bonzi con rosari in mano che pregano scalzi sotto la pioggia, marzapane fuxia, pentole di noodles a terra in mezzo alle bancarelle. Ma sotto i portici si vedono i poveri dormire sdraiati sotto gli archi, nella tasca muraria dove sorge un ATM (Bancomat) oppure, semplicemente, in mezzo al marciapiede. In alcuni punti, sempre sotto i portici, si aprono degli spazi vuoti. Probabilmente ex negozi, dove vivono persone ammassate e senza niente. Cucinano su dei fuocherelli appiccati a terra, hanno qualche brandina, magari anche una Tv. I paradossi dell’Oriente.
L’immagine più bella comunque è stata una signora che, tra le bancarelle, sedeva carponi appoggiando il peso sui talloni, e tirava fuori da una busta in terra dei sacchetti pieni di gamberi e carabattoline magiche. Esperienza surreale.

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23/02/2010, AEROPORTO DI KL ore 6:07

Stamattina ore 4:15 partenza dal nostro albergo per l’aeroporto di KL dei Low Coast (non è il KLIA, è molto più distante). Siamo riusciti a spillare un prezzaccio al figlio dei proprietari dell’albergo che ci ha portati personalmente con la sua macchina con guida all’inglese. Appena uscita dall’hotel mi ha investito un’immagine sensazionale. Che sia il mio cane giallo? Troppo presto per dirlo, ma la descrivo.
Il mercato di Jin Petaling aveva chiuso i battenti. Le bancarelle erano smontate e la strada era vuota e, allo stesso tempo, aveva lasciato i segni della sera appena trascorsa. Fogli di giornale e qualche cartaccia. Si riuscivano così a vedere le lanterne rosse, tipiche decorazioni cinesi, davanti ai negozi sotto i portici. Si muovevano blande, spinte da un timido vento caldo. I rumori erano tanti. Il chioccolio di qualche scacciapensieri di legno, i giornali che si spostavano dal loro giaciglio e qualcos’altro di non decifrabile. Un rumore gentile, asiatico, magico. Stavamo sbirciando nella notte, mi sentivo quasi di profanare qualcosa. Ma il mercato non era disabitato. Era popolato da persone silenziose e indaffarate. Poche anime ma presenti. Tutti stavano mangiando. Un uomo pescava con un mestolo qualcosa di liquido in una pentola che cuoceva per terra. Nuclei familiari si radunavano intorno a tavolini di plastica e mangiavano senza far rumore, in cerchio. Tutto così sonnolento e fuori dal normale. Pensavo di sognare. Sono così felice di aver preso l’aereo all’alba, mi ha permesso di assistere a questo momento così surreale.
Adesso siamo seduti all’imbarco ad aspettare l’aereo per Siem Reap, Cambogia. Davanti a noi due italiani che guardano, sul pc, il sito del Grande Fratello. Povera Italia…
Poco fa ad una hostess malese chiedo: “Excuse me, Can I stay here for Siem Reap’s flight?” e lei hai risposto: “No, non c’è!”.
Ora… l’ho guardata a lungo con un sopracciglio alzato pensando: ma questa è italiana o sta facendomi una supercazzola? I due italiani sono prontamente accorsi per dirmi “L’ha detto anche a noi, si vede che è un modo di dire malese”. Curioso!

 

ANGKOR, CAMBODIA, ore 12:57

Sono nel bel mezzo di un sito khmer, il Praeneac, all’ombra di un arbusto asiatico. Distrutta dal caldo. Immersa nei suoni della giungla.
Siamo arrivati in Cambodia stamattina presto, dopo un volo sereno. Dall’alto vedevamo già la differenza di panorama rispetto alla rigogliosa Malesia: sembrava che fossimo su uno degli elicotteri di Apocalypse Now con in sottofondo la cavalcata delle Valchirie. Ma venendo in pace, unica differenza. La dogana è stata più severa rispetto a quella malese. Il visto cambogiano è fantastico. Appena usciti dall’aeroporto abbiamo sentito ancora più caldo della Malaysia. I due italiani hanno chiesto se potevamo smezzare un taxi ma i tassisti (mica scemi) hanno specificato che un taxi porta un solo nucleo familiare.
Ci siamo fatti portare fino al centro di Siem Reap, dove avremmo cercato un albergo libero. E il viaggio per andarvi è stato qualcosa di illuminante. In qualche secondo abbiamo capito cosa fosse questa Cambogia. Un posto assurdo, fermo a chissà quale millennio avanti Cristo, con riti e usanze a noi ameni, completamente diverso da ogni immaginario occidentale. Terra polverosa, non asfaltata. Bambini nudi che correvano sul ciglio della strada. Una mamma che ne lava uno in mezzo di strada. Laghetti con dentro fiori di loto. Vacche secchissime che camminano in cerca di un filo d’erba. Donne magrissime, con camicioni e pantaloni lunghi, con il viso coperto da krama (foulard tipici cambogiani fatti a scacchi, riparano dal sole e dalla polvere). La Cambodia non ci ha risparmiati. Ha voluto che la vedessimo subito. Nuda e cruda. Siamo arrivati a Siem Reap e abbiamo cercato una guest house economica. Tutto pieno. Alla fine abbiamo avuto un’intuizione e siamo finiti in un posto di nome Red Lodge. Nella sua massima spartanità è una guest house carina, pulita e con un bellissimo balcone comune. Posiamo gli zaini e ci mettiamo immediatamente in marcia per Angkor. Per fare una piccolissima digressione culturale Angkor è una zona ampia famosa per i suoi bellissimi templi. Un tempo Angkor era un regno e vantava il maggior numero di abitanti del mondo. I re costruivano templi sempre più grandi e maestosi sfidandosi l’un l’altro. Quando la dinastia decadde Angkor fu risucchiata dalla giungla. Solo nel settecento dei ricercatori francesi, in groppa a degli elefanti, si imbatterono nelle rovine di questo mondo perduto e lo fecero conoscere al resto del mondo. Angkor è quindi una vasta zona di giungla piena di templi. Tra le altre cose hanno girato in questo posto Tomb Rider e Due Fratelli. Siem Reap è la città più vicina al complesso di Angkor, i visitatori alloggiano qua e si spostano nel sito di Angkor con vari mezzi: elefanti (ma non dovunque è possibile prenderli), tuk tuk (tipo risciò ma il conducente è in motorino), motorini noleggiati, biciclette noleggiate etc. Noi abbiamo scelto il tuk tuk.
I tuk tuk driver, appena vedono un turista, lo massacrano. Si sbracciano, contrattano, ti propongono migliaia di giri e itinerari. E sono dovunque, ad ogni angolo. Se alzi un braccio per sgranchirti e c’è un tuk tuk driver nei paraggi stai tranquillo che balzerà da te dicendo che è disponibile a portarti ovunque.
Noi abbiamo scelto Richard, il tuk tuk driver che abbiamo trovato davanti alla nostra guest house. Conosce 5 parole in inglese e non è affatto smart. Ma è molto dolce ed onesto. E ha un casco del Napoli rosa. Quando gli abbiamo chiesto “Sai cosa è Napoli?”, lui ha detto timidamente di no. Inizialmente aveva chiesto 12 $ al giorno ma Filippo è riuscito a spillargliene 10. Ci ha condotto in tutti i templi, aspettandoci all’uscita.
Che dire dei templi… I templi me li immaginavo diversamente. Nel mio immaginario erano luoghi assolutamente non turistici, pressoché abbandonati nella giungla, immersi nel verde, inghiottiti dalla natura. In realtà il turismo c’è, eccome. Essendo posti vasti e dispersivi è diluito bene e non ci sono da fare file o tornanti odiosi. Lo senti meno, ma c’è, ed è la distruzione di questi posti. Tutta la spiritualità di cui è permeato un tempio viene dissolta nelle grida starnazzanti di turisti insulsi, inadatti e incapaci. I percorsi sono segnati, pieni di cartelli, strade davanti per raggiungerli agevolmente e tanta medicazione davanti agli ingressi. Certo sto dicendo questo ma immaginiamo che la Cambogia è terzo mondo, e si vede. Non aspettatevi strade cementate, distributori di bevande o altro. È tutto assolutamente povero e rudimentale. Le strade son di polvere e se vuoi bere l’acqua la devi comprare da un bambino che la tiene in una cesta di vimini. Ma Angkor sta diventando, pian piano, l’ennesimo posto distrutto dal turismo di massa. E non parlo di viaggiatori silenziosi e rispettosi come noi. Ma dei viaggi organizzati, dei giapponesi, di orde di pensionati americani, di chiassose masse di gente irrispettosa. Di persone che si fanno le foto sorridenti con i bambini per poi scansarli l’istante dopo. Questo è il germe della Cambogia.
A pranzo abbiamo mangiato una banana fritta in davanti ad un tempio nella giungla. Fil si è anche mangiato un cocco che gli hanno tagliato in diretta col machete. Ha infilato la cannuccia dentro e ha bevuto il latte come se fosse succo di frutta.

 

SIEM REAP, ore 20.25

Sono seduta in una bettola per strada ad aspettare freid rice with chicken. Mi sono steccata mezza Angkor Beer in un sorso. Il primo alito di vento in questa giornata asfissiante. Di sera Siem Reap diventa un paese turistico. Tutta l’attenzione è sullo straniero. Tuk Tuk driver chiassosi che ti inseguono, bambini che chiedono l’elemosina, venditori di qualsiasi cosa. In particolar modo è pieno di centri benessere con ragazze cambogiane vestite tutte uguali (ogni centro ha il proprio tema e abbigliamento) che aspettano sedute davanti alla porta sventolando il listino prezzi. Alcune si tolgono i pidocchi a vicenda. Un’altra attività lucrosa che va di moda è immergere i piedi in una vasca piena di pesciolini. Questi, appena ti cali dentro, iniziano a mordicchiarti i piedi ma, essendo microscopici, ti fanno solo un leggero solletico. La sera i negozi chiudono verso le 23-24. Le abitazioni e i negozietti sono addobbati con lucine gialle, insegne in inglese e internet point. Non credo che Siem Reap sia il resto della Cambogia, penso che sia il luogo più turistico del paese. C’è anche un bel mercato in questa cittadina. Il puzzo che ti aggredisce appena vi entri è spaventoso. Un odore caldo, intenso, doloroso. Sembra quasi l’odore del sangue, di ortaggi marci, di carne secca. Poi, ogni tanto, un profumo ignoto. Abbiamo visto cose incredibili in questo posto. Donne rannicchiate sopra dei banconi che tagliano i pesci vivi col machete, tenendoli fermi con i piedi. Sarte che cuciono con macchinari vecchissimi. Ciotole piene di cibaglie misteriose. Filippo ha anche visto degli scarafaggi arrosto.

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24/02/2010 SIEM REAP, ore 00:23

Fuori dalla porta della mia stanza d’albergo in compagnia del rumore dei grilli e di una musichetta orientale. Mi sono fatta una doccia e lascio che mi si asciughino i capelli al caldo della notte. In fondo al corridoio spira il vento tiepido dalla terrazza comune. Oltre a noi, in questa guest house, non ho visto nessuno. A fine primo giorno mi sono fatta un’idea del popolo cambogiano. Purtroppo qua la miseria è tanta. E riesco a percepirlo anche nella turistica Siem Reap, immagino nelle altre parti del paese. Davanti a tempi e in città tutti mendicano o vendono cianfrusaglie per un dollaro. I bambini lavorano già a 4-5 anni. Gli insegnano l’inglese e alcune tecniche per impietosire il turista. Se tu gli dici: torno dopo, te li do dopo i soldi, loro ti rispondono “Ok, I’m waiting for you here, I’ll remember you”, e te resti spiazzato. Oppure a me le bambine correvano incontro dicendo che ero bella, che i miei capelli erano bellissimi. E poi provano ad appiopparti aquiloni di carta, cartoline, Lonely Planet tarocche, bottiglie d’acqua, flautini di bambù, noci di cocco, ventagli. Quando vedi i bambini ti si stringe il cuore e ti verrebbe da dargli tutto ciò che hai. Purtroppo però questo incentiva la medicazione. Piuttosto sarebbe bene semplicemente comprargli da mangiare, se hanno fame e scambiarci quattro chiacchiere.
Ma una cosa bella che ho notato è che tutti riescono a sorridere con grande facilità. Strappi loro una risata velocemente. Basta una battuta, un sorriso, una gentilezza. Qualsiasi cosa e loro ridono. Ti mettono un incredibile buon umore.
Oggi a Filippo stavano cascando a terra 200$ che si era messo in tasca. Una bambina mendicante, alla quale peraltro non avevamo neanche comprato nulla, mi ha fermata dicendomelo. Poi mi ha sorriso e se n’è andata. Senza volere nulla in cambio.
Mi sembrano persone affidabili, oneste. Nessuno ha mai detto di no per una foto. Ricordo che nei mercati in Croazia tutte le persone ringhiavano se provavi a far loro una foto o a domandarglielo. Qua sorridono timidamente, si sistemano i capelli dietro le orecchie e si fanno fare la fotografia. La loro semplicità è la loro forza.
Oggi abbiamo comprato un casco di banane tra un tempio e un altro. Un casco di 20 banane a 1$. La figlia di colui a cui le abbiamo comprate stava cercando un sacchetto per mettercele. Suo padre è corso da qualche parte ed è tornato con un sacchetto di dimensioni medie. La bambina l’ha guardato ed è rimasta senza parole, con gli occhi lucidi. Non aveva mai visto un sacchetto così grande e così bello.

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24/02/2010 SIEM REAP, ore 19:53

Sto bevendo una Coca-Cola dolciastra e dal retrogusto speziato. Ma come mai qua è diversa? Ovviamente bevo tutto rigorosamente sigillato. L’acqua non è sicura. Anche quando mi lavo i denti o quando faccio la doccia non posso entrare a contatto con l’acqua corrente. Beh comunque sia, parlando di doccia, direi che non abbiamo alcun problema con lo sciacquone. Il getto della doccia finisce dentro il wc. È tutto racchiuso in quei 2 metri. Per cui quando vogliamo accendiamo la doccia e via… volendo, se ruoto il bocchettone, posso anche lavare la porta, che peraltro ha un buco grosso tre dita malamente coperto da un’etichetta del “Save The Children Cambodia”. Anyway, smettiamola di sfottere il mio povero bagno.
Anche oggi abbiamo avuto un’intensa giornata. La mattina siamo stati a vedere gli ultimo templi angkoriani. Filippo ha scelto l’itinerario da seguire. Abbiamo cominciato con i templi più rudimentali e antichi e siamo arrivati ai templi più belli ed articolati. La nostra paura era quella di vedere subito l’Angkor Wat e di perdere interesse per tutto il resto dopo. Oggi abbiamo visto, tra gli altri, il bellissimo Bayon e il Prohm Temple. Il primo è anche chiamato “Il templio delle mille facce” perché è caratterizzato da tantissime facce sorridenti scolpite nella roccia. È stato anche l’ultimo tempio edificato ad Angkor. I volti rappresentano il viso del re che lo fece costruire. È impressionante da vedersi. Ti senti osservato da migliaia di occhi, nell’incantevole rumore della giungla. Peraltro vicino al Bayon ci sono altri tre templi e noi abbiamo percorso l’aerea a piedi, sotto il caldo torrido. Abbiamo anche fatto amicizia con una scimmia particolarmente grassa e amichevole.
L’altro tempio, il Prohm Temple è famoso perché è uno dei due luoghi in cui son state girate le riprese di “Tomb Rider”. La sua bellezza però è costituita da un gigantesco albero che è cresciuto intorno e dentro parte della costruzione. Il risultato è una struttura decadente ma sofisticata completamente abbracciata dalle radici. Qua il turismo di massa, di cui parlavo prima, è agli estremi. Tutti anelano ad una foto nel preciso punto in cui Angelina Jolie viene ripresa dalla telecamera. La gente sale sulle pietre, grida, le guide sbatacchiano ombrellini appariscenti, le persone si spingono. È un qualcosa di orribile.
Infine ci siamo spinti a piedi su un tempio, di cui adesso non ricordo il nome, che si staglia su una collina e che guarda l’Angkor Wat. All’ora del tramonto, con un bel teleobiettivo, si possono fare magnifiche foto. Io in compenso ho rischiato la disidratazione e son rimasta tutto il tempo distesa su una pietra a respirare e bere.
Dopo pranzo, avendo già fatto il grosso dei templi, abbiamo preso una decisione. Pagando 5 $ a Richard ci siamo fatti portare al Floating Village, il mercato galleggiante. È diversi chilometri fuori Angkor e, per arrivarci, ci vogliono i pullman privati oppure uno sfiancante viaggio col tuk tuk. È stata la più colossale fregatura di sempre. Non lo fate nemmeno per scherzo.
Vi racconto la vicenda.
Richard ci ha portati al Floating Village. La strada si spingeva fuori dai paesi abitati ma, con stupore, mi sono accorta che non esiste un vero e proprio concetto di paese. La vita si svolge lungo la strada principale o lungo il fiume principale. Il “paese” è solo ciò che circonda il mercato. Per cui girando con un tuk tuk si può tranquillamente dire di vedere la Cambogia! Le persone vivono in delle condizioni pietose. Sui fiumi le case sono a palafitta. Sotto di esse sono appese amache in cui le persone schiacciano i pisolini all’ombra. Le baracche invece, in lamiera o altri materiali, sono sporchissime e a terra c’è ogni tipo di immondizia. Ci sono anche molti cani e moltissimi bambini.
Arrivati al Floating Village un tipo coreano panciuto ci prende e ci porta alla biglietteria. Stava già riempiendo la ricevuta quando mi son permessa di chiedergli cosa stesse facendo. Aveva già fatturato 30$ a testa (qua sono un’infinità, basta pensare che per fare Siem Reap-Battambang, viaggio di 6-8 ore, ci vogliono 20$). Saliamo su questa barchetta sudicia con il conducente con mascherina alla bocca e un ragazzotto cambogiano come guida. Inizialmente il ragazzotto-guida tutto gentile ci spiegava le cose e ci faceva delle domande di interessamento. Poi, improvvisamente, la svolta. Ci propongono di andare a visitare la scuola galleggiante. Noi contenti pensiamo a una bella esperienza. Invece la “guida” se ne esce dicendo che se vogliamo visitare la scuola dobbiamo comprare penne e carta ai bambini al negozio di cancelleria galleggiante perché, ed è stata questa la cosa più bella, “altrimenti i bambini rimarrebbero molto delusi da voi”. Ci hanno portato prima nel negozio. Penne e quaderni a 25$ minimo! Diciamo di no e così non andiamo dai bambini. Ci portano allora al ristorante galleggiante. Ovviamente volevano che mangiassimo qualcosa. Non abbiamo preso niente e non ci siamo neanche impietositi quando decine di bambini a bordo di pentole galleggianti, ci hanno circondati con pitoni al collo chiedendo soldi. La cosiddetta guida e il conducente della barca erano visibilmente innervositi per il fatto che volessimo solo tornare indietro. Non ci hanno più parlato. Solo alla fine si sono permessi di chiederci anche la mancia dicendo che loro erano poveri e che noi non avevamo speso niente per loro. A quel punto gli ho fatto una bella strigliata dicendo loro che avevamo speso anche troppo (troppo veramente) per un vero e proprio furto. Basta pensare che gli unici due posti in cui ci hanno portati sono stati solo affinché spendessimo soldi. Imbarazzante. Hanno macchiato la dignità di un paese che si rimbocca le maniche per guadagnarsi un dollaro.
Mi dispiace solo che la Lonely Planet, che è sempre molto attenta alle truffe, non abbia segnalato la situazione.
Grazie a questo pomeriggio perso non siamo riusciti a finire i templi e ci lasciamo domani come ultimo giorno per vedere i due templi più belli, che abbiamo conservato per ultimi: Angkor Wat e Beng Mealea.
Ah un’altra cosa molto simpatica di cui siamo resi conto sono i Cambodian’s People Party. Sono luoghi comunitari in cui i cambogiani fanno delle feste. Tipo le nostre case del popolo. Tutto sempre sulla strada. E i matrimoni sono meravigliosi. Si riconoscono perché hanno tutti addobbi rosa e c’è un enorme cuore davanti al posto in cui sta avvenendo la celebrazione. Sia nei Cambodian People’s Party che nei matrimoni c’è la musica altissima, orientale e simpatica. La senti da lontanissimo e ti assorda quando ci passi accanto. Anche questo, forse, è un altro cane giallo.
PS- in tutto questo ho perso il telefono…

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25/02/2010 BENG MEALEA, ore 10:25

La giornata è iniziata subito male.
Chia, il nostro nuovo Tuk-Tuk driver, ci ha preso 25$ per portarci a Beng Mealea (come pattuito ieri). Il posto è grandemente fuori Siem Reap, circa due ore all’andata e due al ritorno. Ma il suo amico furbetto (collega di risciò) ci ha chiesto appena ci siamo presentati di portargli da bere mentre andavamo al supermarket a fare rifornimento. Portiamo così a Chia una Coca e lui dice che non vuole ora una bevanda, la vuole dopo, al tempio, fresca. Un po’ innervositi mettiamo via tutto e partiamo, ci tappiamo con ampi foulard per la polvere che riempie le strade e ci sorbiamo due ore di Tuk-Tuk. Passiamo tra campagne vere e proprie e mercati folkloristici. Mi son presa un’insolazione al braccio sinistro. Arrivati abbiamo constatato con i nostri occhi l’effettiva bellezza di questo posto. La natura ha inghiottito e, in parte, risucchiato, il tempio. Ma i rumori della giungla colmano il vuoto del crollo dell’architettura. Uccelli che cantano, foglie che cadono (come in autunno), natura che si muove e cicale che friniscono. Purtroppo però, nonostante la nostra fuga, anche qua c’è il chiacchiericcio sguaiato dei giapponesi e la loro sfarzosità: ombrellini, gridolini, pizzo, cappellini con visiere, bevande, apparecchi rumorosi, chiasso. Ad un tratto si erano tutti fermati in fila indiana, ingorgando l’unico passaggio disponibile, perché non riuscivano a scendere da un passaggio leggermente più angusto. Dopo aver tollerato per dieci minuti la processione abbiamo superato l’orda di turisti japi-japi e ci siamo tuffati nel passaggio in un secondo. Si è levato in aria un applauso da parte dei giapponesi che ci hanno preso per i loro eroi.
Adesso sono all’ombra di alcune pietre, accanto a me ho il guardiano del tempio. Sta cercando di decifrare la mia scrittura in caratteri latini. Filippo ha trovato un gruppo di ragazzini che vivono tra le rovine. Li ha assoldati come guide e stanno ridendo come matti girellando tra sassi e radici di alberi.

 

SIEM REAP, ora del tramonto

Sono al Red Lodge sul tetto dopo una doccia. Braccia e spalle ustionate, ma anche il viso è a buon punto.
Oggi, dopo l’ammazzata di Beng Mealea, siamo andati all’Angkor Wat. Il viaggio in Tuk Tuk è stato incantevole. Mi sono messa l’Ipod alle orecchie e ho ascoltato la canzone della vacanza: “Two Dots” di Lusine. Le persone, quando ti vedono passare per strada, ti salutano e ti sorridono. Avrei voluto avere una telecamera nell’occhio per poter riprendere tutto ciò che stavo vedendo. A metà tragitto ci siamo fermati ad un mercato su mia richiesta. Ho comprato delle pop corn dolci, schifosissime. C’erano anche delle bancarelle che vendevano oro e avevano qualche cliente cinese intento nella pesata. Siamo arrivati all’Angkor Wat e Chia ci ha lasciati in un grosso spiazzo aldilà della strada oltre la quale c’è la struttura. In quella parte sorgono baracchine per mangiare, il parcheggio dei Tuk Tuk driver e molti mendicanti.
Ci siamo fermati a bere qualcosa in una delle baracchine. Il caldo è tremendo e spesso dobbiamo bere non solo acqua ma anche bevande che diano un senso di sollievo immediato.
Insomma: ci stiamo ammazzando con la Cola-Cola.
Mentre stavamo bevendo sono sopraggiunti una ventina di bambini che vendevano braccialetti di bambù. La prima è arrivata dicendomi “Muy Linda” e ha provato a rifilarmene uno. A ruota sono iniziati a spuntare bambini da ogni dove. Uno addirittura stava tagliando con un machete dei pezzi di legno accanto al nostro tavolino. Appena ci ha visti ha posato l’ascia e ha tirato fuori dalla tasca i braccialetti venendo a proporceli. Filippo, preso dalla tenerezza, ha deciso di prenderne uno. I bambini si sono scatenati. Gli sono andati addosso sbattendogli in faccia i braccialetti. Filippo in inglese ha specificato che avrebbe comprato solo il braccialetto che gli sarebbe stato, dato che erano tutti piccoli e non entravano nel suo polso. I bambini allora gli provavo con la forza i braccialetti. Da un momento divertente è diventato, in pochi minuti, una scena inquietante. I bambini hanno cominciato a fare a spallate per prevaricarsi. Filippo, ogni volta che un braccialetto non gli entrava, diceva “No, questo non mi entra, mi dispiace”. Ma il bambino proprietario del braccialetto non si dava per vinto e continuava a riproporglielo insistentemente. Ad un tratto a Fil è entrato il braccialetto di cui era proprietario il bimbo che tagliava col machete. Gli ha dato 1 $ ma, anziché prenderne 5 a quella cifra, come prevedeva la tariffa, ne ha preso solo uno lasciandogli gli altri. In pochi secondi è scoppiato il panico. I bambini hanno cominciato a spingersi, a continuare a chiedergli soldi e braccialetti. Uno è scoppiato a piangere a singhiozzi. Ha iniziato a dire a Filippo che era arrivato per primo e che era suo diritto avere il braccialetto. Fil inizialmente ha provato a spiegargli che lui aveva promesso di prendere solo il braccialetto che gli stesse ma, quando ha visto che il bambino non smetteva, ha iniziato ad ignorarlo. Questo gli piangeva nell’orecchio, gli prendeva il braccio. Le bambine allora, rinvigorite dal tentativo dell’amichetto, son iniziate a venire da me a piagnucolare. Quella che effettivamente era arrivata per prima mi diceva che spettava a lei quel dollaro. Un’altra veniva a supplicarmi prendendomi le braccia. Io allora ho iniziato a distrarle. A una le ho fatto una treccia, ad un’altra le chiedevo cosa facesse a scuola. Loro parlavano, per qualche secondo sorridevano e non ci pensavano neanche più. Poi venivano ridestate dal pianto dell’amico e ricominciavano. La proprietaria della baracchina è venuta a scacciarli via (alcuni erano anche figli suoi). Loro hanno fatto finta di andarsene e poi sono tornati. Abbiamo dovuto lasciare quel posto perché la situazione era diventata insostenibile. Ma il bambino piangente ci ha seguito. Inizialmente puntava sulla compassione. Diceva che era stato ingannato, che Filippo era stato bugiardo. Poi ha iniziato a gridare offese. Mi son girata e ho visto questo bambino incattivito, col moccio al naso, sporco, arrabbiato. Gridava “For a fuking dollar!!”. Era il ritratto della collera. Mi ha fatto una tristezza infinita. Incattivito dalla povertà, dalla famiglia ma, soprattutto, dal turismo. Se gli avessimo dato quel dollaro lo avrebbe rifatto dieci minuti dopo con un altro turista e, da grande, sarebbe diventato scaltro e furbacchione come i nomadi del Floating Village. In questo senso il turismo è la piaga della Cambogia. Bisognerebbe aiutarli concretamente, non istigarli alla mendicazione. A quel bambino nessuno aveva promesso un dollaro e lui lo sapeva bene. Ma era stato abituato a questo. A piangere per ottenere. Avevo letto centinaia di cose al riguardo. Anche la Lonely Planet consiglia di non dare soldi ai bambini. Solo quando lo vivi capisci perché.

Siamo arrivati ad Angkor Wat e siamo rimasti indubbiamente colpiti dalla maestosità di questo sito. Tant’è che si ritiene sia il monumento religioso più grande del mondo. Il caldo era insopportabile oggi. Tanto più nell’ora di punta. Io a malapena mi reggevo in piedi. Il problema, qua più che mai, è il turismo. Pullman di gente che ha preso il volo per Siem Reap, è comodamente scesa, si è fatta venire a prendere, ha visto l’Angkor Wat ed è ripartita. Addirittura, scena pazzesca, una giapponese si truccava in mezzo alle rovine (con tanto di trousse super-accessoriata) con l’aiuto di un’amica, con tacchi e minigonna, per essere in forma per una foto. Tutto ciò con 40 gradi umidi.
Comunque sia, per i miei gusti, Angkor Wat maestoso ma a me hanno trasmesso più emozioni altri templi. Intorno a questo complesso c’è un’enorme fossa, fatta di erba bruciata dal sole. Un tempo era piena d’acqua e ci nuotavano coccodrilli. Erano il monito per i malintenzionati. Doveva essere molto suggestivo. La parte più bella è stata un gruppo di livornesi che, in mezzo al silenzio, ha gridato: “Deh, e ci dev’esse scirocco!”. Mitici…

 

SIEM REAP, ore 22:00

A frascheggiare nella terrazza della guest house. Siamo stati al 7Eleven (sono dei mini market asiatici che vendono tutto il junkie food internazionale) e abbiamo preso qualche dolcetto da mangiare. Nonostante gli oggettivi limiti di questo posto sono felice di aver alloggiato qua. Ogni mattina mi svegliavano le preghiere delle abitazioni vicine. L’Asia ha veramente un qualcosa di magico.
In questo momento invece un geco grida con tutta la sua voce. Non avevo mai sentito il verso di un geco ed è buffissimo! Ci sono anche una canzone orientale a tutto volume (dalla tv di una baracca sottostante) e dei bambini che parlano in lontananza. Oltre alle immancabili cicale. Mi ero dimenticata di dire che ieri ci siamo concessi un massaggio al nostro ritorno da Angkor. La Lonely Planet lo elenca tra uno dei dieci motivi per cui venire in Cambogia. Beh direi che è un po’ esagerato, ma ne vale la pena… abbiamo speso 7$ per un’ora, total body. Ci hanno messo accanto, su queste sedute molto comode fatte di moquette vecchissima, e ci hanno letteralmente scricchiolato per un’ora. Piccole massaggiatrici (peseranno quaranta chili) ma di grandissima energia. La mia provava a comunicare con me ma parlava a voce talmente bassa che capivo una parola su venti. Annuivo sempre.

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26/02/2010 SANGKER RIVER, ore 9:33

Sono su una barchetta a motore in mezzo al fiume Sangker che mi condurrà da Siem Reap a Battambang. Ore di viaggio dalle 6 alle 8 a seconda della profondità del fondale. E, siccome è periodo secco, ci sta che ci si schiacci la giornata. Siamo partiti all’alba e il tragitto, per gran parte, è quello fatto ieri l’altro per l’esperienza tragica del Floating Village. Insomma: non solo il danno, ma anche la beffa. Abbiamo visto le stesse identiche cose. Su questa barca saremo in venti, disposti sulle due panche messe, per lungo, sui due lati della barca. Inizialmente le tragicomiche: l’imbarcazione ha messo il turbo nella prima parte del tragitto (nel lago). Sembrava di essere nel bel mezzo della tempesta perfetta. Tutti a ripararsi. Donne dietro uomini. Uomini dietro zaini. Tutti a mettersi cappucci, impermeabile, asciugamani addosso. La barca imbarcava acqua e per terra sembrava ci fosse un fiume. Io ridevo a crepapelle ma la gente era sconvolta. Tutti pensavano che durasse così per tutto il tempo. Poi, dopo un po’, appena la barca si è introdotta nel fiume, abbiamo iniziato a procedere a passo d’uomo. È salito un bel sole in cielo e ci siamo subito asciugati e dimenticati la brutta esperienza. Abbiamo goduto della bellezza dei villaggi fluviali. Ne compare uno ogni poco. Sono raggruppamenti di barche, di costruzioni sul fiume. Ma quasi tutte galleggianti. Le persone vivono là dentro, ci lavorano, ci dormono, ci mangiano. Abbiamo visto di tutto. Dai matrimoni galleggianti ai lavori di gruppo.
è appena salita sulla barca una cambogiana da una canoa che è partita da una casa galleggiante. Ora siamo 21.
La squadra è formata da: In punta cicciobomba francese e la sua Japi&Japi mogliettina. Lui 150 chili con T-shirt rappresentante un poco appariscente squalo a bocca aperta che, grazie alla sua panza sconfinata, sembra mangiarti veramente. Tocco di classe: ciabattine in stile Sampei. Lei invece jeans, cintura e borsetta griffate, nonché smalto rosso. Non so se ha capito dove si trova o se è stata drogata prima di arrivare in Cambogia… Accanto a me a sinistra abbiamo il personaggio di punta. Lo abbiamo denominato STOICO, VEDETTA o SCOGLIO. Questi tre epiteti derivano dal suo comportamento durante la tempesta iniziale. Mentre tutti noi correvamo ai ripari, stoico restava immobile e impettito nella stessa posizione alla poppa dell’imbarcazione. Non si è nemmeno asciugato le gocce. Non credo neanche che abbia una voce. L’unica cosa che è riuscito a comunicarci è stato il suo dissenso per il mio zaino appoggiato nella sua seduta. Semplicemente lo ha buttato per terra senza neanche degnarmi di uno sguardo. Lui è superiore. Età: circa cinquanta. Nazionalità: pensiamo turca. Abbigliamento: Camicia a quadri e pantaloni grigi con sandali professionisti da viaggiatore dei tropici. Classico professore illuminato che fugge dalla quotidianità alla volta dell’ignoto.
Accanto a me a destra c’è l’altro grande personaggio della barca. Se prima abbiamo visto il Viaggiatore Introverso ora abbiamo il Viaggiatore Estroverso. Età: sessanta. Nazionalità: americana. Abbigliamento: camicia a righe, pantaloni blu e scalzo. Ha attaccato subito bottone e abbiamo scoperto che non c’è paese che non abbia visitato. È stato almeno due volte in ogni parte del mondo. In particolare predilige: Namibia, Sudafrica, Botswana, Birmania e Cina. Ha iniziato anche a parlarci in italiano e ad elencarci tutti i piatti che ha mangiato a Torre Annunziata e in altri cinque o sei posti di cui ignoravo l’esistenza. Siede a gambe incrociate, a piedi nudi e mangia del riso con le bacchette che ha preso prima di salire sulla barca. Mi resta immediatamente simpatico e si dimostra un grande interlocutore. Oltre al nostro amico proseguiamo con una serie di personaggi minori di età 50 circa si origine ignota. Probabilmente Nord Europa. Tra i personaggi degni di nota abbiamo: quattro cambogiane salite by the way; un viaggiatore porzione singola indiano; un belloccio che fa il Brad Pitt della situazione in Sette Anni in Tibet con sguardo perso nel vuoto, diario a portata di mano e ricciolo ribelle; e una coppia sfigatina di tedeschi con lei che è il doppio di lui e con i capelli la metà dei suoi.

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Ore 11:34

Ripartiti da dieci minuti per Battambang. Questo viaggio in barca si sta rivelando stupefacente. Vento, chiacchiere, odori, rumori e soprattutto Vera Cambogia. Ci siamo fermati in un bar sull’acqua. Io e Filippo abbiamo preso dei biscotti (tipo i nostri Tuk). Una cambogiana mi ha guardata male e mi ha maledetta in khmer… mah. Ma un gruppo di bambine da un’altra imbarcazione mi ha iniziato a guardare. Appena le ho riguardate mi hanno sorriso a bocca spalancata. Ora il fiume si è fatto più stretto e con più curve. Spesso ci si arena e bisogna usare dei remi più lunghi per toglierci dalla fanghiglia. Abbiamo anche iniziato una gara con un’altra imbarcazione. Ogni volta che una delle due si arena l’altra fa le pernacchie. Adesso c’è una brezza favolosa.

 

BATTAMBANG, ore 20:50

Tremendo. Non ci sono altre parole. Mi dispiace per tutte le persone a cui è piaciuta Battambang ma io la trovo allucinante. O, perlomeno, questa è la mia personale esperienza. Vuota, spenta, senza il minimo fascino. Puzzolente, sudicia e neanche la gente è accogliente e serena come negli altri posti. Ho anche trovato dei cambogiani vestiti D&G. Tremendo.
Appena siamo arrivati, dopo 8 ore di barca, il nostro amico americano ci ha dato il suo “God Bless you” ed è montato su una macchina per la Capitale. Ci aveva avvertiti che Battambang è una brutta città ma noi non abbiamo voluto dargli retta! Ce ne siamo andati verso il mercato. Abbiamo scelto un hotel là davanti, consigliato dalla Lonely Planet. Lo abbiamo preso senza aria condizionata per risparmiare qualcosina.
Adesso siamo a cena nel miglior posto di Battambang (Cold Night Restaurant). Io ho preso un hamburger e una zuppa di funghi con pane caldo mentre Fil ha preso pollo al curry verde che dice essere meraviglioso.
Mentre aspettavamo il nostro Tuk Tuk driver davanti al ristorante ho fatto amicizia con dei motociclisti cambogiani a cui ho rifilato due frasine che ho imparato. Foneticamente si pronunciano così: GHOME RIAB SUA (Salve), LIA SAN HAUI (Arrivederci) e GUAB KNIA TH’NGAI (A tra poco). Sono abbastanza brava! Accanto al ristorante c’è un hotel che credo sia il centro conferenze della città. Sono arrivate due limo con i vetri oscurati da cui son uscite degli uomini eleganti con la scorta. Credo fossero politici. La cosa che mi fa più sorridere è che anche nelle cose serie ed istituzionali sono estremamente cambogiani…

Nel frattempo sono arrivata all’hotel (che si chiama Royal Hotel) dove abbiamo lottato con un ventilatore rumoroso e siamo andati a letto con i tappi alle orecchie.

 

BATTAMBANG, 27/02/2010 ore 12:27

Stamattina ci siamo messi subito in cammino alla volta di Phnom Penh. Siamo andati ad una delle pensilinee dei pullman e abbiamo acquistato due biglietti per la capitale. L’esperienza pullman ci ha insegnato che i cambogiani hanno una filosofia della strada molto particolare. Si suonano tutti ma non si arrabbia nessuno. Il nostro autobus aveva un clacson fortissimo che faceva un’eco interno spaventoso. L’autista suonava di continuo. Ogni volta che in lontananza vedeva sulla strada un qualsiasi veicolo si dava alla pazza gioia. Ma non ho mai visto un automobilista arrabbiarsi. Nemmeno in situazioni legittime. Accanto a noi, nella fila opposta al corridoio, ci sono due ragazzi. Filippo ha trovato il suo nuovo hobby: sfotterli. I due si sono mimetizzati con la popolazione cambogiana. Lei rasta e ciabattine di paglia e lui barba e capelli lunghissimi e pieno di collane. Sembrano tedeschi o finnici.
Fil dice che il ragazzo voleva vincere il premio come miglior zattone dell’anno e, nonostante sia stato messo a dura prova dal look cambogiano, c’è riuscito. Ha anche aggiunto: “con quel piedino di fata con cui ha toccato mezza Cambogia”. Tutto questo perché il nostro amico si è levato le ciabatte e ha delle zampe nere da vergognarsi. Nel frattempo il televisore del pullman trasmette il karaoke che, a quanto ho capito, va molto di moda in Oriente. Son tutte storie di corna e di fine storie. ‘Na tragedia.

 

PHNOM PENH, ore 19:44

Siamo arrivati nella capitale con i timpani completamente forati dal maledetto clacson. Alla fermata ci hanno aggrediti centinaia di cambogiani. Ognuno proponeva qualcosa. Un albergo, un tuk tuk, un ristorante. Di tutto. E facevano pressione stringendoci dall’esterno, per cui stavamo per essere schiacciati. Con un Tuk Tuk ci siamo diretti al Royal Inn Hotel (stesso nome di quello di Battambang). La stanza è particolare. Salita una rampa di scale è subito sulla destra. Si entra con una porta simile ai portoni di ingresso delle abitazioni. C’è un corridoio e, sulla destra, il bagno che è molto grande. Continuando il corridoio invece si arriva alla stanza che ha dimensioni normali, una scrivania, un letto, una tv e una finestra. Tutto molto umile come ogni guest house in cui abbiamo alloggiato fin ora. Sembrerebbe tutto perfetto, peccato che nel bagno non vi sono finestre ma due feritoie in alto che danno direttamente sulle scale. Fortunatamente nessuno può vedermi e io non posso vedere nessuno. Ma mi possono sentire.
Comunque 15 $ con aria condizionata è un prezzo onesto.
Dopo aver lasciato gli zaini e aver fatto una doccia ci siamo diretti a due mercati della città. Nel primo abbiamo comprato un paio di pantaloni di panno grigi al ginocchio. Costavano 9 $ e Filippo ha abbassato il prezzo fino a 3 $ (anche la Lonely avverte che ai turisti provano a maggiorare i prezzi). Abbiamo anche comprato allo stock delle krama: due piccole e una grossa a 5 $. Il secondo mercato invece era il Mercato Russo, chiamato così perché (così ho letto) molto amato dai russi. In questo mercato c’è moltissimo artigianato, sete e tessuti. Tra le varie chincaglierie c’è anche una parte di mercato alimentare con tante zuppe e zuppette.
Fortunatamente ancora non ho visto alcun ragno fritto. Perché ovviamente, prima di partire, avevo visto su internet la prelibatezza cambogiana: le vedove nere arrosto. La cosa buffa è che io sono aracnofobica e ho il panico anche solo a vedere un ragno disegnato. Ogni volta che entro in un mercato trattengo il respiro nell’autentico terrore che ne veda uno.
Comunque Phnom Penh mi piace molto. Si vede che è una capitale, seppure la capitale di un paese asiatico del terzo mondo. I palazzi sono più alti, ci sono costruzioni più in altezza e meno in lunghezza ed è costruita come una canonica città (in ampiezza e non lungo un’unica strada). Anche la quantità e la varietà dei mercati da l’opportunità di girare molto e volentieri. Abbiamo trovato anche moltissimi bonzi, parchi e piccoli market. Abbiamo visto anche il Palazzo Reale e la Pagoda d’argento. Ma anche locali, soprattutto sul fiume. Sì perché Phnom Penh si estende sul fiume, lungo la cui sponda sorgono tutti i ristoranti e i locali più turistici. Rimarrei volentieri qualche altro giorno in questa città ma Filippo ha già comprato due biglietti per il pullman per domattina. Direzione Kratie. Iniziamo a spostarci verso est salendo sempre più verso il confine con il Laos lungo il percorso del fiume Mekong. Tra poco andiamo a cena all’Happy Herbs Pizza. Un posto famoso per le pizze alla marjuana, sul fiume. Anche la Lonely lo consiglia… PS- oggi c’era un elefante in mezzo alla strada! (no, no, ancora non l’ho mangiata la pizza alla marjuana tranquilli!).

 

PHNOM PENH 28/02/2010 ore 7:06

Sull’autobus direzione Kratie. Ancora fermi alla pensilinea. Nel mio stesso posto dall’altra parte del corridoio c’è un ragazzotto cambogiano che biascica un hot dog. La vita è iniziata presto stamattina. Anche se è partita senza l’immancabile canto buddhista che abbiamo trovato sia a Siem Reap che a Battambang.
Alla fermata c’è un bonzo scalzo che manda un suo discepolo a chiedere offerte. È un’usanza qua. Il bonzo è piccolo, avrà quindici anni ed è coperto da un ombrellino. Chi gli fa l’offerta (quasi tutti) si toglie gli zoccoli o le ciabatte, si inginocchia ai suoi piedi e prega. In tutto questo il bonzo resta immobile e aspetta che il fedele termini.
Comunque ho la brutta notizia. Prima o poi doveva succedere: ieri ho visto i primi ragni fritti lungo il fiume. È successo questo. Filippo era avanti a me e mi ha detto di fermarmi. Aveva visto ad un baracchino ambulante una ciotola piena di ragni fritti. Ha fatto una foto con la digitalina e me l’ha fatta vedere. Io son rimasta a doverosa distanza e mi son limitata ad avere un incubo stanotte solo per la fotografia.

 

On the road, ore 13:02

Stavamo procedendo in un panorama fatto di campagne e villaggi sulla strada. Non molto dopo ci siamo fermati al “Fini Grill” della Cambogia, ovvero una baracca di lamiera con due o tre bancarelle che danno sulla strada. Scendo le scalette del pullman e mi trovo davanti una bella pentola di ragni fritti al peperoncino. Non potete immagina la fuga che ho fatto. Ho iniziato a non toccare niente e mi venivano i tremori. Avevo paura a toccare la gente perché temevo che ne avessero mangiato uno e controllavo, a debita distanza, che nessuno si avvicinasse troppo. Purtroppo però le pentole erano molte e si confondevano tra loro. Risaliamo sul pullman dopo esserci fatti incartare un po’ di riso e due uova fritte nella barcchina più lontana da quella dei ragni. Con me avevo anche il latte e cioccolato freddo (l’ho provato al primo 7eleven a Siem Reap e da allora è diventata la bevanda del mio viaggio). Sicché abbiamo pranzato silenziosamente sul pullman. Ripartiamo appena tutti risalgono e sento un forte odore di roba fritta. La gente si era portata il pasto sul pullman. In particolare quello dietro di me sgranocchiava gaio qualcosa. Filippo mi confessa poco dopo che dalle sue labbra spuntavano le zampe di una tarantola. Povera me!!! Appena ripartiti cerco di addormentarmi. Mi lego intorno agli occhi una maglietta per non vedere la luce del giorno e provo a sognare. Nel dormiveglia, all’improvviso, sento un tanfo micidiale. Inizialmente non razionalizzo, resto a fluttuare in questo odore nauseabondo. Solo dopo un pochino l’odore diventa troppo acre e sono costretta ad aprire gli occhi. “Oddio cos’è questo puzzo?”, chiedo a Filippo togliendomi la maglietta. In quel momento vedo tutti con le mani davanti alla bocca a fermare conati di vomito. Filippo che si tappa il naso e cerca di respingere l’urto di rimettere. Io che mi affretto a prendere il balsamo di tigre e a mettermelo abbondantemente sotto il naso per tappare quel tanfo. Il puzzo è talmente forte che l’autobus si ferma. Era qualcosa che veniva da dentro, si sentiva. Era troppo caldo, acre, schifoso. La gente ha iniziato ad alzarsi in piedi e a lamentarsi in khmer. Io e Fil eravamo gli unici turisti e cercavamo di capire cosa stessero dicendo. Ad un tratto abbiamo visto uno che si è alzato con fare pentito e tutti che inveivano contro di lui. Qualcuno ridacchiava. Abbiamo capito: se l’era fatta addosso. Tutti sono scesi dal pullman per riprendere fiato e chiunque (uomo o donna che fosse) si è calato i pantaloni e ha fatto ciò che doveva sul ciglio della strada accanto al pullman. In Cambogia ci sono ancora le mine antiuomo nei posti non battuti, quindi la gente non si allontana. Purtroppo la mia educazione occidentale non mi porta ancora a questo punto. Sto trattenendo la pipì da diverse ore e mi scappa da morire.
Appena ci siamo rimessi in moto, ancora intorpiditi dal puzzo che aveva lasciato l’alone nel pullman, abbiamo sentito un fortissimo colpo provenire da sotto il pullman con tanto di sbandamento del mezzo. L’attrito è stato talmente forte da farci sbalzare tutti e da provocarmi un grosso spavento. Tutti scendono dal pullman per vedere un masso che è entrato nella ruota rompendo tutto, cerchione, gomma etc.
Dopo svariati minuti il pullman riparte con una ruota completamente rotta. Si procede a due all’ora facendo tantissimo chiasso. I pochi cambogiani che incontriamo nel chilometro successivo ci guardano sconvolti. Ad un tratto troviamo una baracca e ci fermiamo.
Mi accorgo solo una volta scesa che quel posto è il “Pronto Soccorso”. Consiste in una baracca di lamiera fuori dalla quale c’è una sorta di lettiga fatta di legno su cui siede rannicchiata una centenaria malconcia e guardinga. Dentro ci sono delle flebo e degli armadietti con medicinali e oggetti da pronto soccorso. Il pullman si ferma e mette come “triangolo” una frasca sul ciglio della strada. L’autista e l’aiuto-autista provano a smontare la ruota senza successo. Nel frattempo io me la sto facendo addosso.

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Ore 13:32

Dopo poco dal tentativo di cambio ruota è arrivato da nord un ragazzo in motorino con una gamba aperta. Doveva aver fatto un incidente e si era completamente tagliato tutta la gamba. Zoppicava e non so come abbia fatto a raggiungere da solo il “Pronto Soccorso”. Il dottore ha preso ago e filo, ha disteso il ragazzo sul letto di legno esterno, e ha cominciato a cucirlo davanti a tutti.
Siamo ripartiti con la ruota monca per fermarci dopo qualche metro ad un “benzinaio”. Il benzinaio da queste parti consiste in un banchino con bottiglie di Pepsi o Coca Cola di vetro piene di carburante giallo paglierino. Accanto al benzinaio c’è un meccanico nel cui negozietto di lamiere ha solo ruote di bicicletta. Intorno al pullman si è creata una piccola agorà. Tutti chiacchierano in un incomprensibile khmer. Nessuno sa l’inglese. Filippo è sceso a riprendere la tragedia. È da stamattina che non vado in bagno, sto morendo.

 

KRATIE ore 17:40

Il pullman è ripartito dopo due ore e mezzo. Alle 16:00 eravamo a 100 km da Kratie in mezzo a terra rossa e capre. Finalmente Filippo riesce a trovare l’unico khmer che parla qualche parola d’inglese e gli chiede spiegazioni. Il tizio dice che nessuno sa riparare il danno perché è troppo profondo e devono trovare un meccanico. Il pullman riparte e si ferma in una sorta di parcheggio di terra battuta, in mezzo al niente. Scendono tutti tranne io e un altro tizio. Filippo va di sotto a fumarsi una sigaretta. Ad un certo punto, dopo cinque minuti, l’autobus riparte. Inizialmente pensavo che facesse manovra, poi ho visto che stava andando via. Ero talmente scioccata che non ho avuto nemmeno la forza per fare niente se non girarmi e vedere, dal vetro, Filippo che mi guardava basito con la sigaretta in bocca. PANICO. Gli zaini erano sul pullman ma io non avevo alcun telefono e non sapevo dove stessimo andando! Così mi son tuffata verso l’unico presente oltre me. Gli chiedo in inglese dove si stia andando e lui mi risponde: “You are beautiful”. Eccoci, è finita. Lo ignoro, mi siedo. Chiudo gli occhi. Prego che Filippo sia abbastanza intelligente da fare una cosa, appunto, intelligente. Dopo circa 5 km il pullman si ferma. Mi affaccio. Siamo in mezzo ad alcune baracche, davanti ad un meccanico. In quel momento arriva Filippo a cavallo di un motorino, dietro un cambogiano. “Hi friend!”, gli dice battendogli un cinque e mi si presenta davanti con un sorriso. Superman. Presi dall’angoscia chiediamo al tizio che era rimasto con me sul pullman come possiamo fare e lui ci indica una macchina che è venuta a prenderlo. Saliamo tutti sulla macchina e siamo in sette. Ci porterà a Kratie. In mezzo di strada una mandria di vacche emaciate attraversa la strada senza preavviso e noi siamo obbligati a frenare con il freno a mano a un centimetro da una di loro. Arrivati a Kratie ora l’odissea è finalmente finita.

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Sera.

Il tramonto sta per contaminare con prepotenza il cielo. E io voglio vederlo dalla sponda del Mekong. Butto in malo modo il mio zaino nella stanza di una guesthouse piena di ragnatele (Santepheap Hotel). Chiudo. Corro verso il fiume. Ci sono poche persone che ammirano l’acqua. Sembrano tutti pieni di quel che guardano. Li imito. Il sole ha iniziato la sua discesa. Il Mekong è un grosso mostro addormentato e sinuoso. Ti trascina nell’emozione. è incendiante.

Nella mia mente serpeggiano immagini improvvise. La parola 'fiume dei profumi' accompagnata dalla tenebrosa ultima scena di “Full Metal Jacket”. La risalita del Mekong da parte dei protagonisti di “Apocalypse Now”. La guerra in Vietnam. La gente che ho visto oggi, che ho visto ieri, che vedrò domani. Immagino un piccolo rivolo di sangue in mezzo al colore screziato dell’acqua. Così tante cose che il cervello si ingolfa. E non penso più a niente.Per qualche momento guardo e basta.

Il paesaggio è infiammato ed il sole è diventato un’enorme arancia che si appoggia sull’orizzonte. La sponda opposta del fiume brilla tremante. Scorgo delle palme e una lunga spiaggia. Ma in modo tremendamente selvaggio.Inizio a scrivere le mie memorie, cercando di tenere attiva l’altra me stessa affinché possa cogliere ogni cambiamento nell’aria. Così, sdoppiata, vivo il tramonto sul Mekong. Quando rialzo lo sguardo l’arancia è sparita nell’acqua. Resta solo il pallore dell’ultimo tramonto. Tutti iniziando ad andarsene. Restiamo in pochi nostalgici. Filippo va in camera a prendere il portafoglio, ceneremo presto stasera. Rimango qua, seduta su una seggiolaccia di plastica, a fissare davanti a me. Non ci sono turisti, solo qualche cambogiano.Si avvicinano dei poliziotti. Riconosco il loro esser poliziotti da una divisa beige, degli stivali anfibi alti e dei manganelli che portano alla cintura. Sorridono. Parlano khmer. Sghignazzano a momenti. Alzo lo sguardo, e mi stanno osservando tutti. Sono dieci. Non ho paura. Gli sorrido, e abbasso gentilmente lo sguardo. Continuo a scrivere il mio diario. Uno di loro mi viene accanto, dietro l’incitamento burlesco degli altri. Guarda cosa sto scrivendo, avvicinandosi obliquamente. Fingo di non vederlo. Poi è inevitabile, me lo trovo appiccicato. Simpaticamente alzo il quaderno per mostrarglielo. E gli sorrido, placida. Gli altri poliziotti continuano a ridacchiare. Mi sembrano le nostre pattuglie più scapestrate. Niente di più, niente di meno. Continua a fingersi interessato, anche se non capisce una parola della scrittura latina. Poi incrocia il mio sguardo e sorride autoritario, come a dire: tutto a posto, sei pulita. Riprendo a scrivere, ma lui non molla. “Are you alone? Do you have a boyfriend?” mi chiede in un inglese stento. Gli dico che il mio fidanzato sta arrivando. In tre secondi il plotone si dissolve. Onesti asiatici….

Ceniamo in uno dei quattro ristoranti della città, che sono all’aperto. L’alternativa è il mercato. Ci siamo stati poco prima, ma l’unica cibaria espressa sono piattole arrosto. Evitabili, direi. La strada non ha illuminazione. L’unica luce forte proviene da uno dei ristoranti, in chiaro stampo europeo. È gestito da cambogiani e francesi, a quanto pare. Fanno le patatine fritte e le uova alla coque. Noi preferiamo una scrausa bettola di stampo khmer. Mangiamo carne amorfa, con qualche verdura allegata. Davanti a noi, dall’altra parte della stradina, c’è un ambulatorio. È una stanza di lamiere, senza porta. Dentro ci sono sei lettighe, l’una davanti all’altra, con sei malati sopra. Ognuno ha una flebo. Una donna peserà sui venticinque chili. È un mucchietto d’ossa, accovacciate. Non so neanche come faccia ad entrarle la flebo nel braccio. Fissa il vuoto. In questa città i bambini non ci sono. La donna si gira e mi guarda. Lo faccio anche io, non riesco a smetterla. Spalanca la bocca. Mi sorride, con solo due denti. Io le sorrido, senza farle vedere i miei. Forse non voglio che me li veda. Ho paura che me li rubi oppure ho solo voglia di piangere per i suoi venticinque chili. Lei si dimentica di me, si gira verso il vuoto e continua a puntarlo inerme.

 

KRATIE, 1/03/2010 ore 9:23

Sempre sul solito lungo fiume di ieri. Stavolta da sola, a godere un po’ di sole.
Stamattina ci siamo svegliati all’alba dopo una nottata travagliata. La nostra stanza a 7$ ci ha fatto venire gli incubi. Abbiamo lasciato la camera e abbiamo preso un Tuk Tuk con cui ci eravamo accordati ieri (nel bar dell’U-Hong II Guesthouse). Ci ha portati a 15 km da Kratie dove vivono, dentro il Mekong, I delfini Irrawaddy dalla testa stondata (in via d’estinzione). Siamo arrivati sulla sponda del Mekong e il nostro Tuk Tuk driver ci ha detto di aspettare davanti alla biglietteria l’addetto ai biglietti. Noi allora ci siamo appoggiati al bancone e abbiamo iniziato a chiacchierare tra noi. Dopo un secondo da dentro la biglietteria è spuntato il nostro Tuk Tuk driver che ci ha fatto “Hello! Do you want two tickets?”. Ovviamente ci siamo messi a ridere e abbiamo fatto i biglietti che funzionano così: se non vedi I delfini ti rimborsano il biglietto (o metà non ho capito bene) ma se li vedi (testimone il barcaiolo) il prezzo resta quello. Siamo saliti su un’imbarcazione in modo sonnolento, alle prime luci dell’alba. Il barcaiolo non spiccicava una sola parola d’inglese. In un clima magico ci siamo scivolati sull’acqua e abbiamo fluttuato nel Mekong. I delfini spuntavano placidamente senza fare mai dei veri e propri salti. È stato un momento incredibile. Noi due, il chioccolio leggero del traghettatore, l’alba e I delfini. Essere nel bel mezzo di un mostro immense come il Mekong crea anche una certa suddistanza psicologica. È emozionante. Nella sponda opposta sorgeva la prepotente e misteriosa giungla. Nel mezzo all’acqua isolotti sporadici. Una grandissima calma.
Un altro cane giallo…

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Ore 13:21, autobus KRATIE-BEN LUNG

Life experience.
Alla fermata dell’autobus (esattamente nello stesso punto in cui ieri abbiamo assistito al tramonto) abbiamo conosciuto Daniel. È un ragazzo spagnolo che fa il maestro negli Stati Uniti. È da sei mesi in giro per l’Asia. Ha già fatto Thailandia, India, Nepal e Birmania e farà anche Vietnam e Laos. È molto simpatico, alla mano e socievole. Facciamo subito amicizia. Il bus è in ritardo, tipo mezzora. Diventiamo subito nervosi e cerchiamo qualcuno per chiedere informazioni quando ci giriamo verso Daniel e lo vediamo seduto per terra mangiare un cioccolatino: “Welcome to Asia!” ci dice sorridendo. Se solo me lo fossi ripetuto prima mi sarei agitata meno per tutto. Per I ragni fritti, per la ruota forata, per le vacche indù, per il caldo, per I bagni minuscoli, per lo sporco, per la miseria, per l’acquazzone in barca, per l’inglese biascicato male. Welcome to Asia.
E da ora in poi sarà tutto così.
Sicché quando saliamo sul Pullman e troviamo il pavimento completamente ricoperto da sacchi di riso ci sconvolgiamo un pelino meno. 53 posti a sedere per 60 persone presenti. Ognuno ha messo I propri bagagli sopra i sacchi di riso. Attraversare il pavimento è assolutamente impossibile. Vediamo alcuni posti in fondo. Tipo uno e mezzo. E un posto in cima. Daniel si siede davanti e noi iniziamo i Giochi Senza Frontiere per raggiungere la coda del Pullman.
Dopo aver calpestato tutto ciò che abbiamo trovato nel nostro cammino ci siamo seduti nelle nostre postazioni.
Dopo poco ci siamo fermati per una sosta. Alcune bancarelle in mezzo ad una rotonda che fa uscire dalla città alla volta del Ratanakiri. Filippo scende e io resto sul Pullman. Lo vedo dal vetro. Ha fatto amicizia con un australino fighissimo alto due metri-biondo-occhi azzurri che sta fotografando con un teleobiettivo pazzesco una bambina. Tutti e due prendono un dolce tipico cambogiano che sembra una enorme sigaretta di bamboo con dentro riso e zucchero. La mangiano sull’autobus scambiandosi sguardi d’approvazione.
Sull’autobus ci sono solo cambogiani eccetto me, Filippo, Daniel, l’australiano e un’altra coppia che sta andando nel Laos.
Questo sì che è viaggiare. Una sensazione di avventura e di libertà che non ho mai provato prima.
Mi sento molto il solito Brad Pitt nella conclusione di “Il curioso caso di Benjamin Button” quando racconta la sua esperienza in giro per il mondo. Se fossi un uomo mi farei crescere la barba.
In questo momento, con l’aria condizionata spenta, il caldo è insopportabile.
Il Pullman riparte ed è bellissimo sapere che stiamo avvicinandoci sempre più a nord-est al confine col Laos.
Comunque ora mi sento di poterlo dire: Viaggiare è Tutto.
è la tua scelta. È ciò che ti distingue dalla maggior parte delle persone ed è ciò che, anche se raccontato, lo vivrai sempre soggettivamente. Ti apre la mente. Ti stimola e ti permette di conoscere persone straordinarie.

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Ore 16:38 STUNG TRENG

In tre stanno provando a rimuovere un sacco di riso che si è aperto nel tragitto. Paradossalmente nel Pullman che sta andando nel posto più sperduto della Cambogia trovo la gente vestita meglio. Una ragazza, che è appena salita, ha delle ballerine con la stampa Burberry e una camicetta stirata e pulita. Un’altra ha un piccolo tacco, occhialini da vista di marca, una pettinatura moderna e le perle al collo. Forse ho sbagliato destinazione…?!
Tutte e sessanta le persone presenti stanno sudando. Immaginate l’olezzo… in questo bus del cavolo non c’è l’aria condizionata. Il mio zainetto, che alla partenza era bianco ottico, adesso è color fango.
Il paesaggio fuori dal finestrino è cambiato. In alcuni tratti si è mostrato più rigoglioso. Banani, palme, arbusti tropicali, giungla. Ho visto molte vacche più scure e con le corna rivolte verso il basso. Magari non sono vacche ma un’altra specie ma io non conosco questi animali, quindi mi scuso per l’ignoranza.
Ma la cosa più assurda è che il paesaggio sta cominciando a diventare rosso, coperto da una sabbia ocra e color mattone.
Stiamo ripartendo ora, mancano 150 km di strata dissestata. Siamo appena passati accanto a delle vacche che pascolavano agilmente nelle aiuole del commune di Stung Treng. I viaggiatori che procedono verso il Laos se ne vanno dicendoci “Good Luck”.
Filippo si è messo nel seggiolino davanti al mio per provare a dormire. È salito un cambogiano che si è messo vicino a me. Ha allargato le gambe e ne ha messa una sopra il seggiolino davanti a sé e una dentro la retina nel seggiolino davanti al mio, passandomi tranquillamente davanti. Se mi giro vedo questo uomo immondo dormire sbavando a gambe larghe per metà addosso a me… ?!?

 

Ore 23:06 BEN LUNG

Dopo la sosta di Stung Treng è cambiata la tipologia di viaggio. Il Pullman è uscito dal battuto e si è arrampicato per diverse ore su strade completamente disastrate con tanto di sali-scendi, ponti fatti di stecche di legno e fossati. Il buio è calato nel mondo intorno a noi non consentendoci di capire cosa stesse accadendo fuori. Ogni tanto l’angolazione cambiava e ci ritrovavamo quasi in verticale facendo scongiuri in ogni lingua. Mi è ritornata in mente mia nonna a Montenero.
Sono passate 10 ore di pullman e, francamente, non ne posso più. Il paesaggio rosso e polveroso è stato inghiottito dalle tenebre. Io e Filippo stiamo giocando. Lui canta una canzone e io devo indovinare il titolo. Oppure devo cominciarne un’altra partendo dall’ultima parola che pronuncia. I cambogiani dietro di noi ridono. Quella dietro di me ha una cesta con un serpente.
In alcuni momenti il pullmino si ferma e cerca di scollinare attraverso dune, discese ripide o piccoli pontili di legno. In quei momenti smettiamo comprensibilmente di cantare.

Dopo altre due ore di pena arriviamo nel Ratanakiri. È molto tardi, ma nonostante ciò ci attende un nugolo di gente con dei cartoni in mano. Ognuno indica un albergo. Scendiamo sconvolti, barcollando. Un viaggiatore australiano conosciuto nel tragitto ci augura “che Dio sia con voi”, sale sulla moto di un cambogiano e sparisce nel buio. Decidiamo un hotel, ma è lontano. Daniel viene con noi, anche lui aveva scelto quell’albergo nella sua Lonley Planet. Saliamo ognuno dietro ad una moto e partiamo alla volta del nulla. Fuori dal battuto. Buio. Solo qualche stella che è sfuggita al controllo della notte. Io sono dietro a un cambogiano vestito in camicia e pantaloni col risvolto. Mi chiede le solite stupidaggini: come ti chiami, di dove sei, da quanto siete in Cambogia, ma andate da altre parti poi, quanto starete qua, etc. etc.
Accanto a me le moto di Filippo e di Daniel corrono tranquille. Parlando perdo il filo della realtà e, quando lo riprendo al volo, mi accorgo che la moto di Filippo ha svoltato a sinistra mentre io e Daniel siamo stati mandati a diritto. Daniel si gira, mi guarda interrogatorio, nota il mio sguardo incredulo e inizia a ridere di gusto. Welcome to Asia! Mi ripeto come un mantra. Welcome to Asia. Chiedo al mio conducente come mai il mio ragazzo abbia girato a sinistra e lui risponde che la nostra è una scorciatoia. Sono perplessa. E, adesso, preoccupata. Mi giro intorno e vedo solo notte. Siamo in mezzo alla natura, in una regione a 12 ore dalla capitale e a 6 ore di sterrato dalla prima città abitata. Se gridassi nessuno mi sentirebbe. Non ho neanche un cellulare. Non ho niente. Neanche la fiducia. Il mio conducente continua, tranquillo, a farmi domande. Non lo ascolto. Improvvisamente non so neanche più parlare inglese. Sbaglio una frase, dico una minchiata. Voglio che stia zitto e, all’improvviso, smetto di rispondergli. Protesta dolce. Guardo la moto di Daniel, davanti a me. Improvvisamente resta la mia unica speranza. L’unica persona più “familiare” a cui attaccarmi in caso di necessità. Io, lui, due conducenti scapestrati e una natura matrigna. Oscura. Passano altri 5 minuti e continuiamo a brancolare nel buio. Inizia a scorrere il terrore. Ho un brivido che sale su per il collo. Voglio Filippo. Voglio la mia sicurezza. Voglio un albergo. E invece solo dubbi. Gli chiedo quanto manchi. Dice poco. Ma sono tre ore che dice poco. Smetto di rivolgergli la parola. Guardo Daniel. Calcolo quanto dolore sentirei se mi buttassi a terra adesso. La moto va veloce, non troppo, ma neanche troppo poco. Come minimo mi lusserei una spalla. E mi ricovererebbero in un ospedale a cielo aperto, come quello sul Mekong. No, no, no, meglio restare sulla moto.
I miei occhi cercano avidi un bagliore. Distinguo l’ombra dei rami, che abbracciano la strada sterrata che stiamo percorrendo. In alto, fronde scure. La luna s’è nascosta. Vorrei pregare. Ma non saprei a quale Dio rivolgermi. Forse neanche Dio saprebbe trovarmi in questo posto dimenticato.
Mi scorrono veloci i moniti, le paure di tutti quelli che mi dicevano “stai attenta, è pericoloso”. Un flash di quando mi persi al supermercato da bambina. Un odio puro nei confronti del cambogiano che sta conducendo la mia moto. Il vento che mi punge, caldo, il viso.
Improvvisamente scorgo delle luci in lontananza, dietro delle fronde a sinistra. Eccoci, mi rassicura il cambogiano, consapevole della mia paura. Accelera leggermente affiancando la moto di Daniel. Arriviamo davanti all’albergo, una struttura montanara di legno. Scendiamo dalle moto. Daniel è rosso dalle risate. Mi chiede, in inglese, perché mai abbiano deciso di fare un’altra strada. Chiedo immediatamente dove sia Filippo. Dicono: dentro. Non guardo in faccia nessuno, nemmeno recupero il mio zaino. E cerco il mio Filippo. È nella hall e già sta discutendo con l’albergatore per una stanza. È vivo, non è a pezzi e già rompe le palle. Ho fatto bene a non lussarmi una spalla.

Per 15 $ abbiamo preso una bellissima stanza vista lago. Aria condizionata, acqua calda, camera linda. Unico inconveniente: due letti singoli anziché un letto matrimoniale. Daniel ha scelto invece un bungalow più rustico a 5$ a notte senza alcun tipo di privilegio. Ma una bella stanza anche la sua per il prezzo che paga.

 

2/03/2010 BOENG YEAK LOM ore 12:41

Stamani ci siamo svegliati preso. Alle 6:30 Filippo e alle 8:00 io, nonostante avessimo fissato alle 9:30 con Daniel nel lobby. Siamo andati a fare colazione con la compagnia dell’autista della mia moto di ieri che si è rivelato anche guida turistica ma, soprattutto, molto chiacchierone. Ho mangiato omelettes con cipolla e pane caldo ascoltando le chiacchiere del nostro amico cambogiano. Mi sono fatta insegnare la pronuncia di qualche frase in khmer e abbiamo fissato con lui per farci portare agli elefanti e alle cascate domani. Oggi ne faremo a meno. Daniel è arrivato un po’ dopo col suo solito buonumore. Eppure non aveva nulla di cui esser contento. Aveva passato la notte in bianco perché la sera prima gli si era rotta la chiave nella serratura (con dentro la stanza, ovviamente, lo zaino). Erano riusciti ad aprirla solo poco prima per cui si era fatto una doccia e si era vestito.
Dopo la colazione siamo andati a piedi fino a Ben Lung paese (due chilometri circa). Siamo subito entrati dentro l’immancabile mercato più puzzolente che mai. Un tripudio di pesce sotto il sole, carne essiccata, mosche dovunque, animali squartati. Abbiamo cercato in tutto il paese un noleggiatore di moto ma non abbiamo trovato niente. Il problema è che nel Ratanakiri nessuno parla inglese (mica come le zone più turistiche). Addirittura per prendere una Coca-Cola ho dovuto dire muy (uno) in khmer e Quanto costa/Grazie/Arrivederci idem. Qui venire capiti è un privilegio raro. Dopo un po’ che cercavamo abbiamo trovato un’officina nella quale alcuni uomini mettevano a disposizione i loro motorini per una cifra leggermente superiore rispetto a quella che ci aspettavamo. Ma d’altronde non avevamo scelta. Ho condotto io le trattative e sono riuscita a prenderli per 10$ per due moto. Abbiamo accettato e, quindi, siamo saliti sui motorini di alcuni cambogiani alla volta del cuore verde del Ratanakiri. In queste zone, tra l’altro hanno girato il secondo John Rambo.
Prima però siamo andati all’ufficio per il turismo dove ci hanno dato una piantina della zona e ci siamo recati ad un centro informazioni dove ci hanno fornito le informazioni per il parco di Virachay. È un trekking nella giungla più fitta ed estrema. 100 $ a testa 3 giorni/2 notti in questa riserva naturale inesplorata protetta da non so quante mai associazioni naturaliste. Avremmo dovuto dormire nelle amache a stretto contatto con gli animali della giungla, dentro la vegetazione. Sarebbe stato molto bello ma tre giorni sarebbero stati troppi e avremo l’occasione di farlo nel Borneo. Daniel invece si è iscritto e partirà domattina. Con i motorini veniamo al lago in cui siamo adesso: Boeng Yeak Lom. La storia di questo lago è molto suggestiva ed è stato uno dei motivi per cui siamo venuti nel Ratanakiri. Le popolazioni native della zona lo ritengono un luogo sacro abitato da demoni magici. Gli esperti dicono che potrebbe essersi creato dalla caduta di un meteorite data la dimensione anomala (perfettamente rotonda) del lago. Io me lo immaginavo piccolo, accogliente, di dimensioni contenute e “abbracciato” dalla natura. In realtà è estremamente grande. È nel mezzo alla natura ma è talmente vasto da non avere l’aspetto “incantato” che immaginavo io. Ovvero… è semplicemente un lago. Sono sul pontile e tantissimi cambogiani stanno facendo il bagno. Sembra di essere nella piscina comunale della Cambogia. Non mi rilassa questo posto, né mi suggerisce un’immagine memorabile. Tra schizzi, schiamazzi e gente antiestetica in acqua con i giubbotti di salvataggio (c’è questo viziaccio tra gli asiatici) mi godo poco l’atmosfera.
Un bambino nudo ha appena fatto la pipì dal pontile lasciando una vistosa gora gialla, per la cronaca. Peraltro abbiamo dovuto pagare 1 $ a testa per l’ingresso. Infine (ciliegina sulla torta) il fondale è fangoso e l’acqua ne risulta scurissima. Adesso torniamo in camera che Filippo ha uno dei suoi atroci mal di testa.

 

BEN LUNG, ore 23:18

Dopo che siamo venuti via da Boeng Yeak Lom mi è iniziato un prurito vergognoso in tutto il corpo. Ho tutto uno sfogo sulla schiena e mi gratto in continuazione le gambe e la braccia. Potrebbe essere un fungo ma, controllando nella mia borsa, ho portato dietro solo una pasticca di Triasporin che non serve esattamente a niente. Se continua devo andare a comprare una medicina cambogiana (il che mi preoccupa parecchio!).
Siamo arrivati in camera e abbiamo dormito due ore. È stata una manna dal cielo. Quando hai certi ritmi serrati un pisolino inaspettato è un grande regalo… Al tramonto ci siamo svegliati e Fil è andato a rendere le chiavi della moto ai legittimi proprietari con cui aveva appuntamento. Cercavano Daniel per un graffio nel suo motorino. Dopodiché io, Filippo e Daniel siamo andati a piedi in paese. La strada dalla guesthouse a Ben Lung è completamente buia. Daniel ha acceso l’Iphone e ha messo l’applicazione “torcia” per illuminare il tragitto. Dopodiché ha posato anche quella e siamo andati alla cieca. Ci ricordavamo che c’erano due burroni laterali alla strada, oltre agli alberi e possibili animali. Insomma, è stato molto suggestivo, ma un po’ pericoloso!
Arrivati al paese abbiamo svoltato a sinistra nella strada principale. Siamo arrivati dopo un po’ di zig-zag a un ristorante che consigliava la Lonely di nome: Geko House. Un posto delizioso, pulito, tenuto benissimo e con delle caratteristiche d’arredamento molto chic (tipo alcune sedute a terra con cuscini e candele). Abbiamo trovato Ethan, il ragazzo australiano conosciuto all’andata, e altri due ragazzi svedesi che domani partiranno per il Vichary Park con Daniel. Ho mangiato anche molto bene, lo consiglio spassionatamente!
Al ritorno la luce della luna era molto visibile e ci ha guidati meglio rispetto all’andata.
Adesso siamo nella seconda hall dell’albergo. Fil davanti a me sta usufruendo dell’internet gratuito. Sta prenotando il volo per tornare in Malaysia. Non sappiamo se partire da Phnom Penh, da Bangkok o da Hanoi. Io sono uscita in giardino. Questo posto mette un’incredibile pace. Mi sento libera.

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3/03/2010 BEN LUNG, ore 13:11

Stanotte è stata a dir poco tragica. Prima di addormentarci abbiamo scoperto che la nostra stanza era zeppa di formiche. Inizialmente abbiamo avviato un’estenuante lotta “alla cieca” con tanto di ciabattate e di fiammate con accendino e deodorante spry. Poi abbiamo scoperto che venissero tutte dalla tasca dei miei pantaloni da giungla nei quali avevo lasciato un cioccolatino. Ho sigillato i pantaloni in una busta e l’ho messi davanti alla porta, domani li mando nella lavanderia della guesthouse. Per concludere in bellezza ho fatto tremila incubi. Mi son svegliata in piena notte trafelata e anche Filippo era sveglio a causa di un brutto sogno. Il mio riguardava la morte di mia madre e Filippo che diventava il diavolo.
Al risveglio, dopo la colazione col nostro amico cambogiano motociclista, abbiamo noleggiato una moto + il nostro amico come guida (che ha voluto la bellezza di 7.50$ per venirci dietro e dire un paio di stupidaggini). In sella alla nostra moto siamo andati subito dagli elefanti. Abbiamo pagato un’escursione di un’ora in groppa a un bestione nella giungla. Il nostro era svogliato e dispettoso. Era lentissimo, cambiava sempre strada e ogni volta che vedeva una pozzanghera ci spruzzava (ovviamente, data la stagione, l’acqua è fanghiglia). Due o tre scene di quasi-morte ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Un’ora è stata veramente eccessiva, una noia incredibile, basterebbero 15 minuti. Dopodiché inizia un dolore atroce al sedere. Mi è sovvenuta una frase della mamma di Filippo “non vedo l’ora di cascare per scendere”. Rendeva meravigliosamente l’idea. Vicino alla pozzanghere le zanzare facevano i rave party. E il bello è che non abbiamo neanche fatto l’antimalarica!
Dopodiché siamo andati a vedere le tre principali cascate del Ratanakiri. All’ingresso di ciascuna c’era da pagare un dazio. In una, per raggiungerla, dovevamo percorrere un pericolante Canopy Walk. Nell’ultima cascata, invece, abbiamo trovato cinque o sei turisti che facevano il bagno. Erano tutti molto tranquilli e indipendenti. Due italiani sui trenta, tatuati e abituati ai viaggi, dicevano tra loro che non valeva la pena farsi un viaggio sfiancante come quello che hanno fatto per raggiungere il Ratanakiri. Ad un tratto, da un ramo sopra di noi, è cascato un serpente gigantesco. Tutti spaventati son scappati.
Ci siamo fermati a pranzo in un ristorante sul lago su cui da la nostra guesthouse. Abbiamo mangiato abbastanza bene, sotto un gazebo. Appena ho alzato la testa mi sono sentita morire: centinaia di ragni. Siamo scappati.

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4/03/2010, 2 ore da Phnom Penh

Ironico reportage di viaggio.
Chickenbus (eufemismo) fermo a lavare (??!!) in mezzo al quasi niente. Tratta Ben Lung - Phnom Penh. Indicativamente a due ore da Phnom Penh dopo circa otto ore di viaggio. Una piccola mururoa (bambina che se la gioca con una fogna di Calcutta) siede con la sua mammina accanto a me in bus. Per la mia gioia ha appena comprato l’ennesima cosa da mangiare. Passa direttamente dal dormire al mangiare. Ora il suo prossimo pasto saranno uova di quaglia. Si e'già fatta fuori (alla tenera eta' di un anno) 7 sacchettini di patatine fritte (che qua somigliano alle penne rigate Barilla), 8 caramelle alla fragola, 1 albicocca, 1 mela, 1 pinapple e altre cose non identificate. ovviamente tutto appiccicoso e salivoso (stile pappina) e i rimasugli vengono gettati a terra, dove c’è... il mio zaino! Quello grosso naturalmente... quello bianco ormai e'talmente sudicio che Filippo ha giustamente detto: "quando i cambogiani vedono il tuo zaino pensano: mamma mia quanto sono sudici all’estero". La bambina, dicevamo, passa dal sonno al cibo. Ma anche quando dorme le cose non vanno tanto meglio... I suoi candidi piedini che si posano su di me hanno poggiato su tutta la Cambogia e sono piu' lerci di uno scarico. Così quando, dormendo, li pone sulle mie gambe e la "mammina" ride beata, io automaticamente prendo il colera, il tifo, la tigna e altre malattie che pullulano nelle piantine delle sue angeliche zampine. La sua tenera mamma non è da meno: quando non è intenta ad imboccare mururoa (che da ora ribattezzerò MURI) si pulisce le unghie (di cui 4/5 di venti centimetri e una sottopelle), scuote il sudicio sul mio zaino, lava la testa di MURI con l’acqua della bottiglia (NATURALMENTE in autobus) oppure, se proprio è rimasta senza far niente, si scaccola. Nel frattempo siamo risaliti sull’autobus dove MURI ha dato un party: uova di quaglia, frutti della passione, albicocche e patatine fritte tutte per lei! Ah prima non avevo considerato le 5 gomme da masticare che si è fatta fuori (mammina gliele toglieva dalla bocca dopo1 minuto di masticazione: cronometrato) ovviamente i resti vanno anch'essi sul mio zaino. In Italia le madri omicide affogano i bambini o li strozzano, qua li uccidono con il cibo. Ovviamente quale miglior metodo di asciugarsi le mani se non farlo col proprio giubbotto?! Adesso MURI e la dolce mamma sono state affiancate da BIGMURI. Il nomignolo è dato dal fatto che guarda MURI con aria trasognata e con gli occhi lucidi (alias desiderio represso di un figlio). Inoltre anche lei magna quanto un triceratopo dopo il letargo (..bellina eh questa). Colpo di scena! Muri se l’è fatta addosso e lei e la mamma sono scese in fretta e furia! Ovviamente BIGMURI ha prontamente e servizievolmente posato alle due le loro mille cibarie e carabattoline varie. Terminata la MURUROA STORY possiamo concentrarci sul timido baccaglio di carotino (trentenne che siede davanti a noi con una vistosa polo arancione) nei confronti di BIGMURI, che nel frattempo è caduta in un silenzio catatonico. Tentativi di approccio di carotino: 1) si gira e sorride, ma non trova consenso. 2) finge di dover tirare la tendina e nel frattempo le sorride: già più consenso, ma sempre poco. 3) Chiacchiera del più e del meno: lei mostra la sua dentatura sghemba in un timido sorriso e ricade in catatonia.

Appeena arrivati a Kompong Cham (ultimo villaggio prima di Phnom Penh) un'orda di motociclisti, tuk-tuk driver e venditori ambulanti ha accerchiato il chicken-bus assalendolo aggressivamente. Un khmer sdentato mi buttava i baci. ed ecco tentativo di approccio da parte di BIGMURI nei miei confronti: sorrisi, prova a leggere cosa scrivo, sguardi... ma la domanda e': non è che semplicemente le piacciono le donne?

 

PHNOM PENH, ore 21:38

La parte finale del viaggio è stata allucinante. A parte che abbiamo forato! (ma ormai sono abituata)… Ma ad un certo punto una macchina grigia piena di ragazzotti ha iniziato a sfidare il nostro povero autista rischiando di farci fare una ventina di incidenti. Frenate improvvise, micro tamponamenti, curve a U. Poi questo ha chiamato un’altra macchina rossa e hanno iniziato a stringere il nostro minibus, a frenargli davanti. Veramente pericoloso. Siamo arrivati all’Hotel Indochine II in una stanza microscopica a 17 $ a notte. Abbiamo deciso di prenderla solo per stanotte.
Verso il tramonto siamo usciti verso il lungofiume. Abbiamo fatto apertivo nel locale più costoso di tutta Phnom Penh (come dice mia mamma: li cerchi con il lanterìnino te!). Un the caldo e una Angkor Beer a 5 $. Dopo siamo andati a cena un po’ più in giù, in un ristorante thailandese di nome “Chang Mai”. Fil ha preso un piatto di carne al curry io invece una zuppa al lime e gamberetti. Era acidissima… buona ma troppo particolare. Dopo cena abbiamo visto un ratto enorme agonizzante a terra e le riprese di un film nella strada del nostro hotel. Attori e staff khmer e regista bianco. Tutti si erano fermati a guardare. Ci siamo tuffati in un intert point, Fil ha ricevuto una mail da parte di sua madre con scritto “Saluti Incazzati” perché erano molti giorni che non lo sentiva. Ci siamo fermati in un minimarket e abbiamo comprato qualche junkie food per stasera: io ho preso il mio immancabile latte e cioccolato + un sacchetto di waffel al cacao che ho scoperto, dopo il secondo morso, che fossero andati a male. 


PHNOM PENH, 5/03/2010 ore 23:40

Stamattina abbiamo lasciato la stanza dell’Indochine II alla volta di un altro albergo. Un tuk tuk ci ha portati in due o tre posti ed erano tutti pieni (è Venerdì…). Poi siamo andati in un hotel consigliato dalla Lonely, leggermente decentrato rispetto al nostro. “Sky View”. 13 $ per la migliore stanza di tutta la vacanza. Letto matrimoniale, frigo, aria condizionata. Tv gigantesco, truccatoio con sedia, finestra, quadri, tavolino di vetro con sopra cesta di fiori e due poltrone, armadio con cassettiere e bagno lindo. Direi assolutamente perfetto. Dopo aver lasciato gli zaini siamo andati in giro per la capitale. Ci siamo rifatti tutti I mercati: O Russey, Mercato Russo, Psar. Abbiamo acquistato qualche ricordino. Filippo ha preso un rosario buddhista da mettere al braccio e due stratuette biddhiste. Io invece ho iniziato la folle ricerca di un bracciale d’argento. C’erano delle cose favolose. Alcuni bracciali veramente stupendi. Purtroppo la contrattazione per l’argento puro è molto bassa. Si può scendere di 5 $ ma non di più. Ho girato trenta banchini dell’argento. Le venditrici pesavano I bracciali e mi facevano vedere il prezzo relativo al valore. Sono riuscita a strappare un bracciale 100% argento, abbastanza semplice, a 60 $ facendo scendere il costo di 10 $.  Dopodiché siamo tornati sul lungo fiume e abbiamo pranzato un’altra volta all’Happy Herbs Pizza. Io ho preso un buon pollo ai funghi. Con un Tuk Tuk siamo stati al museo Tuol Sleng. Abbiamo pagato una guida inglese (smezzandola con una coppia di francesi) e ci siamo fatti accompagnare dentro. Il posto è molto inquietante. Si tratta del reale posto in cui I Khmer Rossi sotto la dittatura di Pol Pot hanno massacrato e detenuto I cambogiani. Un tempo era una scuola superiore (tant’è che a vedersi sembra una normale scuola) ma è diventata un lager di mattanza negli anni 70. Tuol Sleng vuol dire “collina degli alberi avvelenati”. La guida ripeteva la tragedia che la Cambogia ha vissuto durante il regime comunista. Lei era piccola e si ricordava tutto. Diceva che c’erano state due migrazioni molto forti. Dalle Campagne alle Città e dale Città alle Campagne. I khmer rossi si sono comportati come I nazisti istituendo dei campi di concentramento. Dopodiché la follia del dittatore Pol Pot è arrivata a tal punto da uccidere anche gli stessi appartenenti al regime. Quindi coloro che avevano massacrato si ritrovavano a loro volta massacrati dagli amici. Tuol Sleng è rimasta intatta da allora. Io sono stata anche a Dachau, quindi avevo già visto qualcosa di simile. Ma la cosa più spaventosa di questo posto è che nessuno aveva tolto i segni dell’accaduto. Si trattava delle stesse piastrelle a terra, dello stesso muro. Nel pavimento c’erano gore di sangue, schizzi essiccati. In alcuni punti c’erano le rigate delle unghie. Le stanze in cui avvenivano le torture son rimaste identiche. Gli stessi letti in mezzo alle camere e una foto, per ogni parete, che documentava il detenuto al momento della morte.
Io conoscevo la storia dei khmer rossi grazie ai libri di Tiziano Terzani ma, a scuola, nessuno me lo ha insegnato. E quando raccontavo alle persone ciò che avevo imparato il 90% mi diceva di ignorarlo.
Siamo tornati verso casa a piedi dopo una lunga passeggiata. A cena siamo andati in un ristorante per autoctoni vicino all’hotel, in una stradina traversa. Abbiamo mangiato un ottimo BBQ.

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6/03/2010 PHNOM PENH, ore 11:27

Tra mezzora abbiamo il check-In dell’albergo. Lasciamo il nostro Sky Park a malincuore alla volta dell’aeroporto dell’Air Asia. Torniamo in Malaysia.
Stamattina, dopo un discreto litigio, siamo andati a fare colazione in un posto non troppo lontano dal nostro hotel, in una strada maestra. Il posto era europeo, raffinato, con prezzi abbastanza alti. Fil ha preso omelette con bacon e io ho preso uova fritte con bacon. Poi abbiamo chiesto una bottiglietta di the freddo. Ovviamente da tutto il viaggio stiamo accuratamente evitando acqua corrente e ghiaccio. La cameriera torna con due tazze di the caldo. Noi le diciamo che vogliamo una BOTTIGLIA di the FREDDO. Questa torna con due bicchieri colmi di ghiaccio e leggermente colorati di giallino. Filippo allora prova a rispiegarle che vuole semplicemente una bottiglia di the freddo. Lei dice che ha la bottiglia ma solo l’Evian. E Filippo: “Ma l’Evian è solo acqua naturale?”. Ovviamente lei, non capendo, era andata in cucina un’atra volta. Io, colta dalla disperazione, dico a Filippo: “forse l’Evian fa anche il the freddo”. Questa torna e porta due bottigliette di Evian… di acqua naturale! Io volevo smettere di polemizzare e dire ok, invece Filippo si era impuntato e aveva spiegato, sempre con calma, che voleva una bottiglia ma non con l’acqua, col the. Lei allora sorride, illuminata. Se ne va e torna tutta felice con due bicchieri di the freddo col ghiaccio con una fetta di limone. Non sapevo se ridere o piangere. Allora mi sono intromessa io. Le ho spiegato, lentamente, tutta la storia. Lei allora ha capito ed è quasi scoppiata a piangere. Con quella mollettina di Hello Kitty tra i capelli e le manine congiunte a mo’ di perdono è scappata in cucina. È arrivato il proprietario che si è umilmente scusato, ha detto che il the il bottiglia non ce l’hanno, e ci ha fatto pagare solo le due uova.

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Ore 16:30 aereo PHNOM PENH-KUALA LUMPUR

Ognuno ha la propria giornata della sfiga. Oggi è la mia.
Mi sveglio e io e Filippo si litiga. Si va a fare colazione e troviamo la cameriera più dura della Cambogia. Arriviamo alla’eroporto (dopo un tentative di scippo sul Tuk Tuk) e ci fanno pagare 50 $ di tasse aeroportuali: solo qua in tutto il mondo e senza preavviso. Fil sclera e inizia a gridare ad alta voce: “Are you kidding me?!” con io che cerco di trascinarlo via. Quindi parte tentativo di sedazione all’aeroporto internazionale di Phom Penh. Arriviamo all’aerea imbarchi e non troviamo una bottiglietta d’acqua a meno di 2.50$. Follia. C’è un computer con internet gratis, lo accendo e non va facebook: non mi apre la posta, non mi fa vedere le notifiche, si inceppa mentre apro la mia pagina. Cosa ancor più grave non so come disconnettere il mio profilo. Tutto questo quando, ovviamente, l’altro dei due computer presenti funziona benissimo ma è occupato da un tizio da tipo un’ora. Arriva Filippo con faccia cerulea che mi mostra incredulo la reflex: su migliaia di (bellissime) foto fatte negli ultimi 15 giorni se ne vedono…due! Fatte peraltro stamattina a due insegne del cavolo. Stacco internet che, ovviamente, si riblocca. Filippo inizia ad inveire contro: 1) Facebook; 2) I Social Network in genere; 3) Me, naturalmente; 4) I suoi amici in particolare che gli avevano chiesto di mettere le foto su facebook; 5) I cinesi; 6) Gli Internet Point; 7) I viaggi. Dopo sfuriata di un’ora, vedendomi tornare con una bottiglietta d’acqua, mi ha anche iniziato a dire che voleva dividere I soldi perché avevamo “due concezioni di vacanza diverse”. Compro un hot dog ed è l’unico al mondo col pepe dentro (io odio il pepe). Chiedo alla cameriera se può farmi il resto il dollari e lei, incazzata nera, sbatte i soldi nella cassa e mi fa, a spregio, il resto in rupie. Ci imbarchiamo e io e Filippo siamo in due posti staccati. Gli chiedo se vuole che mi sieda accanto a lui e mi dice di no. Bene… veramente una meravigliosa giornata. L’aereo traballa pure, mi sono lasciata gli short di jeans e in aereo c’è l’aria condizionata a zero gradi, non sappiamo dove andare appena arrivati e, ciliegina sulla torta, quella dietro di me sta vomitando anche l’anima!

 

7-3-2010 KUALA LUMPUR, ore 13:56

Tornare dalla Cambogia alla Malaysia è stato un bel trauma. Qua non c’erano i Tuk Tuk ad aspettarci all’uscita dall’aeroporto, ma i taxi scintillanti. Le strade precise, immense, delimitate, asfaltate. Non c’è un’infrazione. Non ci sono le cinque persone su un motorino come in Cambogia. C’è una normalità imbarazzante. Le Petronas, ieri, sfavillavano di notte. E il loro brillare illuminava le nuvole sovrastanti. Sembrava come nel Signore degli Anelli quando, dal templio di Sauron, si leva il fascio di luce che arriva fino in cielo. Molto da fumetto.
Anche China Town, che aveva quella magia che mi aveva compita all’inizio, mi sembrava il mercatino di San Lorenzo. Non c’era nulla che mi emozionasse. E pensare quanto mi aveva piacevolmente sconvolta il 22 Febbraio sera… Mi mancava la mia povera e veritiera Cambogia.
Ci siamo fermati ad un hotel di nome China Town II, 30$ a notte. Una cifra vergognosa. La stanza è microscopica e puzza di formaggio. Per non parlare delle solite feritoie che si trovano in tutti questi albergacci cinesi da cui fuoriesce aria ghiaccia stecchita. L’unica cosa bella è l’acquario nella hall.
Abbiamo posato tutto e siamo andati a cena nei paraggi in un posto che sembrava schifosissimo e che, invece, si è rivelato ottimo. Certo… in quella zuppa non so proprio cosa ci fosse… ma era ottima.
Dopo cena siamo andati in un 7Eleven. Abbiamo preso Crunchy e Milo (che è il latte e cioccolato freddo che piace a me malesiano). Siamo andati a letto nel nostro frigo.
Stamattina abbiamo creato a puntino un piano perfetto. Ci siamo subito diretti, con gli autobus cittadini (linea 11 un biglietto 5 $) alle Batu Caves. A me, come esperienza, è piaciuta molto. Le batu sono delle grotte molto grandi di formazione calcarea, piene di scimmie, raggiungibili tramite un’enorme scalinata (oltre 300 gradoni), davanti alle quail sorge un’imponente statua dorata rappresentante una divinità indù. Migliaia di pellegrini induisti e turisti di ogni credo raggiungono le Batu ogni giorno. Noi abbiamo assistito alla cerimonia sacra. Prima di entrare mi hanno segnata con della tinta rossa e Bianca sopra la fronte, il cosiddetto Pottu. Le scimmie sono molto furbe e hanno un solo bisogno: mangiare. Grigano, giocano, ti strappano il cibo dalle mani.
Una volta tornati a Kuala Lumpur abbiamo cercato la pensilinea degli autobus per Singapore e siamo partiti. Ora sono sul Pullman.

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On the road, ore 16:56

Ci siamo appena fermati ad un autogrill on the road. È enorme e sofisticato, cento volte meglio dei Fini Grill italiani. Mi è venuto da sorridere pensando alla piccola Cambogia e ai suoi “autogrill”. Dentro abbiamo trovato diversi punti ristoro pieni di ogni bene. Hamburger espressi con ogni tipo di carne, noodle, supermercatino iper-rifornito, self service e tantissime altre scelte. Io ho mangiato ad un isolotto che faceva gli spiedini. Ne ho preso uno Samosa di patate, uno Wonton al pesce e due fatti di palline di granchio. Bontà divina.
Dall’autobus ho potuto constatare che la vegetazione è veramente rigogliosa. Niente a che vedere con quella Cambogiana.
Davanti a noi ci sono due vecchietti un po’ pretenziosi. Sono scesi con I seggiolini all’altezza delle mie gambe. Anzi, non posso stare seduta normalmente altrimenti non ci entro. Mangiano roba croccante rumorosamente, hanno chiesto a quello di Avanti di alzare il seggiolino, hanno spostato tutte le tendine a loro piacimento e hanno spostato tutta l’aria condizionata su di loro. Ma perfavore.

 

8/03/2010 SINGAPORE, ore 18:39

Ieri, dopo il viaggio, ci siamo imbattuti nell’ennesima avventura. Chiamasi: avventura dogana. Il Pullman ci ha lasciati ad un deposito bus lontano diversi chilometri dalla dogana. Abbiamo così chiesto informazioni e ci siamo fatti accompagnare da un taxi (per una cifra assurda) fino alla dogana. Il tassista furbetto voleva aspettarci dalla parte opposta della dogana e farci pagare anche tutta l’attesa. Ovviamente abbiamo rifiutato. Abbiamo dovuto fare una fila allucinante per raggiungere il punto esatto della dogana. Abbiamo riempito la richiesta di Visto e siamo entrati a Singapore. Il bello è stato anche il dopo. A cercare I Pullman per entrare in città, sembrava la ricerca della salvezza. Siamo arrivati ai Pullman e abbiamo dovuto chiedere, leggere la LP, guardare I cartelli per capire dove fosse il Pullman giusto per noi. Alla fine, dopo sei ore in cui una donnina ci diceva di non salire su nessun autobus, ne abbiamo preso uno per Singapore. Una volta scesi siamo saliti su un taxi che ci ha portati a China Town. Che, peraltro, è un amore. Abbiamo trovato un hotel scrauso (Red Dragon) e ci siamo accampati. FInalmente ho potuto sfoderare un look più minimal (nella musulmana Malaysia ho evitato e in Cambogia tutti mi guardavano quando mi mettevo pantaloni troppo corti). Ho anche tirato fuori le mie Converse da città. Siamo usciti e abbiamo fatto un piccolo giro per China Town. Essendo primavera è tutta addobbata con dei festoni di fiori di pesco. È veramente bella. É completamente diversa da tutte le altre China Town. È curata, estetica, moderna. Abbiamo cenato in un posto molto semplice con un menu solo in idiomi in cui dovevamo crocettare il piatto che avremmo voluto. Esperienza simpatica. Siamo andati a letto dstrutti.
Stamattina abbiamo fatto le valige e lasciato l’albergo di salvezza a China Town. Abbiamo iniziato a cercare alberghi a Orchard Road, ovvero la via più sofisticata ed elegante di Singapore. Tutto rigorosamente con gli zaini addosso. Mi hanno scolvolta due cose di Singapore: La pulizia impeccabile e I centri commerciali. Sono ovunque, immensi e bellissimi. Uno addirittura aveva sette piani, ognuno dei quali larghissimo e pieno di negozi. La città è di una modernità incredibile. I singaporiani sanno perfettamente l’inglese e sono molto affabili.
Dopo aver cercato invano un albergo vuoto a Orchard Road siamo finiti nell’unica guesthouse di Singapore ma, oltre ad essere sudicissima, aveva anche i bagni in comune. Con l’ennesimo taxi siamo andati in un altro hotel con anche piscine e internet gratis  ad un prezzo ragionevole ma, ovviamente, era tutto pieno. Abbiamo fermato un taxi per strada e ci siamo fatti portare a Little India, al Madras Hotel (consigliato dalla Lonely Planet). Peccato che il tassista (indiano) non avesse assolutamente idea di dove fosse questa Madras Street. Peraltro a pelle mi stava simpaticissimo. Era tenero, con I baffoni, un po’ in carne e sui sessant’anni. Dolcissimo. Solo che ha iniziato a balbettare una scusa dietro l’altra, a guardare il navigatore, a chiamare un altro amico tassista che glielo suggerisse, a girare in tondo. E tutto questo con il contatore attivo e con I prezzi singaporiani, che non sono uguali al resto dell’Asia… Filippo, che odia essere preso in giro, stava iniziando ad innervosirsi. Ambedue avremmo voluto che il signore ammettesse la sua ignoranza circa la strada da fare e ci permettesse di prendere un altro taxi o scegliere di andare a piedi. Ad un certo punto, dopo che il tassista ci ha domandato il numero telefonico dell’hotel per chiedergli dove fosse, Filippo è scoppiato. Gli ha detto: “No, leave me here. I don’t want to pay for your incompetence”, gli ha dato 10 $ dicendo di tenersi il resto e se ne è andato. È stata veramente una brutta scena e io ho smesso di parlare per un’ora buona. Purtroppo io non me la prenderei con nessuno. Ma molti se ne approfittano del turista e non sono onesti. Anche Daniel, in Cambogia, ci raccontava di tutti I tentativi di fregatura a cui era andato incontro. Anche lui sosteneva che solo facendo vedere che si è intelligenti loro si pentono e la smettono. Io però mi ero affezionata a quell tassista, poteva essere mio padre.

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9/3/2010 AEROPORTO DI SINGAPORE ore 17:11

Ieri poi siamo arrivati al Madras ed era un buon albergo. La nostra stanza andava benissimo. A piedi ci siamo girati Little India. Carino, folkloristico. Più che altro non è come China Town in giro per il mondo che si riduce a una sola via o poco più. È un vero e proprio quartiere con anche un tempio indù e tantissimi negozi (la maggior parte oreficerie) gestiti solo da indiani.
Siamo andati anche al mercato di ChinaTown che ci ha fatto un po’ schifino. Bello a vedersi ma tutto costosissimo e parecchio finto.
Dopodiché siamo andati a fare un giro per il resto di Singapore e ci è decisamente piaciuta. Mi sono comprata anche una magliettina con un orsacchiotto nel negozio di una stilista emergente.
Siamo andati anche al Giardino Botanico. Bellissimo. Con ogni tipo di vegetazione esistente. Curato a puntino, formava opere d’arte naturali. E poi infondeva una grande pace. Arrivati al cuore del giardino abbiamo trovato il ristorante del parco. C’era un pranzo matrimoniale e io l’ho trovato magnifico. Luce del sole, ombre delle piante, rumori della natura e un pranzo mozzafiato nel giorno più importante della vita di una persona.
A cena ci siamo imbattuti in un fast-food di cibo orientale. Una figata incredibile. Tipo Mc Donald’s ma tutto di cibarie orientali. Ogni bancone aveva una propria specialità. Io ho preso una zuppa di wonton e gamberi, un bau al pollo e un raviolo di pinna di squalo. Questo fast-food aveva una convenzione con gli studenti perché venivano prof e ragazzi con i cartellini alla cassa.
Oggi invece ci siamo alzati abbastanza presto, dopo una giratina a piedi siamo tornati nel fast-food di ieri. Mi è preso un morso allo stomaco, non volevo andarmene da questa città. Ma ormai il volo era stato prenotato. Siamo tornati poi a Orchard Road per un paio d’ore. Griffes di tutto il mondo. Perfino due D&G a distanza di 100 metri. Ovviamente tutto pulito lindo. Ho anche scoperto che a Singapore sono vietate le gomme da masticare perché sporcano per terra. MANIACALI. Anche nella metro la pulizia era impressionante. L’architettura è affascinante, moderna, sembra un po’ una città australiana. Tondeggiante ma anche sviluppata in altezza con una vita moderna e mondana. Alcuni fattori newyorkesi: la gente che fa footing nelle strade principali, che va a giro con il caffé nel cartone, I fast food ovunque. È una bolla di sapone nel sud-est asiatico. Una città al di fuori da tutto ciò che la circonda. Estremamente mutliculturale, ricca e piena di opportunità. Le done ci tengono al look. Sembra un “Diavolo veste Prada” orientale. Cammini per Orchard Road e vedi queste donne curatissime con smalto, capelli perfetti, l’ultima borsetta di Marc Jacobs, taco must e gonna longuette. Considerare come sono vestite e come vengono considerate le donne a pochi chilometri da qua mi fa ancora più pensare al concetto di “bolla di sapone”.
Il cibo è buono, qua hanno la fissa per gli spiedini. Ma anche tanto cibo cinese. Come I bau (palline di pastella soffice, al vapore, con dentro il ripieno), i ravioli, gli involtini etc. Credo che sia una città splendida da vivere. Forse è un po’ artificiale. Ma è divertente e piena di scelte. Gli studenti universitari escono dal complesso e vanno tutti a mangiare insieme, studiano insieme, son sempre uniti. Vanno a scuola con ciabattine e vestitino (griffati), mangiano cose ottime e hanno sempre il sole… Fantastico!
Ora sono all’aeroporto e sto aspettando il volo per il Borneo. Non ho mai visto un aeroporto così maniacalmente pulito e confortevole. Massaggiatori per piedi gratuiti, internet free, divani in cui sprofondare, vari tipi di ristoranti, due inservienti fissi nei bagni pronti a pulire dopo ogni uso e tappeti ovunque.

 

10/03/2010 KOTA KINABALU’S airport, ore 16:08

Ieri siamo arrivati molto tardi a Kota Kinabalu. Abbiamo preso un taxi e ci siamo fatti portare in un brutto hotel in paese. Non ricordo il nome ma so che nel bagno aveva un cratere enorme nel soffitto dove potevano tranquillamente vedermi. Per non parlare dello sporco.
Abbiamo cenato a un Burger King nei paraggi e abbiamo deciso di ripartire oggi alla volta di Tawau, snodo per Mabul Island. Stiamo per concederci I primi giorni di mare.
Stamani ci siamo alzati verso le 9 e ci siamo messi in moto alla ricerca di un tour operator. Ne abbiamo girati tre o Quattro ma più o meno tutti ci dicevano le stesse cose: se volevamo potevamo fare delle escursioni di mezza giornata o di un giorno oppure il trekking sul Monte Kinabalu (a noi non ci interessava) oppure la Danum Valley o Lost World. Siamo andati all’Ufficio per il Turismo per chiedere spiegazioni su queste ultime due possibilità. Lost World è una parte dello Sabah quasi del tutto inesplorato (50%). È una grossa porzione di giungla, ma l’esperienza minima è di 5 notti/6 giorni. Tutto questo a cifre esagerate. La Danum Valley invece è l’esplorazione sempre di una foresta incontaminata ma più vicina al punto di partenza. Un fiume divide Lost World da Danum Valley. L’ente per il turismo ci ha indicato una agenzia dall’altra parte della città e noi ci siamo andati. Il taxi ha anche sbagliato a portarci e abbiamo dovuto fare un chilometro a piedi sotto il sole a picco. Trovata l’agenzia ci siamo fatti dire le cifre. Lost World proibitivo e peraltro tutto completo fino a fine Aprile. Danum Valley invece partiva esclusivamente da 3 notti e il prezzo era 2000 RM a testa. La tizia ci ha anche proposto un discount (1850 RM a testa). Ci ha anche provato a concentrare tutto in 2 giorni/1 notte ma il prezzo restava 1200 RM a testa. Considerando che con 400 euro a testa ci siamo fatti 2 settimane di Cambogia… Ce ne siamo andati a malincuore e abbiamo guardato se c’erano dei traghetti per il Brunei ma erano già tutti partiti. Abbiamo così deciso di prendere il volo per Tawau.
In pratica con questo volo taglieremo la regione del Borneo in cui siamo (Sabah). Andremo dalla parte opposta e raggiungeremo questa isola che dice essere bellissima.
Nonostante tutti I miei sforzi non riesco a farmi restare simpatici I malesi. Non mi piace la condizione femminile. Non mi piace il modo in cui mi snobbano e parlano solo con Filippo. Non mi piace in generale. Gli unici approcci che hanno con me è mandarmi I baci mentre cammino, mi dicono “Hey lady”, anche se c’è Filippo con me. In Cambogia chiedevano subito: “è un amico?” e quando dicevo che era il mio fidanzato smettevano subito.

 

11/03/2010 TAWAU, ore 9:23

Siamo arrivati a Tawau, dopo 40 minuti di volo, quando era già buio. Ci siamo fermati ad un hotel (Sanctuary Hotel con insegna Grace Hotel) a cui ci ha condotto il tassista. Non era quello che cercavamo. Era gestito da due ragazzi di circa diciotto anni. Quando FIlippo è salito su per vedere la stanza uno dei due è rimasto con me e ha iniziato a guardarmi con bramosia. Fortunatamente Fil è tornato veloce e ha detto di no. Siamo venuti via con questi due che ci gridavano accidenti dietro. Siamo stati coraggiosi dal momento che nei dintorni non c’era niente, avevamo gli zaini e la Lonely Planet consigliava solo 4 alberghi di cui un ostell, questo famoso Sanctuary e due superlusso. Siamo andati in un altro albergo che avevamo visto mentre percorrevamo la strada col taxi. Per raggiungerlo ci siamo imbattuti in un paio di topi enormi morti e molti scarafaggi (bistecchine con le zampe). Abbiamo avuto una grande fortuna. L’albergo (108 RM a notte-costosino per I nostri standard) era bellissimo. Classico hotel occidentale con parquet, due letti matrimoniali, specchi, truccatoio, scrivania e vasca da bagno! Un paradiso… Per cena siamo scesi dall’albergo e ci siamo ritrovati nel “centro di Tawau”. Abbiamo mangiato alle bancarelle all’aperto. Per me special fried rice con patatine e un uovo. Due primi, una coca e un’acqua per 3 $. Dopodiché ci siamo infilati in un supermercato e abbiamo comprato due o tre cose che ci servivano. Io poi mi son fatta una doccia lunga 4 ore e mi sono addormentata con i capelli bagnati.
Stamani ci siamo alzati tardi (8:30) e siamo andati ad un’agenzia di viaggi abbastanza lontana (taxi 5 RM) per capire come fare a raggiungere Mabul Island. Come prevedevamo l’isola è raggiungibile solo con prenotazione di uno dei Quattro chalet presenti. L’agenzia ne propone uno proibitivo: il Water Resort. Bello a vedersi ma molto costoso, un po’ da viaggio di nozze. Adesso andiamo a sentire a Semporna (da dove partono I traghetti per Mabul) se troviamo un’agenzia più conveniente.

 

MABUL ISLAND, Sera

Abbiamo preso un minibus dalla stazione dei Pullman di Tawau. Sarebbe partito solo una volta pieno (???!!). Fortuntamente siamo partiti abbastanza velocemente e siamo giunti a Semporna.
Arrivati abbiamo camminato un po’ alla volta dell’ufficio per il turismo. Ovviamente nessuno parlava inglese e i pochi che lo parlavano dicevano stronzate. Grazie ad una serie di coincidenze siamo capitati in un’agenzia gestita da giovani tedeschi. Il loro pacchetto partiva da 90 RM a notte, all inclusive e snorkeling gratis tutta la zona. Abbiamo acuistato due notti. Il nome del restort è Scuba Junkie. Le barche veloci per la giornata erano terminate. La successiva sarebbe partita forse alle 16 ma per il resort vicino. Il ragazzo avrebbe dovuto chiedere un favore per farci portare al nostro. Siamo andati a mangiare in uno dei ristoranti a palafitta chi ci ha consigliato il tipo. Ho mangiato un fried rice con pesce saltato e un granchio intero al burro e crema di latte, ottimo.  La ristoratrice, una cinquantenne nodosa e iperattiva, ci ha portato a far vedere il granchio vivo e poi ha fatto il gesto di sparargli sottolineandoci il suo imminente destino. Agghiacciante. Le abbiamo fatto anche una foto con I granchi vivi in mano, poi li ha ceduti a un cameriere gridando: Kill them! Cinguettando… La ragazza dell’agenzia è venuta correndo da noi al ristorante per dirci che la barca sarebbe stata pronta alle 14. Così abbiamo finito in fretta e furia con le mani (stile Biafra) e siamo corsi all’agenzia. Dopo aver firmato due scartoffie ci hanno portato all’agenzia del resort che ci avrebbe trasportati. Siamo partiti alle 15 circa. Viaggio in barca allucinante. Mi domandavo come mai ci facessero indossare con tanta insistenza i giubbotti di salvataggio… poi ho capito… La barca (tipo un catamarano) dava delle steccate in mare aperto da spezzare la schiena. Botte alle costole, allo stomaco, ai reni. Un dolore pazzesco. Comunque arriviamo all’isola e, con le nuvole e il cielo coperto, non ci sembra un granché. Il mare è scuro, leggermente più pulito a riva ma niente di sconvolgente, sembra parecchio peggio della Puglia o della Sardegna. L’isola poi è formata da 4 resort (lo Scuba, quello che ci sta trasportando, il Water che vedemmo nei cataloghi a Tawau e un altro dalla parte opposta dell’isola) e, oltre a questi, ci vive la popolazione autoctona. Per cui arrivando si vedono subito le baracche sulla riva del mare a ridosso dei resort. Dove vive la popolazione residente è tutto molto sporco e si ammassano le lamiere con le barche. Paradossalmente le costruzioni turistiche sono molto più estetiche e pulite. Ma la perla è un resort assurdo che intravediamo a largo. È come una nave cargo rossa e gialla tenuta su da palafitte. Esteticamente orrenda. Dopo aver compilato i fogli di ingresso nel resort che ci ha trasportati siamo andati a piedi al nostro, che è il “vicino di casa”. Siamo arrivati e abbiamo visto che è un resort spartano ma piacevole. Il clima è giovanile, rilassato, “da festa”. I proprietari sono tutti ragazzi friendly e tranquilloni. Fanno tutto loro. Sono gli insegnanti di Diving (Sub), I cuochi, I responsabili. Tutto.
Il nostro resort ha un vialetto centrale, tutto fatto di sabbia. Le stanze sono laterali sia a destra che a sinistra. A noi hanno dato una casetta con bagno e letto, tutto in legno. C’è anche un terrazzino che da sul vialetto dove c’è un’amaca. Stasera, al mar delle luci, si son spinti tutti verso la struttura principale (in fondo al vialetto principale c’è una struttura su due piani in cui sotto si cena e sopra c’è il lobby). Abbiamo cenato tutti insieme a self service in dei tavoloni a base di riso, merluzzo, pollo ai peperoni e patate lesse. Ci siamo sentiti molto come nel film “The Beach”. Questo resort punta tutto sul passaparola tra divers perché è frequentato da una cerchia ristretta accomunata dalla passione per il diving. Dopo cena siamo saliti al secondo piano nel lobby dove c’è anche il bar. Abbiamo bevuto una birra e giocato a carte.

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12/03/2010 MABUL ISLAND ore 12:50

Stamani ci siamo subito tuffati in un meraviglioso snorkeling. Finalmente l’acqua era illuminato da un bel sole e faceva risplendere la barriera corallina sottostante. L’isola è ancora più bella sotto il mare che sopra. Abbiamo decisamente rivalutato Mabul. Durante la prima immersione ero un po’ stranita. Non avevo mai indossato un paio di pinne in vita mia e respirare col boccaglio mi veniva molto innaturale… oltretutto per me era il primo bagno dell’anno! La barriera quasi a riva. Appena si entra sotto il pelo dell’acqua si vede una vera e propria foresta: coralli, anemoni, banchi di pesci, barracuda, stele marine e perfino una tartaruga marina! Anche Filippo, che ha visto molte barriere, l’ha definita forse la migliore mai vista. Non c’erano tantissimi pesci, soprattutto non molti grossi, ma la bellezza era soprattutto la vegetazione marina. Purtroppo le barche a motore facevano avanti e indietro disturbando la fauna sottomarina.
Nel frattempo il club dei divers si è diviso in più spedizioni una delle quali, penso per il brevetto, si è radunata davanti al pontile. Io e Fil invece ci siamo limitati allo snorkeling e abbiamo effettuato due immersioni. Nonostante il poco tempo in acqua ho già una scottatura sulla schiena. Adesso sono nel lobby ad aspettare il pranzo. Abbiamo una fame che la vediamo.

Ore 20:00

Dopo pranzo abbiamo fatto amicizia con una coppia di italiani che stava per andarsene. Sposati dopo un fidanzamento decennale, di Firenze ma viventi a Milano. Ci hanno raccontato un sacco di cose. Tipo che lui per il suo lavoro ha vissuto in Qatar, in Svizzera e a Budapest; fanno ogni anno un viaggio in giro per il mondo. Anche loro hanno risentito della disparità che i proprietari del resort fanno nei confronti di chi non fa diving. Loro avevano richiesto la possibilità di andare a Sipadan al loro arrivo e I ragazzi gli hanno continuamente risposto “We can try, but it’s impossible”, quando tanti divers arrivati dopo hanno avuto diretto accesso all’isola. Faccio una piccola precisazione: Sipadan è un’isola vicina a Mabul nella quale non è possible alloggiare e che è famosa per la sua particolare conformazione sottomarina. Anche a noi hanno momentaneamente negato di andare a Sipadan.
Nel pomeriggio ci siam ributtati in acqua per l’ennesima immersione. Il mare era un po’ meno bello, c’erano meno pesce e un po’ troppe correnti fredde.
Abbiamo fatto amcizia anche con un’altra coppia di italiani. Sono due fidanzati pratesi che stanno insieme da tre anni e che hanno fatto già due viaggi insieme intercontinentali non troppo difficili. Lei è la leader della coppia ed è in confidenza con tutti. Ha convinto il compagno a fare diving e quindi, per questo motivo, hanno avuto la fortuna di andare a Sipadan.
Infine oggi, mentre facevamo diving, abbiamo fatto caso ad una coppia gay che sta sempre in disparte. Prendevano il sole sul bagnasciuga con occhiali da sole griffati e asciugamani da mare lindi. Uno dei due è veramente bellissimo. Non parlano con nessuno e non guardano nessuno. Sono enigmatici.
Dopo lo snorkeling, sul pontile, ho fatto conoscenza con una ragazza inglese che stava partendo per un’escursione di diving. Mi ha chiesto tutta sconvolta come mai io non facessi diving. Il mio inglese si è bloccato e non sapevo che dirle. Le ho risposto “boh”. Il razzismo verso chi non fa diving è sempre più palpabile. Quando cerchiamo di parlare con qualche maestro ci dicono sempre “dopo”.
Dopo aver fatto una doccia all’aria aperta ci siamo messi due cenci e siamo andati a cercare il tramonto. Ciò ci ha concesso di fare il giro dell’isola. Abbiamo svoltato a sinistra del nostro resort e, dopo un po’, la strada battuta ci ha spinto verso l’interno. Siamo allora entrati nel cuore del villaggio dei residenti. Devo dire che è stata una bella emozione camminare, sulla sabbia, tra queste persone semplici e ferme a un’altra epoca. Mi è sembrato di tornare in Cambogia. In questo villaggio non ci sono costruzioni turistiche. Non ci sono ristoranti, bar, strutture. È un piccolo villaggino con qualche banchino con carabattoline per gli abitanti stessi. Il sole è tramontato dalla parte opposta dell’isola. Ci siamo infilati tra alcune baracche, su un pontile. Il sole tramontava appoggiandosi dolcemente sul mare. Alcuni bambini stavano pescando con filo e amo. In alcune case a palafitte c’erano delle donne che cucinavano e chiamavano a cena i loro bambini.
Un cane giallo.
Quando il sole è sceso dentro il mare siamo tornati verso il nostro resort. Per farlo siamo passati accanto al piccolo cimitero dell’isola. Filippo mi ha fatto presente che la maggior parte delle tombe era molto piccola, le dimensioni di un bambino.
Siamo arrivati in tempo per cena e dopo siamo corsi a bere un drink nel lobby.

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13/03/2010 MABUL ISLAND, ore 13:15

Oggi, nonostante una notte travagliata, abbiamo trascorso una bellissima mattinata. Abbiamo noleggiato una barchetta a motore per 100 RM e siamo andati a fare snorkeling intorno all’isola ma anche in mare aperto più a largo. Con noi sono venuti anche Adriano ed Eleonora, la coppia di Prato.
La barriera a largo è ancora più bella e ho imparato sulla mia pelle che acqua chiara non è sinonimo di bel fondale. Dove il mare era più blu spesso c’era la migliore varietà di flora e di fauna sottomarina. Abbiamo visto una bellissima tartaruga di mare e un serpente di mare bianco e nero che si intrufolava tra I coralli. Oltre a questo abbiamo visto centinaia di pesci e un piccolo Nemo (che è molto territoriale, esce dall’anemone se lo si disturba). Nota negativa è che c’erano anche tante medusine e un’infinità di pulci di mare che pizzicano tantissimo. Sono piena di bollicini dati dai loro morsetti ora. In alcuni punti la barriera crollava a picco come una gola. Diventava improvvisamente tutto buio e faceva impressione. Ma, nonostante a raccontarlo possa inquietare, una volta in acqua la pace si impossessa di te. Il rumore calmo del sotto-mare ti fa passare ansie e paure, anche soprattutto grazie al fatto che senti il tuo respiro. Ti sembra di tornare nel liquido amniotico.
Ad un tratto siamo andati in una parte di mare in cui l’acqua era cristallina, quasi fluorescente. Si toccava tranquillamente e il fondale era fatto solo di sabbia morbida e bianchissima e di… stelle marine! Un’infinità. Ce ne era una ogni due metri di tantissimi colori e dimensioni. Ad un tratto ho fatto un’immersione senza boccaglio e pinne. L’acqua era bassissima, così bella e calda, con l’ombra della barca, le stelle marine, il rumore del mio respiro… ho preso una stella marina in mano.
Potrebbe essere questo il più bel cane giallo della vacanza?

Prima di tornare al resort siamo andati a visitare il famoso resort fatto a nave cargo a largo. Abbiamo chiesto se potevamo entrare e loro ci hanno detto di sì. Abbiamo lasciato la barca e ci siamo arrampicati su una piattaforma che ha la funzione di ascensore. Salire di trenta metri con un ascensore pericolante senza barriere fa veramente impressione. La struttra è fatiscente. Sembra veramente l’interno di una nave o di un traghetto. La vernice scrostata, I ponti di ferro battuto, le scialuppe di salvataggio. Ma è stata un’esperienza divertente. Eravamo tentati di tuffarci di sotto dalla nave ma, fortunatamente, abbiamo desistito.
Tra poco torniamo a Semporna con una barca veloce.

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14/03/2010 SUKAU, ore 13:41

Ieri, dopo pranzo, siamo andati a fare un’ultima escursione di 15 minuti di fronte al Water Resort. Il fondale faceva discretamente schifo. C’erano però alcune cose degne di interesse un po’ più a largo attorno alle quali si raggruppavano banchi di pesci molto grossi. Dopodiché, ancora bagnati, ci siamo vestiti e abbiamo aspettato sul pontile la barca per Semporna. Nel frattempo si erano radunati là un po’ tutti: dai divers tornati da un’escursione, i praticanti di snorkeling e i maestri. Nonostante stessimo partendo, e nonostante i baci e abbracci iniziali, ai maestri non frega nulla di noi. È come se non esistessimo. Ovviamente ci hanno negato fino all’ultimo la visita a Sipadan. Ieri Filippo ha chiesto ad uno degli insegnanti se fosse stato possibile pescare. Questo l’ha guardato con faccia sconvolta, l’ha squadrato da capo a piedi e gli ha risposto scandendo bene le parole: “No Dude, noi i pesci li guardiamo e basta”. Beh… che dire di quell merluzzo che ci avevano servito a pranzo… era finito nel piatto sotto ipnosi?! Per cui non abbiamo goduto di particolari servigi all’interno della tribù.
La stessa sensazione che abbiamo avuto un po’ tutti (anche gli italiani che abbiamo conosciuto) è questa falsità che aleggia nell’aria. Tutti si chiamano Dude, si abbracciano, Peace&Love ma tutto a fin di comodo. Per l’amor di Dio: è ammirabile il loro impegno. Hanno lasciato l’Europa per venire in Asia e fare tutto da soli. È una scelta coraggiosa. Ma il modo in cui hanno cambiato atteggiamento con noi ci ha dimostrato che tutta queste gentilezza era solo la convenienza iniziale. La classica fregatura coperta dal sorrisino. Ma comunque consiglio lo Scuba a chiunque voglia recarsi a Mabul.
Siamo sbarcati a Semporna ed io ero vestita letteralmente da mare: ciabattine, pantaloncini corti, canottierina. Considerando che ero abbronzata e con i capelli platino… gli ormoni dei malesi si erano impennati. In crisi di astinenza da dolci mi sono abbuffata  nel primo 7eleven che ho trovato comprandomi biglie di cioccolato, Kit Kat e waffel. Ho divorato tutto in tre secondi e così ho cominciato a sentirmi male. Nel frattempo non sapevamo bene cosa fare e dove andare, così ci siamo messi a cercare bus per qualsiasi destinazione. Purtroppo però TUTTI partivano l’indomani mattina. Le destinazioni possibili erano: Sandakan a fare qualche escursione; Sepilok per vedere il parco degli orangotanghi; Lau Dathu cittadina senza né arte né parte a metà strada direzione Sandakan.
Considerando che si era già fatta l’ora del tramonto abbiamo iniziato a farci prendere dallo sconforto. Grazie a un cosiddetto “colpo di culo” abbiamo trovato un chickenbus per Lau Dahtu alla modica cifra di 29 RM a persona. Lo abbiamo preso senza trope storie. Dopo circa tre ore di sballottamenti in un trabiccolo omologato per 10 con dentro 19 persone (!!!) siamo arrivati all’ora di cena nella cittadina. Abbiamo alloggiato al Royal Palm Hotel. È il classico hotel “tutto fumo niente arrosto”: hall ricercata, ingresso regale, SPA. La stanza però era una schifezza con un bagnetto scassato e sudicio. Siamo andati a cena alle bancarelle del paese. Abbiamo mangiato due hamburger alla malese (tenevano il chilli e la maionese sfusi in delle buste di plastica). In tutta questa storia io ancora mi sentivo male per il Kit Kat. Avevo una nausea assurda e, se non avessi bevuto una Coca-Cola, non l’avrei sbarcata. Tutta la gente si fermava a guardarmi Incuriosita. Addirittura uno ha rincorso Filippo e gli ha fatto I complimenti. Ci siamo fermati a mangiare a sedere su un marciapiede, di fronte alla bancarelle. In tre secondi siamo stati circondati da bambini che si fermavano davanti a me e mi guardavano stupefatti. Eppure ero coperta da capo a piedi e vestita con roba larga e tutta di nero. Forse erano I capelli biondi… Fil si è buttato su un ciambellone fatto a mano in un banchino davanti a noi. Le due donne che lo gestivano glielo hanno regalato. Quando lui è tornato per prenderne un secondo glielo volevano ancora regalare ma lui ha dato loro una banconota e gli ha detto di tenersi il resto. Loro tutte felici lo hanno guardato trasognate. Arrivati all’albergo siamo andati a letto e io ho patito le pene dell’inferno per la scottatura dello snorkeling e per un ragnetto sul soffitto. Ho dormito con la luce accesa. Oltretutto un gruppo di ragazzotti dormiva accanto alla nostra stanza e ogni tanto batteva I pugni contro il muro.
Stamani abbiamo lasciato gli zaini in camera e siamo andati a cercare qualche agenzia che ci consigliasse un’escursione. Purtroppo, essendo Domenica, abbiamo trovato tutto chiuso. Abbiamo così deciso di tornare a prendere gli zaini e recarci a Sukau, una località in mezzo alla giungla che Filippo aveva trovato spulciando la Lonely Planet. Dopo due ore di ricerche abbiamo trovato un mini busa 20 RM a testa che diceva portare a Sukau. Eravamo tutti appiccicati e rigorosamente senza aircon. Mi facevano malissimo I muscoli dei glutei e addirittura Filippo non poteva appoggiare le spalle allo schienale. Dopo due ore l’autista si è fermato nel bel mezzo dell’autostrada e ha detto: Sukau. E ci ha scaricato I bagagli abbandonandoci…

Abbiamo così bruscamente scoperto che quell cappero di minibus andava a Sandakan e ci aveva scaricati in mezzo a un bivio. Svoltata la curva (RIPETO: IN PIENA AUTOSTRADA!!!) siamo sbucati a una sorta di fermata dei Pullman. Anzi, riformulo. In mezzo all’autostrada, anzi, sul ciglio, c’era uno spiazzo in mezzo alle palme con una panchina di marmo. La fermata dell’autobus. A ridosso della giungla sorgeva invece un tavolo con una decina di persone a tavola e una donna con il velo che cucinava a dei fornellini portatili per tutti I commensali. Quella invece era la biglietteria.
Potevamo scegliere di aspettare il Pullman oppure pagare 20 RM ed essere portati in macchina dal capo familia. Abbiamo optato per il farci portare e siamo arrivati in questo paradiso terrestre di nome “Saku Tomanggong River View Lodge”. Una delle cose più belle che abbia mai visto in questo viaggio. Sono dei bungalow su questo fiume sulla cui riva opposta impera la giungla rigogliosa. E il clima è così sereno e fresco… La proprietaria poi è così dolce e ride come la cerbiatta in Bambi. Per adesso abbiamo preso una sola notte e due escursioni. Una la faremo oggi alle 16 (afternoon cruise) e una dopocena (Night river safari). Adesso stiamo mangiando tramezzini al tonno nel bellissimo ristirante sul fiume.

Notte

Il sole, tramontando, si è portato via i suoni diurni della giungla. E ha lasciato spazio a quelli più misteriosi, della notte.
La proprietaria filippina della guesthouse ha appena portato via le ciotole con il cibo. Lei sorride, sorride sempre. Gli altri quattro clienti si sono ritirati a dormire. Noi siamo rimasti sul pontile, sul fiume. Stiamo aspettando che il marito della proprietaria e il loro figlio ventenne siano pronti ad accompagnarci in un’avventura unica. Filippo scrive alcune cose, credo cifre. Io mi soffermo a leggere il diario delle firme degli ospiti. L’ultimo italiano risale a dieci anni prima, ed è un pisano.

L’uomo filippino appare improvvisamente alle nostre spalle, con un ingombrante impermeabile addosso. Ci fa segno di scendere sulla sponda, alla barca. Il figlio è già là che ci aspetta. Una volta arrivati ci facciamo aiutare per salire sulla barchetta. Il ragazzo si mette a prua, con in mano un telefono del due. Il padre, invece, si mette alle nostre spalle in piedi, con una grossa torcia accesa in mano.
Non fa freddo. Non fa mai freddo qui. Ma l’aria tiepida mi provoca un brivido.
Il ragazzo accende il motore dell’imbarcazione. Scivoliamo placidi lungo il fiume nero. L’unica luce proviene dalla grande torcia nelle mani dell’uomo, dietro di noi. La barca si sposta verso destra, costeggiando la sponda opposta. La foresta pluviale si erige impetuosa in ogni angolo. Sentiamo i magici movimenti della notte. L’uomo muove la torcia rapidamente, controllando attento ogni angolo della foresta. Illumina un gruppetto di nasiche addormentate su alcuni rami in alto. Ci dice, in un buon inglese, che stanno facendo la nanna. Procediamo controcorrente, col motore spento. Le mangrovie animano la giungla incantata, incorniciandola con le loro radici sinuose. Il fascio di luce della torcia sembra un’intrusione nella seduttiva giungla. Qualche uccellino colorato resta immobile, nonostante i bagliori, e si fa guardare, vanitoso. Abbiamo capito che a quest’ora della notte, eccetto qualche gufo e alcuni volatili di piccolo taglio, non vedremo molti animali. Nonostante ciò non spero di tornare indietro. Il caldo venticello, i silenziosi rumori, il magnificente buio, è un gigantesco ossimoro che vuole farmi essere lì. L’uomo inizia a sbadigliare. Nonostante i diversi riggit che ha guadagnato con la sua spedizione notturna fuori programma sta crollando dal sonno. Dice che tutti gli animali stanno dormendo. Ma và! E dice che forse è il caso di tornare indietro.
Poi fa una cosa. Che nessuno di noi si sarebbe aspettato.
Spenge la torcia. Ci eravamo abituati al suo innaturale fulgore e, una volta morto, ci voltiamo  disorientati. Il ragazzotto accende il motore e fa voltare su se stessa la barchetta. La prua adesso punta obliqua all’altra sponda. Mette il motore al massimo. E partiamo.
Noi, la velocità e le stelle.
Strano che non me ne fossi accorta fino ad allora: erano tantissime. Sembravano una marea di diamanti sopra un panno di velluto blu. Mai visto una cosa simile…
Un mondo di stelle, di galassie e di universi sopra di noi. Improvvisamente minuscoli nell’immensità. Ho pensato alla mia mamma, dall’altra parte del mondo. Agli abitanti della piccola Cambogia, che non erano mai usciti dai loro esigui confini. Ho pensato alle strade delle Keys in America, viste qualche mese prima.  A Parigi, in cui son cresciuta, con le sue magnifiche boulangerie. Ho pensato a tutto il mondo. E ho pensato che, nonostante la distanza, tutti stavamo guardando la stessa cosa. Quelle stelle erano mie quanto degli abitanti di tutto il resto del mondo. Ho pensato a Dante che uscì a riveder le stelle. Ho pensato agli achei in terra troiana, che di notte tornano all’accampamento distrutti. Ho pensato al notturno di Chopin. A 2001 odissea nello spazio. Ho pensato alla notte di San Lorenzo in montagna, tutti sdraiati su un pleid a guardare le stelle cadenti. Cazzo, c’era tutto là dentro. E mi son sentita avvolta da quella coperta che era l’unica cosa familiare, a parte Filippo, in quell’angolo di mondo.  E correvamo, sotto l’infinito, in mezzo alla giungla, nel Borneo.
è lui il cane giallo del mio viaggio.

 

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SANDAKAN 15/03/2010 ore 9:09

Lasciamo a malincuore la meravigliosa Sukau. I due safari di ieri son stati splendidi. Di giorno la barca si muoveva dolce tra le mangrovie. Abbiamo visto nasiche, macachi, un serpente enorme, farfalle di ogni forma, un piccolo alligatore e tantissimi uccelli variopinti. La notte l’ho già descritta. Potenza, infinito e avventura tutti miscelati insieme.
Stamani, dopo due ore e mezzo di chickenbus, siamo arrivati a Sandakan.

 

KOTA KINABALU, sera

Dopo un viaggio estenuante via bus ne mezzo dello Sabah abbiamo ritrovato la nostra vecchia Kota Kinabalu. Stavolta alloggiamo all’hotel Mandarin, in una zona piuttosto centrale. Il bagno è alquanto sudiciotto ma perlomeno ha una doccia funzionante. Io stavo male appena arrivati, avevo I crampi allo stomaco. Abbiamo preso tutto con molta calma. Siamo andati a cenare al mercato del pesce sul mare. È una specie di porto. Ci sono le barche attraccate e tutte le bancarelle davanti. Si trovano pesci cotti da qualche minuto, pesci vivi che ti ammazzano in diretta, pesci mezzi vivi o morti nel ghiaccio. Scegli il pesce e loro lo cucinano alla griglia davanti a te. Nel retro di ogni baracchino ci sono dei tavolacci di plastica ai quali ti siedi e consumi il pasto. Fil ha preso 6 calamari e un gamberone, mentre io ho preso un pesce pappagallo della bellezza di 5 etti. È un pesce bellissimo, tutto azzurro con la bocca fatta a forma di becco. Il gamberone era un po’ bruciato ma le seppie e il mio pesce erano divini. Come dice Fil “quando ti chiederanno come era la barriera corallina tu gli risponderai –BUONA!-“. Davanti a noi c’erano due malesi che mangiavano rigorosamente con le mani. Alla fine sono riusciti a farci pagare tanto. Considerando la bassezza del posto ci son partiti 45 RM… è vero che la qualità del pesce era ottima ma vorrei ricordare con quanto si vive qua in Asia… Poi siamo andati in un internet point dopo giorni di latitanza. Abbiamo speso tantissimo e non siamo neanche riusciti a prenotare l’aereo di ritorno dal Borneo alla Malaysia peninsulare.

 

 

 

16/03/2010 tratta KOTA KINABALU-BRUNEI via mare ore 10:53

Ci siamo alzati e ci siamo subito fiondati al porto a prendere il traghetto per Labuan dove cambieremo un altro traghetto per il Brunei. Non ho fatto colazione = nervosismo. Qui stanno continuando a mettere un dvd dopo l’altro. Ho notato che in Malaysia, al contrario che in Cambogia, non vanno le storie d’amore. Solo scene d’azione e di lotta. L’unica alternativa valida è il karaoke. Adesso, infatti, ci stiamo sorbendo Always di Bon Jovi ricantato da in malese. E Filippo canta ad alta voce. Una bambina piccina lo ha preso di mira. Saltava nel seggiolino, gli gridava nelle orecchie e alla fine ha anche iniziato a tocchicciare il foglio in cui lui stava disegnando. Così Filippo se n’è uscito con una brillante idea: “Ora disegno uno che si mangia una bambina, così la spavento e se ne va”. Mi sa che stiamo attraccando.

 

BANDAR SERI BEGAWAN ore 18:13

Se fosse un film lo chiamerei: FUGA DAL BRUNEI. Siamo in un internet point dentro un centro commerciale nella capitale del Brunei. “Intrappolati” qua perché tutte le compagnie aeree chiudono le loro agenzie alle 17:00 e perché via internet si può prenotare Massimo 48 ore prima. Se avessi un sottotitolo lo chiamerei “le comiche” perché ci sono successe le cose più strane di tutto il viaggio da quando siamo qua.
Arriviamo nel Brunei con una barca che sembra un enorme luccio. Metto male la testa nel sonno e quando arriviamo non muovo il collo, ogni volta che lo giro emetto un urletto di dolore. Alla dogana aono veocissimi, zero domande, ma ci aprono lo zaino chiedendo se abbiamo droghe o alcolici (ve lo aveva mai detto nessuno che in Brunei c’è la pena di morte?!?). Il taxi qua non è una compagnia come nel resto del mondo. C’è un servizio di machine private. Il viaggio fino al centro di Bandar Seri Begawan costa la bellezza di 30 $ del Brunei che equivalgono a circa 25 $ americani. Scegliamo un hotel economico nonostante le cifre esorbitanti di questo paese. Lo troviamo sulla Lonely Planet ed è a circa 2-4 km dal centro. Macchissenefrega (come direbbe Marco Masini nella cover dei Metallica). Già dal tragitto ci rendiamo conto della ricchezza di questo paese. Non è una ricchezza ostentata ma è evidente. Villette, machine di ottime marche, poca sporcizia, nessuna baracca. Arriviamo all’hotel ma non c’è nessuno all’accoglienza. Il tassista inizia a chiamare a gran voce per l’hotel, per le stanze, entra nelle zone riservate, grida fuori dalla porta e così via. Ma nessuno risponde. Aspettiamo cinque minuti e niente. A quel punto ci facciamo portare al Terrace Hotel. Consideriamo che hotel di medio prezzo corrisponde a un hotel 4 stelle italiano. Ha ascensori, bagni in marmo, vasca, frigo e piscine. Costa (secondo la Lonely Planet) 50$B a notte. Tanto, troppo, ma non abbiamo alternativa. Gli altri due hotel citati sono uno sudicissimo e un ostello. Arriviamo là e il tassista ci chiede non più 30 $B bensì 35$B. Ennesima beffa al turista. Filippo allora gli dice: “5 $ more for what? 1 km?”. l’altro ridacchia imbarazzato e se ne va. È tanta la tensione che non vogliamo neanche credere alla cifra della receptionist. E menomale. Ci chiede 75$B e Filippo le chiede se non ha stanze a meno. Lei a quell punto dice tutta scocciata che sì, ne ha una a 65$. Con occhi strabuzzati la guardiamo increduli e prendiamo la stanza domandandoci come facciano a prenderci in giro con tanta non chalance. Quando bisogna scrivere la nostra via (via Squarcialupi) Filippo scrive VIA SQUARCIAMINCHIE. La stanza non è nulla di che. Ne abbiamo avute di molto meglio anche a 10$. Usciamo subito per fare un giro. Notiamo subito due cose: 1) è una città rilassata, lenta, silenziosa. Sembra non voli una mosca. 2) nonostante ciò che scrive la Lonely Planet circai rischi, la forte presenza religiosa, la chiusura e le leggi troppo severe sembra tutto molto ma molto più sereno, sincero e bonario della Malaysia. Incontriamo dei personaggi incredibili. Intanto, cercando un internet point, troviamo un bar e chiediamo informazioni. A quel punto spunta un tipo pazzesco. Sia io che Filippo abbiamo contemporaneamente la stessa sensazione ma ce la confessiamo solo successivamente: è Al Pacino ne “L’avvocato del Diavolo”. Ci propone di salire con lui nel suo ufficio. Fil gli chiede quanto voglia e Al ci fa un gesto signorile con la mano come dire: “Ci mancherebbe”. Saliamo nel suo ufficio che è popolato da personaggi unici. Parlano tra loro solo in inglese e sono iper gentili e sorridenti. Scopriamo che è la redazione di un importante giornale del Brunei. Forse il più importante in assoluto. Ci mette ad un computer e ci dice di fare con calma. Ci sentiamo talmente in soggezione che timidamente ci affacciamo sul sito della Malaysia Airways e spegniamo subito. Cerchiamo il boss ovunque e ci perdiamo tra I suoi uffici. Alla fine lo troviamo al bar che parla al telefono. Ci chiede se vogliamo qualcosa da bere. Lo ringraziamo e continuiamo la nostra ricerca. Arriviamo ad un centro commerciale e troviamo questo Internet Point. Cerchiamo di prenotare il volo ma niente. Sulla Lonely troviamo gli indirizzi dei vari uffici delle compagnie aeree. Ci rechiamo a quello della Malaysian che dicono essere “vicino alla fermata degli autobus”. Fil chiede ad un negoziante che esce dal negozio e ci accompagna a piedi per un chilometro fino alla fermata senza volere nulla in cambio. Idem dopo un altro a cui abbiamo chiesto dove trovavamo un taxi per l’aeroporto per andare all’ufficio dell’AirAsia. La stessa cosa anche un taxi-boat nel canale (barchette che fanno passare le persone da un posto all’altro della città.
Piccola digressione: Le donne qua sembrano più libere che in Malaysia. Nessuna è in short e senza velo, ma tutte hanno jeans alla moda e infradito. Alla dogana invece c’erano tre ragazze americane che, secondo me, erano vergognose. Io ero in pantaloni larghi lunghi neri, t-shirt sportive e foulard al collo. Loro erano in pareo, magliettina aderente e scollata e una di loro aveva una minigonna che da quanto era corta scopriva mezze mutande. Ora io ritengo il velo una mancanza di rispetto nei confronti della dignità femminile ma trovo giusto rispettare gli usi e I costumi del popolo che ci ospita. È come se un abitante della foresta amazzonica venisse in Italia pretendendo di poter stare nudo. Ho trovato il comportamento di queste ragazzine irrispettoso e disdicevole. Io mi sarei vergognata. Sei nel Brunei…
Un’altra cosa pazzesca di qua è l’onnipresenza della raffigurazione del sultano. Sì perchè il Brunei è una dittatura. Tutte le banconote portano il volto del sultano. Ma anche cartelloni pubblicitari, quadretti nelle case e negli hotel, volantini, bandiere. È un’ossessione. E, tra l’altro, il sultano Hassanal Bolkiah somiglia fisicamente molto al dittatore di V per Vendetta. Quindi la cosa ci ha fatto sorridere.
Comunque la situazione era questa: ci troviamo nel Brunei, le agenzie sono chiuse perché chiude tutto prestissimo in questo posto. I traghetti per Kota Kinabalu partono tra due giorni, le prenotazioni on-line dei voli si possono fare minimo per due giorni dopo e quindi siamo intrappolati qua. Siamo tornati all’internet point passando accanto alla maestosa moschea (bella ma non eccezionale) e Filippo ha il colpo di genio: chiama su skype sua mamma in Italia e chiede lei di comprargli in un’agenzia di viaggi un biglietto aereo. Si paga 25 euro in più a testa ma pace, OPERAZIONE FUGA DAL BRUNEI RISOLTA!!

 

Ore 22:40

Dopo aver risolto la problematica del biglietto di ritorno ci siamo goduti il Brunei. Il sole è tramontato presto, ha lasciato spazio alle preghiere musulmane che rilasciavano una potente eco dalla moschea del sultano. Il canto gorgheggiato ci segnalava la distanza tra noi e il centro di Bandar Seri Begawan. La città, col crepuscolo, si è addormentata. I movimenti, già lenti, son diventati minimi. Pochissime persone in giro. Nessun turista. Sembrava di essere finiti nel Truman Show una volta svelato il trucco. Un Truman Show senza attori. Dopo aver ammirato la moschea di notte ci siamo diretti al canale. Abbiamo cenato alle bancarelle sull’acqua, consigliate nella Lonely Planet. Siamo stati benissimo, con le barchette a motore che sfrecciavano veloci. Erano l’unico movimento della città. Un grosso televisore, alla nostra bancarella, ci faceva vedere le partire di calico italiane. Quando hanno fatto vedere la Fiorentina abbiamo sorriso. CI siamo visti la nostra squadra di calcio nel Brunei, roba da non credere…
Abbiamo notato anche come questa città sia architettonicamente piena di spazi vuoti. E anche poche persone. È un grande vuoto, se la dovessi definire. Centri commerciali vuoti, strade vuote. Vialoni immensi e solo una macchina ogni tanto. Io e Filippo attraversavamo sempre col semaforo rosso. Sembrava Firenze d’estate quando tutti sono al mare.
Siamo tornati a piedi all’abergo alle 21 e sembrava notte fonda. Circa 40 minuti di camminata. E, nella stanza, si muore. Un freddo incredibile! Maledetta aria condizionata a feritoie (la stessa malefica che abbiamo incontrato a China Town!). Mi sento anche male e ho preso un Geffer. Troppe schifezze, troppo fritto, troppe Coca-Cola. 

 

17/03/2010 BANDAR SERI BEGAWAN, ore 12:00

Stamattina, dopo aver fatto le valige, ci siamo preparati per il settimo volo della vacanza: Bandar Seri Begawan – Kuala Lumpur. Direzione: mare. Il mio stato d’animo era confuso, un po’ inquieto. Negli ultimi giorni ho avuto brutti pensieri. Ho paura di tornare. Ho paura di rientrare nel tipo di mondo che mi attende e, soprattutto, ho paura di dover rispondere a quelle aspettative.
Mi sto dimenticando della ricchezza, dell’agonismo, dell’estetica, dei problemi frivoli, delle gelosie. Delle cose stupide. Delle cosec he ritroverò rientrando. In questo periodo mi sono sentita libera proprio perché ho staccato da tutto questo… Vado a giro struccata, vestita per come mi va, non riconosciuta da nessuno, con lo zaino sporco, parlando la lingua che mi va, sceliendo quello che voglio.
Per cui, con questa angoscia esistenziale, mi son messa ad aspettare un taxi nella hall. Siamo arrivati all’aeroporto dopo un viaggio insieme ad altri due viaggiatori che volevano attaccare bottone. Ed è iniziato il Filippo Show. Non so come mai queste scene accadano solo in aereoporto… ma lui da il meglio di sé qui… Arriviamo al check-in e una hostess dice a Filippo, in inglese, che bisogna pagare le tasse aeroportuali. Totale 24$B. Filippo la guarda e tutto serio, fingendo di chiedere un’informazione importante, le fa: “Is it… Ti facesse fogo?”. Per chi non lo sa questa è un tipico accidente che si può usare che simpaticamente in occasioni goliardiche. Solo che se lo avesse capito credo che non si sarebbe molto divertita… Io stavo per scoppiare a ridere ma non potevo assolutamente! Altrimenti la hostess avrebbe capito la ovvia derisione. Sicché sono riuscita a mordermi la lingua mentre la signorina continuava ignara a controllarci I vari biglietti. Devo trascurare alcuni gag non ripetibili ma sono successe altre cose degne di nota. È entrato nell’area imbarchi gridando: “Fermi tutti c’è una bomba!”. Fortuntamente nessuno capiva l’italiano e quindi nessuno ha capito. Lui ha iniziato a ridere a crepapelle dicendo che era una vita che voleva farlo.
Siamo saliti sul veicolo della Royal Brunei gestito dalla Malaysian Airways. Non ho capito bene il trust ma so che l’areo è meraviglioso. Iperlusso. Asciugamani disinfettati al limone per pulirci le mani che ci son stati distribuiti con pinze d’argento; cuscini di seta; specchio davanti ad ogni sedia; servizio impeccabile. Ma, cosa più bella, il cibo. Io ho ordinato fish. Mi è arrivata una porzione meravigliosa di pesce al forno con patate, una crema di salmone e caviale, un dolce, acqua, pane fantastico e antipasto. Filippo invece ha preso carne e gli hanno portato un trancio di pollo profumatissimo con funghi e crema di carote. Una cosa DIVINA. Da ristorante.
Prima di partire, però, tutti si son messi rigorosamente a pregare con tanto di video con sottotitoli. Gasp?

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KUALA LUMPUR, ore 22:00

Appena giunti all’aeroporto siamo andati subito, tramite taxi, alla fermata dei Pullman di Putra, a Kuala Lumpur. Abbiamo acquistato due biglietti per Kuala Terengganu con la compagnia Sani Express alla modica cifra di 80 RM in due (altre compagnie costavano meno ma erano anche meno confortevoli). L’unico motivo per cui, stavolta, abbiamo fermamente voluto un autobus comodo era perché la partenza sarebbe stata a mezzanotte e mezzo. Il trip sarebbe durato 7 ore. Per cui: avremmo dormito sul Pullman.
è l’ora di pranzo e mancano molte ore. Kuala Lumpur è di fronte a noi. Decidiamo di vivercela. Appuntamento alla pensilinea degli autobus a notte inoltrata. Lasciamo gli zaini al deposito di Putra (3RM a bagaglio) e andiamo a giro. Ci siamo fatti a piedi mezza KL fino alle Petronas Towers. Da lontano non mi piacevano. Da vicino invece le ho rivalutate: sono più piacevoli e la zona intorno (KLCD) è la “zona bene” di Kuala Lumpur. Per cui ci sono fontane, pratini, ristoranti di lusso, grattacieli etc. Se penso alle vicine China Town e Little India mi viene da sorridere: i paradossi dei paesi in via di sviluppo. Dopo aver scattato un paio di foto entriamo nelle Petronas. È un mega-maxi centro commerciale immenso su, mi pare, cinque piani. La cosa più scioccante è la dimensione di ciascun piano. Abbiamo fatto un giretto superficiale alle Petronas e poi siamo andati alla ricerca di un posto in cui cenare. Ovviamente essendo stati nel posto ricco della città ogni ristorante avrebbe voluto un braccio come pagamento del conto. Così, nonostante i cali di pressione per il caldo e per la sete, ci siamo incamminati altrove. Sfortunatamente ci siamo ritrovati a un incrocio allucinante e trafficatissimo dove i pedoni non passavano mai. Peraltro, a condurre il traffico, c’era un poliziotto schizzatissimo e iperattivo. Ad un certo punto il poliziotto ha fermato inaspettatamente una corsia e ha dato il via ad un’altra. Genio com’era ha avuto la brillante idea di camminare in mezzo di strada da parte a parte e un tassista l’ha investito. Nulla di grave visto che il taxi un secondo prima dell’impatto se n’era accorto e aveva frenato tanto da toccare appena il poliziotto. Ma la cosa più bella è stata la reazione di quest’ultimo. Il poliziotto, preso dall’ira, ha tirato in cazzotto sul confano della macchina lasciandogli un’ammaccatura vistosa. Sbraitando l’ha fatto scendere e l’ha denunciato. Ha preso i suoi dati e richiamava all’ordine il passeggero che cercava di svignarsela. Il tutto sputacchiando e gridando dalla foga. Se un poliziotto avesse fatto una scena del genere in Italia penso che lo avrebbero gonfiato di botte. Comnque sia io e Filippo siamo andati altrove. Fil ha chiesto a un ragazzo passante un consiglio su un posto in cui mangiare. Questo ci ha consigliato una zona a ridosso di China Town da raggiungere con la metro. Il ragazzo ha inspiegabilmente chiesto il nome e il cognome di Filippo per aggiungerlo su Facebook. Ci siamo avviati nella zona consigliataci dal ragazzo e ci siamo ritrovati alla nostra vecchia China Town dove abbiamo cenato, devo dire abbastanza bene, in un ristorante abbastanza turistico. Dopodiché Seven Eleven e Internet. Poi siamo tornati a Putra con un taxi per 15 RM. Contro ogni mia aspettativa quel che era una semi-vuota fermata dei pullman è diventata una crocevia di gente. Centinaia di persone riverse sulle varie pensiline ad aspettare il loro turno. Le donne hanno tutte il velo. Molte portano con loro sacchi pieni di vivande, vestiti, merce. Hanno jeans un po’ scampanati e infradito spesso di plastica.

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18/03/2010 KUALA TERENGGANU, mattina

Riprendo da dove ho lasciato ieri sera. Mi siedo sul mio zaino, cercando di non rompere niente. Mi si chiudono gli occhi. Mezzanotte, da queste parti, è notte fonda! Filippo invece tiene d’occhio la situazione. Sa già dove arriverà il nostro autobus. È questione di minuti. Quando arriva non lo si distingue dagli altri della stessa compagnia. Ha solo un cartello con una scritta a pennarello che indica la destinazione. Abbiamo scelto il più moderno e, quindi, il più costoso. A due piani, poltrone comode, veloce ed espresso. Purtroppo niente copertine e cuscini come auspucato da Fil, ma tutto sommato è accettabile. Posiamo gli zaini e ci sistemiamo subito di sopra, ai nostri posti 27 e 28. Davanti a me ho due signori anziani. Sdraiano subito le poltrone e iniziano a russare. Io indosso la mia felpa più pesante. Mi alzo il cappuccio, lo stringo. Infilo nella parte interna del cappuccio una maglietta arrotolata. Dal lato del finestrino. Prendo un’altra felpina a maniche lunghe e me la lego intorno agli occhi. Sudo, è caldissimo, ma appena parte l’aria condizionata la temperatura si abbassa fino a 8-10°C. Il tragitto è silenzioso e, effettivamente, comodo. Ma il piano superiore oscilla e, nel sonno, credo che si stacchi e cada a terra. A volte ho la tachicardia dalla paura.
Verso le ore 4 si ha la prima sosta. Da quanto sono stanca non voglio svegliarmi. Ma non riesco a prendere in giro il mio sonno. Ormai sono sveglia. Mancano ancora diverse ore e devo fare la pipì. Scendo giù passando accanto a corpi accasciati, addormentati, imbacuccati in coperte o avvolti nelle proprie valige. L’autista ci dice tassativo che, 15 minuti dopo, sarebbe ripartito con o senza di noi. Il pullman è fermo in una strada di transito. A sinistra sorge una piccola costruzione di lamiera, simile ad un ristorante. La gente mangia roba allucinante. Noodles, carne, pesce, uova. Il tutto nel cuore della notte. Ho la nausea. Cerco il bagno, che è nel retro. Una lunga fila per tre piccole porte. Sono la sesta. Ma arriva una ragazzina incinta e la facciamo passare. Avrà avuto sedici anni, ha anche l’acne. Alla fine sta a me. Uso la mia tecnica del “non-toccare-niente”. Mi disinfetto trecento volte le mani con l’amuchina e le pulisco bene con l’acqua corrente. Esco fuori dal bagno. Ho appuntamento là con Filippo. Immagino che lui abbia fatto velocemente, essendo un bagno per maschi. Aspetto 5 minuti e ancora niente. 8 minuti, niente. Dobbiamo ritornare al pullman. Mi affaccio, c’è sempre. 10 minuti. Niente. Chiedo ad un malese se dentro il bagno c’è un ragazzo occidentale moro. Dopo avermi attentamente ascoltato mi fa: “No english” sfoderando un sorriso di convenienza. Vaffanculo, e me lo dici dopo tre ore?! Ad ampie falcate mi dirigo all’autobus maledicendo Filippo. Se rimane a terra affari suoi. Salgo al secondo piano e lo trovo là, beato, che sta preparando il giaciglio per le ore successive. Misunderstanding, mi dice. Pensava fossi ritornata all’autobus. Maledetti uomini, solo per voi potevano costruire i pisciatoi comuni!
Le ultime ore di sonno passano rapide, con sogni tortuosi. Arriviamo che è ancora buio pesto, con mezzora di anticipo. Lo sbalzo termico tra il dentro e il fuori è impressionante. L’umidità mi fa sudare all’istante e devo spogliarmi quasi del tutto lasciandomi solo una maglietta col cappuccio, per sentirmi più protetta.
Dobbiamo aspettare qualche ora perché arrivi il primo pullman per la nostra destinazione. Ci sediamo su una panchina, sotto la tettoia della pensilinea. Uno stormo di uccelli ha nidificato nella parte interna del tetto. Il fracasso è micidiale. Inizialmente bellissimo poi fastidioso. Ci buttiamo in un micro 7eleven accanto a noi. Mi mangio una stecca di cioccolato bianco. Ho una fame la vedo. Al piano superiore della struttura stanno montando il mercato dei tessuti. C’è un via vai di gente. Qui però sono tutti molto antipatici. Filippo, che di solito ha molto chiaro l’itinerario, l’orientamento, gli orari etc. stavolta è in dubbio. Sembra che si stia facendo guidare dal tempo e dall’istinto. Taxi costoso ma comodo fino alla prossima meta oppure pullman senza orari certi ma molto più economico? Si allontana e, quando torna, ha quasi fatto a botte col capo dei tassisti. Inizia un girotondo di gente che viene da noi a chiederci le nostre intenzioni: vogliamo prendere il taxi? Dove dobbiamo andare? Quanto siamo disposti a spendere? Ma le cifre che ci propongono sono da capogiro. Arriva un autista autonomo e ci offre la metà dei tassisti. Ha una macchina asiatica scassata e la faccia da killer. Filippo rifiuta. Ritorna sei o sette volte. All’ottava albeggia. Un uomo ci avvicina. Ci dice che i tassisti sono tutti dei ladri e devono morire di fame. Ci consiglia di prendere il pullman: passerà tra dieci minuti e paghi solo 5 Rm anziché 100. Lo ringraziamo, è sincero. Il pullman arriva. Certo: niente a che vedere col lusso rosso fuoco del pullman precedente. Anzi, questo sembra piuttosto uno scuolabus scassato americano anni 60. Ma è ok. Ci mettiamo in prima fila, ripropongo il mio armamentario da dormita e mi sveglio poco dopo. Mi giro verso Filippo che ride e scherza con il controllore. “Non riesco a prender sonno, vediamo se riesco a dormire adesso”, gli dico. “sono 5 ore che dormi”, mi risponde. Cosa?!? Beh sì, col sonno arretrato e con gli spostamenti i tempi si dilatano e si restringono infinitamente. Il controllore invita Filippo a fumare, ovviamente sull’autobus… fuori è un incantevole paesaggio di formose palme, mare, natura.

 

PERHENTIAN KECIL, ore 12:00

Arriviamo a Kota Bharu che è ancora molto presto. Scendiamo dal pullman spaesati e accaldati. Nonostante la nostra condizione psico-motoria troviamo subito il nido delle agenzie e acquistiamo subito due biglietti per Perhentian Kecil. Le Perhentian sono due isole a largo di Kota Bharu. Perhentian Kecil è una spiaggia più giovanile. È separata in due spiagge, nelle due parti opposte dell’isola: Coral Bay e Laguna (non ricordo cosa). L’altra isola si chiama Perhentian Besar ed è un’isola più tranquilla ma anche con cale più belle lungo tutta l’isola.
Anche sotto consiglio dei due pratesi conosciuti a Mabul ci rechiamo a Kecil.
Il viaggio per arrivarci è valso tutta la fatica per raggiungerlo. Esperienza di vita. Non ci sono parole per descriverlo. Ci provo. Presente il mare in stile “Tempesta Perfetta”!? Forza 200. Mezzo: motoscafo scassatello. Squadra: Io, Filippo, due di nazionalità non identificata zaino in spalla, un ungherese pennellone in solitario e una coppia di giapponesi quarantenni. In fondo alla barchetta due malesi sessantenni. Condottiero: ribattezzato Akab, l’impavido; un ragazzotto di neanche vent’anni che pensava di giocare col Nintendo Wii. Si salpa con giubbotti salvagente alla volta di Kecil. Inizialmente qualche schizzo e sbalzino (e già grasse risate) ma quando ha messo la marcia alla massima potenza e ha fatto l’espressione da duro ci siamo letteralmente cagati addosso. La barca si impennava e saltava le onde, ma non figuratamente… Uno zaino è cascato quasi in mare. L’ho fermato io con un piede. Io e Fil ci siamo legati alle corde di salvataggio per non cascare. Zaini in spalla e abbracciati. La giapponesina ha iniziato a piangere. I due malesi, esperti, si erano piegati sotto il seggiolino e avevano gli impermeabili. I ragazzi del gruppo hanno iniziato a ridere e ad arreggersi a vicenda. Il pennellone si è bagnato completamente da capo a piedi e gli gocciolava l’acqua dovunque. Occhiali completamente gocciolanti e naso con gocciolina cadente. Quando lo guardavo scoppiavo a ridere. Io son riuscita a fare un video mentre filippo mi arreggeva. Tutti ridono, mi salutano, fanno l’ok. Tre secondi di ripresa e ho dovuto toglierla perché stava cascando in mare…. Insieme a me ovviamente. Abbiamo scoperto, una volta tornati, che era l’unica barca della giornata ad essere partita dato lo stato del mare. Che culo insomma!! Siamo arrivati completamente fradici con tutti i presenti sul molo che ridevano.

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PEHRENTIAN BESAR, ore 16:11

Allucinante. Una giornata così capita una sola volta nella vita. Arriviamo a Kecil zuppi. Ci ricordiamo del prezioso consiglio di Adriano ed Eleonora: il discount sostanzioso che offre il primo resort sulla sinistra, il più prestigioso. Entriamo. C’è una sola stanza libera a 70 RM a notte. Sì prestigioso, arroccato, ma più dicerie che fatti dal momento che su 200 stanze (arrivava fino alla parte di là dell’isola tanto era grande) ne aveva aperte solo una ventina di cui 5 o 6 tremende. Noi eravamo in una palazzina di bambù su tre piani, dopo dieci minuti di cammino dalla reception, con ragni enormi dappertutto, sporcizia, piatti da lavare davanti alla porta su una sedia. Si entra e la stanza fa cagare. Una copertina infeltrita di lana, tutto vecchio decrepito, zero finestre e zero luce. Ma accettiamo. Dopo una passeggiata sulla spiaggia e una mangiata (pancake alla Nutella + hamburger ed è scoppiato a piovere) siamo andati a sentire i prezzi dell’ultimo resort della spiaggia: 75 RM. Bungalow migliore del nostro, vista mare, carino. Per l’indomani non sapevano se lo avrebbero sempre avuto causa grosso afflusso di gente. Guardiamo meglio la spiaggia ed è molto bella. Una giungla rigogliosa a picco sul mare chiarissimo. Una spiaggetta piccola (100 metri) ma graziosa e selvaggia. Torniamo al resort per prendere le protezioni solari e, aprendo il letto, trovo macchie di sangue vecchio sia dalla mia parte che da quella di Filippo. Oltretutto in doccia Fil aveva appena trovato una lametta avvizzita e ossidata e il braccetto non funzionante. In totale consenso abbiamo sistemato al meglio la nostra roba e siamo andati alla reception. Ha parlato Filippo e, devo dire, è stato molto bravo. Senza scenate ma con fermezza ha chiesto di poter lasciare la stanza oggi stesso e di riavere indietro i soldi. Hanno chiesto come mai e lui ha asserito che ha trovato la stanza sporca e piena di oggetti che facevano pensare a una cattiva manutenzione. La receptionist allora ha detto di pazientare che ce l’avrebbero ripulita e lui ha detto: No, forse lei non ha capito il problema, io non voglio dormire qua. Non mi giovo, è sporco e le macchie di sangue non mi fanno sentire al sicuro. Potrebbero esserci degli insetti o degli animali [N.B. La Lonely Planet avverte del rischio reale di insetti pericolosi quando si trovano macchie di sangue nelle lenzuola e dice di abbandonare subito il complesso]. Ha anche aggiunto che la sporcizia non si limitava a questo e che quindi, per questi motivi, rivoleva i soldi indietro e voleva andarsene dal resort. Lei, mortificata, ha chiesto subito: “volete andare in un altro resort?”, e lui: “può darsi, o in un’altra isola, questo non è il problema”. Hanno avvertito il capo che ha acconsentito. Tre di loro sono entrati in camera nostra e ci guardavano, a braccia conserte, mentre facevamo in fretta e furia gli zaini. Siamo andati alla ricerca allora di un’altra stanza. Tutto pien. Anche l’ultima, che fino a un’ora prima diceva di avere una stanza libera, improvvisamente si dichiarava piena. Secondo Fil l’albergo che abbiamo lasciato aveva chiamato questo restort dicendogli di non accettarci. Inizialmente ho pensato che avesse le manie di complotto ma, ripensandoci, ho trovato alcuni indizi che mi hanno insospettita. Solamente il primo hotel a destra del pontile aveva una stanza allucinante, senza finestre e in mezzo alla spazzatura. Rifiutato tassativamente. Che fare?
Presi dalla disperazione abbiamo chiesto aiuto a un taxi boat. Abbiamo trovato un tipo carinissimo, ci prendeva 30 RM in due per andare a Perhentian Besar, l’altra isola. Ok, accettato.
Passare accanto alle maestose montagne incantate a picco sul mare è stato un momento favoloso. Abbiamo assistito a uno spettacolo indimenticabile. Ovviamente a largo le onde erano devastanti. Da lontano Kecil ci è sembrata ancora più bella con questa vegetazione tropicale a picco sul mare azzurro e questa piccola baia dalla sabbia immacolata. Molto fascinosa. Andando a largo la stuazione è degenerata. Oltre al dramma onde ha iniziato a piovere (in maniera tropicale, acquazzone stile grandine) e sicché eravamo completamente mezzi, zaini zuppi, feriti letteralmente dai chicchi di pioggia, grondanti. In lontananza è anche apparsa una sottile tromba d’aria nel mare. Sicchè il tassista d’acqua ha ancora più accelerato fino ad entrare sfrecciando nella spiaggia e schivando a fatica i bagnanti. Tutti a correre sotto la tettoia del resort davanti. A me si è aperta la busta con dentro i panni sporchi. Sicchè mutande sporche, arrotolate, calzini, magliette, tutto sparso per la barca sotto la pioggia monsonica. Le comiche. Rimetto tutto dentro (credo ancora di aver lasciato un perizoma sulla barca) e corro dentro il Tuna Bay Resort dove ci hanno obbligati a togliere le ciabatte. Chiediamo una stanza: 250 RM a notte (Cosaaaa??!!??) così, appena passata la tampesta, prendiamo un altro taxi boat per andare in un’altra cala dell’isola aldilà della scogliera in cui ci sono tre resort: il Mama’s, il Paradise e il Coral View Island Resort. La Lonely parlava molto bene del Paradise come qualità-prezzo e così siamo andati subito là. Una donna incinta di nove mesi, con il velo, ci ha mostrato l’ultimo bungalow rimasto: non malaccio, spartano ma bagno osceno che cade a pezzi. Però solo 60 RM, ottimo. Preso per una notte. Fil è successivamente scappato a Kecil perché aveva lasciato allo Sharila Resort (quello in cui eravamo andati all’inizio) le scarpe da ginnastica…

 

Ore 20:30

L’ambiente è profondamente più rilassante rispetto a Kecil, ma certamente più fighetto. Non è un posto che consiglio ai giovani che hanno intenzione di divertirsi. Ci sono solo coppie sui 30-40 anni, anziani e famiglie. Ma è tutto talmente placido e nature che ci fa passare qualsiasi dubbio circa la scelta fatta.
La cosa, purtroppo, agghiacciante è la presenza di tantissimi ragni e insetti strani. I ragni sono enormi e fanno ragnatele immense tra gli alberi. Zanzare come elicotteri. Una cicala che fa un suono così acuto da sembrare la centrale dell’acqua.
Domani lasceremo questa stanza perché sono al completo. Ho già sentito il Mama’s e il Coral View per domani notte. A quanto pare questi resort hanno accordi con delle agenzie che ganno la priorità a loro. Per cui Coral ha detto tutto pieno e Mama’s ha detto di provare a sentire l’indomani mattina alle 8.
Adesso siamo a cena al nostro Paradise. I tavoli sono a ridosso dell’acqua, sotto degli alberi tropicali. Il cibo è fantastico. Abbiamo mangiato due zuppe e quattro aragoste in BBQ. Ho ancora fame e non so se prendere un home made muffin o un sandwitch al tonno.
Con Fil stiamo ragionando sul guadagno dei proprietari di questo Paradise. Fanno 120 coperti a sera con prezzi improponibili europei in un posto microscopico della Malaysia ottimo tutto l’anno. Senza considerare, ovviamente, il relativo hotel, il negozio di souvenir e l’agenzia di diving da loro gestiti.

 

19/03/2010 PEHRENTIAN BESAR ore 18:00

Stamattina ci siamo alzati con una precarietà incredibile. Saremmo rimasti su quest’isola? Avrebbero avuto qualche stanza? Intanto, appena abbiamo aperto la porta, abbiamo trovato l’ennesimo monsone. Presa dallo sconforto mi sono seduta sotto la tettoia comune della nostra e di altre due stanze. Ero annichilita.
Sotto la pioggia corro al Mama’s dove Aziz, il proprietario, mi dice che c’è una stanza libera. Alle 10:00 abbiamo fatto check-out al Paradise e Check-In al Mama’s (stanza deliziosa seppur spartana). 10:30 ci siamo diretti al Mama’s per mangiare un sandwitch al tonno (ed è scoppiato ufficialmente l’amore tra me e questo piatto). Verso le 11 è uscito un bel sole. Dopo lo spuntino siamo andati sui lettini eleganti di legno a disposizione dei clieni del Mama’s. Abbiamo fatto anche un piccolo bagnetto davanti, ma il fondale è spigoloso… A pranzo siamo tornati al Mama’s (aridanne Sandwitch al Tonno per both) e, dopo, ci siamo fatti portare da un taxi boat per 10 RM al Fisherman Village che è dalla parte di Kecil di rimpetto alla nostra spiaggia.
Una volta sbarcati ci siamo recati ad un negozietto dove Fil ha comprato filo, ami, piombo e siamo andati sul pontile. Vediamo passare un pescatore con una busta piena di pescato. Fil lo rincorre e gli domanda due seppie per fare da esca. Lui gliele da e non gli chiede niente in cambio. Ma il suo “socio” gli chiede 2RM. Dopo una breve discussione in malese tra i due il pescatore regala a Filippo altre tre seppie per quei 2RM. Così ci mettiamo a pescare. Inizialmente pescava solo Fil. La gente era interessata e ha cominciato a guardare. Il pontile inizialmente era vuoto. C’eravamo solo noi e due ragazzotti pescatori, ribattezzati “Gli Avversari”. Hanno cominciato a spiare le mosse di Filippo e a pescare con sempre più foga. Ovviamente non sto parlando dell’eleborata e fine tecnica di pesca con la canna. Ma di pesca “a mano”. Butti il filo con un piombo e in fondo l’amo con seppiolina finale. Primo pesce al primo tiro. Ma Fil lo grazia e lo ributta dentro. Poi più niente per un po’. Cambia posizione e iniziano ad arrivare persone a guardare. Numero definitivo: 8. Tutto ciò appena dopo che Fil ha tirato su l’amo pesantissimo completamente storto (aveva abboccato un pesce immenso). Si ricambia posizione e i fedeli lo seguono. Se non che, ad un tratto, avviene il colpo di scena: A Fil casca il filo (e relativo “scheletro” attorno a cui si avvolge) in mare. Sotto anche mia incitazione si toglie la maglietta e si tuffa. E lì il tripudio. Totale 14 persone accorse al molo a vedere il Gladiatore. Perfino gli avversari, dalla loro postazione, hanno vociato e tremato per la virtus del concorrente. Da lì, fans, incitazioni e perfino foto. Subito dopo un pesce ha premiato Filippo. Ma lui a quel punto, calatosi nei panni dell’onnipotente, lo ha graziato nuovamente. Il popolo in tripudio.
Nel frattempo due bambine, Diana e Pinal, vengono vicine a me. Giocano tra loro, con qualche amichetta, si rincorrono. Mi iniziano a ronzare intorno, parlano la loro lingua. Una delle due si siede accanto a me sul molo. Io inizio a farle il verso. Se si tocca i capelli la imito. Se incrocia le gambe, faccio uguale. Ho instaurato un rapporto di gioco, tutti i bambini si son messi a ridere e mi son venuti incontro. Diana e Pinal in particolar modo hanno iniziato a dirmi tutte le cose in malese e io le ripetevo in italiano. Mi facevano il verso del pesce, del mare, del sole, di ogni parte del corpo. Mi hanno fatto una coda, una treccia, una crocchia, mi hanno sistemato il pareo e poi mi hanno abbracciata. Io ho dato a loro un biscotto a testa che hanno divorato. Mi hanno anche accompagnata, dandomi la mano, in un negozio dove ho comprato un squadernino e una penna per farle disegnare ma, mentre tornavamo, qualcuno le ha chiamate a gran voce e loro son scappate spaventate. Non le ho più riviste. Ho pescato dieci minuti senza risultato e sono tornata sulla mia isola col squadernino vuoto tra le mani.

 

20/03/2010 PEHRENTIAN BESAR ore 13.30

Nottata da brividi.
Ieri sera abbiamo cenato e siamo andati a letto nel nostro bungalow del Mama’s. Non ricordo esattamente a che ore ci siamo addormentati, saranno state le 23. Me eravamo distrutti. Ad un tratto, nel dormiveglia, ho sentito un tonfo fortissimo. Anzi, secondo me erano due nel giro di pochi minuti. Dopo il secondo Filippo ha acceso la luce e tutto impaurito mi ha chiesto che cosa fosse. Non ne avevo idea. Stavo dormendo così di gusto da aver appena ricordanza del rumore. Da lì però panico. Vedere Filippo così spaventato mi ha fatto salire il cuore in gola. Avevo paura che ci avessero addormentati durante la notte e ci avessero derubati. Poi la luce era soffusa, faceva molto caldo e fuori era pieno di rumori di insetti, del vento e dello scroscio del mare. Al che, suggestionata al massimo, ho obbligato Fil a controllare tutto il territorio. Ci siamo divisi i compiti: io ho controllato fuori e ho guardato se finiva qualcosa, Fil ha controllato in bagno e sotto il letto. Niente. Però non riuscivo a riaddormentarmi. Stavo male, sudavo, tenevo gli occhi sbarrati nel buio. Anche perché tutto ciò è accaduto ad un orario strano. Io pensavo che fossero le 4-5, invece era solo mezzanotte… senza considerare che una cavalletta gigantesca scorrazzava sopra di noi nel buio. Stamani ci siamo alzati col solito tempo di merda. Pioggerella e nuvoloni in cielo. Quando questa è finita il grigio è rimasto. Fil si è infrascato nella giungla nella parte sud della spiaggia. L’ho seguito ignara. Il percorso, che inizialmente sembra una stupidaggine, è un vero trekking nella giungla. Io ero in costume e ciabattine, completamente inadatta per l’esperienza. Mi son graffiata con ogni tipo di vegetazione esistente e ho durato una fatica immane. Siamo spuntati molto più a sud, sul mare. Abbiamo percoso spiagge, chalet, altra giungla e siamo arrivati in un posto meraviglioso. Siamo sbucati dalla giungla su una spiaggia. Le scale di marmo che partivano dalla vegetazione entravano direttamente nel mare, sulla battigia. Suggestivo. Percorrendo la spiaggia si arrivava ad un punto favoloso. La mia THE BEACH. Il mio cane giallo della Malaysia. Prima ancora di capirla l’ho desiderata. È il punto in cui si incontrano due spiagge. Appena l’ho vista ho capito che fosse la spiaggia più bella del mondo. + microscopica, ma in lei si concentrano due lingue di mare. È liscissimi e bianca, circondata da sassi grigi e stondati sopra i quali c’è un alberello strano, sembra un ulivo. È calda, è fresca, è come una casa. Da là vedi tutto e sei coperta dalle rocce. È un giaciglio, un sogno. Un segreto.

 

Ore 21:29

Siamo tornati verso il Mama’s per pranzo. Dopo il solito sandwitch al tonno abbiamo preso un taxi boat fino all’Abdul’s Chalet (5RM) e ci siamo fatti a piedi i due sentieri nella giungla che portano alle scale che portano alla The Beach. Filippo si è fermato ad un pontile a pescare, a trecento metri dalla The beach. Io sono andata alla mia spiaggia, ignorando dei sub che facevano diving nelle vicinanze. Piccola iniziale delusione, ma che poi si è trasformata in un piacere: le due fette di mare non si univano più in una bellissima danza d’acqua, ma il mare si era ritirato per via delle maree e la mia The Beach si era riunita del tutto col resto della spiaggia. Prima era separata da un andi-rivieni di mare che la teneva unita e separata da un velo d’acqua.
Ho goduto della solitudine.
Con la marea The Beach era un isolotto di terra lambito dall’acqua di due mari (quello del sud e quello dell’ovest dell’isola, perché è un punto estremo). Adeso che l’acqua si era ritirata si era dissolto tutto come per magia. Ho così iniziato a conquistare anche delle province di mia proprietà. La prima zona era il punto di unione tra i due mari durante l’alta marea. Son rimasta là per mezzora a guardare le conchiglie. Ho fatto anche un castello di sabbia e mi sono sparsa tutta la rena addosso, profondamente a contatto col mondo circostante. Parte di esso. Libera.
Mi sono poi messa nell’acqua, a riva, da un lato. Mi facevo portare via dalla leggerissima corrente. Poi sono andata dentro la mia The Beach. I sassi formano delle piccole piscine naturali. Ci son entrata, ho esplorato ciascun punto. Ero padrona del tempo e, allo stessp tempo, ne ero preda. Ho anche fatto amicizia con un paguro di nome Gustav. Quando è arrivato anche Filippo siamo andati alla ricerca di misteri tra i sassi che delimitavano la The Beach arrampicandoci come scimmie. Alcuni sassi erano il triplo di altri e per raggiungerli avevamo bisogno di saltare. Abbiamo fatto un pochino di snorkeling nella gola vedendo qualche anemone con dei Nemo dentro. Poca visibilità però. Infine ci siamo messi a prendere il sole su un sasso mentre Fil mi massaggiava il viso. Bellissimo.
Siamo tornati verso il nostro chalet dove abbiamo cenato e usufruito dell’unico pc con internet (caro assassino) del resort. Ho parlato con le mie amiche ma anche con i miei che mi hanno dato una brutta notizia. Non voglio parlarne, ma sono molto triste. Vado a guardare il mare di notte e a pensare da sola.

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21/03/2010 PEHRENTIAN BESAR ore 14:00

Stamani, per 30 RM a testa, siamo andati a fare la nostra prima vera escursione di snorkeling per le Pehrentian. Dalle 10:00 alle 13:30. Colazione col solito sandwitch tuna (ormai manteniamo noi il commercio del tonno) e poi via a fare snorkeling. Fil è da ieri che ha un dolore fisso al rene destro e forti fitte alla pancia. Stamani ha anche pensato di non uscire dalla stanza, poi ce l’ha fatta.
La spedizione è composta da: 1) io e Fil, come sempre; 2) Capitano dell’imbarcazione, uno dei ragazzotti del Mama’s che è anche addetto a: cucina, bbq, motoscafo, pesca, servizi vari, baby sitter e chi più ne ha più ne metta; 3) trio di cinesi dai comportamenti agghiaccianti uniti da parentele ignote, una di loro è venuta con copricostume bianco fatto a punto e croce, completamente fuori luogo; 4) Una mascolinissima orientale, ignoro completamente la sua provenienza dato che parla malese col capitano e cinese col trio; 5) Coppietta di tedeschi: lei assolutamente insignificante, l’ho rivista dopo a pranzo e non l’ho riconosciuta e lui pennellone ma con senso dello humor; 6) due francesine BRUTTISSIME su cui si è particolarmente accanito Filippo chiamandole “le zie”. Così parte il tour.
Prima tappa: sharks point, poco distante dalla The Beach. Mentre andiamo il (penso) padre del comandante si sbraccia da un piccolo motoscafo ricordando al figlio che deve obbligatoriamente farci indossare i giubbotti salvagente. Alcuni sono gonfi, altri vuoti e uno, il più sfigato, va al cinese maschio ed è bianco trasparente con dentro batuffoli di cotone e una gora rosso/gialla dietro. Tant’è che dal momento in cui l’ha indossato gli sono stata almeno a due metri di distanza. Arriviamo allo sharks point insieme ad altri 5 o 6 motoscafi e il capitano ci annuncia solennemente l’arrivo. Appena pronuncia la parola Shark la tedeschina, che evidentemente prima era distratta, sgrana gli occhi e diventa color peperone. Fil si butta per primo e la sua affermazione è la seguente “Qua anziché Shark Point è Seg Point, cioè non si vede una sega”. Fine… I cinesi si buttano col giubbottino salvagente insieme alla cino-malese. Le zie invece si buttano con le maglie. Noi e i tedeschi, ovviamente, in costume. Intorno a noi è uno scandalo. Il mare è infestato da gente con giubbottini di salvataggio. Sembra il Titanic. Non so se salvarli, compatirli o ignorarli. Ma quel colorino acceso richiama necessariamente la mia attenzione e, con essa, il mio giudizio! Le donne musulmane hanno salvagenti, veli, pantaloni, maglie. L’80% della gente non sapeva nuotare e aveva accanto un tutor. Altri annaspavano (seppur col giubbottino). Io e Fil andavamo come le schegge. Visibilità sott’acqua terribile (vedevo a 1-2 metri massimo) e nel fondale tanti coralli morti. Ma c’erano due cose belle: pesci enormi e anche due squali (innocui) e l’altra cosa il contesto. Se sollevavamo la testa dall’acqua vedevamo la giungla a picco sull’acqua, il tutto circondato da sassi lisci ed enormi.
Gli squali che ho visto io erano piccoli ma Fil ne ha visto uno di oltre un metro che io ho solo intravisto in lontananza. Si rientra in barca per secondi (dopo il cinesino col salvagente marcio) e assistiamo, dalla nostra “scialuppa di salvataggio” alla strage del Titanic. Cerchiamo con lo sguardo Jack Dowson ma non lo troviamo. Le cinesi non riuscivano a tornare sicché il capitano ha dovuto buttar loro una corda. Ricordo che erano tutte e due con i giubbotti salvagente. Le zie son tornate per ultime. Così siamo andati nella seconda meta che è nella gola a cento metri dalla The Beach. È stata probabilmente la parte più bella. C’erano i pesci Napoleone (ma penso non fosse vero perché erano pesciolini a righe gialli e bli piccolini) che ti passavano a un centimetro. Ed erano un miliardo! È stato divertente. Uno aveva portato il pane con sé e veniva quasi risucchiato dai pesciolini. Alzavi lo sguardo e vedevi la giungla a picco sul mare. Siamo ripartiti e Fil era convinto che avessimo perso una persona in mare. La cinesina col copricostume bianco non ce l’ha fatta e si è fatta riaccompagnare al Mama’s dopo esser cascata dalla barca mentre scendeva. Poi siamo andati a largo del resort e il capitano ci ha detto “Siete pronti? Se vedete una tartaruga buttatevi!”. L’acqua era blu quasi nera. Filippo si volta e, vedendo un altro motoscafo con tutti intenti a guardare nel mare urla: “Guarda, guarda anche questi bischeri che cercano le tartarughe!”. Ovviamente queste battute dette nei vari contesti creano risate a pioggia. Ovviamente le tartarughe non c’erano… Ma il capitano imbarazzato ci ha consigliato di buttarci comunque per carcarle. Io, cinesino e cinesina restiamo sulla barca. Dopo tre minuti di vani tentativi tutti risalgono. Punto successivo: Turtle Beach, estremo nord dell’isola. Tragitto burrascoso con varie ondate e schizzi. Turtle Beach però è veramente bella… non mi ha creato quella dipendenza psicologica come invece ha fatto la mia The Beach ma è un cane giallognolo.
Turtle Beach è una minuscola baia circondata e avvolta dalla giungla con l’acqua ricca di sfumature e un relitto di barca arenato a riva. Nonostante il nome non ci sono tartarughe. Tutti scendono e vanno a fare snorkeling. Io no, non ho voglia. Voglio godermi la baia. Felicemente da sola mi son rilassata nle bagnasciuga girandomi a guardare le bellezze della spiaggia. Poi ha iniziato a piovigginare (una nuvola passeggera) e son tornata in barca. Mentre stavo salendo però una zia (quella più brutta) ha attaccato bottone. Appena ho visto che iniziava a chiedermi la mail, il numero di telefono, a chiedere i programmi per i giorni successivi etc. ho tirato le fila.
Siamo tornati nel nostro chalet numero 18 del Mama’s e mi sono messa in veranda ad ascoltare i Guns n’Roses.

 

22/03/2010 PEHRENTIAN BESAR ore 22:00

Stamani ci siamo svegliati e Fil stava peggio di ieri e dell’altro ieri. Forse è un virus. In compenso la giornata fa schifo e noi dobbiamo ancora decidere se andare in un’altra isola o restare qua. Ieri sera ho avuto brutti pensieri e paura di tornare. Son andata  a prendere un po’ di sole nelle sdraio del Mama’s e mi sono chiusa le dita in una sdraio di legno… un dolore atroce e sono viola. Ogni tanto tornavo a guardare Filippo che stava discretamente male. Dalla paura aveva cominciato a leggersi tutto il reparto: Malattie della Lonely Planet. Una sola aveva un quadro sintomatico simile ed è la Lettospirosi
Nel pomeriggio siamo andati a prendere un po’ di sole davanti al Coral View dove il fondale è liscio e l’acqua piuttosto chiara. Anzi io ho preso il sole e Filippo stava a riposare al fresco sotto una palma. Ho fatto tutto il tempo mare-sole-mare-sole. Quando stavo al sole mi mettevo sul bagnasciuga. In questa isola di giorno non ci sono conflitti di interessi. Quelli del Mama’s stanno sulle sdraio. Davanti al coral view non c’è quasi nessuno, la gente va a fare snorkeling. Quindi eravamo soli, sembrava un’isola deserta.
Comunque a furia di fare dentro-fuori dall’acqua mi son ustionata.
Dopo un po’ che eravamo sulla spiaggia Filippo si è alzato in preda al panico dicendo che avesse la febbre.
I motoscafi che legano le isolette l’una all’altra sono dei veri e propri suicidi marini. Ne prendiamo uno per farci portare nell’isola dei pescatori. Dobbiamo raggiungere un medico e là c’è una clinica. Arriviamo per 1 $ e, subito, troviamo un gruppo di adolescenti malaysiani in crisi ormonale che mi iniziano a fischiare. Seguono le mie curve finché non mi perdono dalla vista. Chiedo a un pescatore dove sia il dottore. Mi dice che devo rientrare nell’isola, che non si trova sulla costa. Percorriamo un sentiero polveroso ma battuto, lungo il quale sorge qualche abitazione di lamiera. Fuori da una di queste ci sono due donne che lavorano il pane. Chiedo loro dove sia il medico e mi indicano il cancello di fronte. Dicono di suonare, altrimenti di bussare, altrimenti di andarlo a cercare a casa sua che è dentro la giungla. Suoniamo, ma non risponde nessuno. Fortunatamente il cancello è solo socchiuso e riusciamo a raggiungere la porta. Bussiamo e suoniamo, ma niente. Nel frattempo sopraggiunge una donna con il velo, accanto a sé un bambino di 5-6 anni con un occhio gonfissimo. È stato pinzato da una vespa, dice ridendo. Poi bussa senza sosta a una porta secondaria e il dottore appare. Peccato che fosse un ragazzotto di circa vent’anni, senza maglietta e con i pantaloncini corti. Ci fa segno di entrare. Ci togliamo rispettosamente le scarpe all’ingresso e ci sediamo in una sorta di “sala d’attesa”. Mi perdo in un quadro che illustra le dinastie mediche del suddetto dottore. Evidentemente era una carica che si tramandavano di padre in figlio. Lui era la sesta generazione. Visita il bambino in tre minuti e poi chiama Filippo. Spariscono insieme in una stanzina secondaria. Io continuo a guardare i poster appesi al muro: prevenzione AIDS, Suine Flue, malaria, corsi di respirazione bocca-a-bocca. Questo posto è un mausoleo della medicina. Il dottore torna col malato. Gli da in una bustina di plastica alcune medicine sfuse e gli chiede 10 Dollari di visita. Ci dileguiamo tornando verso la costa. Filippo dice che il medico, non sapendo cosa dargli, gli ha somministrato una pasticca per ogni male: una per il mal di testa, una per i dolori alle ossa, una per la gola etc. al primo cassonetto butta via tutto dicendo: mica mi fido io di questa roba! Maledico l’ipocondria di Filippo.

Comunque ha la pressione a 60-133 e la febbre a 36.9. Non ha niente.
Tra le altre cose abbiamo deciso che, se Filippo dovesse rimettersi, partiremmo domani alla volta di Pulau Lang Tengah, un’isoletta che ha scoperto Filippo spulciando la Lonely Planet. Alle 9 domattina abbiamo prenotato una batchetta a 90 RM a testa.
Stasera, come ultima cena alle Perhentian, siamo tornati al Paradise. La cucina è ottima, torno a dire. A cena si riempie, arriva gente da tutti i resort vicini. Oggi abbiamo preso Fried Rice Tuna ed era meraviglioso. Anche Fil lo ha confermato. È anche l’unico dei ristoranti di qua che ha l’alcool. C’è un signore (che a pelle lo adoro) che sta in piedi in un angolino e viene chiamato, alzando un dito, dai clienti. Gli si chiede ad un orecchio cosa si vuole e lui lo porta andandolo a prendere in un posto che non abbiamo ancora localizzato. Ci hanno spiegato che i proprietari, musulmani, non lo vedono personalmente ma fanno venire quest’altra persona che lo vende ai clienti (come dire: me ne lavo le mani). Stasera ci sono tutte le varie coppie che abbiamo imparato a conoscere durante la nostra permanenza qua. Tipo una coppia di giovanissimi genitori rockettari, Oppure quelli che son stati, per una sola notte, i nostri vicini di stanza al Paradise. Due tedeschi sulla trentina altissimi e secchi allampanati. Hanno fatto amicizia con la coppia che ha preso il nostro posto. Pranzano insieme, cenano insieme, fanno snorkeling insieme, prendono il sole insieme e passano i dopo-cena insieme. Un paio di famiglie multietiniche molto carine. Una coppia con lei polinesiana e lui americano con tanto di figlia bellissima appresso. Infine sei milanesi che sono qua, a quanto ho sentito dai discorsi, da tre settimane. Ma la domanda è: non si annoiano?!

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23/03/2010 PULAU LANG TENGAH ore 18:10

Stamattina alle 9 abbiamo preso il motoscafo dal Mama’s che ci avrebbe condotti a Pulau Lang Tengah. La cifra era di 360 RM a barca. Siccome Aziz aveva detto che saremmo stati in 4, avremmo dovuto pagare 90 RM a testa. Ci presentiamo e abbiamo scoperto che su quella barca eravamo in… 20! E la cifra?? La solita!!! Truffa vergognosa. In barca con noi c’era la famiglia figa multietnica e un’altra famiglia di loro amici canadese. Ho fatto amicizia col pater familia. Loro andavano a fare snorkeling a Redang. Nel tragitto ci hanno lasciati a Pulau Lang Tengah. Arrivarci è stato meraviglioso. Appena loro hanno visto l’isola son rimasti basiti, a bocca aperta e hanno fatto migliaia di foto. Siamo andati al resort D’Coconut Lagoon, l’unico in quel lato dell’isola. Avevano solo una superior room alla cifra di 200 RM a notte. Abbiamo detto ok per una intanto ma resteremo due e abbiamo preso la nostra superior. Due piscine di cui una spelndida a picco sul mare con idromassaggio. Due bar. Due ristoranti. Giungla. E altri servizi.
A Pulau Lang Tengah ci sono solo quattro resort, ma tutti deserti, meno che il nostro che ospita una decina di persone e basta. L’isola sembra stata trovata dopo un naufragio. È deserta, in tutto il suo splendore. Per raggiungere il lato opposto dell’isola puoi soltanto percorrere la giungla interna oppure percorrere le scogliere e le spiagge nella costa. Qui è bassa stagione, non come nelle Perhentian. Dopo aver sistemato i nostri zaini nella stanza (a un gradino dalla piscina e due dal mare, ha anche una bellissima porta a vetri che da su ambedue e accanto abbiamo solo due stanze come le nostre) siamo andati subito nell’ala del resort raggiungibile tramite giungla (è diviso in due parti in due punti opposti della stessa parte dell’isola). Idromassaggio a picco sul mare. Meraviglioso. Poi siamo andati lungo il mare a fare una passeggiata. Dopodiché ci siamo addentrati nella giungla per raggiungere le altre parti dell’isola e i conseguenti resort. Nel quarto ci sarebbe dovuto essere anche l’unico negozio dell’isola. Abbiamo raggiunto il primo e il secondo via costa. Il primo sembrava un villaggio un tempo abitato ma completamente abbandonato. Nel mezzo alla giungla, lasciato a se stesso, pieno di casette di legno (le camere d’albergo) e di palme e piante con strani fiori fuxia. Mi ha ricordato molto il villaggio del Progetto Dharma in Lost, per i cultori…
Ad un tratto il percorso ci ha spinti nella giungla e abbiamo attraversato tremilacinquecento ragnatele agghiaccianti con ragni enormi appesi. Stavo sempre bassa e furtiva. Esperienza di vita e di schifo, aggiungerei. Mentre stavamo raggiungendo il resort con il market (tutto completamente vuoto) ho visto un caimano che faceva il bagno in un lavatoio. Inizialmente ho sentito un rumore, poi mi son voltata e l’ho visto. Davanti a me una ragnatela di tipo 2 metri per 4. Alla mia sinistra questo lavatoio con il caimano. Ho detto: a quale morte è meglio andare incontro? Fortuntatamente è scivolato via dentro la giungla più fitta…

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24/03/2010 PULAU LANG TENGAH, ore 12:00

Dopo il pomeriggio marino e avventuriero siamo tornati nella nostra ala del resort. In camera ci siamo accorti del nostro rossore. Io decisamente abbronzata, Filippo invece rosso peperone. Era il suo primo vero sole (ricordate alle Perhentian stava sempre male…) e, nonostante l’immancabile protezione 30, si era un po’ bruciato. Aveva i brividi e i tremiti. Così siamo andati a cena molto presto perché lui voleva andare a letto presto. Si è bardato con felpa con cappuccio e foulard al collo e abbiamo cenato sulla terrazza all’aperto. Un po’ freschino, per via del vento e del bruciore sulla nostra pelle. Dopodiché siamo andati a letto. Ho lasciato Fil tremare a letto, dentro una maglia felpata rossa a maniche lunghe. E, verso le 21:10, mi sono addormentata dalla parte della porta a vetri. Nel dormiveglia ho sentito tutta la sera delle risate e un chiacchiericcio intenso. Alle 1:30 mi sveglio dagli schiamazzi. Quattro persone, sedute sulla terrazza sul mare, ridevano e chiacchieravano fitto fitto. Dovevano essere quelli della stanza accanto. Io dico ad alta voce “ma chi è che fa questo casino?”. A quel punto, con mio grande stupore, Filippo schizza letteralmente fuori dal letto. Appena si è allontanato dal mio fianco ho sentito una vampata di calore allontanarsi e ho capito quanto scottasse. Era BOLLENTE. Da spaventarsi veramente. Talmente caldo che anche a un po’ di distanza si sentivano le vampate. Ha iniziato a dire che voleva un dottore. È uscito di corsa dalla stanza e ha iniziato a chiedere ai quattro personaggi se fosse stato possibile parlare con qualcuno. Insieme alle due ragazze malesi proprietarie della stanza c’erano altri due ragazzotti di cui uno era l’insegnante di diving. Stavano festeggiando il suo compleanno. Lui si è subito adoprato per aiutare Filippo che era invasato e spaventato. Vaneggiava spaventandomi terribilmente. Ha preso una delle due ragazze (quella più ubriaca) e l’ha portata di sopra, nella hall del resort. Ovviamente son tornati dopo cinque minuti dicendo che non c’era nessuno. L’unico responsabile del resort abitante nell’isola era dall’altra parte della giungla (che era ovviamente non percorribile al buio e con gli animali). Siamo tornati in camera e Fil ha cominciato a delirare. Prima ha preso una tachipirina e poi ha iniziato a piagnucolare dicendo che dovevo chiamare sua mamma, che voleva subito internet, che aveva necessità di un medico. Anche dopo un po’ di minuti dalla tachipirina continuava a scottare e a tremare fortissimo. Addirittura ha iniziato ad un tratto ad avere dei semisvenimenti e dovevo dargli degli schiaffetti per farlo riprendere altrimenti non era cosciente. Ad un certo punto, tra un semisvenimento e un attacco di panico, mi fa stringendomi la mano: “Ti prego ORA ho veramente bisogno di te. Prendi in mano la situazione”. Cosa?!?
Ovviamente, come si può immaginare, io sono emotivamente entrata nel delirio. Qualsiasi cosa avessi deciso non avrei fatto forse la cosa giusta. Se avessi preso molto sul serio la situazione avrei probabilmente assecondato un semplice panico da febbre alta. Se avessi sottovalutato la cosa magari sarebbe stato peggio. Tutto questo all’indomani di quei famosi sintomi che Fil aveva avuto alle Pehrentian di febbre, male ai reni e forti mal di testa. Con questo che mi continuava a dire: ho preso una malattia tropicale!
Volevo morire.
Della serie: qualcuno si impossessa di me per qualche ora mentre io vado a prendere un caffè da qualche parte? Grazie…
Comunque il signorino continuava sempre più a scottare, addirittura non riuscivo a tenergli la mano per più di qualche secondo che dovevo subito ritrarla. Gli ho dato una bottiglia d’acqua e l’ho fatto bere, bere, bere. Sono andata subito sulla Lonely Planet alla ricerca di qualche numero di emergenza. Ho scoperto –gasp- che l’unico mezzo per raggiungere la terraferma sarebbe stato un elicottero che, comunque, sarebbe arrivato solo tramite una chiamata di SOS, a pagamento, e non nell’immediato. Il percorso sarebbe stato di un’ora, inoltre. Insomma: una tragedia. Esco subito alla ricerca di qualcuno che mi dicesse cosa fare. Trovo fuori le due ragazze circondate da cinque bottiglie di vino vuote. Subito mi chiedono come stia Filippo. Io spiego loro l’evoluzione delle cose. Quella più ubriaca è corsa in camera ed è tornata con tre medicinali dai nomi ignoti e una macherina operatoria bagnata d’acqua. Mi diceva gli mettergliela sulla fronte e sugli occhi. Nel frattempo Fil mi aveva seguita e respirava a bocca aperta il vento della notte. L’altra ragazza, più bella e più sobria dell’altra, ha iniziato a tranquillizzarmi. Mi ha detto di metterlo a letto, di farlo bere e di coprirlo bene. Una volta calmata l’ho riportato in camera. Peccato che sopra la porta c’era un’iguana mastodontica che, fortuntatamente, è rimasta immobile anche dopo la mia corsa.
Entro in camera e vedo Fil un pochino più tranquillo. Dice che gli abbia fatto bene l’aria fresca. Ci sdraiamo a letto e io vedo un ragno grosso circa 15 centimetri (guardateli con un metro e ne riparliamo…) sul muro davanti a noi. In preda a una paresi fobica obbligo Filippo (con febbre + delirio + brividi) ad alzarsi IMMEDIATAMENTE per ammazzarlo. Fil poverino claudicante e stonato si alza e lo prende a ciabattate. Dopo la prima ciabattata ho chiuso gli occhi e non ho visto il seguito. Così, dopo che Fil ha ucciso il ragno, spengiamo la luce e ci addormentiamo. Per me la scena era finita qua. Peccato che oggi Filippo mi abbia detto che le cose erano andate diversamente…
Rewind.
Fil prende a ciabattate il ragno che cade a terra ma NON muore! Corre via verso l’armadio. Mentre questo scappava nell’armadio un altro entrava nella stessa fessura (rigorosamente dentro l’armadio anche lui) da un altro lato del muro. Sulla scrivania, dove era inizialmente caduto il primo ragno, ce n’era un altro venuto da chissà dove (forse dal pavimento) e Fil ha ucciso quello. La prova è stata una zampa di 6-7 cm sulla scrivania l’indomani.
Quando me l’ha detto ho quasi vomitato.
Ci svegliamo l’indomani mattina e Fil lascia sul letto una chiazza enorme rossa data dal sudore che ha fatto scolorire la maglia. Sta meglio, la febbre gli è passata.
Meglio per lui, ma si è preso un migliaio di taciti accidenti.
Fil comunque, un po’ per lo spavento e un po’ per paura che tornasse quel malessere, decide di ripartire per la terraferma. Troppa paura. Così facciamo gli zaini.
Peccato che mentre riempiamo le nostre valige mi sento un lieve prurito dientro la gamba e, girandomi, vedo un ragnolino correre sulla mia coscia. Lancio un grido terrificante e schizzo via dopo essermi colpita in ogni modo la coscia interessata. Inizio a piagnucolare e Fil mi filma ridendo. Appena mi decido a continuare a fare lo zaino mi vedo spuntare da una felpa una piattola ENORME che corre gaia a giro tra la mia roba. Altro grido supersonico e scappo fuori dalla stanza. La ragazza della sera prima mi sorride imbarazzata e mi chiede “Are you ok?” e io, piagnucolando. “No, spiders” e mi dileguo dentro la stanza. Povera ragazza, chissà che ha pensato di noi…
Una volta fatti gli zaini ci concediamo l’ultima ora di piscina (Fil rigorosamente all’ombra coperto). Ora siamo sulla barca che ci porterà sulla terraferma.

 

 

27/03/2010 KUALA LUMPUR, ORE 22:00

Una volta venuti via da Pulau Langh Tengah abbiamo passato un’intera giornata a Kuala Terengganu in una pasticceria a spararci dolci internazionali e poi siamo partiti col pullman per tornare a Kuala Lumpur. Ci siamo infilati in un hotel leggermente decentrato ma molto conveniente. Abbiamo trascorso gli ultimi giorni a Kuala Lumpur in estremo relax. Avevamo visto pressoché tutto e sicché ci siamo dedicati a due cose principali: shopping e centri commerciali. Per il primo punto ci siamo veramente dedicati anima e corpo a Jin Petaling e mercati vari (in particolare il mercato dell’antiquariato, lo cita la LP). Per il secondo punto invece ci siamo visti tutti i centri commerciali di KL. E, credetemi, ne vale la pena. C’è anche il più grande del sud-est asiatico. Ci puoi trascorrere intere giornate. E per muoversi da un punto all’altro della città usi il treno sopraelevato (bella esperienza, sembra di essere sulle montagne russe). Unica cosa “culturale” che abbiamo fatto è stato andare a vedere il Butterfly Park. È un parco delle farfalle molto carino oltre che umidissimo e costoso. Se uno non ha niente da fare lo può visitare tranquillamente. Per raggiungerlo è necessario il taxi perché le distanze sono immense. È infatti all’interno di un complesso di parchi diversi. Noi abbiamo evitato gli altri perché non ci interessavano. L’ultima sera, cioè oggi, siamo andati al mercato a Little India. Niente di eccezionale, le bancarelle vendono poche cose interessanti, ma ci sono molte cibarie. Noi abbiamo avuto la fortuna di viverlo con in sottofondo il canto di una preghiera musulmana gorgheggiante da una moschea vicina.
Un cane giallo.
Fil ha filmato tutto e sarà la parte finale del nostro video.
Adesso andiamo all’aeroporto e torniamo a casa…

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28/03/2010, IL CAIRO, ore 5:39

Il volo è stato perfetto. Io invece son stata malissimo. Ho dovuto prendere due plasil. Avevo gli urti di vomito. Come mai? Semplice. Intanto un terrore terribile che l’aereo cascasse (ridicolo dati i duecento voli fatti in questo viaggio…) e poi l’aria condizionata fortissima. All’andata l’avevo percepita meno perché era comunque più caldo del fuori. Ho passato una nottata vergognosa. Una volta scesa, anziché starmene tranquillina da una parte, mi sono comprata una stecca di Kinder Cereali e me la sono mangiata tutta.

Sono le ultime ore di viaggio. E già sento la mancanza di tutto ciò che ho vissuto. Lontana ma vicina. Vicina ma lontana.
Ho voglia di riabbracciare le persone che amo. Ho voglia di dire loro “Guardatemi sono una viaggiatrice!”. Tornare a casa vittoriosa, sana e con gli occhi pieni di ricchezze. Ho voglia di donare, di dare, di raccontare.
Però ho anche tanta voglia di restare. Ho voglia degli occhi dei bambini cambogiani. Della loro semplicità. Del loro modus vivendi. Ho voglia delle preghiere musulmane nella notte. Ho voglia del risveglio tra i canti buddhisti. Vorrei un mondo dove tutto questo si miscela e si completa, senza agonismo. Vorrei chiudere gli occhi e svegliarmi altrove, ogni volta che voglio.
Penso a ciò che potrei fare. Ho paura di truccarmi. Ho paura di dovermi vestire bene. Ho paura del male che mi farà mettermi un paio di tacchi. Ho paura di tornare e scoprire che ho perso una fetta di vita, di quotidianità. Di racconti, pettegolezzi, di studio. Ho paura che la mia città non sia più la stessa, che le mie amiche siano cambiate. Ho paura perché un’esperienza del genere fa paura.
Vorrei lasciare tutto. Spogliarmi di ogni cosa e mollarla qua, in questo aeroporto. Capisco San Francesco d’Assisi, capisco Gandhi. Quando vedi queste cose capisci quasi tutto.
Le scelte più assurde, le realtà più impossibili.
è più semplice mollare tutto che qualcosa.
Mi sovviene un libro che lessi anni fa, di una ragazza tedesca cresciuta nella giungla in Nuova Guinea. Capisco cosa hanno scelto per lei i suoi genitori.
Lo capisco, adesso.
E mi sento piena di vita, con la mente intrisa di certi pensieri.
Ho trovato il mio cane giallo. L’ho scelto accuratamente.
Il mio cane giallo è il viaggio. L’intero viaggio. Ciascuno di voi ne troverà uno specifico all’interno dello stesso racconto. Il mio viaggio è il cane giallo che dono a voi. La mia esperienza.
Ma adesso cosa faccio?
Ho paura.
Ma sono FELICE.

 

 

Federica

federica.orzati@gmail.com

 

 

 

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