Dove i pescatori remano con le gambe: impressioni di un viaggio in Birmania

Racconto di viaggio 2012

di Claudia Fontana

 

 

Il Myanmar, noto anche come Birmania, confina con Bangladesh, India, Tibet, Cina, Laos e Tailandia; viene chiamato il Paese delle mille pagode. In sole due settimane ne abbiamo viste così tante, in una piccola fetta di un territorio di 676'577 kmq, da pensare che in realtà siano molte di più. Lo stesso vale per i sorrisi della gente, sempre disponibile a dare un’indicazione o a scambiare un’impressione nonostante che pochi parlino una seconda lingua.

Donne e uomini di solito indossano il longyi, un pezzo di stoffa lungo fino alle caviglie e annodato in vita. Sono in cotone o in seta, a righe o a quadretti. Alcuni giovani, in città, vestono all’occidentale, con i jeans, i berretti da baseball, gli occhiali da sole stile “Top Gun” e hanno tagli di capelli all’ultima moda, spesso tinti di un colore che tende all’arancione. Le donne e i bambini, in particolar modo, spalmano sul viso una pasta gialla ricavata da un legno simile al sandalo che si chiama thanaka.

Serve come filtro solare e come maquillage.

 

Yangon è la ex capitale e una delle città principali. In cima a una collina svetta la Shwedagon Paya, un complesso di templi buddhisti costruito ca. 2500 anni fa secondo la leggenda, tra il VI e il X secolo secondo gli archeologi. Lo splendore di questo luogo e la serenità che trasmette, induce a lasciare fuori dalle sue mura la frenesia, mentre le statue raffiguranti Buddha sorridenti e i mormorii dei monaci in preghiera, con tonaca purpurea gli uomini e rosa le donne, infondono una pace interiore.

Intorno all’enorme cupola dorata alta 99 m, ricoperta di 5448 diamanti, 2317 rubini, zaffiri e altre gemme, 1065 campanelle dorate e un diamante da 75 carati sorgono tanti templi di diverse forme e grandezze. Al tramonto tutto il sito si illumina di lucette colorate che oltre ad attraversare il tempio, circondano le teste dei Buddha come fossero aureole. E’ ora di tornare nella caotica e un po’ fatiscente città.

 

 

 

 

I marciapiedi sono occupati da bancarelle di generi alimentari (zuppe, frutta e verdura, riso, spiedini di carne, pesce essiccato), fiori, vestiti e souvenir. La gente mercanteggia, chiacchiera o semplicemente osserva l’andirivieni, spesso masticando una noce di betel (della palma areca) che ha un blando potere stupefacente e rende la loro bocca e i loro denti rossi. L’odore delle spezie a cui non siamo abituati si insinua nelle narici e ci spinge a avvicinarci curiosi.

Da Mandalay con un battello si raggiunge Mingun, dove si trovano le rovine di alcuni templi di fine 700/inizio 800. Queste rovine imponenti si possono visitare rigorosamente a piedi scalzi. Il calore del sole rende i pavimenti roventi e si saltella da una zona d’ombra all’altra per evitare di scottarsi le piante dei piedi. La vista dalle cime dei monumenti si perde nelle colline circostanti. Nel villaggio di capanne in legno vi è la possibilità di consumare un pasto o bere una bibita fresca nei chioschi lungo le strade di terra battuta, mentre gli animali (oche, galline, tacchini con i loro pulcini, cani, maiali ecc.) scorrazzano tutto intorno in libertà.

Una volta tornati a Mandalay, verso sera una lunga scalinata ci ha portati alla Yankin Paya dove abbiamo aspettato il calare del sole su una delle terrazze del monastero. Questo luogo è poco frequentato dai turisti e la nostra presenza non ha mancato di attirare l’attenzione dei monaci che sbirciavano discretamente alle nostre spalle mentre leggevamo la guida in italiano che purtroppo conteneva solo poche fotografie da mostrargli.

Sulla collina di Sagaing la vista spazia su 500 stupa e un numero ancora maggiore di monasteri.

All’interno di un tempio eretto su tre livelli, dei Buddha inondati dalla luce che entrava dalle finestre di fronte si allineavano su tutta la lunghezza dell’edificio dando un’impressione di infinito.

Amarapura merita una visita in particolare per il suo ponte pedonale U Bein, in legno di tek e lungo 1,2 km sul lago Taungthaman. A ogni ora del giorno transitano contadini che portano sulle spalle delle ceste attaccate alle estremità di un bastone, monaci e studenti nelle loro divise.

Dopo dieci ore di navigazione sul fiume Irrawaddy abbiamo raggiunto Bagan. Il viaggio ci ha permesso di vedere da vicino la quotidianità degli abitanti dei villaggi dove le donne lavano i panni in riva al fiume e gli uomini seguono gli aratri tirati dai bufali nelle risaie o trasportano le verdure su carretti trainati dai buoi.

La piana di Bagan, di 42 kmq, con i suoi 4000 templi è la zona con resti archeologici buddhisti più grande del mondo. Tra il 1004 e il 1287 furono costruiti oltre 13'000 edifici religiosi. Alcuni di quelli rimasti sono stati sopraffatti dalla foresta che li ha circondati in un abbraccio di fronde. I templi in mattoni, siano essi grandi o più modesti, celano in ogni anfratto, anche minuscolo, almeno un Buddha. Impossibile contarli. La bicicletta è un ottimo mezzo per spostarsi in modo indipendente sui sentieri sterrati, cercando un po’ di refrigerio sotto gli alberi mentre il sole splende a picco.

A Kalaw ci aspettava una guida che ci ha accompagnati durante un trekking di due giorni con destinazione il Lago Inle. Gli abitanti dei villaggi mostravano diffidenza e la lingua non agevolava un approccio ma ciò non ci ha impedito, soprattutto a gesti, di entrare in sintonia con chi, più incuriosito di altri dai nostri strani abiti o dalle macchine fotografiche e il binocolo, ci ha avvicinati. Come una signora che si è seduta al mio fianco, mi ha preso le mani e mi ha mostrato i suoi orecchini confrontandoli con i miei. Indossava un semplice longy a righe viola e una camicetta a quadratini beige che nella sua semplicità la rendeva molto elegante ai miei occhi.

Il primo giorno si è concluso presso un monastero isolato dove abbiamo molto gradito risciacquarci con secchi di acqua fredda prelevata da un pozzo per rimuovere la polvere che ci era rimasta appiccicata durante la camminata. Dopo la cena le preghiere dei monaci ci hanno cullato mentre prendevamo sonno sulle stuoie posate per terra in una sala del tempio, in un piccolo spazio reso riservato da paravanti di bambù e tendine.

 

Il Lago Inle è un luogo incantevole, dove gli abitanti si spostano in barca e coltivano gli orti galleggianti. Questi vengono creati intrecciando alghe a foglie mischiate con terra. Una volta che si sono formate delle strisce di un paio di metri e che sono essiccate, diventano come delle zattere che vengono fissate in fondo al lago con delle canne di bambù e dove poi seminano gli ortaggi. Le case sono costruite su palafitte. La caratteristica, piuttosto curiosa, dei pescatori è che rimangono in equilibrio su una gamba in poppa alle loro barche, mentre con l’altra stringono una pagaia. Siamo rimasti incantati a osservare con quanta abilità gettano le reti senza scomporsi.

Ogni giorno, a rotazione, in un villaggio viene organizzato il mercato dove si trovano, posate per terra su dei teli, frutta, verdura e spezie. Sulle bancarelle si vendono utensili di ogni genere e souvenir come marionette in legno, campanelle di preghiera, ciotole e piatti laccati. La gente viene a fare provviste in abiti tradizionali, le donne avvolgono la testa in sciarpe colorate, a volte in teli di spugna.

 

L’ultima tappa del nostro viaggio ci ha portati alla Roccia d’Oro sul Monte Kyaiktiyo. Secondo la leggenda questo enorme masso custodisce un capello del Buddha che lo mantiene in bilico. Solo gli uomini possono avvicinarsi per appiccicare delle sottilissime lamine d’oro alla roccia. Le donne rimangono a prostrarsi sulla terrazza circondata di templi mentre nell’aria svolazzano come farfalle dorate le lamine che si staccano.

Raggiungere questo importante luogo di pellegrinaggio, fino al punto di ritrovo da dove si può proseguire solo con le proprie gambe o facendosi trasportare su una portantina, si è rivelata un’esperienza che non dimenticherò facilmente. Infatti il camion sul quale siamo saliti insieme alla gente del posto, seduti su delle panche nel cassone posteriore aperto, ha percorso la stretta strada tutta a curve in saliscendi a velocità sostenuta. L’impressione era di stare sulle montagne russe ma senza sbarre di protezione. Più volte ho temuto di essere sbalzata fuori insieme ai miei compagni di viaggio. Abbiamo saputo in seguito che per gli autisti di questi camion trovare la morte mentre accompagnano i pellegrini favorisce il raggiungimento del Nirvana. Non so se sia solo una leggenda metropolitana ma credo che se dovessi tornare, la prossima volta andrò a piedi anche per questo tratto di strada.

Poco dopo il nostro ritorno, in Birmania si sono svolte le elezioni e la leader della Lega nazionale per la democrazia (NLD) Aung San Suu Kyi, rimasta agli arresti domiciliari per quindici anni, è stata eletta in Parlamento. Il Presidente Thein Sein ha fatto appello alle migliaia di birmani in esilio a fare ritorno in patria, chiedendo di utilizzare le conoscenze acquisite all’estero per sostenere il Paese nel suo sviluppo. Secondo il sito www.irrawaddy.org sembra che questo apporto di talento si possa già percepire, in particolare a Yangon e che dei cambiamenti siano nell’aria. Si nota anche un incremento del turismo che ha portato a un maggior numero di persone attive in questo settore. Non manca comunque lo scetticismo di fronte a queste promesse di sviluppo che si teme rimangano solo promesse.

 

La lunga repressione della giunta militare evidentemente non si può cancellare con un colpo di spugna ma nonostante le tante privazioni e i disastri ambientali come il terribile ciclone Nargis del 2008, il popolo birmano non sembra aver perso il sorriso e l’ottimismo. Questa impressione è sicuramente uno dei ricordi più vividi che abbiamo portato a casa.

 

 

 

Claudia

cla.effe@yahoo.it

 

 

 

 

 

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