ANTARTIDE, sogno di fine estate
Viaggiare,
per noi, è irrinunciabile, oltre che appassionante, come ogni viaggiatore
abbiamo una “wishlist”. La nostra è mutevole, movimentata, o per meglio
dire “disordinata”. Alcune destinazioni restano in attesa a lungo, altre si
aggiungono e senza rispettare alcun ordine cronologico vengono poi depennate per
prime. Depennare significa che abbiamo concretizzato il viaggio.
In
cima all’elenco ci sono i sogni, pochi nomi in realtà, ovvero quei luoghi che
vorremmo visitare più d’ogni altro, ma che per svariate ragioni sono
difficili da raggiungere.
L’Antartide
è appunto un sogno, il viaggio della vita, con il quale pensavamo di premiare,
tra qualche anno, un importante traguardo: il conseguimento della pensione di
Sandro.
La
stagione per visitare l’Antartide è breve e corrisponde al nostro inverno, i
posti sono limitati, i prezzi elevati. Tutto ciò, unito alla mia enorme
curiosità geografica e al desiderio di saperne di più, mi porta a far scorrere
pagine web, a leggere libri, a cercare contatti e a muovere i primi passi verso
il nostro sogno.
Semino
richieste e il mio indirizzo un po’ ovunque. In sostanza mi porto avanti con i
“lavori”, sperando di poter pensare concretamente all’Antartide già dal
prossimo anno. In fondo perché aspettare la pensione?
Le
quotazioni che trovo però sono scoraggianti, abbiamo sempre saputo che questo
viaggio richiede un consistente investimento economico, ma – pur abbondando
– siamo distanti dalla realtà. Dovremo rinunciare?
L’unica
possibilità sembra essere rappresentata dagli sconti che si possono ottenere
prenotando con molto anticipo (anni!).
Mi
indirizzo, quindi, verso questa direzione e nel frattempo confermo il viaggio
africano che abbiamo programmato per l’estate.
Una
mattina di fine febbraio, un giorno come tanti sino a che non apro la casella di
posta elettronica, si trasforma in una giornata tumultuosa, speciale, che in
poco più di 2 settimane, ci condurrà, increduli, sognanti, raggianti e anche
preoccupati, in Antartide.
Questa
la sequenza dei fatti:
·
apro una mail inviatami da un’agenzia di Monza specializzata in
viaggi/spedizioni nelle regioni polari,
·
il messaggio contiene una promozione (2x1), data di partenza 15 marzo
2011, dal porto di Ushuaia,
·
declino l’offerta, rispondendo per iscritto all’agenzia e pensando
tra me e me, nell’ordine:
che
quasi certamente il 2x1 nasconde qualche tranello/costo aggiuntivo,
che
l’agenzia mi perseguiterà per un anno o forse più con pubblicità e offerte
di ogni genere (con il senno di poi, che Manuel mi perdoni),
che
al momento abbiamo altri programmi…
Conoscete
il detto “se la montagna non va da Maometto, etc. ”?
Ebbene,
poco dopo, il Continente bianco mi sussurra in un orecchio “ehi, ma dai almeno
un’occhiata”, “OK” dico io e rileggo il messaggio, clicco sul link che
mi rimanda al sito di Oceanwide Expeditions, esamino le condizioni,
l’itinerario e altri dettagli.
Due
lucine immaginarie lampeggiano per evidenziare che:
a)
l’itinerario si spinge oltre il circolo polare antartico,
b)
rispetto ad altri programmi, questo è uno dei pochi che prevede una
permanenza nella Penisola Antartica più prolungata.
Permane
lo scetticismo sul 50% di sconto, oltre al fatto che la data di partenza è
decisamente molto, troppo, prossima. Spedisco tuttavia una mail a Oceanwide per
chiedere conferma del prezzo.
In
meno di 15’ la risposta affermativa scatena nelle mie “interiora” una
tempesta, il cervello compie rapidi calcoli mentre le mani digitano
freneticamente sulla tastiera del PC alla ricerca di voli, tariffe e operativi
per Buenos Aires/Ushuaia.
In
pausa pranzo condivido le novità e la mia agitazione con Sandro.
Nessun
dubbio, nessuna resistenza, la nostra intesa è perfetta, i nostri occhi
brillano e dicono SI, CARPE DIEM!
Credo
di aver stupito Manuel con un secondo messaggio che dice “ci ho
ripensato…”
Poche
ore sono il tempo che occorre all’efficiente agenzia per completare il
“pacchetto”, con i voli e un hotel a Buenos Aires. In un paio di giorni ogni
servizio è confermato e pagato. Inizia così il conto alla rovescia più breve
di tutta la nostra “carriera” di viaggiatori.
Mentre
i numeri del countdown scorrono al ribasso… meno 10, meno 9, meno 8…
all’euforia, alla felicità smisurata e quasi sfacciata che proviamo nel
guardare le giacche a vento rosse e gli altri indumenti che via via si
accumulano e fanno bella mostra in casa, si affianca e si insinua la paura.
Il
Passaggio di Drake non rappresenta più un tratto di mare leggendario, cui sono
legate tante avventure e storie di navi, baleniere, esploratori, naufragi, tra
poco dovremo affrontarne la furia.
Filmati
e testimonianze drammaticamente reali non fanno che incrementare il mio timore,
Sandro è più rilassato, oppure finge bene.
E’
facile proclamarsi disposti a tutto quando le cose appartengono
all’immaginario. Ora che i documenti di viaggio parlano chiaro, partenza a
breve, tutto il mio coraggio crolla come un castello di carte.
I
giorni e le ore che precedono la partenza sono all'insegna dell'agitazione, con
attacchi di paura vera e propria. L’euforia è andata in letargo!
Arriva
inesorabile il 14 marzo, sveglia alle 4, scalo a Madrid, lungo volo fino a
Buenos Aires che raggiungiamo in serata, qualche ora di sonno in hotel (Moreno
Hotel, bello e ben posizionato).
15
marzo 2011
Sveglia
di nuovo prestissimo, altro volo e in 3,30 ore atterriamo a Ushuaia.
Pranziamo
in un ristorantino che già conosciamo (Cantina Fueguina), sempre squisita la
centolla (granchio reale) al naturale, ma quanto sono lievitati i prezzi
rispetto alla visita precedente (4 anni fa).
Ci
avviamo verso il porto, la nave rompighiaccio Plancius è molto più grande di
quanto immaginavo, la sua mole trasmette sicurezza.
L'imbarco
e l'assegnazione delle cabine sono operazioni veloci.
Nessun
colpo basso, la cabina 401 preassegnata in fase di prenotazione è esattamente
quella che andiamo ad occupare. E' spaziosa, pulita, nuova, essendo posizionata
in un angolo del ponte n. 4 è una delle poche ad aver due finestre, il bagno
non è il solito minuscolo sgabuzzino. Ottima sistemazione, meglio di quanto ci
aspettassimo.
Le
sponde dei letti, le barre che bloccano gli oggetti riposti sulle mensole, le
maniglie in bagno e le chiusure che sigillano cassetti, sportelli e ante
dell'armadio, il telecomando fissato al muro con il velcro, i corrimano ovunque
nei corridoi, i tavoli ancorati al pavimento con i bordi rialzati per non far
scivolare oggetti, piatti, bicchieri, e molti altri dettagli, mi ricordano la
traversata da compiere, ma ormai mi dico che non ci si può più sottrarre e
tanto vale affrontare la cosa se e come si presenterà.
Per
il momento mi gusto la navigazione nel canale di Beagle, assolutamente
rilassante.
Nel
corso di un primo briefing, con molta modestia, si presentano il Capitano Evgeny
Levakov (russo), nonché i componenti l’Expedition Staff: Rinie, Delphine,
Louise, Chris, Jim, Kelvin e Brent. Personaggi dal curriculum “imbarazzante”
per la quantità di titoli accademici, esperienza e professionalità elevata che
non hanno mai fatto pesare fama e superiorità. Uno Staff di tutto rispetto.
Dopo
le presentazioni viene servito un aperitivo, cui fa seguito un’esercitazione.
Tutti
in cabina a prelevare i giubbotti salvagente e poi, diligenti e suddivisi in due
gruppi, seguiamo i percorsi che conducono alle scialuppe di salvataggio: due
"ovetti" a chiusura ermetica, capienza 60 persone ciascuno, che solo a
guardarne gli interni generano panico e un attacco di claustrofobia. Mi
costringo a pensare positivo e che difficilmente faremo la fine delle
"palline" di detersivo che girano centrifugate in lavatrice.
Si cena e si va a dormire presto, dobbiamo ancora smaltire la stanchezza del lungo viaggio dall'Italia e recuperare un certo numero di ore di sonno. Alle 3 i primi scossoni, ma niente di drammatico, mi riaddormento facilmente.
16
marzo 2011
La
giornata inizia con l'annuncio "good morning to everyone, good morning!"
e altre comunicazioni trasmesse da un altoparlante.
Nonostante
la ricca scaletta di eventi, non c'è bisogno di consultare l’orologio, ogni
appuntamento (pasti, conferenze, sbarchi, attività e incontri vari) è
ricordato tramite gli altoparlanti.
Colazione
nel salone con tanti finestroni. La visuale attraverso le vetrate alterna tutto
cielo e subito dopo tutto mare, tutto cielo e tutto mare, in un ritmo continuo.
Insomma il mare non si può definire piatto, siamo nel Drake Passage ma, tutto
sommato, sta andando bene. Questo non è sicuramente lo scenario apocalittico
che temevo.
La
giornata prosegue con la distribuzione degli stivali da utilizzare per gli
sbarchi a terra, due conferenze (una sulla convergenza antartica e la corrente
circumpolare, la seconda sulle varie specie di uccelli presenti in Antartide),
visite al ponte di comando attrezzato di monitor e sofisticati strumenti che
segnalano le coordinate, ostacoli e molte altre informazioni, intercalate da
uscite sul ponte superiore per respirare aria pura, osservare il mare e gli
uccelli che volano attorno all’imbarcazione e a pelo d’acqua.
Va
tutto bene e fatico a credere di trovarmi nel bel mezzo del temibile Passaggio
di Drake, così, senza patemi, sono quasi "delusa" da tanta calma.
La calma è comunque relativa, durante la cena si rovescia qualche bicchiere e non si può certo dire di camminare in perfetto equilibrio, ma ci si fa l’abitudine, le pillole ci risparmiano eventuali nausee. Davvero poca cosa se paragonata alle tempeste viste nei filmati.
17
marzo 2011
Il
"gazzettino" di bordo annuncia che siamo ufficialmente in acque
antartiche, durante la notte abbiamo superato la convergenza antartica.
Temperatura esterna 4°, l'aria è frizzante, è piacevole stare all'aperto,
respirare profondamente aiuta a prevenire la nausea.
A
bordo si sta bene, non manca nulla e le conferenze, arricchite dalla proiezione
di splendide immagini e schede tecniche, sono molto interessanti (oggi si parla
di pinguini, di ghiaccio e del regolamento imposto dalla IAATO / International
Association of Antarctic Tour Operators) ma ormai siamo impazienti di superare
questo vuoto fatto solo di acqua, con il cielo grigio e una cortina di nebbia
che talvolta avvolge tutto.
Verso
le 15 un annuncio: whales!
Contiamo
5 balene. Ne seguiamo a lungo, anche se da lontano, i movimenti, gli alti
spruzzi e le evoluzioni.
Si
naviga in un paesaggio spettrale e affascinante nello stesso tempo, unico colore
il grigio, aumentano gli uccelli, vediamo, inoltre, i primi pinguini che nuotano
veloci, guizzando fuori dall'acqua come pesci volanti.
Finalmente,
in lontananza, sfumate dalla nebbia, si intravedono le sagome più scure di
alcuni scogli e isolotti.
Si
distingue, altresì, una netta linea di demarcazione che separa il mare ondoso
da una distesa d'acqua immobile.
La
Plancius naviga silenziosa in un canale fiancheggiato da isole rocciose con i
ghiacciai che scivolano, come colate laviche, verso il mare.
Alti
pinnacoli, dalle forme bizzarre, spezzano il grigiore uniforme con i loro
profili più scuri.
Si
ha l’impressione di entrare in una immensa fotografia in bianco e nero.
L’effetto è straordinario, la totale assenza di tinte forti è ancora più
suggestiva di un bel paesaggio a colori.
Una
balena ci mostra l’intero dorso e si allontana soffiando alte colonne
d’acqua.
L’aria
è pura, ogni inspirazione è una “sorsata” di benessere.
Veniamo
istruiti sulle modalità di sbarco e invitati a rispettare le poche, nonché
rigide, regole imposte al fine di preservare il fragile ambiente antartico.
Avendo
raggiunto le isole South Shetlands prima del previsto, grazie alle favorevoli
condizioni meteo e del mare, il Capitano dà ordine di gettare le ancore
nell’acqua placida di un largo canale.
Dopo
48 ore di navigazione senza vedere null’altro che una massa infinita
d’acqua, priva di alcun punto di riferimento, nello scorgere in lontananza il
profilo irregolare delle prime terre e avvertendo a fior di pelle la
consapevolezza d’aver raggiunto un ambiente estremo, ciò che si prova non è
affatto scontato e neppure immaginabile.
Pervasi
da questa sensazione nuova, mai provata prima d’ora, ci sentiamo privilegiati.
Le
ombre della sera e il silenzio chiudono il sipario su ciò che ci circonda,
mentre la fantasia galoppa cercando di immaginare lo scenario che si scoprirà
totalmente solo domani, al risveglio.
18
marzo 2011
L’alba,
con il sole che si alza dal mare, qui ha una delicatezza particolare, ma
l’incantesimo dura solo pochi minuti, giusto il tempo di scattare una foto. Un
velo di nebbia cela nuovamente il paesaggio.
Sbarcare
sembra una procedura complicata, anzi, per essere precisi, è la vestizione che
si prospetta molto laboriosa. Come dobbiamo vestirci? Quanti strati di
indumenti?
Saggiamo
la temperatura esterna, non fa freddo, il termometro segna qualche grado sopra
lo zero.
Optiamo
per il solo strato di biancheria termica sotto, pantaloni impermeabili, pile e
parka sopra. Infiliamo gli stivali di gomma. Da ricordare poi salvagente, zaino,
macchina fotografica, guanti e berretto.
Ci
siamo!
Ah,
no, aspetta un momento, mi scappa la pipì (a terra, oltre ad altre cose, è
proibita anche questa funzione).
Percorriamo
corridoi, scendiamo scalette, raggiunto il ponte più basso è necessario
provvedere alla disinfezione e spazzolatura degli stivali di gomma. Ancora una
scaletta e “salto” sullo zodiac… Oh, My God! Siamo già sudati. Ce la
faremo a ripetere questa sequenza 2 volte al giorno?
Gli
zodiac avanzano nella nebbia… bello, però, si vedono già i primi blocchi di
ghiaccio.
Sbarco
bagnato, cioè proprio con i piedi in acqua, ad Half Moon Island che, come dice
il nome stesso, ha la forma di una mezza luna.
Sulla
spiaggia di ciottoli e pietre nere, una colonia di pinguini Gentoo, in elegante
abito bianco e nero, osserva incuriosita lo sbarco di assortiti “astronauti”
colorati, ma soprattutto il gruppo di Kayakers che sembra pagaiare sospeso nella
nebbia.
Gli
“hikers” (si, ci siamo anche noi!) si dirigono verso una piccola altura,
mentre i “pigri” stazionano sulla spiaggia.
Superiamo
diversi nevai alternati a distese di pietre aguzze. Le rocce e i pinnacoli tutto
attorno sono colonizzati da centinaia e centinaia di pinguini. Alcune foche ci
rincorrono aggressive, o molto più probabilmente non hanno intenzioni
bellicose, forse difendono semplicemente il loro territorio, comunque sia
dobbiamo scappare spesso e a gambe levate anche mentre scattiamo una fotografia.
Tra
le pietre, in prossimità della spiaggia, si riconoscono resti e ossa di balene,
pinguini, foche.
Un
cimitero che solo la natura ha alimentato e proprio perché si tratta
esclusivamente di selezione naturale non proviamo angoscia o amarezza
nell’osservare una costola o una vertebra di balena o lo scheletrino di un
pinguino.
Ci
spostiamo camminando lungo la spiaggia, raggiungendo diverse piccole insenature,
la nebbia non dirada, tutto è avvolto da una cortina che sfuma i dettagli,
mentre l’acqua del mare è lattiginosa, sembra addirittura densa.
Questo
clima si sposa con il luogo e, tra l’altro, non ci impedisce di osservare le
diverse specie di uccelli, pinguini e foche, unici “abitanti” dell’isola.
Grazie
all’interessante conferenza sui pinguini, ora siamo in grado di distinguere un
Gentoo da un Chinstrap, le cui differenze sono poca cosa e potrebbero passare
inosservate.
Oltre
a divertirci per le buffe scenette impersonate da pinguini e foche, apprezziamo
il fatto di poterci muovere liberamente e, soprattutto, che il tempo a
disposizione è abbondante, infatti torniamo a bordo della Plancius solo pochi
minuti prima di pranzo (alle 13).
L’operazione
“stivali” origina un imprevisto.
Prima
di rientrare in cabina, dobbiamo lavarli e spazzolarli energicamente per
togliere residui di fango, ma soprattutto gli escrementi di pinguino che puzzano
tremendamente.
Fatto
questo, in teoria ci si dovrebbe liberare degli stivali. Che ci vuole? basta
sfilarli!
Sembra
però impossibile.
Tira
di qua… no, tira di là… più forte… così, mi si staccano i polsi… mi
fa male la caviglia… aspetta che mi tolgo il salvagente… siediti… no,
meglio in piedi… non ce la faccio… mi viene un accidente dal tanto sforzo…
non ce la posso fare… mi toccherà dormici con questi due arnesi…
la
serie di “litanie” continua per qualche minuto, poi abbiamo la meglio sugli
stivali, ma ne usciamo distrutti.
Vabbè,
andiamo a pranzo!
Dalle
vetrate panoramiche ammiriamo lo spettacolo della nebbia che, dissolvendosi,
scopre montagne completamente innevate che si innalzano dal mare azzurro, il
cielo ha lo stesso colore. In lontananza, alcune balene ci mostrano la coda.
Nebbia
e grigiore tornano dopo poco, sembra che il paesaggio antartico voglia svelarsi
un po’ per volta, come se ancora non fossimo pronti per tanta bellezza e luce
tutte in una sola volta.
Per
il secondo sbarco ci siamo spostati a Deception Island, vulcano dal cratere
collassato.
La
caldera, a forma di ferro di cavallo, con le sue alte pareti rocciose racchiude
un fiordo circolare. Vi si accede da uno stretto passaggio (Neptune’s Bellow)
con un filo di timore mentre ci si insinua in un basso strato di nebbia che ne
fuoriesce come una colonna di vapore.
Sbarchiamo
su una spiaggia nera disseminata di scheletri di balena, resti di costruzioni in
rovina e di quelli che un tempo erano barili, utilizzati per la lavorazione e lo
stoccaggio del grasso di balene e foche. “Monumenti” a triste memoria delle
stazioni baleniere e dei massacri compiuti.
Risalendo
un canalone, raggiungiamo un belvedere. Con un solo sguardo abbracciamo
l’intera caldera che pare racchiudere un lago e trattenere a stento i vari
strati di nebbia che, come scie di fumo, fuoriescono dalle sbrecciature delle
rocce vulcaniche.
Scendiamo
lentamente, ripercorrendo lo stesso sentiero, osservando ogni dettaglio di
questa isola dalle tinte cupe, dove un animo sensibile potrebbe leggervi il
lutto della natura.
Risaliti
a bordo notiamo due provvidenziali cavastivali: benedetti arnesi che ci
risparmiano nuove lotte e traumi.
La
cena, e ogni pasto in generale, costituisce l’occasione per osservare e
inquadrare la “fauna” che condivide questa particolare spedizione.
Lo
sconto last minute ha sicuramente aperto le porte dell’Antartide a una
clientela più variegata. Sono molti i giovani, i backpackers e i single che ben
si integrano con i passeggeri più anziani e di mezza età provenienti da tutto
il mondo.
A
tre giovanissimi nipponici si affianca il pilota d’elicotteri brasiliano, alla
donna di Honolulu che “mastica” l’apparecchio dentale si abbinano i
fotografi australiani, ai bellissimi americani che potrebbero tranquillamente
spacciarsi per i protagonisti di una fiction si unisce una vivace nonnina le cui
rughe e capelli candidi stridono con la tecnologia portata al collo (una reflex
digitale professionale usata con la massima disinvoltura). I canadesi
familiarizzano a turno con la pittrice o l’alto e vecchio uomo olandese dallo
spirito avventuriero, con il fisico purtroppo ormai in declino.
Diverse
coppie e single impegnati in un lungo “anno sabbatico” in giro per il mondo
ruotano ai vari tavoli, lo stesso vale per noi, unici rappresentanti del Bel
Paese, che molti affermano di conoscere e apprezzare per la ricchezza di
testimonianze storiche, artistiche, culturali e, non ultimo, per l’ottima
cucina. Ammettiamo, senza falsa modestia, di provare soddisfazione quando ci
parlano bene dell’Italia. Malauguratamente la “fama” di Berlusconi
aggiunge una cupa nube di vergogna a tanta gloria.
Non
elenco ciascuno dei 90 passeggeri, l’assortimento è ricco, tante le
differenze, ma certamente condividiamo l’entusiasmo, qui nessuno è fuori
luogo o elemento di disturbo, è chiaro fin da subito e gli sguardi di intesa o
le esclamazioni gioiose che esplodono all’unanimità mentre si osserva da
vicino una balena o un iceberg accomunano più di qualsiasi parola.
19
marzo 2011
Durante
la notte si naviga verso sud, superati gli Stretti di Bransfield e di Gerlache
abbiamo raggiunto la Penisola Antartica, la cui geografia non è ben definita,
è difficile – per noi profani – orientarsi tra l’intrico di canali, le
numerose isole e le coste frastagliate.
Poco
importa dove siamo esattamente, quello che vediamo al risveglio è un paesaggio
affascinante, con montagne nere stracariche di ghiaccio, piccoli iceberg, una
balena non lontana e tutte le sfumature che intercorrono tra il bianco e il
nero.
L’aria
è gelida, ma niente e nessuno può trattenerci dall’uscire per osservare le
balene che nuotano vicine allo scafo, mostrandoci più volte la coda e
permettendoci di scattare la classica foto che rincorriamo da anni. In una sola
mattina collezioniamo un bel campionario di code in primo piano.
Le
montagne imbiancate e gli imponenti ghiacciai che si gettano nello Stretto di
Gerlache ci invitano a scegliere, quale prima escursione della giornata,
l’opzione zodiac cruise.
Ormai
più disinvolti nella vestizione, in breve tempo ci troviamo sul gommone a
sfrecciare tra iceberg dalle diverse forme, dimensioni e tonalità d’azzurro.
La
trasparenza dell’acqua lascia intravedere la parte sommersa degli iceberg
colorandosi di turchese.
Seguiamo
le balene che nuotano nelle vicinanze ed emergono con i dorsi e le code.
Qualche
raggio di sole accende di colore il mare, il ghiaccio, il cielo, in uno
spettacolo che nessuna fotografia può raffigurare nella sua interezza.
Una
foca leopardo nuota veloce, tenendo lontani i pinguini, che all’acqua
preferiscono la sicurezza degli scogli e della spiaggia di Cuverville Island.
Sbarchiamo
in una baia ricoperta di blocchi di ghiaccio. L’isola ospita migliaia di
pinguini Gentoo.
L’alta
densità è proporzionale all’odore, tanto forte nelle zone con la maggior
concentrazione di pinguini da provocare qualche urto allo stomaco. Disagio
compensato dall’assortimento di piccoli pinguini nei differenti stadi della
muta.
Alcuni
conservano ancora intatto il leggero piumino grigio originale, sembrano grossi
pulcinotti di peluche, ispirano una tenerezza infinita.
Altri
hanno un aspetto trasandato, essendo per metà, o solo parzialmente, ricoperti
di ciuffi di piumino che lascia intravedere chiazze più o meno estese del nuovo
piumaggio.
Infine,
i primi nati, si presentano perfetti ed eleganti nel novello abito bianco e
nero.
Assistiamo
a scene buffe di piccoli affamati e starnazzanti che rincorrono le madri, anche
quelle altrui, che ovviamente non sono disposte a sfamarli. Strillano
rovesciando la testa all’indietro e spalancano il becco urlando tutta la loro
rabbia e fame al cielo.
Corrono
goffamente, inciampano sulle pietre con le zampe tozze, troppo corte, e le
“alucce” solo abbozzate e inutili fuori dall’acqua. Spesso si tuffano di
pancia sulla neve e sul ghiaccio, lanciandosi in discesa come piccoli “bob”.
Le
foche dormicchiano indifferenti a tutto, odore e richiami, sbuffano e sollevano
il busto senza neppure troppa convinzione solo al nostro indirizzo.
Uno
sguardo alla baia ghiacciata, uno ai pinguini, uno alle ossa di balena e poi da
capo da varie angolazioni dell’immensa spiaggia e la mattina è passata, si
torna a bordo estasiati, soddisfatti e anche impregnati del forte odore di
pinguino.
Proseguiamo
la navigazione imboccando il Canale Errera, il sole ci omaggia di colori e
nitidezza inusuali, non ci sono parole che possano rendere l’esatta idea dello
spettacolo che sfila davanti ai nostri occhi, meraviglioso al punto da
commuovere.
L’acqua
è uno specchio immobile che riproduce le montagne ricoperte di ghiaccio insieme
agli iceberg e alle nuvole. I riflessi sono tanto nitidi da confondere ciò che
è reale da ciò che è duplicato.
Pranzare
ci sembra una perdita di tempo, trangugiamo qualche boccone in fretta per
tornare al più presto sul ponte. Prendo posto sulla torretta di prua e scatto
foto ad ogni iceberg, ghiacciaio, montagna e nuvola che si specchia sulla
superficie del mare.
Smetto
poi di fotografare per godermi tanta bellezza e per meditare sulla
straordinarietà di questo ambiente remoto che, a seconda delle stagioni, può
essere dolce, affascinante, quieto, incredibilmente pieno di luce, come ora,
oppure crudele, rigido, buio, inospitale nella opposta stagione invernale.
Il
secondo sbarco è previsto a Neko Harbour ed è preceduto da una zodiac cruise
tra gli iceberg, sul mare tappezzato di blocchi di ghiaccio, location preferita
dalle foche che si adagiano pigramente su “nuvole” ghiacciate, indifferenti
al contatto gelido.
Una
foca leopardo ci mostra, in quello che si potrebbe scambiare per uno sbadiglio,
una fila di denti affilati da far rabbrividire.
Non
è difficile associare questo feroce mammifero al “lontano parente”
africano.
Sbarco
su una spiaggia costituita da grossi massi, dimentichi dell’importanza
dell’escursione, si tratta infatti dell’unica occasione di posare piede
sulla Penisola Antartica.
Ce
ne accorgeremo solo a fine giornata, riguardando la mappa, ma poco male.
Il
non averci pensato non si può considerare una perdita, quaggiù tutto è
talmente bello e speciale, non c’è luogo meglio o peggio di un altro,
qualsiasi cosa ci incanta, toccare terra è sempre emozionante.
Neko
Harbour ci offre una comunità di pinguini vocianti, piccoli che richiamano le
madri, e madri che non trovano i propri piccoli, pinguini “scalatori” che a
fatica risalgono un ripido nevaio e, infine, una scena raccapricciante: un
grosso rapace bianco cattura un piccolo pinguino, lo sventra e si ciba delle
interiora mentre il sangue cola sulla neve e mentre il poverino, nonostante le
brutali beccate, continua a dibattersi a lungo.
Con
questa straziante immagine torniamo sulla Plancius.
Un
tramonto dalle tinte delicate e le balene che nuotano nell’acqua dipinta di
rosa e arancio tenue cancellano ben presto l’amaro.
Con
la nave ormeggiata nella magica cornice di Paradise Bay si cena all’aperto.
Grigliata, allegria e musica per un indimenticabile sabato polare.
20
marzo 2011
“Good
morning to everyone, good morning!”
Nebbia,
una lieve nevicata, ancora tante balene.
Così
inizia una nuova giornata.
L’atmosfera
è ovattata, quasi irreale, quando imbocchiamo lo stretto e suggestivo Lemaire
Channel. Ogni cosa è indefinita, priva di colore, tranne il ghiaccio che ha
catturato tutte le sfumature d’azzurro, turchese, blu.
I
ghiacciai che bordeggiano il canale, gli iceberg e lo strato di blocchi di
ghiaccio che ricopre parzialmente l’acqua sono un’esplosione cromatica nel
grigio uniforme.
Un
mondo incantato in cui entriamo e
che assaporo in silenzio, quasi timorosa anche solo di respirare, dalla mia
postazione preferita: la torretta.
Delicati
fiocchi di neve mi sfiorano il viso mentre osservo una balena che passa davanti
allo scafo, ammiro il suo movimento flessuoso attraverso la trasparenza
dell’acqua. Subito dopo un gruppo di foche sfreccia veloce e tutte emergono
contemporaneamente in un ribollio d’acqua.
Grazie
al freddo contatto della neve sulla pelle ho la certezza che non sto sognando,
chiudo gli occhi e li riapro, tutto rimane, senza svanire come un sogno.
La
mattinata è dedicata ad una zodiac cruise che ci impegna nella ricerca di foche
leopardo.
Spostandoci
tra enormi iceberg, colossi che fanno sembrare minuscola la Plancius ormeggiata,
abbiamo la fortuna di avvistare un grosso esemplare che, con rapidità e
precisione tipiche di un predatore, azzanna due pinguini.
Altre
foche leopardo sono pigramente adagiate su “nuvole” di ghiaccio e la neve
continua a cadere mentre penso che sarà difficile tradurre in parole queste
atmosfere e le nostre sensazioni. L’Antartide è senza dubbio da vivere, più
che da raccontare.
Sbarchiamo
a Pleneau Island, un insieme di tondi massi neri, piatte pietre levigate dal
vento e dall’acqua, con diverse piscine naturali dove gruppi di pinguini
Gentoo si tuffano, si specchiano, nuotano agili, emergono, risalgono
faticosamente sulle rocce scivolose o si comportano come bagnanti incerti e
preoccupati per le basse temperature marine.
Trascuriamo
l’intera e numerosa colonia per osservare solo alcuni piccoli gruppi o singoli
pinguini che ci forniscono buone opportunità fotografiche e si esibiscono in
comiche rappresentazioni cui viene spontaneo abbinare dialoghi immaginari tra
l’uno e l’altro esemplare… vai avanti tu che mi viene da ridere…
specchio delle mie brame chi è il pinguino più bello del reame?... vietato
spingere… aiuto, scivolo… Marò, sembrava più calda…
Poco
distante dalla spiaggia c’è un campionario di iceberg dalle forme e colori più
svariati. Una galleria d’arte a cielo aperto ricca di sculture di
incomparabile bellezza. La Plancius, ancorata poco oltre, sembra intrappolata
tra la parete di un ghiacciaio che si erge sullo sfondo e il ghiaccio a
“cubetti” che la circonda.
Prima
di tornare a bordo, Rinie ci propone un secondo tour tra gli iceberg in
direzione opposta rispetto al primo.
E’
un tripudio di azzurro, celeste, violetto, indaco, turchese, blu e diverse altre
sfumature.
Opere
d’arte dalle forme più disparate: archi, ventagli, colonnati, torrioni,
meringhe, muri verticali, caverne spugnose.
Superfici
arrotondate, solcate, stropicciate come carta, porose, levigate.
Una
meraviglia continua che invita alla contemplazione, al silenzio rotto solo dal
crepitare dei ghiacciai che si spaccano in blocchi prima di
staccarsi e cadere in mare, formando nuovi iceberg.
Assistiamo
allo show di alcuni uccelletti che planano sull’acqua immobile, lattiginosa,
compiono salti in rapida sequenza disegnando sulla superficie uniforme tanti
cerchi concentrici e poi, lievemente, si sollevano in volo. Una danza delicata
che si ripete per alcuni minuti sull’acqua del mare che ci restituisce
riflessi nitidi come quelli di uno specchio.
Siamo
grati a Rinie per il fuori programma che classifichiamo come uno dei ricordi più
belli di questo viaggio.
Mentre
pranziamo si naviga verso il gruppo di isole denominate Argentine che
raggiungiamo nel primo pomeriggio.
Sbarchiamo
per l’interessante visita alla stazione di ricerca Vernadsky (Ucraina)
collocata in una piccola baia dove le foche distese su lastre di ghiaccio
galleggianti fanno gli onori di casa, insieme ai pinguini di Adelia che
affollano le rocce e i nevai.
Già
base britannica, fu venduta nel 1996 all’Ucraina per la simbolica cifra di una
sterlina.
Qui
gli inglesi, quando la stazione portava ancora il nome Faraday, scoprirono per
primi il buco nello strato di ozono.
Davanti
all’ingresso è piantato un palo con tante frecce segnaletiche che indicano
direzione e distanze delle grandi città della madre patria degli attuali
ricercatori, nonchè di altre destinazioni. Kiev, in direzione Nord Est, dista
“solo” 15168 km, Odessa 15010 km…
La
base, oltre agli strumenti per le rilevazioni metereologiche e biologiche,
ospita una sorta di ufficio postale. Pagando un modesto contributo, sulle
cartoline vengono apposti francobolli e timbri. Ovviamente lasciamo anche il
nostro pacchetto di cartoline che se mai arriveranno a destinazione saranno da
considerarsi preziose con il timbro che ne attesta la spedizione dai 65° 15’
S e 64° 16’ W. Timbro che ci facciamo stampigliare anche sul passaporto.
Visitiamo
il piccolo shop, con pochi souvenir artigianali, e per finire il pub più a sud
del mondo dove, chi lo desidera, può sorseggiare una Vodka distillata in
proprio.
Ci
spostiamo con gli zodiac, rasentando una vertiginosa e impressionante parete di
ghiaccio dalla forma semicircolare, insinuandoci in uno stretto passaggio dove
le correnti marine ci spingono a sfiorare alcune rocce emergenti che i
conducenti evitano con abilità.
Nuovo
sbarco per una breve passeggiata e per visitare l’interno della Wordie House,
casina di assi di legno, marrone e rossa, ora museo, che contiene spogli arredi
e suppellettili dei primi ricercatori.
Ripassando
nel labirinto di isole e isolotti rientriamo per la cena che, questa sera, in
previsione dell’ultimo trasferimento verso il punto più meridionale del
nostro itinerario, viene servita molto presto (alle ore 19).
Già
mentre siamo seduti a tavola è evidente che non sarà una nottata tranquilla.
Abbandonate
le calme acque dei canali e delle isole, navighiamo in mare aperto, molto mosso.
Terminata
la cena, non indugiamo troppo a lungo, ci ritiriamo in cabina, prendiamo le
pillole contro il mal di mare, ci sdraiamo intenzionati a dormire, malgrado il
forte rollio, lasciando che il corpo si abbandoni, senza opporre resistenza, al
movimento delle onde. Ci alziamo solo se necessario e non va poi tanto male.
21
marzo 2011
Ore
7,30 circa – 66° 33’ S
“Good
morning to everyone, good morning!” è Rinie a darci la sveglia e a invitarci
sul ponte, ricordando che tra pochi minuti attraverseremo il Circolo polare
antartico.
Nonostante
l’aria fredda, ci siamo tutti.
Dal
Capitano arriva il segnale, si stappano bottiglie di champagne, si brinda tra
esclamazioni di gioia, ci si abbraccia… è una gran festa!
Superato
il leggendario parallelo, si naviga ancora per qualche tempo. Il clima ci
riserva una splendida giornata soleggiata, cielo terso e azzurro. Il paesaggio,
alte montagne coperte da ghiacciai eterni, più bianco di così non potrebbe
essere, non c’è infatti macchia scura o terra affiorante. La purezza allo
stato solido deve certamente avere questo aspetto. Ora comprendo cosa indicava
la lucina immaginaria che lampeggiava quando ho letto in maniera più
approfondita l’itinerario di questa spedizione. Un “adescamento” al quale
fortunatamente non abbiamo posto alcuna resistenza.
Ci
dirigiamo all’interno di un immenso fiordo. Numerosi iceberg costellano il
mare, sono incredibilmente giganteschi: isole e piattaforme che galleggiano alla
deriva silenziose sulle quali il sole, insieme alle striature di nuvole, crea
giochi di luce e ombre che neppure un abile tecnico sarebbe in grado di
riprodurre.
Causa
vento e mare agitato, lo sbarco a Detaille Island non è garantito. Lo Staff va
in sopralluogo, al ritorno il responso è positivo e ne siamo felici.
Trasbordo
sugli zodiac piuttosto movimentato, ma in tutta sicurezza, ci sono sempre almeno
un paio di persone a sorreggere chi è in difficoltà.
Tocchiamo
terra e barcollo, evidentemente non ho ancora smaltito il movimento delle onde
della notte passata.
Detaille
Island è… neve, neve, tantissima neve… stupenda, una montagna di neve
inviolata tutta per noi.
Osserviamo
la colonia di leoni marini con i maschi impegnati in lotte senza fine che
sbuffano e producono suoni gutturali e le femmine che si lasciano scivolare
sulla pancia in quello che sembra un gioco.
Dalla
sommità dell’isola si ha una visione a 360°, il panorama alterna montagne
innevate, iceberg, baie con un sottile strato di ghiaccio marino superficiale,
scogli abitati da pinguini e foche, “isole” di ghiaccio dove le foche
leopardo sembrano crogiolarsi al sole splendente, ma senza calore.
Lasciamo
impronte ovunque, "distruggendo" il manto candido, senza provare
rimorso poiché ben presto una nuova nevicata cancellerà il nostro passaggio.
Le
ore scorrono veloci, questo sbarco sulla neve è straordinario, non vorremmo più
lasciare l’isola, però è tempo di tornare a bordo.
Non
ci siamo ancora liberati di stivali e salvagente, uno sbuffo e poi un secondo
richiamano la nostra attenzione.
Due
balene si esibiscono in un lungo show, per un'ora abbondante non facciamo altro
che correre da una parte all'altra della nave, da sinistra a destra, da destra a
sinistra, da poppa a prua, da prua a poppa... sembriamo tutti impazziti.
Dopo
un debole e inutile annuncio per ricordare che "now dining room is open for
lunch" il personale di bordo si arrende e prende posto all'aperto per
seguire e fotografare lo spettacolo della coppia di balene che passa più volte
sotto lo scafo e ricompare dalla parte opposta.
I
due cetacei si prodigano in un lungo balletto sincronizzato. Emergono prima i
dorsi, poi le code… i dorsi, le code… e ancora i dorsi e le code… nel
mezzo lanciano alti getti d’acqua.
Fortunati
gli ultimi a lasciare terra che, ancora sullo zodiac, vengono avvicinati da una
delle due balene. Immortaliamo l’intera sequenza con una discreta dose di
invidia.
La
natura però è generosa con tutti. A noi che possiamo spostarci velocemente a
poppa, mentre le balene nuotano sotto lo scafo, toccano gli omaggi (o curiosità?
o voglia di protagonismo?) dell’esemplare più grosso che, galleggiando in
verticale, si protende verso di noi con l’intera testa.
Dopo
questa scena, il "delirio" è totale, persino il capitano è
affacciato al parapetto, anch’egli in contemplazione.
Sembra
che le balene siano consapevoli del pubblico e che non vedessero l’ora di dar
spettacolo.
Si
recuperano le ancore solo quando i due socievoli mammiferi, esaurito il
repertorio, ci salutano con un ultimo colpo di coda. Siamo raggianti e la stessa
euforia è leggibile negli sguardi degli altri passeggeri.
Si
pranza tardissimo e in fretta, per quel che ci riguarda.
Per
il resto del pomeriggio, dal ponte, ci godiamo la luce intensa, i riflessi, il
paesaggio immacolato, il blu di cielo e mare, la quiete.
Quando
mi rendo conto d’aver freddo, rientro, ho necessità di una bevanda calda, non
perdo però di vista il panorama che sfila dalle vetrate della lounge. La musica
classica diffusa in sottofondo ben si accompagna alle immagini, mi sale un nodo
alla gola dall’emozione, ma nello stesso tempo capisco che un paesaggio così
incontaminato, recante il nome Crystal Sound, non
ha bisogno di contorno o colonne sonore. L’aria frizzante, il silenzio, sono
solo ciò che desidero ricordare in abbinamento ai ghiacciai e alla purezza di
questo luogo. Torno fuori e mi perdo nel bianco e nei miei pensieri, grata
all’Antartide, forgiata solo dalla natura, di esistere. Qui l’uomo non può
vantare alcun diritto e neppure meriti, anzi purtroppo ha solo potere
distruttivo anche a distanza: inquinamento, sfruttamento scellerato delle
risorse, surriscaldamento globale, scioglimento dei ghiacciai… per il momento
mi impongo di non andare oltre e, faccio un ripasso mentale, sull’importanza
della corrente circumpolare.
All’aperto
siamo in pochi e silenziosi quando, in lontananza, notiamo alcune pinne
affioranti.
Saranno
pinguini? foche? balene? o che altro?
Tempo
pochi secondi, i ponti si affollano e decine di esclamazioni rompono il
silenzio...
si tratta di orche, una quindicina circa, suddivise in più formazioni,
dall’aspetto minaccioso.
Accettiamo
entusiasti l’ennesimo dono da parte della natura e mille volte grazie al
Capitano che inverte la rotta, aggirando un iceberg, per seguirle.
Apprezziamo
il coinvolgimento dell'equipaggio in ogni occasione speciale. Nessuna rigidità,
per fortuna, sugli orari, sui programmi e sull'itinerario. Balene, orche e
fenomeni naturali hanno sempre la priorità.
La
giornata, eccezionalmente ricca, non è finita…
mentre
Kelvin, nel corso di una conferenza, ci rende partecipi della sua esperienza di
istruttore sub presso la base Rothera (67° South Scuba), alcune balene
piroettano fuori dall’acqua.
Che
altro dire delle balene? Non ci sono più parole che possano descrivere ciò che
proviamo.
C’è anche un
“gran finale” con la luna piena, raramente visibile, che sorge dietro le
montagne.
Paghiamo
tanta fortuna con una notte agitata per via del mare mosso.
In
questa occasione prendiamo coscienza che ognuno deve badare a sé stesso, in
particolare chi sta male. Con il mare grosso è impensabile prestare assistenza
al meno fortunato, si rischia di vomitare in due.
Ci
si alza, si corre in bagno, si fa quel che si deve fare, e si torna in posizione
orizzontale al più presto, sperando che la crisi passi.
22
marzo 2011
Ci
svegliamo in acque calme, piuttosto storditi dalla navigazione turbolenta, ma
una sferzata d’aria fresca e un nuovo incontro ravvicinato
con le balene ci fanno sentire meglio.
Primo
sbarco del giorno a Petermann Island che ospita la “solita” comunità di
pinguini Gentoo.
E’
ormai inevitabile, dopo aver scattato foto a decine ai pinguini, che li si
snobbi un po’. Ci limitiamo ad
una panoramica dell’isola, bellissima con i massi levigati che sembrano
sculture, e a una passeggiata tra i vari gruppi di pinguini, soffermandoci a
fotografare solo quelli che si riflettono in uno specchio d’acqua. Dedichiamo
invece molto tempo ad una foca che si nasconde dietro una roccia e si prodiga in
una serie di sbadigli. Ne escono diversi bellissimi primi piani che mettono in
evidenza gli occhioni tondi, i lunghi baffi, i denti affilati e il palato roseo.
Osserviamo
con apprensione diversi pinguini che risalgono un ripido pendio innevato,
avanzano a fatica di qualche passo, scivolano indietro, recuperano il terreno
perso per poi scivolare di nuovo. Ci domandiamo perché mai vogliano salire così
in alto e perché sprecare tanta energia.
Quasi
certamente tale comportamento ha una logica, ma non troviamo risposta alle
nostre domande.
Il
sole gioca a nascondino con gli strati di nuvole mentre qualche raggio illumina
ora una porzione di mare ora il ghiaccio e anche le luci e ombre fanno
spettacolo e contribuiscono ad arricchire il nostro bottino fotografico.
Salutiamo,
infine, prima di lasciare l’isola, due simpatici pinguini che si sono
avvicinati curiosi e che ci hanno tenuto compagnia tanto a lungo da mettersi
persino comodi, a pancia sotto, sulla neve.
Ci
troviamo nei pressi del Canale Lemaire, non era previsto un secondo passaggio,
ma – considerate le buone condizioni climatiche – il Capitano ci concede
un’altra opportunità.
Accompagnati
da balene e foche che nuotano attorno alla Plancius, imbocchiamo il canale al
contrario rispetto a qualche giorno fa e, in assenza di nebbia, ne apprezziamo
colori, nitidezza e riflessi.
Non
riconosciamo nulla, tutto sembra differente e, nel punto più stretto,
il mare è totalmente ricoperto da uno strato di ghiaccio, non compatto.
Ci
piazziamo a poppa per ammirare e fotografare la lunga scia blu che, dopo il
nostro passaggio, taglia in due la crosta ghiacciata.
Usciti
dal Canale Lemaire costeggiamo una catena di antichi ghiacciai sui quali è
caduta di recente una spruzzata di neve.
Imbocchiamo,
in seguito, il Canale Neumayer e, per il secondo sbarco quotidiano, entriamo
nella spettacolare Dorian Bay con i ghiacciai immacolati che si chiudono a
corona sul mare color grigio piombo. Il cielo ha lo stesso colore del mare e in
tanto grigio l’azzurro degli iceberg “parcheggiati” nella laguna spicca in
modo particolare.
Ci
spostiamo sulla neve ghiacciata con le ciaspole fino a raggiungere l’estremità
di Damoy Point. Ci arrampichiamo poi su un’altura, procedendo in salita sino
ad un punto panoramico che domina l’intera baia sottostante.
Consci
di questo ultimo sbarco a terra, assaporiamo l’intero pomeriggio all’aria
aperta, memorizzando le immagini del magnifico paesaggio imbiancato che il cielo
plumbeo e la particolare luce dell’imbrunire mettono in risalto.
Ci
tratteniamo nella placida Dorian Bay per consumare la cena e fino a notte
inoltrata.
Cadiamo
in un sonno ristoratore molto prima che l’equipaggio abbia recuperato le
ancore e avviato i motori.
23
marzo 2011
Nevica!
Cadono
grossi fiocchi e abbiamo l’impressione che l’estate australe sia finita
proprio nel momento giusto, esattamente al termine di questa spedizione.
Si
gettano le ancore in prossimità di Melchior Island che per noi rappresenta
l'ultimo lembo di terra. Ci aspettano poi molte ore di navigazione nel Passaggio
di Drake, prima del rientro a Ushuaia.
Il
colore predominante è ancora il grigio, ma, come ho già detto in precedenza,
in Antartide neve e grigio sono un valore aggiunto.
Sbarchiamo
per l’ultima escursione: una zodiac cruise di un paio d’ore.
Lo
strato di neve fresca che ricopre ghiaccio e ghiacciai dell’isola lascia
intravedere squarci di azzurro e blu. Fenomeno che non finisce mai di stupirci.
Osserviamo
una colonia di foche molto vivace. Alcuni esemplari sembrano coscienti
dell'ultima presenza di esseri umani e si esibiscono in lotte, scivolate sul
ghiaccio e tuffi nell'acqua gelida.
Seguiamo
la faticosa “scalata” sulla
neve di tre pinguini, mentre ai lati del “corridoio” che si sono ricavati
padroneggiano le foche. Constatiamo quanto sia difficile, per i pinguini, la
sopravvivenza, sia a terra che in acqua, dovendo eludere molti nemici.
Un
pinguino solitario sembra contare le proprie impronte e invocare con una serie
di suoni striduli un po’ di compagnia.
Superata
una stazione di ricerca argentina ormai in disuso, una foca si affaccia
dall’alto di un muro di ghiaccio, posto esattamente di fronte, quasi a
rappresentare l’ultimo custode delle baracche disabitate.
Ci
approssimiamo agli scogli sferzati dal vento e dalle onde e al fronte di un
ghiacciaio, indovinando, osservandone le spaccature, quali saranno i prossimi
enormi blocchi a staccarsi per primi e che andranno a galleggiare insieme agli
altri innumerevoli iceberg.
Prima
di imbarcarci, ci fermiamo per qualche tempo con il motore dello zodiac spento,
in assoluto silenzio, a respirare le ultime boccate d’aria pura e ad
assimilare il rumore del mare, del
vento, lo stridio degli uccelli, insieme al verso delle foche.
Stiamo
lasciando visivamente queste affascinanti terre estreme, ma l’Antartide si
stabilisce dentro di noi, ne serberemo un ricordo forte, vivido e
incancellabile.
Togliamo
per l’ultima volta stivali e salvagente e, mentre i gommoni vengono issati sul
ponte, si fa largo la consapevolezza del ritorno, tutto ormai ha
un’intonazione triste.
Pranziamo,
si parte quindi definitivamente verso nord, già dai primi minuti di navigazione
il mare è grosso, il moto ondoso è sempre più in crescendo e ci costringe
all’immobilità totale. Le conferenze/attività vengono annullate e spostate a
domani, mare permettendo.
Saltiamo
la cena, che comunque viene puntualmente servita, il solo alzarsi dal letto per
andare in bagno o per bere una sorsata d’acqua richiede uno sforzo sovrumano,
lo stomaco reclama la posizione orizzontale.
Mi
sento in un limbo, faccio brutti sogni, mentre galleggio nell’oscurità.
Trascorriamo
in questo stato di malessere e di inerzia ben 18 ore con una sola variante:
l’assunzione delle pillole contro il mal di mare, ogni 4 ore precise.
24
marzo 2011
Il
mare s’è calmato un po’, ci sforziamo di tornare alla normalità.
In
piedi, doccia, persino un piccolo bucato e poi scendiamo al ponte di sotto per
la colazione.
Il
rollio non è cessato, ma è meno intenso rispetto a ieri, è in ogni caso
sopportabile, ci stiamo inoltre adattando alla camminata barcollante.
Nel
pomeriggio il meteo migliora: vento assente, sole e mare incredibilmente calmo.
Approfittando
del favore degli dei e della lunga tregua, trascorriamo la maggior parte del
tempo all’aperto, sul ponte superiore, soli o con altri passeggeri, scambiando
impressioni sull’Antartide e su altri luoghi del nostro bel pianeta.
Osservando
il mare con attenzione riusciamo ad apprezzare anche quella che solo in
apparenza sembra una infinita distesa d’acqua sempre uguale. Non è così, si
modificano le onde, cambiano i colori, l’acqua può essere blu, grigia,
azzurra, indaco, persino viola, trasparente o spessa tanto da sembrare pesante.
Con
il calar del sole si alza il vento, le onde ingrossano e la Plancius inizia una
nuova “cavalcata”. Non proviamo timore, ma dopo aver cenato ci ritiriamo in
cabina in posizione orizzontale. Ci addormentiamo nonostante l’ondeggiamento,
svegliandoci di soprassalto per qualche scossone più forte, riguadagnando il
sonno qualche minuto dopo.
25
marzo 2011
Il
sole ci accompagna anche oggi e il mare, considerato che stiamo attraversando il
Passaggio di Drake, è relativamente calmo.
Ci
si predispone all’arrivo, si riconsegnano gli stivali con la sensazione di
privarci di parte delle nostre avventure. Queste calzature, se solo potessero
parlare, ne avrebbero di storie da raccontare… gli sbarchi in acqua gelida, le
camminate sulle pietre aguzze, sulla neve, sul ghiaccio, sul guano, la morsa
delle ciaspole, le scivolate sui massi ricoperti di alghe, le arrampicate in
salita, le discese in forte pendenza, le corse sui ponti della nave
all’inseguimento delle balene, i lavaggi e le spazzolature, gli strattoni
nell’intento di sfilarli e le beccate dei pinguini più curiosi. Insomma li
sentiamo parte della nostra storia e proviamo dispiacere nel separarcene.
Alle
12 circa si intuisce in lontananza la presenza della terra, solo una sagoma
scura che, indistinta, si eleva all’orizzonte.
I
monitor del ponte di comando indicano le coordinate di Capo Horn, leggendario e
minaccioso, teatro di grandi esplorazioni, catastrofici naufragi e meta ambita
dai velisti di tutto il mondo.
Navighiamo
per il resto del pomeriggio sopra grosse onde che hanno però perso forza e in
serata, con un tramonto dalle tinte forti, entriamo nel Canale di Beagle.
Ormeggiati
in una larga insenatura, si procede con il cerimoniale d’addio.
Discorso
dello Staff, foto ricordo, consegna degli attestati e di un gradito omaggio (un
CD contenente un tesoro: il diario giornaliero, schede con annotate le specie
animali avvistate, indirizzo e-mail di chi ha piacere di condividerlo, foto
scattate in corso di viaggio e i curriculum di ciascun componente lo Staff).
Brindiamo
con l’augurio di rivederci, magari all’estremo opposto, e infine viene
servita la cena.
In
questa ultima serata, a tavola, si parla molto di più, l’atmosfera è
gioiosa, la soddisfazione di ciascun passeggero è evidente, quasi palpabile.
Non poteva essere altrimenti dopo quanto visto, vissuto e condiviso.
26
marzo 2011
L’alba
nel porto di Ushuaia è un incanto, ma la apprezzeremo solo più tardi,
riguardando le foto. Al risveglio ci attanaglia la malinconia e tutto
(colazione, bagagli, saluti, scambio di indirizzi) scivola via troppo
velocemente.
Sbarchiamo
per l’ultima volta e non per prendere posto su uno zodiac. Lasciando la nostra
cabina e la Plancius, la sensazione è quella di non avere più casa.
Ci
aggiriamo mesti per la via principale di Ushuaia, ancora spopolata e con i
negozi chiusi, sospirando ogni volta che incrociamo una strada che scende verso
il porto con la Plancius in evidenza, bella e imponente, a ricordarci che non
abbiamo sognato.
Il
viaggio non finisce qui, abbiamo programmato una sosta di alcuni giorni a Buenos
Aires, ma questa è un’altra storia che non ritengo di abbinare
all’Antartide perché, come ho già detto, il Continente di ghiaccio non ha
bisogno di contorno.
Concludo
questo tentativo di raccontare l’Antartide con una citazione dal libro
“Verso il grande Sud” (autori
Isabelle Autissier e Erik Orsenna):
“Ecco
laggiù, un mulinello... è il muso di una foca che emerge dall'acqua,
un
pinguino che si tuffa, un cormorano dagli occhi celesti che torna dalla pesca…
…Il
sentimento che domina è quello di aver ottenuto
un'ammissione
temporanea in paradiso.
Quando
e dove, altrove, la natura, che ha dimostrato la sua potenza
e
che sa essere così ostile, ci ha trattato con maggior benignità?
Bisogna
rimpinzarsi di questa gioia, riempire sino ai bordi il baule del tesoro.
Un
giorno, molto tempo dopo, nella frenesia di una città del nord,
basterà
chiudere gli occhi per resuscitare la pace di questo paesaggio.
Sapere
che esiste un posto così aiuta a vivere"
Infine
un immenso grazie a Manuel Cazzaniga, a lui dobbiamo la concretizzazione del
nostro sogno, a Majanda Hamelink, puntuale, paziente e precisa nel rispondere
alle mie mille domande, al meraviglioso Staff conosciuto a bordo della Plancius.
Daniela Bellan